«Altissima preoccupazione» del Pd per le mosse dell’alleato M5S
A Palazzo Chigi nessuno si aspettava una simile escalation dei toni da parte di Giuseppe Conte. Nessuno prevedeva che Mario Draghi, tornato da Napoli ancora commosso per le lacrime dei piccoli profughi ucraini incontrati al rione Sanità, a sera sarebbe salito di corsa al Quirinale. E adesso la situazione sta nelle parole di un ministro, angosciato per le sorti del governo: «Non so se Conte potrà rimettere il dentifricio nel tubetto».
A portare l’ex capo dell’esecutivo
a un passo dallo strappo irreparabile, allarmando le cancellerie
europee, è stata la mossa astuta di Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia, unico partito di opposizione, ha scelto di muoversi in asse con il governo. Ha presentato un ordine del giorno sulle spese militari
costruito sulle parole di Draghi e si è accontentata che il testo fosse
accolto dal governo, senza chiedere che venisse messo ai voti in
commissione. In questo modo FdI ha tolto ai 5 Stelle la possibilità di bocciare l’aumento delle spese militari, per poi votare in Aula la fiducia al decreto Ucraina.
Una manovra parlamentare che ha scompaginato i piani di Conte e lo ha
spinto a irrigidire la posizione con Draghi. Al punto che Enrico Letta ha voluto condividere con i suoi ministri e anche con il premier la «preoccupazione altissima» del Pd per la nuova strategia del Movimento.
Nel faccia a faccia a Chigi,
la totale assenza di feeling tra il premier e il suo predecessore è
esplosa come mai prima. E adesso il sospetto che aleggia nelle stanze
della presidenza del Consiglio è che il leader del M5S abbia deciso di portare il Paese al voto anticipato. Magari non subito, perché con la guerra di Putin che fa strage di civili uno strappo così radicale non sarebbe compreso dagli elettori, ma al più tardi nel mese di giugno.
L’incontro-scontro è stato così serrato e teso che, dopo 90 minuti,
l’ex presidente della Bce ha fatto fatica a spiegare ai suoi cosa abbia
in mente Conte. Anzi, pare proprio che il premier non lo abbia compreso
e che non abbia nemmeno chiaro se il M5S voterà o meno il Documento di economia e finanza. E questo perché Draghi appare orientato a quantificare nel Def l’impegno economico per gli armamenti. «Per arrivare al 2% mancano 15 miliardi, un picco notevole», ha avvertito Conte. È stato il momento più aspro del «duello»,
perché il premier, a proposito di coerenza, ha messo sul tavolo gli
stanziamenti del passato e ha snocciolato a Conte i numeri del bilancio
della Difesa quando a Chigi c’era lui: «Nel 2018 si registravano circa
21 miliardi, mentre nel 2021 se ne registravano 24,6…». Insomma, i governi gialloverde e giallorosso hanno aumentato le spese militari del 17%, assai più di quelli precedenti e successivi. Com’è finita? Per dirla con Conte, «ognuno è rimasto sulle sue posizioni».
Uno dei fenomeni più interessanti che negli ultimi decenni mi
è capitato di studiare è la nascita, nella sinistra italiana, del
“complesso dei migliori”, ossia dell’attitudine a pensare sé stessa come
la rappresentante della parte migliore del Paese. La data di nascita è
abbastanza precisa: 1993-1994, sdoganamento del “fascista” Fini da parte
di Berlusconi, vittoria del Cavaliere alle elezioni politiche, nascita
della seconda Repubblica. Da allora l’autopercezione della sinistra come
eticamente superiore alla destra non è mai venuta meno, ed anzi è
dilagata, in Italia e non solo (Hillary Clinton contro Trump). A
soffiare sul fuoco dell’autostima dei progressisti hanno contribuito non
poco lo stile sgangherato e spesso volgare di Salvini, l’antieuropeismo
di parte della destra, nonché, al di fuori dell’Italia, l’emergere di
leader politici conservatori non proprio rassicuranti: Orbán, Trump,
Marine Le Pen.
Ebbene, la guerra in Ucraina sta, secondo me, sgretolando le basi del
complesso dei migliori. La credenza che la sinistra riformista, erede
del Partito comunista, rappresenti il Bene, e la destra, berlusconiana o
sovranista che sia, rappresenti il Male, sopravvive ancora, ma il
problema è che non è più difendibile, nemmeno agli occhi dell’opinione
pubblica progressista.
Per capire perché dobbiamo partire da una domanda: perché il Pd di Letta
è diventato il partito più atlantista e militarista, pronto non solo a
mandare armi all’Ucraina ma a partecipare al riarmo dell’Europa? La
risposta è semplice: se in gioco vi sono la libertà e la democrazia, può
il partito che si sente custode del Bene non essere alla testa della
difesa delle due supreme conquiste dell’Occidente? Ovviamente la
tentazione è forte, e il Pd è caduto in tentazione. L’ha fatto. Si è
messo alla testa del partito del Bene contro il Male assoluto russo. Ci
sono due piccoli guai, però, che minano alla radice il progetto della
sinistra riformista.
Il primo guaio è lei, Giorgia Meloni.
La posizione di Fratelli d’Italia, di appoggio alle scelte del governo
in nome dell’interesse nazionale, complica dannatamente le cose: d’ora
in poi sarà più difficile accusare la destra di sovranismo, preso atto
che il sovranismo di Fratelli d’Italia può plausibilmente essere letto
in chiave patriottica, ma soprattutto sarà impossibile rivendicare il
monopolio del Bene. Se libertà e democrazia sono il Bene, e se il
sostegno all’Ucraina è la cartina di tornasole del proprio impegno, il
Pd dovrà prendere atto, d’ora in poi, di essere in buona compagnia. E
magari rassegnarsi a registrare che la scelta patriottica di stare
risolutamente a fianco dell’Ucraina non è prerogativa di uno
schieramento politico ma, semmai, è ciò che accomuna i due maggiori
partiti italiani.
C’è un secondo guaio, però, forse ancora più grande, per la retorica
della sinistra che si sente eticamente superiore. Ed è che, ahimè, il
Bene ha molte facce. Specialmente in una guerra come quella che stiamo
attraversando, il Bene si presenta anche nelle vesti multiformi del
pacifismo: dal risoluto e sconcertante invito ad arrendersi rivolto da
Piero Sansonetti alla resistenza ucraina, alla “vergogna” del Papa per i
propositi di riarmo dell’Occidente, fino alle mille varianti dell’etica
del dialogo, del negoziato e della prudenza. Eh già, perché accanto ai
grandi valori universali dell’uguaglianza, della libertà e della
democrazia, con grande lungimiranza Norberto Bobbio poneva anche il
valore della pace, a dispetto di un’epoca che la dava per scontata (un
po’ come i giovani danno per scontata la salute).
Ed ecco il problema: fiutando odore di identità (un bene di cui il
partito di Grillo ha disperatamente bisogno), il leader dei Cinque
Stelle Giuseppe Conte si è avventato, con un video scomposto che
ricordava l’ultima infelice esternazione di Beppe Grillo, contro
l’impegno dell’Italia ad aumentare il budget per la difesa. Enrico Letta
ha reagito minimizzando, e assicurando che anche in questo caso – come
in passato – si sarebbe trovata una quadra.
Ma riarmo e pacifismo non sono voci del bilancio pubblico, su cui si può
agevolmente trovare un punto di equilibrio, presentandolo agli elettori
come ragionevole compromesso. La scelta di sostenere militarmente la
resistenza ucraina in nome di valori come libertà, democrazia,
autodeterminazione dei popoli, è incompatibile con la scelta di non
farlo per favorire il dialogo e la pace. Ragionevoli o irragionevoli che
siano, prudenti o imprudenti che appaiano, agli occhi degli elettori
queste due posizioni sono non solo incompatibili, ma anche entrambe
eticamente fondate. Il militante di sinistra può ancora sentirsi dalla
parte del Bene, ma oggi si trova a dover scegliere tra due posizioni
ciascuna delle quali si presenta con una postura etica.
Negli spazi esterni senza alcun vincolo, per sedersi all’interno serve il Qr-code
Da venerdì non ci sarà più bisogno di alcun documento per sedersi all’aperto e ordinare da mangiare o da bere. Scompare infatti l’obbligo di essere in possesso di qualunque tipo di Green Pass per i clienti accomodati ai tavoli fuori dai locali. Il decreto ha anche previsto che per consumare all’interno di questi esercizi resti ancora necessario il certificato verde base, quello che si ottiene con la vaccinazione, la guarigione oppure con un test, antigenico o molecolare, negativo. I clienti dovranno anche indossare la mascherina finché non sono seduti. Inizialmente si pensava di applicare la modifica alle vecchie regole solo ai turisti, poi si è deciso di estenderla a tutti. Dal primo maggio, inoltre, in base alle scadenze dettate dal decreto, scomparirà del tutto il Green Pass anche per consumare all’interno dei locali.
Hotel e negozi
Via tutte le restrizioni negli alberghi. Addio carta verde per lo shopping
Dal primo aprile l’ingresso negli alberghi e in generale in tutte le
strutture ricettive è libero. Si potrà prenotare una camera d’hotel e
cenare nel ristorante interno o alloggiare in un b&b senza mostrare
alcun Green Pass. Non si potrà invece accedere nelle palestre, nelle
piscine e nelle Spa degli hotel senza il certificato rafforzato, nemmeno
se si è clienti dell’albergo. E anche nel caso in cui si debba
partecipare a un convegno o a un congresso organizzato in un albergo
servirà il Super Pass. Si potrà invece fare shopping nei negozi senza
bisogno di Certificato verde. L’unica misura obbligatoria che resterà
ancora in piedi per tutto aprile sarà invece l’uso della mascherina:
andrà bene anche quella chirurgica. E lo stesso vale per parrucchieri,
centri estetici, barbieri, banche, poste, uffici pubblici: via libera senza Pass ma con la mascherina.
Cinema, teatri e discoteche
Vedere un film o andare a ballare: per tutto aprile ci vorrà il Super Pass
Ad aprile non cambia ancora nulla per cinema, teatri e discoteche. Si
potrà infatti vedere un film tra le poltroncine rosse, assistere a uno
spettacolo teatrale o partecipare a un concerto ma solo dopo aver
mostrato il proprio Super Green Pass, quello cioè che si ottiene dopo
aver completato il ciclo vaccinale o dopo essere guariti dal Covid da
meno di sei mesi. Le stesse regole valgono anche per quelle attività al
chiuso come musica dal vivo, laboratori, incontri, serate,
rappresentazioni che si tengono nei centri sociali, culturali e
ricreative (ad eccezione delle ludoteche). Anche in discoteca e nelle
sale da ballo si entrerà solo con il Green Pass rafforzato. E nessun
cambiamento è previsto anche sul fronte mascherine: dal cinema al locale
serve la Ffp2. Da maggio si cambia: dovrebbe cadere l’obbligo di Super
Pass, non quello di protezione per naso e bocca.
Stadi e palazzetti
Impianti sportivi, massima capienza. Alle partite con il Green Pass base
Lo sport all’aperto, indipendentemente dal tipo di attività, si potrà
fare senza dover dimostrare di aver fatto un tampone negli ultimi due
giorni, o di essersi vaccinati o di essere guariti dal Covid. Diverso
invece il caso di chi si allena in piscine o palestre al chiuso: fino al
30 aprile avrà ancora l’obbligo di mostrare il Super Green Pass. E lo
stesso controllo è richiesto anche per usare le docce e gli spogliatoi
degli impianti sportivi (sono esclusi dall’obbligo solo gli
accompagnatori di persone non autosufficienti come i bambini o le
persone con disabilità). I tifosi e gli appassionanti potranno andare allo stadio
con il Green Pass base, ma al palazzetto coperto dovranno avere il
rafforzato. Sugli spalti, all’aperto e al chiuso, sempre richiesta la
mascherina Ffp2. La capienza tornerà al 100%.
Dopo quasi 4 mesi di siccità al Npord Ovest in particolare,
torneranno piogge e nevicate a partire da mercoledì. Sul Piemonte, la
regione certamente più colpita dalla scarsità delle precipitazioni, non
saranno però piogge intense (saremo sull’ordine dei 10 millimetri),
mentre questa prima perturbazione sarà particolarmente significativa
dalla Lombardia verso Est e sulle regioni Tirreniche, con accumuli
pluiviometrici di circa 60 millimetri. Diverso il discorso, invece, se
spingiamo lo sguardo un po’ più in là, al fine settimana: in questo caso
non è ecluso che il Piemonte possa essere colpito in modo più deciso,
con precipitazioni più intense e limite neve in deciso abbassamento
grazie ad un contributo di aria fredda.
Emergenza siccità, il lago di Ceresole è diventato un deserto: le immagini dal drone
Si interrompe la siccità Secondo i dati forniti dal Cnr e dallAutorità di Bacino del Po, il trimestre invernale ha avuto un contributo in termini di precipitazioni inferiore del 40% rispetto all’ultimo trentennio. Questo a livello generale, come dato italiano. Se invece guardiamo, più nel dettaglio, al Piemonte e in particolare su zone come Torino, Biella, Cuneo, qui siamo a -84%. «In sostanza – spiega Daniele Cat Berro, meteorologo della Società meteorologica italiana – ha piovuto il 16% di quanto in realtà avrebbe dovuto». Le immagini del lago artificiale di Ceresole Reale in secca e trasfromato in una valle desetrica sono emblematiche. Ora, finalmente, torneranno piogge e nevicate. L’ultima vera precipitazioni, infatti, risale all’8 dicembre scorso, quando la neve imbiancò con un paio di centimetri anche la città di Torino. Cosa aspettarsi Come detto la prima perturbazione in arrivo da mercoledì porterà piogge e nevicate in quota. Gli accumuli a fine evento potranno risultare importanti sopra i 1300 metri, con quasi 30/40 cm di manto bianco. Ci sarà spazio per nevicate anche sugli Appennini, sempre da venerdì, sopra i 1200 metri. Questa fase di maltempo farà calare le temperature, quanto meno quelle massime. I valori termici, attualmente sopra la media di 4/5 gradi centigradi, scenderanno di circa 10 gradi centigradi, portandosi non oltre i 10/12 gradi centigradi di giorno, segnatamente al Nord. Al contrario, i valori notturni, a causa della copertura del cielo e dei venti miti, cresceranno di quasi 8 grdi centigradi. Al Nord le piogge saranno via via più diffuse ma dalla Lombardia verso Est, mentre il Nord Ovest dovrebbe restare in ombra pluviometrica almeno in questa prima fase.
Peccato che al momento della nascita del governo Draghi, qualcuno
non abbia fatto una telefonatina a Putin, giusto per chiedergli se
avesse intenzione di invadere l’Ucraina. Così: tanto per regolarci sulle
spese militari. Avrebbe stroncato sul nascere la principale obiezione
sollevata da Conte nel corso di In Mezz’ora in più: “L’aumento delle
armi non era nel patto fondativo di governo, dunque non siamo noi a
volere la crisi, è il governo che cambia le carte in tavola” (sic!).
Mettetevi comodi, non ci sarà nessuna crisi, per tante ragioni,
compresa quella che nessuno dei nostri eroi freme per assumersi la
responsabilità di scelte difficili, ora che lo scenario è radicalmente
cambiato. E, tra guerra, aumento dei prezzi delle materie prime, rischio
stagflazione tutto si potrà fare tranne una finanziaria elettorale.
Meglio lasciare Draghi nella sala macchina dei sacrifici, limitandosi a
un po’ di propaganda sul palcoscenico. E infatti con toni assai meno
ultimativi rispetto alla sua intervista alla Stampa, l’ex premier, si
dedica a questa antica arte per agire un ruolo dopo una lunga eclissi.
Senza mai nominare Putin una sola volta, lo slogan a far di camera è
perfetto: “Non consentiremo un massiccio (cifra indefinita, si badi
bene, ndr) incremento delle spese militari togliendo soldi al Welfare”.
Perfetto, come quello di Salvini. Neanche lui consentirà che “le
sanzioni vengano pagate dagli italiani”.
La strumentalità è in tre clamorose contraddizioni. La prima: i
Cinque stelle hanno già votato la risoluzione di maggioranza che impegna
il governo a implementare la cosiddetta bussola strategica, il piano di
difesa europeo. Cioè: un aumento della spesa militare. E, nel breve
periodo, non c’è un altro voto (se ne riparla nella manovra, non nel
Def). La seconda: proprio durante i governi Conte la spesa militare è
aumentata ogni anno. In cifre assolute: 21.588.802.622 nel 2019,
23.104.088.370 nel 2020, 24.974.200.147 nel 2021. Non era esplicitamente
previsto nel patto di governo né c’erano conflitti in Europa. Sono
altresì gli anni in cui non è stato messo in discussione l’impegno ad
arrivare al 2 per cento di spese militari, di cui tanto si discute oggi,
assunto con gli alleati Nato nel 2014. Mentre ora si avvalora la tesi
della corsa agli armamenti. La terza: è stato votato senza proferir
verbo nella scorsa legge di bilancio il fondo pluriennale di
investimenti per la Difesa di circa 12 miliardi e mezzo di euro.
Ho visto troppe morti violente. Ho conosciuto molto bene il sapore che ha la crudeltà. Ho ricordi dolorosi che cerco di non tenere sepolti perché sentirli solo come una assenza immobile e irrimediabile impedisce di ascoltare il grido dei morti. Per questo non mi stupisco quando vedo scorrere le sequenze di quello che viene indicato già come lo scandalo della crudeltà anche dei buoni, delle vittime, di chi si difende. Sono le immagini di alcuni soldati indicati come ucraini che sparano alle gambe di prigionieri russi, li azzoppano, li sciancano. E quelle del soldato che chiama la moglie di un russo ucciso con il telefonino che ha trovato frugando nel cadavere e le racconta sghignazzando come è ridotto per i colpi che ha subito. Kiev «indaga», garantisce una inchiesta pur smentendo che i propri combattenti violino le norme, ed è già un merito, perché sarebbe più semplice negare tutto, annegandolo nelle ovvie bugie del nemico. Se fossero confermate come autentiche non sarebbe per me che la conferma della malvagità perversa della guerra che non risparmia nessuno, mitizza i guerrieri e giustifica i loro eccessi anche con il pretesto della autodifesa.
La guerra è una divinità crudele e piena di pretese, per farsi
adorare e assicurare forse la vittoria esige sacrifici umani, di più:
pretende che i giovani che mandiamo a combattere trasformino le stragi e
gli atti che devono compiere in un rito di iniziazione. La guerra fatta
secondo le regole non esiste.
Che cosa vi aspettavate? La pianificazione dell’assassinio e della
violenza è organizzata con la massima efficienza da tutti gli eserciti,
quelli che aggrediscono e quelli che difendono. Ma coloro che nel
fragore della battaglia emergono, quelli che hanno più potere dalle due
parti sono coloro che hanno una vera propensione alla crudeltà, che non
si fanno scrupoli. In ogni esercito ci sono sempre tanti piccoli
criminali che diventano improvvisamente eroi. Quando si ha bisogno di
uomini, di carne da cannone non si può andare tanto per il sottile.
Arrivano i volontari, i mercenari, i «foreign fighters»: idealisti?
Fanatici? Esteti della bella morte? Imbecilli? Accomodatevi. Abbiamo
bisogno di gente che voglia morire.
Tra loro è gente violenta da prima, che crede nella ragione della
forza, che esalta la forza, talvolta sono davvero piccoli criminali.
Scoppia la guerra e continuano a fare quello che facevano prima. Solo
che adesso è tutto vero, hanno un fucile in mano, rubano, saccheggiano,
torturano, uccidono. Alcuni eserciti li arruolano astutamente i
criminali, sono ottimi soldati. Le brigare Azov ci sono sempre, da tutte
le parti, filmano le proprie imprese fosche ne conservano la
testimonianza sul telefonino si vantano e le condividono con parenti e
amici rimasti a casa: guarda cosa so fare… qui è pazzesco!
I prepotenti che vengono emarginati in tempo di pace diventano i
salvatori della patria, i modelli, il simbolo degli ideali più nobili.
Il giudizio sui loro vizi viene sospeso, le regole non contano più, c’è
la guerra bisogna vincere prima di tutto, a qualsiasi prezzo.
L’abdicazione pregiudiziale alla pietà e al diritto offre una sicurezza
estrema. Si può fare tutto perché si è protetti da tutti i lati dal
senso di colpa, dal provare rimorso. E questo accade anche nelle guerre
delle democrazie, dal Vietnam all’Iraq.
Il veleno non fa bene ai (presunti) negoziati – vere o false che siano le intenzioni dei colloqui. La storia sinistra dell’avvelenamento di Roman Abramovich e di due dei negoziatori ucraini non fa che rendere ancora più impervia la strada dei colloqui che riprendono oggi a Istanbul tra le delegazioni russe e ucraine, mentre la Russia intensifica i bombardamenti sull’Ucraina (non esattamente un segno di trattativa).
Ieri il Wall Street Journal e il team investigativo di Bellingcat –
che aveva già in passato identificato la squadra del FSB (i servizi
segreti interni russi) responsabile dell’avvelenamento di Alexey Navalny
in Siberia – hanno pubblicato la notizia che l’oligarca patron del
Chelsea e due negoziatori ucraini che erano con lui sarebbero stati
avvelenati il 3 marzo scorso, in Ucraina, nei negoziati vicino al
confine con Polonia e Bielorussia. Abramovich e gli altri negoziatori
hanno sofferto di chiari sintomi di avvelenamento, occhi rossi,
lacrimazione costante e dolorosa, desquamazione e caduta della pelle del
volto e delle mani, durati un giorno e una notte. L’oligarca numero uno
(lui ha sempre negato di esserlo) – quello che per anni è stato il
testimonial russo dal volto liberal, con i jeans, la barbetta curata e
la camicia fuori dai pantaloni, il russo capace di incantare Londongrad –
perse la vista per alcune ore, confermano adesso diverse fonti tra cui
Mikhail Khodorkovsky, l’ex patron di Yukos che invece si fece dieci anni
in Siberia e fu espropriato della sua azienda per non essersi piegato a
Putin. Un portavoce di Abramovic ha confermato alla Bbc
l’avvelenamento. Anche Khokorkovsky fu avvelenato. Tremendo parallelismo
della storia, sintomi analoghi toccano ora all’uomo che iniziò la sua
ascesa proprio dopo l’esproprio putiniano ai danni di Khodorkovsky, che
ricorda: «Quando sono stato avvelenato nel 2018 a Mosca, la prima cosa
che ha iniziato a deteriorarsi drammaticamente è stata la mia vista. Due
ore dopo essermi sentito male non riuscivo a vedere nulla, tre ore dopo
ho perso conoscenza».
Secondo il WSJ, le stesse vittime del presunto veleno avrebbero
indicato come responsabili «i falchi di Mosca contrari alla trattativa».
La Stampa ha verificato indipendentemente questo punto. “Hardliners”,
nel linguaggio degli osservatori anglosassoni del Cremlino, sta di
solito per i servizi segreti di Mosca, o almeno una parte dei servizi
segreti, quelli più ostili a qualunque ipotesi di pace. Se fosse vero si
delineerebbe uno scontro fratricida a Mosca, tra pezzi di siloviki –
gli uomini degli apparati, militari e intelligence – e oligarchi, o
almeno il gruppo di oligarchi attorno a Abramovich. Il capo negoziatore
ucraino, Mikhailo Podolyak, parla invece di «speculazioni», a proposito
di questo identikit dei responsabili, aggiungendo che tutti i
negoziatori ucraini «sono al lavoro come al solito». Un tentativo di
tenere aperta una porta. La vicenda del resto è opaca: ricorda Andrew
Roth del Guardian che tre giorni dopo il presunto avvelenamento di
Abramovich, un membro della squadra di negoziatori ucraina era stato
ucciso a colpi di arma da fuoco. Le cronache dissero che era stato
giustiziato come traditore, poi fu annunciato che era un agente
dell’intelligence ucciso in servizio.
Svolta nel giallo della scomparsa a
Borno di Carol Maltesi, 25 anni, conosciuta come Charlotte Angie: la
ragazza è stata uccisa, e il suo corpo è stato fatto a pezzi e buttato
in un dirupo, in alcuni sacchi neri. Fermato un vicino di casa di 43
anni
BORNO (Brescia) — Svolta nel giallo di Borno. Un uomo di 43 anni è stato fermato e ha confessato di aver ucciso Carol Maltesi, 25 anni, nota anche con il nome di Charlotte Angie, il cui corpo era stato ritrovato domenica scorsa, 20 marzo,
in una scarpata a bordo di una strada interna della Valcamonica, nella
piccola frazione di Paline di Borno, in provincia di Brescia, al confine
con quella di Bergamo: tenuto in un congelatore, sezionato in almeno
una quindicina di pezzi, chiuso in quattro sacchi neri e abbandonato tra
rovi e rifiuti. L’uomo è accusato di omicidio volontario aggravato, distruzione e occultamento di cadavere.
L’impulso alle indagini è stato dato da una segnalazione (pervenuta al sito locale bsnews.it
) attorno alla quale gli inquirenti hanno concentrato le verifiche.
In base alla corporatura esile (un metro e sessanta di altezza per circa cinquanta chili) delle vittima ma anche ad almeno sette degli undici tatuaggi riscontrati dal medico legale — e divulgati dagli inquirenti — il corpo risultava compatibile con i disegni sulla pelle di Carol Maltesi, conosciuta come Charlotte Angie, una casa nel milanese, metà italiana e metà olandese, scomparsa da giorni.
L’immagine dei tatuaggi di Charlotte Angie che coincidevano con quelli diffusi dagli inquirenti (fonte BSNews)
di Lorenzo Cremonesi, Andrea Nicastro, Marta Serafini, Giusi Fasano
Le notizie di martedì 29 marzo sulla
guerra minuto per minuto: ripartono i negoziati in Turchia, il giallo
dell’avvelenamento di Roman Abramovich. Biden non fa marcia indietro
per le parole su Putin: «Esprimevo sdegno, è un dittatore»
• Siamo arrivati al trentaquattresimo giorno di guerra e la situazione resta volatile, sia sul terreno sia nelle trattative. •
Riprendono oggi i colloqui tra Mosca e Kiev a Istanbul. La Russia — ha
svelato ieri il Financial Times — potrebbe non chiedere più che
l’Ucraina venga «denazificata» e sarebbe pronta a lasciare che Kiev
aderisca all’Ue a patto che rimanga militarmente non allineata. • Roman Abramovich e i negoziatori ucraini avrebbero sofferto sintomi di sospetto avvelenamento dopo un incontro a Kiev all’inizio del mese. Ma il capo negoziatore ucraino Mikhailo Podolyak smentisce le accuse di avvelenamento dei negoziatori ucraini da parte russa e parla di «speculazione» •
Muro contro muro sul rublo. Il G7 ritiene che la richiesta di Mosca di
pretendere il pagamento del gas utilizzando la divisa russa non sia
«accettabile».
***
Ore 9.05 – Iniziati colloqui tra i negoziatori a Istanbul Le delegazioni di Russia e Ucraina hanno iniziato i colloqui a
Istanbul, con la partecipazione del presidente turco Tayyip Recep
Erdogan. Lo riferisce Interfax. Il canale televisivo Russia Today ha
trasmesso l’inizio della riunione. Erdogan si è rivolto ai negoziatori
con un breve discorso prima dei colloqui.
Ore 8.57 – Kiev: forse russe respinte su diversi fronti Le forze ucraine stanno respingendo i militari russi su diversi
fronti e in alcune zone «contrattaccano con successo». Lo ha riferito lo
Stato maggiore di Kiev, dando l’aggiornamento della situazione sul
terreno. Le truppe di Mosca continuano a lanciare attacchi missilistici e
sganciare bombe, «cercando di distruggere completamente le
infrastrutture e le aree residenziali delle città ucraine». Le forze
ucraine hanno fatto sapere di aver «respinto sette attacchi nelle
direzioni di Donetsk e Luhansk».
Ore 8.49 – Kiev: «144 bambini uccisi, oltre 220 feriti» Il numero di bambini uccisi nel conflitto in Ucraina sale a 144. Lo
ha reso noto l’ufficio del procuratore generale dell’Ucraina,
nell’aggiornamento di oggi sul suo sito web. Si aggrava anche il
bilancio dei bambini rimasti feriti, che sono adesso più di 220. Gli
attacchi avrebbero danneggiato 773 istituzioni educative, di cui 75
sarebbero completamente distrutte.
Ore 8.47- Erdogan: «Putin e Zelensky amici preziosi»
Il presidente turco Erdogan è fiducioso sull’esito dei colloqui:
è convinto che siamo giunti ad una fase in cui porteranno a risultati
concreti. E la Turchia è pronta a ospitare colloqui di pace tra il
presidente russo Vladimir Putin e il presidente ucraino Volodymyr
Zelensky che, ha precisato Erdogan, sono «amici preziosi».
Ore 8.45 – Kiev: morti 17.200 militari russi Ammonterebbero a 17200 le perdite fra le fila russe dal giorno
dell’attacco di Mosca all’Ucraina, lo scorso 24 febbraio. Lo rende noto
il bollettino quotidiano dello Stato Maggiore delle Forze Armate ucraine,
appena diffuso su Facebook, che riporta cifre che non è possibile
verificare in modo indipendente. Secondo il resoconto dei militari
ucraini, a oggi le perdite russe sarebbero di circa 17200 uomini, 597
carri armati, 1710 mezzi corazzati, 303 sistemi d’artiglieria, 96
lanciarazzi multipli, 54 sistemi di difesa antiaerea. Stando al
bollettino, che specifica che i dati sono in aggiornamento a causa degli
intensi combattimenti, le forze russe avrebbero perso anche 127 aerei,
129 elicotteri, 1178 autoveicoli, 7 unità navali, 73 cisterne di
carburante e 71 droni.
Ore 8.38 – Soldati russi su zona tossica di Chernobyul senza protezione «I soldati russi stanno andando in giro su veicoli blindati nella
`foresta rossa´, altamente tossica, che circonda il sito della centrale
nucleare di Chernobyl senza protezione dalle radiazioni, sollevando
nuvole di polvere radioattiva». Lo hanno riferito i lavoratori del sito,
citati dall’Independent,
definendo l’atto «suicida» per i soldati. Il mese scorso, l’ispettorato
nucleare statale dell’Ucraina aveva confermato un aumento dei livelli
di radiazioni a Chernobyl a causa di veicoli militari pesanti che
passavano sul suolo contaminato.
Ore 8.16 – Attacco missilistico a Nikopol, nell’est del Paese Questa mattina le truppe russe hanno lanciato un attacco
missilistico vicino a Nikopol, nell’Est dell’Ucraina. Lo ha annunciato
su Facebook il capo dell’amministrazione statale e regionale di Nikopol
Yevhen Yevtushenko, citato da Ukrinform. «Per il momento non ci sono
notizie di vittime e non ci sono informazioni sulla reale minaccia per
la città», ha aggiunto Yevtushenko.
Ore 8.15 – «Non useremo armi nucleari, non attaccheremo Paesi Nato» Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dato una lunga
intervista all’emittente pubblica Usa Pbs. Ha detto diverse cose
importanti. In sintesi:
• Le sanzioni occidentali sono paragonabili alla «guerra totale»
contro la Russia: «Queste condizioni sono , sfortunatamente, abbastanza
ostili. E quei Paesi sono nemici — o quasi nemici, per noi. Siamo
entrati nella fasi di una guerra totale. E noi, in Russia, ci sentiamo
nel mezzo di una guerra, perché i Paesi occidentali — Stati Uniti,
Canada, Australia — stanno combattendo contro di noi una guerra
commerciale, economica, sequestrando le nostre proprietà e i nostri
fondi, bloccando le nostre relazioni finanziarie. E dobbiamo adattarci a
una nuova realtà. Dovete campire la Russia. Dovete capire la Russia»; •
L’Occidente ha «spinto la Russia in un angolo» con l’espansione della
Nato. «Per un paio di decenni. abbiamo detto all’Occidente che eravamo
preoccupati dall’espansione a Est della Nato. Per favore, abbiamo detto,
fate attenzione. Non ci spingete all’angolo. Poi abbiamo detto:
ascoltate, non siamo affatto felici di questo colpo di Stato in Ucraina»
(la rivolta di piazza Maidan). «Nessuna reazione. Poi abbiamo detto:
sentite, non vogliamo che l’Ucraina entri nella Nato. Nessuna reazione»; • «Nessuno in Russia sta prendendo in considerazione l’idea di usare, e nemmeno di pensare di usare, armi nucleari»; •
«Non abbiamo dubbi che tutti gli obiettivi dell’operazione speciale
militare in Ucraina saranno completati. Non abbiamo dubbi».
Ore 8.00 – Cosa aspettarsi dai colloqui di oggi? (Gianluca Mercuri) Oggi
si svolge a Istanbul il quarto round di incontri. Da una parte, resta
l’impressione di una Russia che voglia prendere tempo per riorganizzarsi
dopo un mese di guerra molto più duro del previsto. Dall’altra, il
Financial Times ha rivelato ieri sera che qualcosa di importante si
muove. In sintesi:
•La Russia non chiede più che l’Ucraina sia «denazificata» è
smilitarizzata, né la protezione legale per la lingua russa: erano tre
delle sue condizioni iniziali ma non sono presenti nella bozza di
cessate il fuoco in discussione. •Mosca accetterebbe l’ingresso di Kiev
nell’Unione europea in cambio del definitivo abbandono del progetto di
entrare nella Nato.
•L’Ucraina otterrebbe in cambio «garanzie di sicurezza» dalla stessa
Russia e da una serie di Paesi, soprattutto occidentali: Stati Uniti,
Gran Bretagna, Russia, Canada, Francia, Germania, Cina, Italia, Polonia,
Israele e Turchia. Fonti ucraine definiscono le garanzie «vicine a
quelle dell’articolo 5 della Nato». E questa sarebbe una vera svolta per
tutti. Vorrebbe dire che in caso di nuovo attacco russo scatterebbe la
difesa dell’Ucraina da parte dell’Occidente.
•Se il cessate il fuoco tenesse, ci sarebbe un incontro tra i due
ministri degli Esteri e poi quello tra Putin e Zelensky, che
affronterebbero finalmente i nodi territoriali e quello delle garanzie
per i russofoni.
•Crimea (annessa dai russi nel 2014) e repubbliche separatiste di
Lugansk e Donetsk, nel Donbass: gli ucraini non possono rinunciarci
formalmente, i russi non possono rinunciarci materialmente dopo averli
conquistati. Ma Zelensky nei giorni scorsi ha lanciato segnali ai
nemici: «Tornate al punto di partenza e poi cercheremo a risolvere il
problema del Donbass». Il punto di partenza sono esattamente Crimea e
repubbliche separatiste. Il senso sembra: rinuncia ai territori già
persi da parte degli ucraini, rinuncia al progetto di annientare
l’Ucraina da parte dei russi, divisione del Paese, il grosso
dell’Ucraina nella sfera occidentale cercando da una parte di
tranquillizzare i russi (ci fermiamo qui), dall’altra di avvertirli che
altre aggressioni non saranno tollerate (fermatevi qui anche voi). Qui l’articolo di Paolo Valentino sui negoziati.
Poteri pubblici e aziende private
per anni hanno alimentato l’interscambio con la Russia senza rendersi
conto della vulnerabilità economica dell’Europa e dei rischi
Come
ha fatto l’Europa a diventare così dipendente dalla Russia per
l’energia e non soltanto? Come mai a coloro che, per conto di pubblici
poteri e di imprese private, hanno alimentato per anni e anni
l’interscambio con la Russia, non è mai venuto il sospetto di avere infilato la testa nella bocca del leone?
C’è un problema che riguarda l’intera Europa e ci sono le specificità nazionali. Con riguardo alle quali possiamo dire che il caso italiano fa storia a sé. Come in altri momenti del passato, l’Italia si rivela l’anello debole della catena occidentale.
Consideriamo dapprima il problema
generale. Perché la dipendenza europea dalla Russia? Si possono citare
varie cause. Come la geografia: avere buoni rapporti con un vicino così
ingombrante era rassicurante per l’Europa occidentale. Cosa c’era di
meglio dei rapporti economici per rinforzare l’amicizia fra vicini? Poi c’era la convenienza: gli affari erano davvero buoni. Per il prezzo di petrolio e gas. E perché la Russia è un grande e appetibile mercato per le merci occidentali.
Gli affari sono affari, si dice, e pecunia non olet, i soldi non hanno odore. Ma non tutti gli affari sono uguali.
Che
le cose potessero prendere una brutta piega era chiaro a diversi
osservatori da molto tempo. Per lo meno dall’attacco alla Georgia del
2008. E ancor più platealmente dal momento della conquista della Crimea
(2014) e l’avvio della secessione nel Donbass. Per la prima volta dopo
la Seconda guerra mondiale una grande potenza violava la regola tacita
secondo cui la pace in Europa richiede che i cambiamenti di confine
siano sempre decisi consensualmente. Perché nessuno si preoccupò allora
di fare i conti con la vulnerabilità economica dell’Europa?
È troppo facile dire che era solo
una questione di interessi. Naturalmente, gli interessi contano, eccome.
Però, vale la regola generale secondo cui gli interessi sono
potentemente condizionati dal clima politico-culturale prevalente. Quel
clima spinge gli interessi in una direzione o nell’altra, incentiva o
disincentiva certi investimenti, favorisce l’ingresso in certi mercati,
rende più difficoltoso l’ingresso in altri.
Si consideri l’illusione di cui
spesso sono vittime le società aperte quando trattano con le autocrazie.
È un’idea antica, presente in Occidente fin da quando Montesquieu nel
Settecento scrisse che il commercio ingentilisce i costumi, quella
secondo cui l’interscambio economico, e l’interdipendenza che ne
risulta, può favorire la pace. Un’idea corretta. Ma che diventa
sbagliata se viene estremizzata, se ci porta a pensare che sia
sufficiente un’elevata interdipendenza economica perché i problemi
politici e geopolitici scompaiano.
L’errore consiste nel credere che i rapporti che le società aperte e
democratiche intrattengono con una grande potenza autocratica abbiano
gli stessi effetti di quelli che tali società intrattengono fra loro.
Da quella concezione errata
discendono gli sbagli commessi dall’Occidente. Finita la Guerra fredda e
ancora nella prima fase dell’era Putin, si pensò che la Russia non
sarebbe mai più stata un pericolo. Se anche non fosse diventata una
democrazia di stampo occidentale, la sua apertura al mondo ne avrebbe
comunque garantito una definitiva normalizzazione. Era l’epoca in cui la
Russia veniva inserita a pieno titolo nelle istituzioni che alimentano
quei processi di crescita
dell’interdipendenza economica e finanziaria impropriamente chiamati
«globalizzazione». Era l’epoca di Pratica di Mare (2002) e dell’accordo
di collaborazione allora siglato fra la Nato e la Russia. La Russia era
diventata un alleato dell’Occidente. E fu proprio per questo che l’allargamento della Nato ad Est non venne allora considerato né dagli occidentali né da Putin una minaccia alla sicurezza russa.