Ora, è vero che Enrico Letta ripete sempre che il governo
Draghi è il «nostro governo», ma è vero pure che «siamo gli unici a
sostenerlo, perché tutti gli altri si differenziano», nota caustico il
segretario del Pd. Dunque, paura numero uno: «il fantasma del Monti
bis», come lo battezza un ex ministro dem, ovvero restare infilzati alle
urne dieci anni dopo dalla stessa sindrome del 2013, intrappolati nelle
larghe intese (con Salvini stavolta), nel ruolo di partito
dell’establishment. Un partito sfidato dalla Meloni sul fronte sociale e
più scoperto a sinistra sulla guerra («perché purtroppo una parte del
nostro mondo è distante», fa notare preoccupato Gianni Cuperlo a Barbara
Pollastrini dopo la piazza di Milano).
Ecco la paura numero due: la minaccia dei «nemici a sinistra» (come
si diceva ai tempi del Pci), oggi rappresentata dai grillini pacifisti e
antimilitaristi, smarcati dall’ex banchiere Draghi e meno appiattiti
sulla parola d’ordine «responsabilità». La competition con il Movimento
sta diventando scivolosa, anche se uno degli strateghi di Letta, sempre
defilato ma influente, sostiene che «il tentativo di Conte di
distinguersi è comprensibile, magari bloccano l’emorragia di consensi e
per noi è pure meglio in vista delle politiche». Dove si andrà per forza
alleati, perché con la legge attuale un voto in più nei collegi serve.
Prove di partito “rosso”? Peccato che con il loro
distanziarsi i grillini assumano un profilo non solo di ritorno alle
origini, ma molto di sinistra mettendo i piedi nel piatto del «partito
dei lavoratori»: non a caso Giuseppe Conte ha incassato una standing
ovation al congresso di Bersani e Speranza. E non a caso una figura a
lui molto vicina resta Goffredo Bettini, ideologo della sinistra dem, al
lavoro in questi giorni su una sorta di manifesto politico: che non si
può escludere possa divenire la base teorica di una nuova formazione
“rossa”. Bettini infatti è uso dire che va risolto il nodo di un partito
dove convivono il «diavolo e l’acqua santa», gli ex renziani e la
sinistra: nodo che andrà chiarito a suo tempo in un congresso o in altro
modo.
Professor Margelletti, che pensa dei missili su Kiev? «Penso
che se qualcuno avesse ancora avuto dei dubbi questa è la palese
dimostrazione del totale disprezzo che Putin nutre nei confronti
del dialogo diplomatico. Inoltre bisogna anche considerare che questa
non è un’operazione figlia di una decisione emotiva dell’ultima ora. Si
tratta di un’operazione complessa, meditata con calma che prevede
l’utilizzo di una marea di forze speciali russe a Kiev oltre ai
mercenari della Wagner…».
Quindi era super-premeditata? «Ma certo, prima si
è individuato l’obiettivo, poi si è messo a punto un complicato piano
di sincronizzazione. Perché il missile doveva esplodere a Kiev mentre
c’era la conferenza stampa di Guterres e Zelensky. Con precisione e
tempismo. Un’operazione politica, non militare, studiata a tavolino in
tutti i dettagli e decisa ai massimi livelli dello Stato».
Missili su Kiev durante incontro Zelensky-Guterres: la colonna di fumo nero dopo le esplosioni
Che cosa deve dedurre e fare l’Occidente, ora? «Capire che
sperare nel dialogo è utopia allo stato puro. E che Putin – io lo
ripeto da molte settimane – alza sempre più la voce e la brutalità delle
azioni per estendere il conflitto a suo piacimento».
Giusto il giorno prima, a proposito i minacce aveva detto che i russi erano «Pronti a usare armi mai viste»? «Che,
considerato il tipo di armi finora usate dai russi, mi preoccuperei di
più di un’altra emergenza, quella sì, sicura: si tratta dell’Africa che
resterà senza cibo con migliaia di persone che saranno costrette a
emigrare in Europa per sfamarsi».
Arriverà una nuova carestia? «Purtroppo è un dato
di fatto. I territori sinora conquistati dai russi corrispondono al 30
per cento dei terreni ucraini coltivabili. Terreni che coltivabili non
saranno più. Questo raccolto sarà perso per anni. E vista la totale
dipendenza di una serie di paesi del nord e del centro dell’Africa, per
loro si profila una nuova, drammatica carestia. E per sfamarsi questo
popolo dovrà gioco forza emigrare. E spostarsi massicciamente in Europa,
con tutto quello che ne conseguirà: l’impatto sarà devastante. Non
dimentichiamo infatti che le primavere arabe esplosero per motivi legate
alla fame».
Quando Enrico Letta assunse la guida del Pd, poco più di un anno fa,
volle subito definire una questione tutt’altro che secondaria: di fronte
ai molti nostalgici dell’appena caduto governo giallorosso, spiegò che
«il governo Draghi è il nostro governo». Letta sapeva, naturalmente, che
l’esperimento avviato a Palazzo Chigi avrebbe portato con sé numerose
insidie. E infatti oggi, probabilmente, completerebbe così quel
chiarimento ormai datato: «E’ il nostro governo, a patto che lo sia
anche per gli altri». Le cose non stanno andando come aveva sperato. E
se gli smarcamenti della Lega erano messi in conto, la situazione si è
complicata quando anche i Cinquestelle hanno cominciato a piantare
bandierine e rivendicare “identità” perfino su questioni delicatissime
come la guerra in Ucraina. La sensazione che si è lentamente diffusa in
Largo del Nazareno è un po’ quella di chi sente di esser rimasto da solo
a fare la guardia al tradizionale bidone. Sensazione sgradevole. Ed
evocativa di una eclissi già vissuta: l’esperienza del governo Monti,
che ebbe dinamiche non dissimili e poi risultati elettorali
deludentissimi per il Pd.
Ma che fare? Al di là dei ripetuti appelli al senso di
responsabilità e alla coerenza (irricevibili a nemmeno due mesi da
elezioni parziali ma già trasformate nell’ennesimo Giudizio di Dio…)
non resterebbero che due vie: cominciare a distinguersi dal governo
precisamente come gli altri o addirittura far saltare il banco. Entrambe
le ipotesi appaiono poco consone a un partito che sembra aver fatto
della stabilità l’ago della propria bussola: ma sono senz’altro
sufficienti a riaprire tra i democratici un dibattito per ora confuso e
potenzialmente interminabile. Il cuore della questione, in verità,
dovrebbe essere il profilo da dare a due rapporti difficili da definire:
quello col governo Draghi e quello col Movimento di Conte, alleato
sfuggente ma considerato strategico. Le due questioni si tengono, visto
come le ultime posizioni assunte dal leader Cinquestelle sulla guerra
stanno facendo salire la tensione intorno a Palazzo Chigi. Con l’ex
premier giallorosso servirebbe, come si dice in casi così, un
chiarimento di fondo: sull’oggi (come stare nell’esecutivo) e sul domani
(come presentarsi alle elezioni). Ma Conte, sballottato qua e là dalle
correnti a Cinquestelle, non pare in grado di dare risposte su nessuno
dei due fronti.
Ci sono molte buone ragioni per seguire con interesse la
conferenza programmatica di Fratelli d’Italia che si apre questo
pomeriggio a Milano, la prima delle quali è la più ovvia: secondo i
sondaggi, Giorgia Meloni in questo momento guida il partito che
raccoglie più consensi tra gli italiani e, se la legge elettorale
dovesse restare questa (oltre a molti altri se…), nel 2023 potrebbe
varcare il portone di palazzo Chigi come prima premier donna d’Italia.
Oltre che la prima a provenire dalla tradizione politica della destra
missina.
Questa tre giorni milanese, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbe
servire a dimostrare che il piccolo partito nato dall’esplosione del
Pdl, che sembrava avere come missione quella di rinnegare la svolta
finiana di Fiuggi e il cammino verso una destra “normale”, in questi
anni è cresciuto, ha subito un’evoluzione che lo porta oggi ad aspirare,
sia come qualità della sua classe dirigente che come programmi, a governare in prima persona il Paese.
La sfida è portata non solo, come è naturale, verso l’esterno, al
centrosinistra, ma anche verso l’interno, nei confronti degli altri
leader del centrodestra, non a caso nemmeno invitati alla kermesse. Lo
dimostra Milano, la città scelta per questa sorta di congresso, simbolo
di quel Nord industriale e produttivo che ha sempre guardato con
sospetto i nipotini di Almirante, con il loro carico di statalismo e
centralismo romani. Più carta di Verona che Einaudi. Meloni e i suoi
sembrano voler dire: siamo maturati, metteteci alla prova. Bisogna
dunque guardare con attenzione a questo appuntamento, per capire se
l’Italia rischia il prossimo anno una deriva orbaniana o lepenista, che
ci porterebbe verso un modello di democrazia “illiberale” alla
ungherese, un vero regime change, oppure se l’eventuale vittoria della
destra italiana sia da considerarsi come una fisiologica alternanza di
governo.
Che in questi mesi sia accaduto qualcosa è innegabile. Meloni è presidente di un partito europeo,
l’Ecr (European Conservatives and Reformists Group), dove prima della
Brexit sedevano anche i Tories britannici. Non è un gruppo di paria,
come quello dove stanno i leghisti insieme a personaggi poco
raccomandabili, anche se la presenza dei sovranisti polacchi, degli
spagnoli di Vox e dei fuoriusciti tedeschi dall’AfD lo caratterizza
comunque sul versante della destra sovranista anti-federalista. Il punto
è che, a differenza di Orbán e della Lega, i meloniani
hanno saputo prendere le distanze in maniera chiara e forte da Putin. E
hanno sostenuto senza tentennamenti la linea atlantica di
contrapposizione all’invasione russa, fino ad arrivare in Italia al
voto, insieme alla maggioranza, sull’invio delle armi alla resistenza
ucraina. Un gesto apprezzato dal premier Draghi, che ha incontrato in
diverse occasioni Meloni faccia a faccia, riconoscendole il ruolo di
opposizione repubblicana.
Sostegno alla Nato, difesa dei valori dell’occidente, critica forte a Putin, rapporti sempre più distanti con Orbán (che infatti a Roma ha incontrato soltanto Salvini)
sono le carte che Meloni può esibire per acquistare credibilità in
vista della scalata al cielo. La leader di Fratelli d’Italia ha saputo
inoltre creare un collegamento con gli ambienti repubblicani Usa, dove
ha ricevuto un’accoglienza calorosa in occasione della recente
partecipazione alla convention Cpac in Florida, con una tirata molto
applaudita contro “l’ideologia woke” e la “cancel culture”.
ROMA – Nella delicata partita politica che si è aperta negli ultimi giorni all’interno della maggioranza di governo sulla crisi in Ucraina, si fa spazio — per ora ufficiosamente — un nuovo fronte, capace di creare non poche tensioni: il rapporto con le aziende partecipate. Un indizio è contenuto nella relazione che il Copasir ha inviato mercoledì al Parlamento. Alcuni gruppi, scrive, “avrebbero avuto atteggiamenti incoerenti, contradditori e ambigui con le società russe, non recependo tra l’altro le indicazioni formulate dall’esecutivo”. A finire sotto i riflettori politici è stata soprattutto Enel. E, per ragioni assai diverse, anche Eni. In comune, i manager delle due società, Francesco Starace e Claudio De Scalzi, hanno il fatto di aver cercato subito di prodigarsi accanto a Mario Draghi per aprire nuovi canali per reperire fonti energetiche. Ma il contesto in cui si sono sviluppati questi sforzi è completamente difforme. E ha fatto la differenza. Con Enel si può parlare di freddezza con il governo. Rapporti difficili che hanno un antefatto, alla fine di gennaio. Il gruppo — seppur non con il suo amministratore delegato — partecipò all’incontro tra alcune delle principali aziende italiane e Vladimir Putin, organizzato dal presidente della Camera di commercio italo-russa, Vincenzo Trani, vicinissimo al presidente russo. Enel sedette davanti aPutin non dando ascolto al governo, che aveva esplicitamente fatto sapere di non gradire quella partecipazione. “Avevamo preso un impegno e non c’era niente di compromettente”, ha spiegato lo stesso Starace davanti al Copasir il 16 marzo scorso. E però, evidentemente, la ferita è rimasta aperta, visto che quanto accaduto in seguito ha ulteriormente complicato i rapporti.
Ma non basta. Ai piani alti dell’esecutivo si imputa a Enel un certo
ritardo nel comprendere la fase aperta dall’invasione decisa da Putin,
accompagnato da una poco comprensibile lentezza nel dismettere le
posizioni in Russia. Il colosso energetico ha una società a Mosca,
partecipata dal Fondo Sovrano. Di fatto, sembra quasi che si imputi a
Enel di non essersi messa fino in fondo a disposizione delle politiche
pubbliche nella prima fase emergenziale.
Altro discorso vale invece per Eni. Non si tratta del rapporto con
Mosca, in questo caso, perché Claudio Descalzi ha anzi contribuito in
modo decisivo alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, con
diversi viaggi: Congo, Angola, Algeria tra gli altri. Un atteggiamento
assai apprezzato da Mario Draghi. Eppure, anche con il colosso
energetico qualcosa di recente non è andato liscio. Descalzi guida una
società quotata, ha a disposizione gas estratto direttamente
dall’azienda in varie aree del pianeta e rivendica alcune scelte di
politica industriale. Non avrebbe gradito la tassa sugli extraprofitti
voluta dall’esecutivo, che colpirebbe un valore fondamentale degli
azionisti capace di far volare sul mercato il titolo. E questo, a fronte
di una disponibilità a calmierare i prezzi del gas prodotto. Il
governo, invece, rivendica quella mossa, dovendo badare al quadro
d’insieme.
MILANO – Di fronte alla corsa dell’inflazione le imprese non hanno la possibilità di aumentare gli stipendi, quinidi la strada per dare respiro ai lavoratori non può essere quella della detassazionedegli aumenti. Lo ha detto il presidente di Confindustria Carlo Bonomi intervenendo all’assemblea di Unindustria, tornando sullo scontro a distanza con il ministro Orlando. “Famiglie e Imprese stanno soffrendo in maniera forte, dobbiamo dare risposte e mettere più soldi nelle tasche degli italiani ma la strada non è la detassazione degli aumenti salariali. Le imprese non hanno spazio per gli aumenti salariali, con l’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime”, ha detto Bonomi. “Chi dice ti faccio pagare meno l’aumento salariale è gente che non ha mai frequentato un giorno di fabbrica”.
Istat: “Nel 2022 rischio perdita di potere di acquisto di 5 punti”
Intanto secondo l’Istat nel 2022 le retribuzioni contrattuali nella media annua dovrebbero crescere dello 0,8%. Un avanzamento modesto a fronte di una previsione di aumenti dei prezzi che nell’anno in corso dovrebbe toccare il 5,8% e che già ora osservando la variazione acquisita, cioè il dato che si reelizzerebbe in caso di variazioni nulle fino alla fine dell’anno, si attesta al 5,2%. “Nel primo trimestre del 2022 – scrive l’Istat – la crescita delle retribuzioni contrattuali rimane contenuta.
Nei lunghi decenni della Guerra Fredda tra i generali del Pentagono e quelli dell’Armata Rossa una delle parole comuni più usate era ‘Mad’, acronimo per Mutual assured destruction, dottrina militare alla base della cosiddetta deterrenza. Un concetto semplice (l’uso su larga scala di armi nucleari causerebbe il completo annientamento sia dell’attaccante che del difensore) che ha evitato la Terza Guerra Mondiale anche nei momenti più critici dello scontro tra le due superpotenze di allora, Stati Uniti ed Unione Sovietica. Con il crollo dell’impero sovietico il concetto di deterrenza nucleare è stato pian piano sostituito da quella che è stata chiamata la “dottrina delle norme” o delle “armi impensabili”, che attraverso trattati, divieti e scelte ha impedito anche l’uso delle bombe ‘sporche’ (esplosivo convenzionale confezionato insieme a materiale radioattivo). Se la prima era basata sulla paura (la distruzione totale) la seconda era più ‘razionale’.
Due mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina e con le recenti minacce di Vladimir Putin (“siamo pronti ad usare armi mai viste”),
la deterrenza nucleare sembra avviata a diventare velocemente un
ricordo del passato, ma anche quella delle ‘armi impensabili’ potrebbe
avere fatto il suo tempo. Per gli analisti americani Putin ha trovato
utile minacciare l’Occidente e la Nato con il possibile uso di armi
nucleari proprio perché, attraverso le minacce, la guerra atomica cessa
di essere ‘impensabile’.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e soprattutto dopo l’11
Settembre 2001, il Pentagono (con la guerra in Afghanistan e l’invasione
in Iraq) si è concentrato su conflitti convenzionali e insurrezioni
locali, mentre la Russia, fin dai primi anni della presidenza Putin, ha
costruito un nuovo arsenale nucleare. Rispetto alla Guerra Fredda oggi
le capacità militari di Stati Uniti e Russia si sono invertite, con
Washington che ha una notevole superiorità nelle armi convenzionali e
Mosca che ha più armi atomiche.
Due le ordinanze firmate da
Speranza. Dal 1 maggio stop alle mascherine al chiuso, ma fino al 15
giugno saranno ancora obbligatorie le Ffp2 sui treni e al cinema. Per
chi arriva dall’estero non sarà più necessario compilare il Plf, il
«Passenger locator form»
Per viaggiare, salire sui mezzi pubblici e andare al cinema o a teatro servirà ancora la mascherina Ffp2, in tutti gli altri luoghi sarà soltanto «raccomandata».
Anche per andare in ufficio non ci sarà più l’obbligo di proteggere
naso e bocca, aziende e lavoratori dovranno però concordare nuovi
protocolli. Dal 1° maggio l’Italia torna libera dalle restrizioni per combattere il Covid-19. Non bisognerà più esibire il green pass (ad
eccezione delle strutture sanitarie) e non sarà più necessario il
modulo Plf (il «Passenger locator form») per chi arriva nel nostro Paese
dall’estero, come sollecitato dal ministro del Turismo, Massimo
Garavaglia. L’alto numero di contagi e di vittime convince il governo a
conservare ancora «un elemento di precauzione e cautela», che Roberto Speranza ritiene «necessario».
Al punto da raccomandare ai cittadini di usare la mascherina «in tutte
le occasioni in cui ci possono essere rischi di contagio». Ma le due ordinanze firmate dallo stesso Speranza confermano le riaperture in «coerenza con la responsabilità dimostrata dagli italiani».
Proroga al 15 giugno
Il provvedimento di Speranza proroga fino al 15 giugno l’obbligo di mascherina in alcuni luoghi chiusi ritenuti maggiormente a rischio.
La firma è arrivata dopo l’approvazione da parte della commissione
Affari sociali della Camera dell’emendamento al decreto Covid del 24
marzo che prolunga ancora per qualche settimana l’uso dei dispositivi di
protezione.
La scuola
Resta
fuori dall’emendamento del governo e quindi dall’ordinanza, la scuola.
Il decreto in vigore all’esame del Parlamento prevede infatti che i
ragazzi utilizzino la mascherina fino alla fine dell’anno scolastico e
questa norma non è stata modificata.
Il lavoro
Per
il settore privato sono in vigore i protocolli firmati con i sindacati e
con Confindustria. Per il pubblico il ministro Renato Brunetta sta
preparando una circolare con cui chiederà alle amministrazioni pubbliche di
«usare il buon senso» e applicare le regole di prevenzione sanitaria
sulla base del rischio di contagio e delle condizioni ambientali. Vale a
dire che dove si possono tenere le finestre aperte e rispettare le
distanze la mascherina potrà non essere obbligatoria, mentre potrebbe
essere richiesta per gli impiegati a contatto con il pubblico. Dunque si
raccomanderà «la necessità di proteggere naso e bocca», ma non ci sarà
obbligo a meno che non sia stabilito da un accordo aziendale.
di Lorenzo Cremonesi, Giusi Fasano, Marta Serafini, Redazione Online
Le notizie di venerdì 29 aprile
sulla guerra in Ucraina, in diretta: ucciso un ex marine Usa. Zelensky
ricorda le prime ore della guerra: i russi «vicinissimi» a uccidere il
presidente e la famiglia
• La guerra in Ucraina è arrivata al 65esimo giorno • Ieri durante la visita del segretario generale delle Nazioni
Unite, Antonio Guterres, c’è stato un attacco missilistico su Kiev «per umiliare l’Onu», ha detto Zelensky, promettendo «una risposta forte». Almeno dieci i feriti. • Il Congresso Usa ha approvato una misura che consente al presidente di accelerare la fornitura di armi all’Ucraina. Joe Biden ha dichiarato che per supportare lo sforzo militare ucraino saranno necessari altri 33 miliardi di dollari. •
Il segretario generale Jens Stoltenberg ha annunciato che «se Svezia e
Finlandia decidono di entrare nella Nato saranno accolte a braccia
aperte» • Il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi andrà
negli Usa da Biden il 10 maggio. In via di organizzazione anche il
viaggio di Draghi a Kiev. • Dal primo maggio a Kherson si farà la spesa in rubli.
Ore 08:30 – Sale a 219 il numero dei bambini rimasti uccisi
È salito a 219 il numero dei bambini rimasti uccisi in Ucraina dall’inizio dell’offensiva russa. Lo riferisce l’ufficio del Procuratore generale, citato da Ukrinform.
Secondo i dati ufficiali, più di 398 bambini sono — poi — rimasti
feriti. Le zone del Paese dove risulta essere coinvolto il maggior
numero di minorenni sono la regione di Donetsk, la provincia di Kiev,
Kharkiv, Chernihiv, Kherson, Mykolaiv .
Ore 08:22 – Kiev: ancora disponibili a colloqui con Russia a Mariupol
In merito alla possibilità di svolgere colloqui tra Kiev e Mosca a Mariupol, «la possibilità resta». Così Mykhailo Podoliak, consigliere del presidente ucraino Zelensky, in’un intervista a Radio Svoboda.
«Sarebbe importante per noi liberare il nostro popolo — spiega —: non
solo i civili ma anche i militari, che oggi sono simbolo
dell’invincibilità dell’Ucraina».
Ore 08:07 – Gb: Donbass resta obiettivo strategico Russia
«La battaglia del
Donbass resta il principale obiettivo strategico della Russia per
raggiungere lo scopo dichiarato di assicurarsi il controllo degli oblast
di Donetsk e Lugansk». Così l’intelligence britannica
nel suo quotidiano aggiornamento della guerra in Ucraina. «A causa
della forte resistenza ucraina, le conquiste territoriali russe sono
state limitate e raggiunte a un costo elevato per le forze russe».
Ore 08:06 – Borrell, scioccato, da Mosca sfacciato disprezzo
«Scioccato e sconvolto
per l’attacco missilistico russo su Kiev e altre città ucraine. La
Russia dimostra ancora il suo sfacciato disprezzo per il diritto
internazionale bombardando una città, mentre il segretario generale
delle Nazioni Uniti Guterres è presente, nello stesso momento del primo
ministro bulgaro Kiril Petkov». Così su Twitter stanotte l’Alto
rappresentante per la politica estera Ue Josep Borrell.
Ore 08:06 – Filorussi, colpito deposito carburante a Donetsk
Un attacco ucraino a
Donetsk ha danneggiato un deposito di carburante, come riferito dal
sindaco della città, Alexei Kulemzin, precisando che il raid è avvenuto
nel distretto di Kirovskiy. «Quattro sottostazioni elettriche sono state
messe fuori uso, 50 case sono rimaste senza elettricità».
Ore 08:05 – Kiev: «Operazione per evacuare civili da Azovstal»
Ore 08:04 – Kiev, attacco missilistico su oblast Dnipropetrovsk nell’est
Le forze russe hanno attaccato l’oblast di Dnipropetrovsk, nell’est dell’Ucraina, con lanciamissili Grad. Lo riferisce il Kyiv Independent, citando il governatore di Dnipropetrovsk, Valentyn Reznichenko.
«Al mattino — ha scritto su Telegram —. Le forze russe hanno attaccato i
villaggi di Velyka Kostromka e Marianske, usando lanciamissili Grad».
Secondo il governatore sono stati danneggiati edifici usati come
magazzino, mentre non è ancora chiaro se ci siano delle vittime.
Ore 06:53 – Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha fallito, dice Guterres
Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres,
ha tenuto una conferenza stampa al termine della sua missione in
Ucraina, Russia e Turchia. Una missione estremamente complicata: dopo
averlo fatto attendere per ore, e averlo relegato al «tavolone dei
nemici», Putin ha voluto riservare a Guterres un ulteriore sfregio, spedendo missili da crociera russi sulla capitale ucraina appena
terminata la conferenza stampa congiunta con Zelensky. «L’attacco a
Kiev mi ha sconvolto», ha detto il segretario generale dell’Onu.
Zelensky ha aggiunto che l’obiettivo di quei missili era «umiliare le Nazioni Unite».
Nella conferenza stampa finale, Guterres ha criticato il massimo organismo di sicurezza della sua stessa organizzazione — il Consiglio di sicurezza.
«Cerchiamo di essere franchi», ha detto. «Il Consiglio di sicurezza non
ha fatto tutto ciò che era in suo potere per prevenire e per mettere
fine a questa guerra. E questo per me è fonte di grande delusione,
frustrazione e rabbia».
Il Consiglio di sicurezza, composto da 15 membri, ha il compito di
assicurare la pace globale. Ne fanno parte cinque membri permanenti: tra
loro, la Russia (che si è sempre, ovviamente, opposta a condannare una
guerra che ha avviato, e che non considera nemmeno «guerra») e la Cina
(che non ha mai condannato esplicitamente Mosca, limitandosi ad
auspicare il dialogo per riportare la pace — e a criticare invece,
definendole «illegali», le sanzioni occidentali contro la Russia).
l video diffuso dal reggimento Azov sul suo canale Youtube
CorriereTv
Donne, bambine e bambini e ma
anche neonati: un nuovo video che il reggimento Azov ha condiviso su
Youtube racconta la vita nei bunker delle acciaierie di Azovstal nelle
ore dell’assedio di Mariupol. Dieci minuti di girato,
dove si vedono i soldati scendere nei sotterranei con grandi buste e
distribuire quelli che potrebbero essere dei dolci. Secondo quanto
riporta «Ukrainska Pravda» il video è stato registrato il 21 aprile e
mostra le difficilissime condizioni di vita di queste persone che da
settimane vivono rinchiuse nei bunker.