Archive for Aprile, 2022

Covid, Cina bloccata e il mondo trema: il rischio lockdown a Pechino mette i mercati in allarme

martedì, Aprile 26th, 2022

Filippo Caleri

La Cina torna a far paura al mondo. Non per la sua potenza economica ma per la possibilità non più remota che, il suo sistema produttivo, si blocchi nuovamente. Uno stop che potrebbe comportare uno sconvolgimento della catena mondiale di approvvigionamento produttivo non più sostenibile dai sistemi occidentali. L’allarme è suonato ieri. Dopo il blocco di Shangai, l’ipotesi del lockdown si è fatta concreta anche per la capitale cinese, Pechino.

La finanza, che anticipa sempre le tendenze economiche ha fiutato il pericolo, ha iniziato a vendere a mani basse attività finanziarie e materie prime. Così quella di ieri è stata una giornata fortemente negativa per il petrolio che è crollato ai prezzi minimi da circa due settimane, estendendo il calo degli scorsi sette giorni a causa della preoccupazione che le prolungate chiusure dovute al Covid a Shanghai (insieme agli aumenti dei tassi di interesse da parte della Fed negli Usa) possano danneggiare la crescita economica globale e la domanda di barili. Dopo i rincari spinti dalla crisi ucraina che hanno mandato i prezzi sopra i 120 dollari, ieri il Wti, l’oro nero quotato negli Usa, ha ceduto il 4,20% a 97,8 dollari al barile. Quello europeo, estratto nel mare del Nord, il Brent, ha lasciato il 4,07% a 102,32 dollari.

Una frenata ingenerata dal combinato disposto della chiusura di Shanghai, dove le autorità hanno alzato recinzioni all’esterno degli edifici residenziali, e dal possibile stop alla vita civile a Pechino, dove molti hanno iniziato a fare scorte di cibo, temendo il lockdown dopo la notizia di alcuni casi. «L’inasprimento delle restrizioni Covid a Shanghai e i timori che Omicron si sia diffuso a Pechino, hanno affossato la fiducia» hanno spiegato gli analisti.

Intanto, secondo Bloomberg, la domanda cinese di alcuni tipi di carburante (benzina, diesel e cherosene per l’aviazione) è diminuita del 20% ad aprile rispetto a un anno fa. Tutto questo ha fatto crollare le Borse asiatiche con lo Shanghai Composite che ha perso il 5,3% a 2.929 punti e l’indice Shenzhen Component a -6,1% a 10.379 punti, ai minimi da quasi 2 anni. I timori sono stati amplificati dai media statali hanno riferito che ai residenti è stato ordinato di non lasciare il distretto di Chaoyang a Pechino dopo i casi di Covid riscontrati nel weekend.

Il calo dei prezzi petroliferi potrebbe sembrare una buona notizia per i consumatori, costretti negli ultimi mesi a costi per il carburante mai visti prima, e a sopportare l’aumento dei prezzi dei beni per l’incremento dei costi del trasporto. Probabilmente i riflessi dei ribassi saranno visibili nelle prossime settimane. Ma, come la fiammata non ha portato effetti positivi sui bilanci delle famiglie, il repentino rallentamento nasconde un’insidia ancora più letale. E cioè il blocco della catena di approvvigionamento e di fornitura globale del sistema produttivo del pianeta. Che in tempi non sospetti ha preferito decentrare la produzione di componenti e chip nei paesi dell’Est asiatico. La globalizzazione, che per anni ha tenuto bassa l’inflazione, e distrutto posti di lavoro in Occidente, ora presenta il conto.

Il pensiero è rivolto alle fabbriche cinesi che impiegano milioni di operai per costruire tutto: dai pneumatici ai chip dei telefonini. E alle centinaia di migliaia di container stipati nei grandi hub logistici della Cina, come Shangai appunto, che restano sui dock in attesa dell’allentamento delle misure restrittive imposte alle città portuali.

Ecco, il grande pericolo che per ora è solo potenziale, è che la Cina si blocchi improvvisamente mettendo in crisi tutta l’economia mondiale che, dalle sue braccia, ormai dipende. Già ora i danni del primo lockdown sono evidenti. Le fabbriche di auto, ad esempio, non riescono a mantenere le consegne e l’evasione degli ordini perché mancano chip e parti vitali per costruire veicoli. Si può solo immaginare l’effetto catastrofico sulla produzione in Europa e negli Usa di un blocco di rifornimenti ancora più esteso e prolungato.

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Schröder non rinnega Mosca. Spd a Scholz: “Lasci”

martedì, Aprile 26th, 2022

Daniel Mosseri

Il governo russo ha preannunciato l’espulsione di 40 diplomatici tedeschi. Attesa dal governo del cancelliere Olaf Scholz che a inizio aprile aveva espulso 40 diplomatici russi dopo la scoperta di fosse comuni di civili ucraini a Bucha, nei pressi di Kiev, la decisione di Mosca è stata definita «ingiustificata» dalla ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock. Nel frattempo l’agenzia Ria Novosti ha riferito che il ministero degli Esteri di Mosca ha promesso che «le azioni ostili contro i russi non resteranno senza risposta».

Bastonato dai russi perché troppo ostile, il governo Scholz è lo stesso che gli alleati occidentali criticano per non essere apertamente schierato dalla parte di Kiev. Una situazione paradossale alla quale hanno contribuito un po’ troppi annunci del cancelliere tedesco che a inizio conflitto ha promesso un «esercizio di leadership» e poche settimane dopo si è scontrato con gli arsenali già vuoti della Bundeswher; così le armi, soprattutto quelle pesanti, che Berlino aveva promesso con troppa leggerezza non saranno consegnate. Anche il caso della governatrice del Meclemburgo, la socialdemocratica Manuela Schwesig sta creando non pochi imbarazzi al compagno Scholz: lui ha chiuso sul nascere il gasdotto Nord Stream 2 che collega il Meclemburgo alla Russia e che avrebbe dovuto aumentare il flusso di gas da est a ovest e lei è la dirigente regionale che ha addirittura lanciato la Fondazione Meclemburgo per l’Ambiente al solo scopo di bypassare le sanzioni antirusse e portare invece a termine la contestata pipeline.

In queste ore una nuova tegola è caduta in testa al povero Olaf: il New York Times ha intervistato l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, anche lui socialdemocratico e anche lui, come Schwesig, grande sponsor dei gasdotti targati Nord Stream. Ma se la governatrice lo faceva per lo sviluppo del Meclemburgo, l’intervista del Nyt Schröder lo fa per soldi. Nell’intervista non c’è alcun mea culpa dell’ex politico 78enne per essere passato nel giro di pochi giorni era il 2005 dalla guida del governo alle profumate consulenze per i giganti energetici russi. Un conflitto di interesse senza precedenti sul quale i tedeschi, sempre attenti ai casi altrui, hanno chiuso tutte e due gli occhi in nome del business. Nel colloquio con il Nyt, Schröder dice due grandi verità: che grazie alla dipendenza energetica da Mosca da lui sponsorizzata oggi la Germania è più ricca; e anche che nessuno si è mai lamentato neppure del Nord Stream 2 (completato e mai varato), neppure dopo l’occupazione russa della Crimea nel 2014.

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“Il pacifismo fa morire i bambini”

martedì, Aprile 26th, 2022

Stefano Zurlo

Non usa parole fumose: «Dobbiamo armare l’Ucraina». Anzi va oltre: «Noi nel periodo ’43-’45 abbiamo avuto più di loro: non solo i fucili e i cannoni, ma anche i soldati stranieri, americani compresi, anche se naturalmente non solo loro».

Frange della sinistra radicale delegittimano Enrico Letta e lo contestano, Sergio Cofferati si schiera senza se e senza ma dalla parte di Kiev: «La pace senza democrazia e libertà è solo un’evocazione».

Onorevole Cofferati…

«Non sono più onorevole, ho concluso il mio mandato al Parlamento europeo nel 2019 e non ho più incarichi. Sono stato fra i promotori di Sinistra Italiana ma non mi riconosco più in quell’esperienza e non appartengo più ad alcun partito. Sono un ex in molte cose. Diciamo che penso di essere di sinistra».

Certo, lei è stato uno dei leader più popolari e ha riempito le piazze. Oggi siamo ancora agli insulti al segretario del Pd.

«Letta lavora bene. Francamente non capisco questo astio e le frasi offensive contro di lui».

Non c’è un certo imbarazzo a schierarsi contro Mosca e con la Nato?

«C’è un Paese aggredito e noi dobbiamo stare con loro».

Come?

«In tutti i modi. Dobbiamo portare la nostra solidarietà: il cibo, i vestiti, le medicine. Ma non solo. Dobbiamo andare avanti con le sanzioni. Sempre più efficaci e sempre più mirate e da questo punto di vista l’Europa deve avere una voce sola».

Quel che si è fatto non basta?

«È un passo in avanti rispetto all’inerzia precedente, ma il cammino da compiere è ancora lungo. E questa è l’occasione giusta per promuovere una politica estera europea e per dotare la Ue di un esercito. Ma per questo ci vorranno anni».

Intanto che si fa?

«Sanzioni e armi agli ucraini».

Lei è uno dei punti di riferimento della sinistra radicale. La stessa che manifesta contro l’Occidente.

«No, guardi, lei sbaglia indirizzo. Io nel vecchio Pci ho sempre avuto come bussola Giorgio Amendola e il suo riformismo; naturalmente, nel tempo hanno puntato il dito contro di me dicendomi che mi ero spostato di qua e di là, ma io sono sempre rimasto ancorato a quel pensiero. Non ci può essere pace senza democrazia e senza libertà. Altrimenti la pace sarebbe solo una frase vuota. Se poi il pacifismo porta a uccidere o a veder morire i bambini, mi spiace ma allora io sto da un’altra parte. Questo modo di ragionare è inaccettabile, è un errore clamoroso».

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Derussificare le città. Kiev smantella l’arco, Novhorodske vuole chiamarsi New York

martedì, Aprile 26th, 2022

di  Marco Lupis

KIEV – È sempre stata uno dei simboli della capitale dell’Ucraina, ma tra poco – insieme ai molti legami con il comune passato sovietico e russo della città – sparirà insieme ai nomi di molte vie, come Moskva Street, che diventerà una strada dedicata ai martiri della Resistenza Ucraina contro l’invasore. Eretto nel 1982 per commemorare la riunificazione dell’Ucraina con la Russia, l’imponente monumento che commemora “l’amicizia” tra ucraini e russi verrà rimosso e smantellato a partire da oggi, ha detto il sindaco della capitale. Il monumento venne “donato” alla città dalle autorità sovietiche in occasione della “riunificazione di Ucraina e Russia”. Fu un gesto significativo all’epoca, in coincidenza non solo con il 60° anniversario dell’istituzione dell’Urss, ma anche con il 1500° anniversario della nascita di Kiev. Ora l’enorme manufatto – che aveva resistito fino ad oggi (anche se qualcuno vi aveva dipinto una significativa crepa in mezzo…) – verrà demolito. “Gli otto metri di metallo della scultura cosiddetta ‘dell’amicizia di due popoli’ saranno rimossi dal centro di Kiev” ha detto ancora il sindaco, l’ex campione del mondo di pugilato Vitali Klitschko. Mentre l’immenso arco in titanio a forma di arcobaleno che estende sul monumento, originariamente chiamato Arco dell’amicizia popolare – rimarrà, ma, ha precisato il sindaco “sarà rinominato ed evidenziato con i colori della bandiera ucraina”.

L’arco è sempre stato simbolo di discordia, tanto che già nel 2018, artisti locali e attivisti per i diritti umani vi avevano dipinto sopra l’ormai celebre “crepa” nera, nell’anniversario dell’Holodomor, la carestia del 1932-1933, causata dalle folli politiche di Stalin. “L’Arctic Friendship Arc è un monumento al totalitarismo. Dedichiamo questo crack ai problemi dell’annessione della Crimea e ai prigionieri di guerra ucraini”, avevano dichiarato gli autori in una nota.

Il tema dei nomi delle strade che ricordano personalità del mondo russo o, peggio ancora, date o eventi legate al passato sovietico, appare ancora più sentito. Ad Uzhgorod, al confino con Polonia e Ungheria, vogliono “de-russificare” la città, hanno detto gli abitanti, così sono finite nel mirino le vie dedicate a Gagarin, Pushkin e Chechov. “Strade, piazze, vicoli della nostra città prendono il nome da politici, letterati e personaggi russi che non hanno niente a che vedere con la Transcarpazia e Uzhgorod, e quindi sono un brutto ricordo della precedente politica culturale sovietica”, si legge nella lettera inviata dalle autorità locali all’agenzia di stampa ucraina Unian. Tra le strade da rinominare c’è anche quella intestata al primo uomo nello spazio, il cosmonauta russo Yuri Gagarin. Il documento chiede anche la rimozione del busto del poeta russo Aleksandr Pushkin dalla piazza a lui dedicata. Che naturalmente dovrà cambiare nome anche quella. “In questi giorni abbiamo nuovi eroi che sacrificano la loro vita per il nostro Paese. Dobbiamo perpetuare e custodire la loro memoria” hanno scritto i cittadini di Uzhgorod.

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Epatite acuta nei bambini, il vademecum: sintomi, esami, cosa fare in caso di sospetto, cure

martedì, Aprile 26th, 2022

di Adalgisa Marrocco

Sulle cause della nuova epatite acuta che colpisce i bambini ancora non si hanno certezze. Gli scienziati continuano a scandagliare le ipotesi, mentre i casi crescono. Al 21 aprile 2022, secondo l’Oms, sono stati segnalati almeno 169 casi da 11 Paesi europei e uno nella regione delle Americhe. Ma cosa sappiamo finora? Quali sono i sintomi e cosa devono fare i genitori nel caso notassero segnali strani da parte dei loro bambini? Huffpost ha risposto con un piccolo vademecum stilato insieme al professor Guido Castelli Gattinara, pediatra infettivologo dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma e membro del tavolo tecnico Malattie Infettive e vaccinazioni della Società Italiana di Pediatria (SIP).

I sintomi a cui fare attenzione

“I sintomi segnalati più frequentemente sono piuttosto banali e tipici di molte infezioni virali dell’età pediatrica: malessere generale, dolore addominale, vomito, diarrea, debolezza, perdita di appetito, qualche volta febbre. Si tratta quindi di segni piuttosto aspecifici, a cui si aggiunge però un sintomo proprio dell’epatite: l’ittero, ovvero il colorito giallo di pelle e della parte bianca degli occhi”, dice il professor Castelli Gattinara. È proprio l’ittero il segnale più evidente dell’insufficienza epatica.

Cosa possono fare i genitori in caso di sospetto

“Siccome i sintomi più frequenti sono aspecifici, comuni a diverse malattie e confondibili – afferma l’infettivologo – bisogna attendere e consultare sempre il proprio pediatra. Sarà lui, conoscendo il quadro del piccolo paziente, a fornire le migliori indicazioni ai genitori. In un primo momento quindi sarebbe consigliabile una fase di osservazione e riposo, con un’alimentazione leggera e curata”. “Nel caso sia presente l’ittero, invece, bisogna recarsi subito in ospedale per procedere ad accertamenti specifici e valutare se effettivamente c’è un danno al fegato”, aggiunge.

Quali esami di laboratorio può prescrivere anche il pediatra di famiglia per escludere l’ipotesi epatite

“Il pediatra può prescrivere l’esame delle transaminasi, ovvero degli enzimi prodotti dal fegato che segnalano un danno epatico”, dice il professor Guido Castelli Gattinara. Una circolare del Ministero della Salute del 23 aprile, infatti, sollecita la segnalazione di epatiti sospette con transaminasi oltre 500 U/L. “In caso di transaminasi alte – prosegue l’infettivologo – si deve eseguire un’ecografia al fegato per verificare se il bambino ha un’infiammazione in corso, necessita di ricovero e di ulteriori accertamenti”.

Entro quanti giorni dalla comparsa dei sintomi è bene eseguire gli esami

Castelli Gattinara ribadisce che “finché i sintomi rimangono aspecifici è bene attendere, senza creare allarmismi. Potrebbe trattarsi di una lieve infezione virale destinata a rientrare nel giro di qualche giorno”. Le analisi invece vanno fatte subito in caso di colorito giallo di pelle e della parte bianca degli occhi.

Niente allarmisi: è una patologia rara ma curabile 

“Prima di tutto va ribadito che i casi di epatite di origine sconosciuta ci sono sempre stati e che si tratta di episodi estremamente rari, oggi stupisce la concentrazione dei casi. Al di là di alcune manifestazioni importanti che hanno necessitato di trapianto, sappiamo che la maggior parte dei bambini non è andata incontro ad insufficienza epatica ed ha risolto con terapia medica”, dice il pediatra infettivologo rimarcando che “la gran parte di queste forme di epatite regredisce e guarisce senza andare incontro a grandi strascichi”.

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Macron, la guerra in Ucraina e la vera eredità degli europopulisti

martedì, Aprile 26th, 2022

Lucia Annunziata

Avrebbe potuto forse capire prima e fare meglio in questo suo primo mandato, sussurra il cuore cinico della politica, e anche durante la campagna elettorale appena finita, ma, come dire, alla fine contro il sovranismo al servizio di Putin possiamo accettare anche questi giravolte tardive. Di sicuro però stavolta non dobbiamo credere a scatola chiusa a nessuna promessa, e a nessuna previsione. I numeri, come scritto dai migliori analisti, non fanno sconti. Le Pen è al suo massimo, «anche se sotto le aspettative», e la vittoria del neo confermato Presidente arriva con un 58,5% per Macron e il 41,5% per Le Pen, che però è una perdita netta di due milioni di voti. Inutile aggiungere – perché questo lo sappiamo – che questa vittoria può anche solo essere quella di Pirro. I voti giunti a Macron sono infatti solo risultati del solo effetto sbarramento, la mobilitazione eccezionale contro il pericolo di destra. Un’arma che può funzionare nelle estreme circostanze, e che è stata usata molto, forse troppo, dalle attuali democrazie. Con il rischio che la mobilitazione contro il pericolo della destra diventi un fischietto invece che un ruggito e che alla fine si ritorca addirittura contro chi la usa troppo.

Parliamo di elezioni e citiamo le armi. E non è solo un’infezione verbale del linguaggio della guerra che sta travolgendo l’Ucraina.

In Europa c’è infatti anche una guerra politica in corso, acutizzatasi durante la metà del ventennio appena chiuso. Conflitto che non ha più nulla che fare con quello (di classe) dell’altro secolo, ma che descriviamo ancora per pigrizia con i vecchi termini di destra/sinistra, e che in realtà è una guerra fra nuovi ricchi e nuovi poveri. Una guerra che segue le nuove fratture delle classi e del potere, dell’influenza e degli Imperi in creazione e in dissoluzione, che si formano e si disfano nelle varie ere della globalizzazione. Una competizione per potere, influenza e superiorità, nel vuoto del futuro, di cui quella delle armi Russe è un episodio anche se è finora il più grave; e che sicuramente ha pesato (per ora positivamente, ma in futuro?) sulle elezioni francesi.

Simbolo e interpreti di questo conflitto sono il sovranismo e i suoi adepti. Termine ambiguo, che la Treccani ha incluso nelle sue pagine solo nel 2017: «Posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovranazionali di concertazione».

La parola che gli studiosi fanno risalire alla fine degli anni Novanta in Francia, usata per descrivere il crescente scontento nel Paese, dopo la creazione dell’euro, per l’invasività della integrazione europea. Ma è la crisi de 2008, e la sua gestione da parte dell’Europa, che accelera il fenomeno dell’euroscetticismo e la rivolta politica. È proprio di Marine Le Pen il battesimo di un fronte “Sovranista e Patriota” nel 2012, che segnò il rinnovamento di una vecchia forza politica quale il Front National, mentre la paternità può essere attribuita a Matteo Salvini che nel 2013 avviò la trasformazione della sua Lega puntando tutto sulla uscita dall’euro.

Il sovranismo si allarga con il tempo a tutta una serie di fenomeni anti-europei e antidemocratici, come Orban in Ungheria, e in generale viene usato in maniera casuale come sinonimo di populismo, e crisi della democrazia liberale. Nonché crisi della stessa Europa.

Curiosamente, da un punto di vista di parallelismi, per capire l’anno in cui lo scontro con il populismo diventa emblematico in Occidente, occorre tornare indietro proprio alla prima elezione a Presidente di Macron, quando il suo movimento “En Marche” vince sulle ceneri del partito socialista e “salva” l’Europa (allora come oggi, i titoli sono gli stessi) dal successo di Le Pen. È l’anno 2017, con l’immigrazione a fare da miccia, che segna l’avanzata della estrema destra. In Austria va al governo il Partito della libertà di Christian Strache; In Olanda Geert Wilders diventato il secondo partito in parlamento, nonostante la sconfitta. In Germania al Bundestag entra l’estrema destra di Alternativa per la Germania, con il 12%, segnando simbolicamente una difficoltà per la stessa Merkel a formare un governo. È però la Brexit, uscita vincitrice dal referendum del 23 giugno 2016 a imprimere la più faticosa sfida europea: il 29 marzo 2017, Theresa May invia al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk la lettera che fa scattare l’Articolo 50. Il 2017, a gennaio, parte in Usa anche la presidenza Trump.

Macron, come abbiamo detto, è quasi la sola buona notizia per l’Europa. E quello di Macron non è esattamente un progetto di sinistra. Ezio Mauro, direttore di Repubblica, scrive di quell’anno, in data 15 febbraio, «un paesaggio democratico che credevamo conquistato per sempre, a garanzia di noi stessi e degli altri. Ma ecco che il sovranismo cambia la geografia emotiva e riduce l’orizzonte internazionalista in cui si muoveva la sinistra».

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L’Ucraina contro Guterres e la lezione di Kissinger

martedì, Aprile 26th, 2022

Domenico Quirico

Ogni viaggio è un simbolo, una iniziazione. Soprattutto quando i Paesi che visiti non sono dispensatori di cartoline, foto e vagheggiamenti amorosi. Ma sono in guerra. Figuriamoci un doppio viaggio in Ucraina, oggi. Mettiamoli allora l’uno accanto all’altro questi due viaggi così opposti e così pericolosi: non per i viaggiatori in sé ma per gli ucraini e per noi che seguiamo con il fiato sospeso la zuffa tra colossi nell’Europa centrale, uno di fonte all’altro, e tentiamo da poveri europei di non pagarne il conto.

Che cosa abbiano portato con sé nello zaino il segretario di stato americano Blinken e il capo del Pentagono Austin a Kiev appare esplicito: oltre altre tonnellate di armamenti destinati all’ex debolissimo esercito ucraino una confessione di intenti che sarebbe stupefacente se non fosse perfettamente in linea con la drastica linea che Washington ha imboccato in questa tragedia senza mai allontanarsene neppure di un millimetro, come se viaggiasse su una autostrada senza uscite. Si annuncia che lo scopo di guerra americano è «far vincere la guerra agli ucraini fornendo loro la attrezzatura giusta» e far sì che la Russia sia così «indebolita» da non poter più lanciare nuove guerre. Insomma percorriamo terre pericolose, oltre i B-52, i droni, i caccia invisibili.

Siamo a un punto di svolta. Si ammette per la prima volta che la libertà ucraina è in fondo solo una cosa fittizia di cui gli americani si servono per attuare la loro politica. Ovvero l’annientamento della potenza militare russa. Non è tutto ciò estremamente pericoloso?

Per un utile ripasso su un antecedente legato a analoghi estremistici scopi di guerra si passi alla lettura delle clausole del trattato imposto ai volenterosi tedeschi nel 1919 che si illudevano di aver intenerito Wilson e soci passando, con autonoma rivoluzione, dal Kaiser alla repubblica di Weimar. Niente affatto: da punire era sempre l’odiatissimo Guglielmone, la Germania militarista e autoritaria dura e crudele in guerra: quindi esercito al massimo di centomila uomini senza carri armati, aeroplani e sottomarini; per la marina solo quindicimila uomini con il divieto di costruire navi di grande tonnellaggio. In pratica non si poteva andare al di là dei guardacoste. Gli stati maggiori francese e britannico pensavano di aver tagliato le unghie al testardo aggressore. Venti anni dopo scoprirono che era servito solo a rendere quell’esercito più distruttivo, moderno e feroce. Qual è il contenuto numerico di questo così risolutivo “indebolimento” russo: quanti carri, missili, atomiche? Quante fabbriche di armi saranno concesse o laboratori di ricerca? E quanto tempo ci vorrà se mai sarà possibile, per ottenere una resa simile?

Ancora domande: non offre questo alla propaganda di Putin la prova che sta lottando contro il progetto di spezzare la Russia.

Lo stesso viaggio dei due inviati americani era zeppo in sé di significati. Che non è il pellegrinaggio da selfie di attori secondari come gli europei o del pittoresco britannico Jonhson. Tutti visitatori privi di forze reali e quindi innocui anche per le simbologie sospettose e rancorose del Cremlino. L’America tiene in piedi militarmente l’Ucraina.

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Il voto europeo della Francia (e le ambiguità dei sovranisti)

martedì, Aprile 26th, 2022

di Aldo Cazzullo

L’insegnamento di questi anni è che governare contro l’Europa può rivelarsi difficile, se non impossibile: il monito per Salvini e Meloni è chiaro

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Marine Le Pen con Matteo Salvini in una foto d’archivio (Ansa)

Sono otto elezioni che un Le Pen aumenta i voti di famiglia; però alla fine non vince mai. Marine è arrivata quasi al 42%, ha intercettato voti popolari, guida il primo partito operaio di Francia; ma anche stavolta ha perso. Perché la maggioranza dei francesi ha ben chiaro che l’Europa è il suo destino. L’Europa è l’unico modo per dare alla Francia un ruolo mondiale, per finanziare a tasso zero un debito pubblico crescente, per difendere la moneta e i risparmi, per negoziare le forniture di vaccini ieri e di gas oggi da posizioni meno fragili; e anche per affrontare i flussi migratori che premono dalla sponda Sud del Mediterraneo e dai confini orientali del continente.

Non è chiaro, però, se questo l’abbiano compreso anche i sovranisti di casa nostra. I quali, a differenza di Marine Le Pen, secondo i sondaggi tra pochi mesi vinceranno le elezioni, e con i centristi di Berlusconi avranno la maggioranza in Parlamento. Ma l’insegnamento di questi anni è che governare contro l’Europa può rivelarsi difficile, se non impossibile. E in Europa oggi non comandano i sovranisti.

I motivi dell’ennesima sconfitta della Le Pen sono molti. Tra i trentenni, la generazione della precarietà, Marine ha prevalso. A fare la differenza sono i francesi che hanno più di 65 anni. Una generazione che va a votare in massa, e che in massa — 70% contro 30 — ha scelto Macron. Non è un caso che l’ascesa dell’estrema destra inquieti in particolare gli anziani. La Francia si è raccontata di aver vinto la seconda guerra mondiale; in realtà, se oggi è l’unico Paese dell’Unione europea ad avere la bomba atomica e un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, lo deve a un pugno di eroi, riuniti attorno al generale Charles de Gaulle, che animarono una Resistenza destinata a rafforzarsi man mano che le armate tedesche cedevano terreno. Ma una parte dei francesi collaborò con i nazisti; e riaprire la ferita di Vichy, come quella dell’Algeria francese, fa paura alla generazione che di quegli eventi ha memoria. Marine, a differenza del padre e di Éric Zemmour, si tiene lontana dal tema; ma ancora ne paga un prezzo.

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Elon Musk si prende tutto Twitter: ecco come potrebbe cambiare il social network

martedì, Aprile 26th, 2022

di Massimo Gaggi

Elon Musk ha conquistato Twitter e ora la ritirerà dalla Borsa. La rete sociale più influente nel campo dell’informazione, con oltre 200 milioni di utenti, diventa di proprietà esclusiva dell’uomo più ricco del mondo: un imprenditore di grandi capacità e geniale, ideologicamente liberista e libertario, allergico alle regole, che ha già detto di voler rivoluzionare la piattaforma, eliminando ogni limite all’accesso sulla base di un’interpretazione radicale del free speech garantito dal Primo emendamento della Costituzione americana (norma che, in realtà, riguarda i poteri pubblici, non i privati).

La conseguenza più probabile a breve termine è il ritorno su Twitter degli esponenti dell’ultradestra il cui account era stato bloccato per aver violato i termini di servizio della rete con incitazioni alla violenza sfociate nell’assalto al Congresso di 15 mesi fa. Donald Trump, anche lui a suo tempo “silenziato”, ieri ha detto che non intende tornare comunque su Twitter, dato che nel frattempo ha costruito la sua rete sociale, Truth Social. Non è detto che non cambi idea, visto, tra l’altro, che la sua nuova impresa di comunicazione fatica a prendere quota. La sortita “a caldo” dell’ex presidente può anche avere una motivazione economica: Truth Social fa capo a una Spac, una sorta di società speciale controllata da investitori amici di Trump, che ha perso il 44% del suo valore nell’ora successiva all’annuncio della cessione di Twitter a Musk.

Ma l’acquisto di uno strumento d’informazione così potente da parte di un industriale visionario che è anche un capitalista spregiudicato e un abile e innovativo influencer con 83 milioni di follower, abituato a intervenire su tutto, può avere conseguenze di lungo periodo ancor più rilevanti tanto sul giornalismo quanto nel campo della politica. Il 2 aprile Musk aveva offerto 43 miliardi di dollari cash (54,20 dollari per azione) per rilevare l’intero capitale dell’azienda, ma gli amministratori di Twitter avevano reagito alla proposta, pur molto conveniente del miliardario, costruendo barricate: si erano messi a cercare altri possibili acquirenti e avevano dato via libera all’emissione di una “pillola avvelenata”: una tecnica finanziaria che rende l’acquisizione più costosa e complessa.

Sembrava che il capo di Tesla e SpaceX dovesse prepararsi ad un lungo assedio, ma tutto è cambiato tra venerdì e la notte scorsa per una serie di colpi di scena. In primo luogo Musk ha spazzato via lo scetticismo di chi lo considerava un imprenditore ricco ma non liquido (il suo patrimonio è tutto in azioni) dimostrando, nero su bianco, di fare sul serio: ha presentato alla SEC (l’authority di Borsa) un piano di finanziamento della scalata basato su due prestiti della Morgan Stanley e di altre banche per un totale di 25,5 miliardi di dollari, mentre altri 21 miliardi verranno dalla vendita di azioni Tesla.

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Ucraina Russia, le news di oggi sulla guerra | Lavrov: «Si rischia la terza guerra mondiale, la Nato è in guerra con noi». Kiev: stanno perdendo

martedì, Aprile 26th, 2022

di Lorenzo Cremonesi, Giusi Fasano, Andrea Nicastro, Marta Serafini

Le notizie di martedì 26 aprile sulla guerra in Ucraina, in diretta: il ministro degli Esteri russo Lavrov dice che la Nato, consegnando armi all’Ucraina, è «di fatto in guerra» contro Mosca, e il rischio di un conflitto mondiale è concreto. Kuleba, ministro degli Esteri ucraino: stanno perdendo

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Un missile russo a Bohodarove nella regione di Kharkiv (Ap)

• La guerra in Ucraina è arrivata al 62esimo giorno, e i toni utilizzati da Stati Uniti e Russia sono sempre più aspri.
• Dopo che il segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, ha esplicitato l’intenzione che Mosca esca da questo conflitto «indebolita» al punto da non voler più avviare operazioni simili all’invasione dell’Ucraina, il ministro della Difesa di Putin, Serghei Lavrov, ha detto che il rischio di una terza guerra mondiale è «considerevole», e che la consegna di armi da parte della Nato all’Ucraina significa, «in sostanza», che la Nato è in guerra con la Russia.
• Il rischio di allargamento di conflitto ad altri Paesi si è fatto concreto ieri anche per un’esplosione in un edificio amministrativo della capitale della Transnistria, repubblica separatista filorussa della Moldova.
• La Russia ha bombardato cinque stazioni della ferrovia provocando la morte di almeno 5 persone. I raid sono stati rivendicati dal Cremlino che ha affermato di aver distrutto le direttrici usate per il trasporto di «veicoli stranieri» — cioè armi occidentali dirette al fronte del Donbass.
• Nella giornata di ieri è stata trovata una terza fossa comune vicino a Mariupol, nel villaggio di Stary Krym.

Ore 07:54 – «Le prossime settimane saranno molto, molto critiche»

Mark Milley è il capo dello Stato maggiore congiunto degli Stati Uniti: una delle massime autorità della Difesa americana. Per questo le parole che utilizza per descrivere lo scopo del vertice di oggi nella base di Ramstein, in Germania, vanno ascoltate con attenzione.

Il punto principale del vertice — spiega Milley — è quello di garantire a Kiev il supporto che occorre per poter resistere alla Russia e, per usare l’espressione usata ieri dal capo del Pentagono, Lloyd Austin, «vincere la guerra».

«Le prossime settimane saranno molto, molto critiche», ha detto Milley. Gli ucraini «hanno bisogno un supporto continuativo per poter avere successo sul campo di battaglia. E questo è, principalmente, lo scopo di questa conferenza».

In altre parole: i 40 Paesi convocati dagli Stati Uniti nella base aerea tedesca dovranno trovare il modo di coordinare la tipologia di armi da inviare a Kiev, il loro numero, i tempi di consegna e l’eventuale addestramento necessario.

La Russia — secondo gli analisti del Pentagono — farà ampiamente ricorso all’artiglieria pesante, cercando di distruggere la resistenza ucraina prima di muovere fisicamente le truppe. Ma gli stessi analisti ritengono che molte unità dell’esercito russo siano ora alle prese con una grave carenza di truppe: alcune avrebbero perso fino al 30 per cento dei militari. Insomma: le possibilità che Kiev vinca sul campo non sono remote.

Nella giornata di ieri, la Gran Bretagna ha sostenuto che Mosca abbia perso almeno 15 mila soldati in Ucraina, oltre a 2000 mezzi corazzati, 60 elicotteri e aerei. La Russia, finora, ha ammesso di avere perso 1.351 militari.

Ore 07:31 – Dove attaccherà l’esercito russo, ora

Come si muove l’esercito russo, sul campo, in queste ore? E quale sarà il prossimo passo dell’attacco delle truppe di Mosca?

La risposta arriva dall’aggiornamento militare pubblicato – come ogni mattina – dal ministero della Difesa della Gran Bretagna, secondo cui l’assalto arriverà, in primis, da sud, contro la città di Zaporizhzhia.

«È probabile anche che le forze russe stiano tentando di circondare posizioni ucraine fortificate nell’est dell’Ucraina», scrive la Difesa di Londra, che conferma la caduta della città di Kreminna e i pesanti combattimenti a sud di Izyum, «mentre le forze russe tentano di avanzare verso le città di Sloviansk e Kramatorsk da nord e da est».

Ore 07:24 – La corsa al riarmo nucleare

Le parole di Lavrov sui rischi di una «Terza guerra mondiale», e di un confronto nucleare, sono arrivate poche ore prima che — a migliaia di chilometri dall’Ucraina, ma non così lontano, in uno scenario diplomatico mai così complicato come ora — il leader nordcoreano organizzasse una parata il cui pezzo forte è stato un nuovo missile balistico intercontinentale, in grado di portare testate nucleari e pronto a essere utilizzato sui sottomarini di Pyongyang.

E proprio alla corsa al riarmo nucleare — e ai suoi rischi — è dedicato il Dataroom firmato da Milena Gabanelli e Massimo Sideri, che si concentra sulle due potenze principali in questo ambito — Stati Uniti (che hanno meno atomiche, ma spendono molto di più) e Russia.

Lo trovate qui.

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