Sentinella, a che punto è la notte? La domanda del profeta
Isaia martella le nostre coscienze straziate dal martirio del popolo
ucraino. E proprio come nelle Scritture, la risposta è sempre la stessa:
viene la mattina, e viene anche la notte, se volete interrogate pure,
tornate un’altra volta. Il canto di chi è sicuro che l’alba arriverà, ma
non sa quando. E intanto il buio continua. Continua nei corpi dei bimbi
violati sotto le bombe di Kharkiv e affacciati ai finestrini del treno
mentre salutano i padri alla stazione di Dnipro. Continua nel dolore
delle madri senza più cibo né acqua che vagano come fantasmi nei
sotterranei del metrò di Kiev e nel coraggio dei figli che si armano da
volontari per resistere all’invasore. Continua nella fredda ferocia
dello Zar di Mosca che distrugge le vite degli altri mentre gioca a
risiko con le centrali e le testate nucleari. Nelle giovani reclute
ignare mandate al fronte a sparare ai fratelli. Nei soliti demoni russi
che tornano, sempre più Stavrogin e sempre meno Raskolnikov.
Appena trascorsi, questi nuovi “dieci giorni che sconvolsero il
mondo” sembrano solo un preludio. Come dice Macron, che parla
frequentemente e inutilmente con Putin, “il peggio deve ancora venire”.
Per chi vive di chiacchiere e distintivo, la trattativa è iniziata tra
finti corridoi umanitari e falsi cessate il fuoco. Per chi muore al
fronte, la guerra va avanti ogni ora più efferata e disperata. Da che
doveva finire tra i detriti del Muro trentadue anni fa, secondo
l’improvvida idea di Fukuyama, nella fiera e povera Ucraina la Storia è
cominciata un’altra volta. Sarà almeno la sesta volta che capita, tra
l’attacco alle Twin Towers e l’invasione dell’Iraq, l’offensiva
dell’Isis e la fuga dall’Afghanistan, il BigCrash del 2008 e la pandemia
del 2019.
Ma stavolta è diverso. Non ricomincia negli angoli bui dell’Ovest: quelli che il sacro fuoco del turbocapitalismo trionfante aveva dimenticato di illuminare, come l’attacco mortale dei jihadisti delle seconde generazioni mai integrate o l’azzardo morale dei banchieri gonfiati fino a esplodere nella bolla del debito altrui. Come il vento, la Storia fa il suo giro.
Aumentare le forniture dei gasdotti di Algeria e Libia, del Tap che trasporta il metano dall’Azerbaijan, intensificare i viaggi di navi carichi di gas liquido dal Qatar. Fino a qualche giorno fa, il governo era rincorso dall’emergenza prezzi. Ora Mario Draghi e il ministro Roberto Cingolani hanno un problema ben più grave: attrezzarsi a rinunciare al gas russo. L’anno scorso la rete dei tubi che entra in Italia dal Tarvisio ha garantito il 40 per cento del fabbisogno. Per liberarsi dallo Zar di Russia bisogna trovarne altrettanto.
Il governo ha già deciso di riaprire i pozzi nei mari territoriali,
ma secondo i calcoli dell’Eni per risultati apprezzabili occorreranno
due anni. Si possono aumentare i parchi solari ed eolici, ma anche in
questo caso occorre tempo. In caso di emergenza si riattiveranno le
centrali a carbone dismesse, ma significa stracciare gli accordi di
Parigi sul clima. La strada più semplice resta diversificare le
forniture della meno inquinante delle energie tradizionali.
Draghi ieri ne ha parlato al telefono (era la seconda volta in due settimane) con l’emiro del Qatar Al Thani. Il premier ha dato mandato di discutere dei dettagli a Doha il ministro degli Esteri Luigi di Maio e il numero uno dell’Eni Claudio Descalzi. Il Qatar è uno dei principali produttori al mondo di metano liquido, che fin qui ci ha garantito il 10 per cento degli approvvigionamenti. Ma non si tratta della soluzione più facile per noi: quel gas va trasportato via nave e rigassificato in enormi strutture offshore. In Italia ce ne sono tre: a Panigaglia, in Liguria, al largo di Livorno e a Porto Viro, di fronte a Rovigo. Per costruirne di nuove – seppure su strutture temporanee – occorrono mesi. Anche l’aumento delle forniture dall’Azerbaijan (un altro 10 per cento del fabbisogno) non è semplice: il tubo sottomarino che unisce l’Italia all’Albania e trasporta il gas azero andrebbe raddoppiato. Qualcosa in più può arrivare dai giacimenti libici, ma la situazione nel Paese è caotica e da lì arriva appena il 4 per cento del metano. La soluzione più rapida ed efficace resta l’Algeria, non a caso la prima destinazione di Di Maio dopo l’attacco russo all’Ucraina. Dal tubo di Mazara del Vallo entrano in Italia più di 21 miliardi di metri cubi di gas l’anno, quasi un terzo dei consumi. Secondo le stime che circolano a Palazzo Chigi ci sarebbe la disponibilità degli algerini ad aumentare le forniture di altri 10 miliardi. Se così fosse, scalzerebbe Mosca come primo fornitore.
Il capo della redazione esteri deLa Stampa,Giordano Stabile, analizza l’evoluzione della guerra tra Ucraina e Russia spiegandoci il perché dell’attacco russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia.
Questa guerra costituisce anche un attacco al nostro concetto di società. Ma l’Occidente ha le idee più persuasive e attrattive
È una
ingenuità che nasce da ignoranza della storia pensare che la «forza
delle idee» sia, da sola, in grado di sconfiggere le armi. Il
«mattatoio», come Hegel definisce la storia umana, ce ne ha dato
infiniti esempi contrari. Ma è anche una
ingenuità (di segno opposto) credere che le idee, se sono convinzioni
diffuse, non abbiano un peso rilevantissimo nei conflitti. In questa guerra due circostanze lo dimostrano.
La prima è data dal fatto che la guerra lampo, che Putin credeva di fare quando ha ordinato l’invasione, è fallita perché l’Ucraina è una nazione autentica, gli ucraini hanno mostrato di pensare a se stessi come a una comunità
la quale non è tale solo perché occupa un territorio ma anche perché
dispone di una identità in cui si fondono amor patrio, fiducia in una
leadership (Zelensky) all’altezza della sfida e desiderio di libertà.
Per inciso, si può ipotizzare che Putin abbia umiliato pubblicamente il
capo dei servizi segreti perché quest’ultimo, sapendo, grazie alle spie
in Ucraina, come la pensavano davvero gli ucraini, abbia fatto a Putin
un resoconto veritiero che il dittatore non voleva ascoltare.
La seconda circostanza è data
dall’improvvisa rivitalizzazione dell’Occidente, dal rinsaldarsi dei
legami, che si stavano sempre più sfilacciando, fra Europa e
Stati Uniti e dalla nuova spinta, innescata dalla guerra che Putin ha
scatenato nel cuore dell’Europa, all’unità degli europei,
all’accantonamento, in modo ancor più netto rispetto al momento dello
scoppio della pandemia, delle tradizionali divisioni nazionali in seno
alla Ue.
Da questo punto di vista occorrerebbe rimediare a una (piccola) ingiustizia. Dopo la fine della Guerra fredda il politologo statunitense Francis Fukuyama è stato sbeffeggiato a lungo per avere dedicato un libro di successo (citando Hegel) alla «fine della storia». L’errore ci fu senz’altro ma non fu suo, fu di quegli occidentali che presero alla lettera quella espressione e che ne dedussero l’idea che i grandi conflitti fossero finiti per sempre. Intesa non in senso letterale ma restituendole il significato filosofico che Fukuyama le attribuiva, quell’espressione è tuttora valida, e proprio la guerra ucraina lo dimostra. Fukuyama intendeva dire che, finita la Guerra fredda, affondata la dottrina comunista per effetto della disgregazione dell’Urss, era scomparsa l’unica ideologia che avesse la potenza e la credibilità sufficienti per competere con l’Occidente, per parlare indistintamente a tutti gli esseri umani. Dopo il comunismo, nessun’altra ideologia avrebbe avuto la stessa capacità di penetrare nei vari angoli del mondo per opporsi alle idee-forza occidentali.
Gli scenari spiegati dall’Ammiraglio
Mike Mullen, ex capo di stato maggiore delle Forze armate Usa, appena
tornato da Taiwan: «Con una no-fly zone si rischia la guerra tra Mosca e
l’Alleanza. Putin è determinato a prendere le città, ma non sarà la
fine del conflitto»
L’ammiraglio Mike Mullen,
dal 2007 al 2011, sotto George W. Bush e poi Barack Obama, è stato il
capo di stato maggiore congiunto degli Stati Uniti, la carica militare
di più alto rango e il principale consigliere militare del presidente.
Ha parlato con il Corriere della sera in questa intervista esclusiva. (Qui la versione in inglese)
Gli ucraini continuano a chiedere una no-fly zone, la Nato lo esclude.
«Capisco la
richiesta, ma la possibilità di un conflitto tra la Russia e la Nato
aumenta significativamente con una no-fly zone. In teoria hai questa
zona in cui non si può volare, gestita da Paesi Nato. Se un aereo russo
tenta di entrare, ti ritrovi con aerei della Nato a contatto con quelli
russi e una delle regole d’ingaggio è: posso sparargli? Una volta che li
abbatti, sei in una qualche versione di una guerra con la Russia. È per
questo che stiamo evitando la no-fly zone. Se fossimo in guerra con la
Russia potremmo metterla in piedi, ma non penso che succederà a breve».
Il convoglio di mezzi russi a nord di Kiev si è fermato e si parla da tempo di uno sbarco a Odessa che non è ancora avvenuto. I russi stanno incontrando difficoltà o l’attesa fa parte della loro strategia? «Sin dall’inizio è stato molto difficile entrare nella testa di Putin, e continuerà ad esserlo. Inoltre sin dall’inizio ci sono stati tre assi dell’invasione, e penso che alla fine al minimo alla fine Putin controllerà in pratica Donetsk e Lugansk, nella misura in cui non li aveva già per via della popolazione russa e delle milizie che aveva già sul posto. Il secondo asse è il porto di Odessa e il Mar Nero ed è vitale per via dei commerci: è una seconda area da cui può spingersi verso nord-ovest, se vuole. E il terzo asse, che più di tutti è la chiave nella sostanza e nella percezione è la capitale; 190,000 truppe sono tante, ma non bastano a controllare il Paese. Se Putin raggiunge i tre obiettivi, non sono abbastanza per controllarli. Una delle questioni aperte, prima dell’inizio del conflitto, era il livello della resistenza, che si è rivelato straordinario e ha un leader straordinario. Sono stato al fianco di leader per tutta la mia vita, Zelensky è straordinario. La resistenza ha cambiato il gioco. Ora Putin deve capire: 1) Come prendere il Paese, cosa che ritengo sia determinato a fare; 2) Come mantenere il controllo. Se in un Paese di 44 milioni di persone hai una resistenza del 10%, fa 4 milioni, sono tanti, e dobbiamo aiutarli. È una lotta molto più difficile di quanto Putin si aspettasse. Ero capo di stato maggiore nel 2008, quando Putin andò in Georgia, un Paese assai più piccolo, ma anche lì fecero esercitazioni in numeri superiori a quelli visti prima e poi entrarono. Non sarà così facile stavolta.
di Lorenzo Cremonesi, Francesco Battistini, Andrea Nicastro, Marco Imarisio, Marta Serafini
Le ultime news in tempo reale : falliti i corridoi umanitari, Putin: le sanzioni dell’Occidente sono come un atto di guerra. Il premier di Israele vola al Cremlino e tenta la mediazione. La Cina: no al conflitto
• La guerra tra Russia e Ucraina è giunta all’undicesimo giorno: i combattimenti continuano, Mosca prepara l’attacco a Odessa, e la tregua annunciata ieri per l’apertura di corridoi umanitari è fallita. • Le forze armate ucraine lanciano intanto un allarme sulla diga che serve la centrale idroelettrica di Kaniv, di cui i russi, dicono, vorrebbero assumere il controllo. Il sindaco di Mariupol parla di «situazione disperata» in città, dove mancano da giorni elettricità, acqua, riscaldamento ed è difficile reperire forniture mediche e altri beni essenziali. • Nella giornata di ieri, il premier israeliano Bennett è volato da Vladimir Putin per tentare una mediazione. Gli Stati Uniti hanno cercato il coinvolgimento della Cina per porre fine al conflitto. Lunedì è previsto un nuovo round di negoziati tra Kiev e Mosca. • Le sanzioni continuano a colpire l’economia russa: e mentre Putin le paragona a «un atto di guerra», a lasciare la Russia ora sono anche Visa e Mastercard. • Le Nazioni Unite hanno registrato 351 civili uccisi e 707 feriti in Ucraina , secondo l’ Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Ore 8.35 – Milizie Donetsk: i corridoi umanitari riapriranno oggi I corridoi umanitari a Mariupol e Volnovakha, che ieri non hanno retto,
riapriranno questa mattina. Lo ha riferito Eduard Basurin, vice
comandante della milizia popolare dell’autoproclamata repubblica di
Donetsk, citato da Tass. «In mattinata verranno nuovamente aperti i
corridoi umanitari sia a Mariupol che a Volnovakha. Ci auguriamo che,
tuttavia, quei comandanti ucraini che guidano il processo di difesa
diano ai loro subordinati un comando per sbloccare l’uscita dagli
insediamenti e la popolazione civile possa andare via», ha detto ai
giornalisti.
Ore 8.30 – Bukhard: ecco le difficoltà dell’esercito russo (Guido Olimpio) Strategie. Il capo di Stato Maggiore francese Thierry Bukhard ha fornito due spunti sull’invasione russa. Primo.
L’Armata vuole spaccare in due l’esercito ucraino, separando il
contingente nemico schierato sul fronte del Donbass dal resto. Ma
l’operazione ha incontrato difficoltà che i pianificatori non avevano
messo in conto e ora devono impiegare maggiori forze. Secondo.
Alcune unità impegnate nell’assalto sembrano avere problemi di training
e di «prontezza al combattimento». Confermati i problemi sul fronte
logistico.
Ore 8.25 – Mosca: parte di Mariupol sotto controllo L’offensiva nella periferia occidentale e nordoccidentale di Mariupol da
parte delle forze della Repubblica popolare di Doneck prosegue «con
successo» secondo il ministero della Difesa russo, che ha comunicato di
avere preso «il quartiere Stary Krym di Mariupol sotto controllo».
Ore 7.57 -Intelligence
Gb: «Contro resistenza Ucraina, la Russia attacca le aree abitate: la
tattica già usata in Siria e in Cecenia» Sorpresa dal livello e dalla forza della resistenza ucraina, la Russia risponde attaccando aree abitate con bombardamenti aerei e terrestri. Lo scrive l’intelligence della Difesa britannica in un tweet.
In particolare, le forze armate russe prendono di mira «aree abitate
in diverse località fra cui Kharkiv, Chernihiv e Mariupol». La Russia,
si fa notare, «ha usato in precedenza tattiche simili in Cecenia nel
1999 e in Siria nel 2016, impiegando sia munizioni aeree che terrestri».
Dal canto suo, la difesa ucraina continua a colpire le linee di
rifornimento russe, «rallentando il tasso di avanzamento delle loro
forze di terra». Infine, la Difesa del Regno Unito segnala che esiste «una possibilità realistica che la Russia ora stia tentando di dissimulare i camion di combustibile per trasformarli in mezzi di sostegno regolare per minimizzare le perdite».
Ore 7.30 – Governo ucraino: Mariupol «sull’orlo della catastrofe umanitaria» La situazione nella regione di Sumy e nella città di Mariupol è
«sull’orlo di una catastrofe umanitaria». Lo ha detto al canale
televisivo Ukraine-24 il consigliere del governo ucraino, Vadim
Denisenko, specificando che attualmente non c’è elettricità o acqua
nelle città di Akhtyrka e Trostyanets nella regione settentrionale di
Sumy.
Ore 7.14 – Interrotte le forniture di gas a Kiev e altre città La guerra in Ucraina sta provocando diffuse interruzioni della
distrubuzione del gas: a confermarlo è l’operatore del sistema di
trasmissione del gas, citato dai media locali, che «ha dovuto chiudere 16 stazioni di distribuzione del gas
– a Kharkiv, Mykolaiv, Zaporizhzhia, Kyiv, Donetsk e Luhansk».
L’operatore ha aggiunto di non essere in grado al momento di
ripristinare le forniture in alcune delle zone rimaste scoperte.
Ore 7.10 – Kiev, i russi vogliono il controllo della centrale idroelettrica Le forze russe vogliono assumere il controllo della diga della centrale idroelettrica di Kaniv, situata circa 150 chilometri a sud di Kiev, sul fiume Dnipro.
L’allarme arriva dallo stato maggiore delle forze armate ucraine: le
unità russe – hanno riferito alle prime ore di oggi i militari – stanno
tentando di tutto per penetrare nella periferia sud-occidentale della
capitale Kiev.
Ore 6.13 – Spari sui civili: evacuazioni difficili a Bucha e Gostomel, almeno 3 morti Spari contro i civili bloccano le evacuazioni di Bucha e Gostomel,
vicino Kiev. A denunciarlo sono i residenti dell’area secondo quanto
riportato dai media locali. Le ricostruzioni parlano di almeno tre
morti, fra i quali una volontaria che aveva appena consegnato cibo a un
rifugio. La ragazza era assieme ad altre due persone in auto quando i
russi hanno attaccato.
Ore 4.00 – Esperti: russi in pausa, nuova offensiva in 24-48 ore Le forze russe potrebbero essere entrate in una breve pausa
operativa in vista della ripresa delle operazioni contro Kiev, Charkiv e
forse Odessa nelle prossime 24-48 ore. Lo afferma il think tank
americano Institute for the Study for War in
un report online, nel quale si osserva come le forze russe non hanno
lanciato alcuna offensiva maggiore contro Kiev, Charkiv o Mykolayiv
nelle ultime 24 ore.
Mentre in Ucraina è in atto un massacro,
la cui atrocità è tale rendere inadeguato qualunque aggettivo, un
singolare dibattito attraversa l’opinione pubblica e le élite italiane
in modo trasversale. Che suggerisce una semplice domanda: ma davvero chi
manda le armi per difendere Kiev – non per bombardare Mosca – è contro la pace, e favorisce l’escalation?
Non si può intervenire militarmente, come ovvio, se non si può nemmeno
aiutare il popolo ucraino a difendersi, che cosa si può fare che non
turbi le anime belle di certo, non tutto, il pacifismo nostrano?
La Cisl, non proprio un’associazione guerrafondaia, non ha aderito
alla manifestazione di piazza San Giovanni, indetta dalla Rete per il
disarmo, diversamente da Uil e Cgil, proprio a causa di questo
“equivoco” tra pacifismo e neutralismo, vecchio tic da guerra fredda che
scatta a ogni guerra calda. Si dice, nel comunicato che annuncia
l’adunata: “La pace è possibile solo fermando la fornitura di armamenti,
che possono solo acuire il conflitto”. È un’affermazione impegnativa:
se il conflitto prosegue, un po’ di colpe ce l’ha anche l’Occidente che
aiuta la resistenza. Stesso concetto viene espresso in un lungo
comunicato della Ong Mediterranea: “Il legittimo diritto alla resistenza
degli aggrediti non può diventare la scusa dei governi europei per
lavarsi la coscienza favorendo l’escalation. Non può voler dire inviare
armi senza assumere coraggiose iniziative politiche e lavorare a un
cessate il fuoco immediato”.
Certo, se Putin avesse già annesso l’Ucraina, dettando le sue
condizioni, la guerra sarebbe già finita. Ogni resa è la fine del
conflitto, altro che via diplomatica. E chissà, se compiuta
l’annessione, qualcuno avrebbe indetto una manifestazione contro
l’imperialismo russo. In fondo, questo dibattito è possibile proprio
perché c’è chi non si è arreso. Perché la democrazia, colpita nel cuore
dell’Europa, non si è arresa. Invece, in questo gioco degli specchi per
cui formalmente tutti sono vicini al popolo ucraino ma sostanzialmente
si pratica una equidistanza moralisteggiante, l’equivoco sta nello
sbandierare l’idea di un negoziato possibile alternativo all’uso della
forza, quando invece la forza, intesa come contrasto all’aggressione, ne
è l’unico presupposto.
Quale sarebbe la via diplomatica per far ragionare Putin? Pochi
giorni prima dell’invasione del Donbass sono volati a Mosca Scholtz e
Macron, e anche il governo italiano pensava, mettendo in agenda una
visita che fosse percorribile la via della trattativa. Si è visto quel
che è successo e, ancora ieri, il presidente francese, dopo una
telefonata con Putin, ha dichiarato che “il peggio deve ancora venire”.
La resistenza è dunque la via della diplomazia, però tutta la
discussione si è spostata sulle armi che manda l’Occidente, senza
soffermarsi più di tanto sulla “gradualità” scelta, proprio per evitare
l’escalation che ad esempio sarebbe resa possibile da una no fly zone,
che pure il governo ucraino ha chiesto. A quel punto, basta una
scintilla e patatrac. Le armi inviate sono difensive, non offensive, ma
questo non conta.
Mosca stringe sui media, per oscurare la
narrazione sulla guerra e rispondere alle sanzioni del mondo occidentale
e dei Big della tecnologia. Limita l’accesso ai siti d’informazione, annuncia il blocco di Facebook e Twitter, mentre approva anche una legge che prevede multe e carcere per chi diffonde ‘fake news’ sul conflitto. Per tutta risposta la Bbc ritira i suoi giornalisti dalla Russia e riapre le trasmissioni ad onde corte come ai tempi di Radio Londra, evocando un sistema che ha già scritto la storia degli eventi bellici del ‘900.
Radio Eco Mosca invece resiste e continuerà a trasmettere su YouTube. In una escalation pari a quella militare la Russia, attraverso il Roskomnadzor, l’agenzia che controlla le comunicazioni, sta bloccando di ora in ora l’accesso a numerosi media indipendenti e ha annunciato prima il blocco di Fb, poi quello di Twitter. Meta ha subito rassicurato sul fatto che «farà il possibile per ripristinare il servizio e dare la possibilità agli utenti di esprimersi in sicurezza e mobilitarsi».
Cos’era Radio Londra
“Radio Londra – si legge su Wikipedia – era l’insieme dei programmi radiofonici trasmessi, a partire dal 27 settembre 1938,
dalla BBC e indirizzati alle popolazioni europee continentali.Le
trasmissioni in lingua italiana della BBC iniziarono con la crisi di
Monaco. Con lo scoppio delle ostilità, nel 1939, Radio Londra aumentò le
trasmissioni in italiano fino ad arrivare a 4,15 ore nel 1943.La
fortuna delle trasmissioni di Radio Londra derivò dal fatto che il Ministro della Guerra britannico Leslie Hore-Belisha del governo di Neville Chamberlain,
anziché gestire in proprio le trasmissioni di propaganda, le aveva
affidate ad un ente autonomo, la BBC, già allora fiera della propria
indipendenza dal potere politico”.
“La redazione di Radio Londra – conctinua l’enciclopedia libera online – diventò famosa per la sua tempestività nel trasmettere informazioni nel mondo, con il suo tipico stile inglese, diretto e pragmatico. Nel Servizio Italiano si impone la carismatica figura del Colonnello Harold Stevens – il famoso “Colonnello Buonasera” – che, grazie ai suoi commenti pacati e ragionevoli, trasmetteva un senso di serenità e speranza nel futuro. Stevens era stato addetto militare a Roma, il suo italiano aveva l’accento britannico, misto a una rassicurante inflessione napoletana. Altra figura carismatica si rivelò Candidus (pseudonimo di John Marus), che, con la sua dialettica contrastava la propaganda nazi-fascista. Per Radio Londra lavorò dal 1940 anche Thomas Mann, che registrava i suoi messaggi nell’esilio in California. Il ruolo in guerra di Radio Londra divenne cruciale nello spedire messaggi in codice, redatti dagli Alti comandi alleati e destinati alle unità della resistenza italiana.
Le trasmissioni in italiano di Radio
Londra erano aperte dalle prime note della 5ª Sinfonia di Beethoven
(molto probabilmente perché codificavano – scandite secondo l’alfabeto
Morse – la lettera “V”, iniziale di “Victory”, sempre ripetuto da W.
Churchill). La BBC continuò a trasmettere in italiano L’Ora di Londra ogni sera fino al 31 dicembre 1981,
quando il programma fu chiuso nonostante le proteste di numerosi
ascoltatori. Le ultime trasmissioni andavano in onda dalle 22 alle
23 (23-24 quando vigeva in Italia l’ora legale) sulle onde medie di m
251 (1196 kHz) e nei campi d’onda corta di m 31 (9,915 MHz), m 49 (5,99
MHz) e m 75 (3,975 MHz). Pare che almeno centomila italiani avessero
conservato l’abitudine di ascoltare la BBC fino ad allora.
«Non ho visto Bennett avvolto nella bandiera ucraina». Zelensky,
disperato e deciso a utilizzare la solidarietà ebraica che gli spetta,
ha aperto nei giorni scorsi un fronte di critica verso Israele. Non fa
abbastanza, ha detto, chiedendo al premier Bennett di mediare fra lui e
Putin. Zelensky ha anche lanciato un commovente appello agli ebrei del
mondo intero chiedendo di aiutarlo. D’altronde, l’unico fronte su cui
può vincere contro un nemico infinitamente più forte è purtroppo quello
della solidarietà.
Venerdì 25 febbraio Israele non si era astenuto
sul voto alla bozza di risoluzione Usa al Consiglio di sicurezza Onu,
comunque destinata a non passare per il veto russo. Al contrario,
mercoledì scorso, Israele ha addirittura co-sponsorizzato la risoluzione
di condanna dell’Onu. Cos’è accaduto nel frattempo? Israele ha scelto
fra il cuore e la mente e ha deciso per quella cosa strana che si chiama
«essere dalla parte giusta della storia». Ma non è stato facile, perché
Israele è in un’autentica tenaglia.
Dal 2015, dopo la fuga di
Obama, i russi si sono presi la Siria, salvando Assad e fornendo un
riparo agli iraniani e a Hezbollah. Di fatto, quindi, Israele confina
con la Russia, ed è grazie all’accordo con Putin che quel confine non è
un inferno. Senza, Israele non potrebbe neutralizzare le basi militari e
missilistiche e i trasporti di uomini e armi che i suoi peggiori nemici
compiono a pochi chilometri da Gerusalemme, e Israele sarebbe
bombardata ovunque dal confine.
Parallelamente, gli Stati Uniti
richiedono oggi a Israele uno schieramento assoluto: dalla Guerra dei
Sei Giorni gli Usa sono il maggiore referente strategico, nonché un
partner militare e un finanziatore. Un prezzo però c’è: l’associazione
di Israele agli Usa nella mentalità comune è costata non poco sul piano
ideologico, suggerendo che Israele sia il «piccolo Satana» al servizio
di quello grande, colpevole di imperialismo e malefatte mondiali. Ma
l’alleanza è vitale. La Cnn, pilastro dell’informazione antisraeliana,
ha ripetuto che Israele non si univa la blocco antirusso; per molti si
sarebbe anche rifiutato di fornire il sistema missilistico Iron Dome a
Kiev, cosa impossibile per i tempi lunghissimi e l’indispensabile
assenso americano. Il governo è restato in equilibrio con un gioco delle
parti fra Naftali Bennett e Yair Lapid, ministro degli Esteri, ma oggi
ogni leader israeliano condanna in ogni discorso Putin: il sentiero
della prudenza era troppo stretto anche se vitale, soprattutto quando
entra in gioco il nucleare.
È difficile fissare il momento del fallimento della
guerra. Non tutti gli uomini che la combattono, anche quelli
dell’esercito che forse vincerà, quello russo, si sono alzati insieme
nel mezzo della guerra. Alcuni non l’hanno scavalcata, o spinta fino in
fondo. Non tutti hanno sopportato, con la loro ferraglia più o meno
scientifica e tutta perversa, di diventare inumani. L’hanno mancata, la
guerra. Per fortuna. E da questa guerra sono stati vinti. Questa guerra
d’Ucraina è cattiva perché vince gli uomini. Questa guerra moderna, di
ferro e di bugie. Questa guerra scientifica, implacabile in cui non c’è
più nulla, nemmeno l’illusione o la forma, di quello che un tempo si
bestemmiava come «arte». I vinti dalla guerra sono i soldati russi che
telefonano alle madri, per piangere insieme. Entrati nella guerra non
urlando ma a capo chino, spesso ingannati. Non dimentichiamo la loro
mirabile nudità, non confondiamoli.
Attenzione a non farsi illusioni. la Russia vincerà, forse sta già
vincendo. Giorno dopo giorno la resistenza ucraina sotto il semplice
peso del nemico si flette, lentamente. Poi di colpo si spezzerà. I russi
dominano il cielo e la terra, hanno invaso il cielo come hanno invaso
la terra con fragore di aerei e missili. Hanno artiglieria e corazzati
spropositati, schiaccianti.
Ma l’esercito russo non è un blocco unico, è attraversato da faglie e
da strati, come se fosse formato da classi sociali diverse. Perché
anche negli eserciti come nella società che li produce si distinguono
classi lontane tra loro, ben riconoscibili nell’abbigliamento, nel mondo
di comportarsi, nel rapporto con i superiori. La guerra li costringe a
ricominciare da capo, a imparare il mondo, li avvicina alle cose,
chiarisce i pensieri. E li separa brutalmente.
Ci sono i soldati “d’élite”, l’ultima generazione di guerrieri creata da Putin sul modello occidentale, ben armati, addestrati, ben pagati, «gli specialisti» che non hanno bisogno nemmeno di una ideologia. Combattere è la loro ideologia, cercano nel vincere la motivazione sufficiente. Professionisti. Lavorano nella costanza definitiva del loro furore, trionfano. Con loro Putin può mescolare tutti i veleni e attizzare tutti i fuochi del suo inferno. Difficile che lo abbandonino. E poi ci sono gli altri. Quelli che pensavano di andare alle esercitazioni al confine e poi hanno scoperto che venivano catapultati in una “operazione militare”. I richiamati, la leva, i “poilu” con cui si sono sfamate di carne tutte le guerre grosse: che forse a una guerra così, pur vestendo un’uniforme, non avevano mai pensato.