Domenico Quirico
Lo confesso: sono un ingenuo. Da una settimana, da quando la
coscienza rantola sotto le rovine dell’Ucraina mi ostino a cercare
notizie dell’Onu. Sì. Nella ennesima quaresima del dispotismo, e questa
venata di allarmanti cantilene atomiche, mi sforzo di trovare notizie di
Antonio Guterres, il segretario generale. Il segretario generale:
riempie la bocca, segretario generale, dà l’idea di un onnipotente.
Sono cresciuto e non sono certo il solo, nell’idea che ci
sono delle istituzioni che per la loro natura, la vita che vi è raccolta
e condensata, i ricordi e le speranze che ci si intrecciano alla loro
fondazione, talvolta anche con il solo suono del nome o l’evocazione del
palazzo che li ospita, diventano, nel bene e nel male, l’immagine
obbiettiva di una situazione, di una vicenda, di una storia. E finiscono
per identificarsi con quella come fossero la loro forma reale, la loro
proiezione esterna, politica, umana.
Ecco: il Palazzo di vetro, le Nazioni unite per gli ingenui di tutto
il mondo come me sono ancora la pace, la possibilità almeno della pace,
il luogo fisico dove la pace può diventare forza e diritto. Dove esiste,
comunque, anche quando le trame di violenti e concussori tentano e
talora riescono a umiliarla e a guadagnare posizioni.
Ebbene nel corso dei decenni, mentre la Storia finiva e poi
ricominciava e ricominciava ancora e forse l’Ucraina è quest’altro
terribile inizio, le agenzie delle Nazioni unite sembrano aver
soppiantato la casa madre impegnata in vaste capitolazioni. Perché
funzionano abbastanza bene, li vedi nelle grandi crisi umanitarie,
salvano e sfamano fuggiaschi, scavalcano a fatica una elefantiasi
burocratica che spesso fa asciugare vanamente molte energie nella sabbia
del superfluo. Lì ci sono ancora uomini di buona volontà che agiscono e
non chiacchierano. Ma questo non basta. L’Onu non è nato forse per la
pace, per impedire le guerre, per punire e frenare i prepotenti? Per
questo non resiste da mezzo secolo nelle bufere della Storia?
Lo so che fa cilecca da almeno mezzo secolo, che da artificiere degli
incendi dei conflitti si è trasformato nello squallido teatro della
solita solfa. Opera come datore di lavoro di caschi blu arruolati in
paesi poverissimi alla ricerca di una paga, che assistono impotenti ai
massacri dei prepotenti, senza mezzi, senza ordini, senza forza.
Li ho osservati ieri nella riunione, ovviamente di urgenza, convocata
per il precipitare della crisi ucraina. Gente che andava e veniva,
scranni vuoti, i rappresentanti russo e ucraino che sventolavano fogli
di carta con le prove della perversione diabolica dell’uno e dell’altro.
Una tribuna periferica e neppure troppo importante per la propaganda.
Il solito labirinto minotaurico delle buone intenzioni, una ritualità
sgonfia di effetti ma stratificata e inestricabile come un palinsesto
bizantino. Un accorto burocrate di scuola borbonica vi avrebbe
riconosciuto, con cognizione di causa, la triste odissea della pratica
«guerra in Ucraina». È lo stesso iter di quella della guerra siriana,
del genocidio ruandese, della mattanza somala eccetera eccetera. Un
cataclisma sulla scena internazionale è dapprima etichettato come
“normale”, fase in cui è sacrosanto non fare nulla. Poi diventa
“urgente”: non prestate attenzione ai toni isterici delle dichiarazioni,
i navigatissimi argonauti del palazzo di vetro sanno che non val la
pena di dar loro retta. Poi approda all’“urgentissimo’’ come nel caso
dell’attacco russo a Kiev. E allora tutto si placa, a poco a poco si
spegne e diventa superfluo.