La situazione, complice l’altrui goffaggine, congiura a suo favore.
Anche durante l’intervista a Vespa in masseria, Giorgia Meloni si è
limitata a dire (e sta all’opposizione), che se uno vuole andare a Mosca
dovrebbe quantomeno avvisare il premier, per non rendere fragile
l’immagine dell’Italia. È l’abc ma, di questi tempi, pare una statista
in quel circo. L’uno (Salvini) è diventato una sorta di re Mida al
rovescio, che produce distacco da tutto quello che tocca (compreso il
referendum sulla giustizia), l’altro (Berlusconi) è una caricatura tardo
sovietica di sé. Il paradosso di Giorgia è questo: gli alleati sono la
sua polizza a vita, perché le assicurano una facile crescita, senza
tanti sforzi. Basta un po’ di coerenza, un po’ di pragmatismo femminile
(vuoi mettere che combina il testosterone), l’arte dell’attesa. Se, dopo
aver fatto dimenticare le braccia alzate di Fidanza, mettesse mano alla
classe dirigente, il vero limite, il gioco è fatto. Ma al tempo stesso
la polizza di oggi è una zavorra perché, il minuto dopo il voto, la
coalizione, già sfasciata oggi, inizierebbe a litigare.
Crescere per crescere o rischiare un’operazione politica? Questo il dilemma. Secondo il sondaggio dell’infallibile Ghisleri, Fdi, in coalizione, è attorno al 22 per cento ma, se andasse da sola, potrebbe arrivare al 24,9. E la suggestione della corsa solitaria gira in quel partito. È però destinata a rimanere lì, visto che nell’altro campo lavorano per l’ammucchiata. Servirebbe una legge elettorale, ma la Meloni non ha alcuna intenzione di affrontare il tema, perché la esporrebbe all’accusa di “inciucio”, e poi si è capito che nessuno la vuole cambiare. Guido Crosetto, tra i suoi più ascoltati collaboratori, le ha consigliato di rompere lo schema. Dentro la Lega, non è un mistero, Giorgetti, Zaia e Fedriga vorrebbero fare una sorta di Lega 2.0 ma, al momento, nessuno ha il fisico per sfidare apertamente Salvini. Quel che resta di Forza Italia è irriformabile. La mossa suggerita è un’Opa ostile: “Rifacciamo una cosa tipo Pdl, nello spirito, per coprire spazi che gli alleati non coprono più”. Consiglio alla base della convention di Milano con Tremonti, Pera, Nordio. Si sa, come sempre accade quando un partito ha il vento in poppa, da quelle parti c’è la fila di gente che vorrebbe entrare. Però lei nicchia, ce l’ha nelle corde ma fino a un certo punto perché depotenzierebbe la sua forza anti-establishment con volti vecchi.
Giornate vorticose di campagna elettorale per le amministrative, dai
Comuni in Lombardia a quelli nel Lazio, per Antonio Tajani. Il
vicepresidente e coordinatore nazionale di Forza Italia è appena tornato
a Roma e pronto a ripartire per Rotterdam, dove parteciperà al
Congresso del Partito popolare europeo.
Che aria tira in giro per l’Italia, verso il voto?
«Ho
trovato un grande entusiasmo attorno al simbolo di Fi e per il
centrodestra. Sono soddisfatto perché vedo la volontà di tornare alle
urne di tanti che erano rimasti a casa e ora ritrovano fiducia. I
sondaggi sono positivi e ci attribuiscono percentuali superiori alle
ultime amministrative, considerando che rispetto alle politiche siamo
sempre più bassi per la presenza di liste civiche».
Però i giornali parlano di divisioni interne, di malumori…
«In
realtà, divisioni interne sulla linea politica non ne vedo e questo è
l’importante. Tutta Fi si ritrova attorno alla linea di Silvio
Berlusconi, senza tentennamenti, per quanto riguarda il sostegno al
governo Draghi come la condanna della guerra in Ucraina, la posizione
legata all’Europa e all’Occidente, l’impegno a perseguire la pace con
ogni mezzo della diplomazia. Ci possono essere divergenze di idee su
alcuni aspetti, ma non sulla linea politica. E che ci sia unità lo
dimostra anche il modo come è stato accolto Berlusconi a Napoli, dopo
Roma, tra migliaia di partecipanti che lo applaudivano quando ha
annunciato la sua partecipazione attiva alla campagna elettorale e ha
ripetuto da che parte stiamo sulla guerra in Ucraina».
Ma il «problema Gelmini», emerso proprio a Napoli, è stato superato?
«Berlusconi
rappresenta l’unità del partito, è il leader dal 94 e vuole essere
protagonista di una nuova stagione politica. Guarda al futuro con una
classe dirigente più giovane che può proseguire il lavoro. Confronti
personali ci possono sempre essere, ma non mettono a repentaglio l’unità
interna. Non credo siano veri problemi, solo questioni fisiologiche,
disaccordi sul cambio di un coordinatore regionale in Lombardia, tutte
cose che si superano. Anch’io in passato sono stato sostituito come
coordinatore regionale nel Lazio, eppure sono ancora qua. Da noi, c’è
sempre spazio per tutti».
Parlava di sondaggi positivi, Fi è data tra l’8 e il 10%, ma il vostro obiettivo qual è?
«È
sempre qualcosa in più. Berlusconi ha detto che dobbiamo puntare al 20%
per le prossime politiche e con lui alla guida della campagna
elettorale possiamo dimostrare che siamo riusciti a difendere le nostre
idee nel governo, con risultati positivi sul catasto, garantendo che non
ci saranno aumenti di tasse sulla casa, e sul compromesso raggiunto sui
balneari».
Il 12 giugno oltre al voto amministrativo ci sarà quello sui referendum per la giustizia e voi siete schierati per il Sì.
«Siamo
impegnati anche su questo fronte, ma attenti ad evitare
strumentalizzazioni quindi non con simboli di partito. Certo, il fatto
che si voti un giorno solo non aiuta e speriamo ci sia partecipazione».
Per evitare che qualche bounty killer a caccia di putiniani mi metta
nel mirino dico subito che è giusto accettare un compromesso con la
Russia solo se convincerà l’Ucraina. Come pure sono convinto che sia
stato giusto, e lo sia ancora, fornire Zelensky e i suoi di armi, per
non confondere una giusta pace con la resa di Kiev. Ed ancora penso,
malgrado le ripercussioni negative che il nostro Paese sta pagando, che
siano opportune le sanzioni economiche contro Mosca e che le divisioni e
i disimpegni (vedi Orbán) facciano molto male all’Unione. Detto questo:
e poi?
Ecco, è sul «poi» che dovremmo concentrarci tutti, a
cominciare dagli alleati dell’Ucraina, evitando di appassionarci solo
all’elenco quotidiano degli strumenti bellici che vengono spediti al
fronte e della loro gittata. Anche perché, al di là di possibili rovesci
molto remoti di uno dei due eserciti, se si vuole essere realisti,
ormai la linea di confine tra l’Ucraina legittima e quel pezzo di
Ucraina che i russi hanno rubato con la forza è abbastanza chiara:
difficilmente Putin si ritirerà da lì, come pure è molto complicato che
Zelensky riesca a riconquistare i territori perduti sul piano militare.
Quindi, pur sperando sempre nella capacità di reazione degli ucraini, è
probabile che nelle prossime settimane – o mesi – di guerra si rischino
nuovi lutti, nuove tragedie da entrambe le parti senza risultati.
Ed
è proprio in questa situazione di impotenza e di dramma che
bisognerebbe tornare con la mente a venti anni fa, allo «spirito» di
Pratica di Mare che portò, grazie all’iniziativa di Silvio Berlusconi, i
leader di Stati Uniti e Russia, George W. Bush e Vladimir Putin, a
stringersi la mano. Si parla di «spirito» di Pratica di Mare, ma di
fatto è lo spirito italiano, visto che l’iniziativa di allora del Cav si
inserisce a buon diritto nel solco di un filone di grandi leader del
Belpaese che, da convinti «atlantisti», si sono sempre spesi per la pace
nelle crisi internazionali dalla fine della Seconda guerra mondiale ad
oggi. Parlo di Giorgio La Pira come di Aldo Moro, di Giulio Andreotti
come di Bettino Craxi. È un approccio convinto e leale alle nostre
alleanze internazionali, alla Nato, sempre memore della riconoscenza che
dobbiamo nutrire nei confronti degli Stati Uniti, ma che, nel contempo,
non rinuncia – appunto sempre rispettando la lealtà che dobbiamo avere
verso chi condivide i nostri stessi valori democratici – ad espletare
ogni tentativo per salvaguardare o ritrovare la pace.
Le critiche se le aspettava. Tutti quei silenzi forse no. E
allora il viaggio a Mosca viene congelato, in attesa che qualcuno ne
capisca il senso. Matteo Salvini è a Roma e tutti gli indizi portano a
credere che fosse ieri la data prevista per la spedizione spericolata in
Russia, uno in particolare saltava agli occhi già nei giorni scorsi: il
solitamente iperattivo segretario della Lega, nella penultima domenica
prima delle elezioni amministrative e dei referendum sulla giustizia,
non aveva in agenda alcun appuntamento, e così nemmeno per oggi. Solo un
tweet in tarda serata, per ringraziare i militanti nei gazebo per la
campagna referendaria. Tutto era pronto per partire, insomma. Ma
sull’aereo per la Turchia e poi su quello diretto a Mosca, il segretario
della Lega non c’era.
Dietro alla missione, che prevedeva forse anche una sosta “politica”
ad Ankara, c’è l’idea che la diplomazia non stia facendo il suo mestiere
fino in fondo e che quindi serve uno scossone con un piano da
consegnare al governo russo, «sono gli aggressori che vanno convinti», è
il discorso che Salvini ha ripetuto per difendersi dalle accuse di filo
putinismo. L’idea di Salvini, poi, era di arrivare in Russia con una
sorta di benedizione, sebbene ovviamente non formale, della Santa Sede.
In questo senso andava inquadrata l’udienza ottenuta venerdì scorso con
monsignor Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, a ridosso quindi
della trasferta moscovita. Anche in questo campo però sono arrivati
segnali negativi per Salvini, basti ascoltare le parole del neo
presidente dei vescovi italiani, Matteo Zuppi: «Credo che il più
possibile bisogna accordarsi nelle iniziative, perché altrimenti
rischiano di essere retoriche, rischiano di essere fatte solo per far
vedere che si fa qualcosa, cosa che non è molto intelligente. L’unione
di tanti sforzi, soprattutto a livello europeo e non solo, credo che sia
l’indicazione indispensabile».
Uno degli aspetti più inquietanti per Matteo Salvini non sono le
accuse degli avversari politici e i mugugni degli alleati, quanto
piuttosto che nel suo partito nessuno si sia preso lo scrupolo di
mandare due righe alle agenzie per mostrare sostegno al segretario. Un
gesto di ordinaria amministrazione dentro ai partiti, specie quando il
leader è sotto attacco da più fronti (da dentro la maggioranza e da
dentro il governo), stavolta però nessuno lo ha fatto. Segno di
isolamento, anche dentro a un partito che fino a oggi non ha mai davvero
messo in discussione la leadership ma che ora si trova davanti a un
dilemma: fino a quando seguire le mosse del segretario. Uno dei problemi
peraltro, sottolineano le poche voci disposte a parlare, in forma
discreta, è che queste mosse non vengono condivise, nemmeno con i
vertici del partito, con i responsabili dei vari settori, a cominciare
da quello degli Esteri, Lorenzo Fontana, né con i ministri, che,
Giancarlo Giorgetti in testa, preferiscono evitare commenti.
I supermercati raccolgono sotto il loro tetto molte persone come un
tempo facevano solo le chiese. Occupano, se volete, il centro della vita
collettiva contemporanea. Per secoli la chiesa ha occupato questo
posto. Non a caso li si definisce i templi del consumo. Sarà per questo
che i russi, come ha denunciato Petro Andriushenko, consigliere del
sindaco di Mariupol, hanno gettato i cadaveri degli ucraini raccolti in
città o esumati dalle tombe improvvisate in un supermercato abbandonato e
semidistrutto. Ci crocifigge una immagine: corpi in decomposizione
ammucchiati come un pavimento in mezzo agli scaffali devastati e vuoti,
alle casse desolate, alle immondizie delle cose saccheggiate.
In questa guerra abbiamo visto una quantità di scene orribili,
stragi con i missili, e civili eliminati frettolosamente per strada come
inciampi umani. La guerra in sé come crimine. Ogni guerra non inventa
il mistero del male, ne rende ogni volta il suo linguaggio più
lancinante. Ma la barbarie sui cadaveri mina le condizioni stesse della
esistenza umana. La civiltà, ciò che siamo, corre lungo una cresta
esigua di cui uno dei versanti è proprio una uscita come questa fuori
dalla umanità.
Il culto dei morti, il rispetto dei morti è un segno di umanità,
dice un luogo comune filosofico. La tomba è un punto di partenza della
umanità. Tutto in fondo inizia dalla fine. La morte e il suo culto
rendono immortali. La morte, se rispettata, coperta degnamente,
celebrata anche con il più umile ritorno alla terra, rende immortali.
Oggi, nel terzo millennio, assistiamo con angoscia alla profanazione
della morte, celebrata in un osceno funerale al contrario, in un rito
blasfemo, sui cadaveri di Mariupol, atrocemente abbandonati, in vista,
in un supermercato come se fossero merce guasta di cui non si sa cosa
fare perché la guerra, vincere è una occupazione più importate. Non è
purtroppo una eccezione. Intravedo la stessa empietà disinvolta in altre
terribili storie, come l’assalto alla bara durante il funerale della
giornalista uccisa in Palestina.
La negazione della tomba significa negare che ciò che si trova nel
seno della terra, sotto un tumulo, una semplice lastra di pietra o al
centro della fastosa piramide di un re, sia degno di rimanere. Anche se a
poco a poco non ne resteranno che ossa e cenere e polvere. Una dignità è
concessa anche ai resti materiali dal momento che non sono cose,
scarti, ma resti umani. Il rifiuto dell’autocrate Creonte di concedere
questa distinzione a uno dei suoi fratelli è la ragione della rivolta
politica di Antigone. Nella Città una certezza deve accomunare tutti,
obbedienti e ribelli, la mancanza di rispetto per i resti dei mortali
porta direttamente allo stato di natura, spalanca al Male le porte per
l’invasione del mondo.
In questi oltre novanta giorni dall’aggressione russa, talora anche
con fatica, ho evitato di usare parole come genocidio, olocausto e sono
convinto che coloro che l’hanno fatto hanno sbagliato. Ma di fronte alla
umiliazione dei morti, allo sfregio dei cadaveri uso per coloro che lo
hanno compiuto questo sacrilegio, che hanno portato quei poveri resti
nel supermercato e li hanno gettati lì, non la parola uomini ma contro
uomini. Il silenzio dei morti ci appartiene come le grida d’aiuto delle
vittime squartate dalle guerre e dei profughi, in quel silenzio
riconosciamo la nostra voce.
C’era una volta una Nato. Oggi ne contiamo almeno cinque, più
il capogruppo americano con il pallido vicino canadese. Sommerse ma
identificabili ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Emerse e a
tutti visibili al quarto mese di guerra. In ordine di avversione a Mosca
e vicinanza a Kiev.
Ecco l’avanguardia antirussa, estesa lungo l’asse dei Tre Mari:
Artico, Baltico e Nero. Perno centrale la Polonia. Ali nordiche Estonia,
Lettonia, Lituania, con la Scandinavia allargata – Svezia e Finlandia
sono in procinto di aggiungersi a Norvegia e Danimarca. Ali
balcanico-eusine, Bulgaria e Romania. Obiettivo minimo finale, ridurre
la Russia a Stato paria. Espulso per sempre dall’equazione di potenza
paneuropea. Ma c’è chi spera di più, perché ama talmente la Russia da
volerne una dozzina. Frutto di micidiale sequenza: caduta di Putin,
crollo del regime, disintegrazione della Federazione Russa.
C’è poi il Regno Unito (finché tale resta), non brillantissimo
secondo dell’ex colonia statunitense cui presume di dover spiegare il
mondo. E che quando vede russo vede rosso. Però Londra è
sufficientemente pragmatica da potersi esibire nelle più ardite
piroette, sapendo che alla fine si ritroverà abbracciata a Washington:
giusto o sbagliato, il mio faro. In questa fase si offre esperta guida
ai baltici scatenati. Per gli ucraini, l’esercito britannico è generoso
fornitore di armi ed eccellente addestratore di truppe.
Giriamo pagina, perché gli altri tre attori – una quasi squadra e due
solisti – coltivano diversa priorità: salvare l’Ucraina senza rompere
con la Russia. Anche per timore che la Russia si rompa in frammenti
potenzialmente incendiari, di cui alcuni nucleari. O un minuto prima
scateni rappresaglia atomica.
Qui spicca l’asimmetrico allineamento Francia-Germania-Italia, in via
di allargamento alla Spagna. A disegnare un quadrilatero euroccidentale
espandibile a soci affini, pronti a chiudere la partita il prima
possibile. Pattuglia diplomaticamente acrobatica, perché tenere insieme i
diritti dell’aggredito e i propri interessi, non solo energetici,
impone qualche contorsione. In gergo: Euroquad, omaggio al Quad
indo-pacifico. Il cui approccio di base è assimilabile al progetto di
pace italiano che tratteggia il percorso dalla guerra alla tregua,
culminante in un futuro ordine paneuropeo. Russia inclusa.
Entusiasticamente sostenuto da Macron. Decisiva la Germania, per almeno
due motivi: è potenza di mezzo, storicamente oscillante fra Occidente e
Oriente, legata alla Russia soprattutto per via energetica; ed è a sua
volta divisa fra Bundesrepublik originaria, avversa a Putin e abbastanza
esplicita nel sostegno a Zelensky, ed ex DDR, ovvero gli avanzi di
Prussia e Sassonia da sempre vicini alla Russia in tutte le sue forme.
Ancora, la Turchia. Potenza autocentrata. Impero in ambiziosa
ricostruzione, con direttrici tous azimuts: dai Balcani alla Siria,
dall’Asia centro-occidentale all’Africa, con perno sulla Tripolitania.
Parola d’ordine, non puntare tutto su un solo schieramento, ma solo sui
propri interessi. Per ora, unico paese ad aver seriamente azzardato un
negoziato d’approccio fra Mosca e Kiev. E ad aver posto un provvisorio
veto all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato. Per dare via libera,
attende adeguate remunerazioni, soprattutto in armi americane di punta
(F-35 o almeno F-16). A Washington Erdoğan non accende passioni, ma
impone rispetto. Gli Stati Uniti, dopo aver tentato di rovesciarlo,
hanno stabilito che conviene trattarci. Stile suk.
È del tutto comprensibile, che tante
persone ignorino la relazione che c’è fra gli assetti del mondo e la
loro personale esistenza. Ed è
normale voltare la testa dall’altra parte. Spetta ai leader dire la verità
, preparare le persone a ciò che li attende
Q
uando esplode una crisi così grave da segnare una cesura radicale con il passato, è
una comprensibile forma di autoinganno raccontarsi che, non appena la
temperie attuale sarà superata, tutto ricomincerà come prima, si potrà
tornare alla «normalità». Intendendo per normalità la vita che si conduceva
prima che la crisi si manifestasse. Le divisioni alimentate in Italia, e
comunque in Italia con particolare intensità, dalla invasione russa
dell’Ucraina non sono soltanto una dimostrazione della forza del partito
anti- americano e dell’elevato numero di coloro c
he detestano istituzioni e simboli della democrazia occidentale.
Forza e numeri la cui consistenza può stupire solo coloro che ignorano la storia di questo Paese,
la sua antica, faticosa coabitazione fra
opposte visioni del mondo. C’è anche, a malapena celato dalle divisioni
ideologiche, qualcosa d’altro: una sorta di rimozione, di negazione della realtà che nasce da un diffuso desiderio di rassicurazione collettiva. Quale persona ragionevole può dissentire quando sente invocare la cessazione delle ostilità?
Però alcuni, e forse non pochi, fra coloro che chiedono la fine della
guerra hanno l’aria di sottintendere anche altro. Hanno l’aria di
credere, o di fingere di credere, che, una volta che le armi tacciano,
il mondo (il nostro mondo) possa tornare ad essere quello di prima. Chi
sottintende ciò pensa, o finge di pensare, una cosa manifestamente
falsa.
Quando
in Ucraina taceranno le armi (ma non finiranno certo le ostilità: nella
migliore delle ipotesi, ci potrà essere, prima o poi, solo una tregua
armata), tanti che oggi rifiutano l’idea, dovranno riconoscere che sono definitivamente cambiate le condizioni internazionali e che ciò avrà rilevanti conseguenze per le loro stesse vite.
In Europa la guerra ucraina ha
definitivamente certificato la fine dell’assetto e degli equilibri sorti
con la disgregazione dell’Unione Sovietica nel 1991 e successivamente
indeboliti, una picconata alla volta, dall’aggressione russa in Georgia
(2008) e poi in Crimea e Donbass (2014). Forse un giorno si affermerà un
nuovo sistema di sicurezza europeo condiviso e garantito dalle grandi
potenze. Ma ci vorrà tempo e, probabilmente, anche un cambiamento, al
momento non ipotizzabile, poco plausibile, nel sistema di potere vigente
in Russia. Fino ad allora si dovrà convivere in Europa con lo spettro e il rischio di nuovi e più allargati conflitti.
Berlino vuole estendere l’esenzione
per l’Ungheria all’oleodotto che serve Germania e Polonia. L’ipotesi di
approvare il pacchetto in due fasi
DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE
BRUXELLES L’Italia segna un punto nella sua battaglia per introdurre un
tetto al prezzo del gas a livello internazionale: Roma ha ottenuto un’apertura sul tema
dopo l’opposizione durata mesi da parte dei Paesi nordici, Germania e
Olanda in testa. Nelle conclusioni del summit straordinario dei leader
Ue, che si tiene oggi e domani a Bruxelles, si legge che «il Consiglio
europeo invita la Commissione a esplorare con i partner internazionali
le modalità per frenare l’aumento dei prezzi dell’energia,
compresa la fattibilità dell’introduzione di tetti ai prezzi
temporanei». Fondamentale è stata l’azione del ministro della
Transizione ecologica Roberto Cingolani su Berlino venerdì scorso al G7
Energia. Mentre la richiesta di inserire «prospettive di pace» nella parte dedicata al sostegno dell’Ucraina, caldeggiata anche da Grecia e Cipro, non sembra concretizzarsi.
E ancora niente accordo tra i Paesi Ue sul sesto pacchetto di sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina. L’embargo sul petrolio russo continua a dividere, così come in queste ore sta dividendo la telefonata al presidente russo Vladimir Putin fatta dal presidente francese Emmanuel Macron e dal cancelliere tedesco Olaf Scholz sabato scorso e precedentemente dal premier Mario Draghi, nel tentativo di arrivare a dei negoziati e sbloccare le esportazioni del grano e dei cereali ucraini per scongiurare una crisi alimentare mondiale. I Paesi Baltici e dell’Europa orientale non hanno apprezzato la mossa diplomatica. Oggi sarà il presidente turco Recep Tayyip Erdogan a chiamare Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky nel tentativo di aprire un dialogo tra Mosca e Kiev.
Intanto è stallo sull’embargo. La
riunione di quattro ore degli ambasciatori presso la Ue ieri non ha
permesso di sbloccare la situazione, si rivedranno questa mattina. Resta il veto dell’Ungheria
ma ieri pomeriggio anche altri Paesi, tra cui l’Olanda, hanno sollevato
perplessità per la soluzione proposta che prevede delle esenzioni. Il
Consiglio europeo straordinario inizierà solo nel pomeriggio e il
tentativo è trovare una sintesi nelle prossime ore.
Si sta consolidando a livello tecnico l’opzione di «procedere in due fasi»,
spiegava ieri una fonte diplomatica al termine dell’incontro, ma prima è
necessario verificare che tutti i 27 Paesi Ue siano d’accordo. Il sesto
pacchetto verrebbe adottato subito con l’eccezione temporanea delle importazioni di petrolio tramite l’oleodotto Druzhba,
che dovrebbero essere coperte da nuove misure e in una seconda fase,
nel giro di qualche settimana, per lasciare un po’ più di tempo per
trovare una soluzione ai Paesi fortemente dipendenti dall’oleodotto:
Ungheria, Slovacchia e Cechia. Alla fine, l’intero pacchetto iniziale
verrebbe ricostituito, incluse le importazioni di greggio via oleodotto.
di Francesco Battistini, Marta Serafini, Andrea Marinelli, Guido Olimpio
Le notizie di lunedì 30 maggio sulla
guerra, in diretta. Le forze russe avanzano nel centro della città di
Severdonetsk. Potente esplosione a Melitopol. Forti perdite tra i
giovani ufficiali del Cremlino
• La guerra in Ucraina è arrivata al 96esimo giorno: la Russia continua la sua avanzata, lenta ma devastante, nel Donbass. La città di Severodonetsk, ha detto il leader ucraino, «è praticamente distrutta». •
Nella giornata di domenica, Zelensky ha fatto visita al fronte, vicino
alla città di Kharkiv, nell’est del Paese: è la prima volta dall’inizio
dell’invasione che il presidente ucraino ha lasciato la zona della
capitale. • Oggi il presidente turco Erdogan dovrebbe sentire al
telefono Putin e Zelensky. Il ministro degli Esteri russo, Sergei
Lavrov: «Putin non dice mai di no di fronte alla richiesta di colloqui
di altri leader. La nostra priorità è la liberazione del Donbass». • Gli hacker filorussi di Killnet tornano a minacciare l’Italia: lunedì «faremo un colpo irreparabile», il loro messaggio. • L’Ue non
ha ancora trovato un’intesa sul sesto pacchetto di sanzioni contro la
Russia. Slitta un accordo sull’embargo del petrolio russo; sul tavolo l’ipotesi di un tetto al prezzo degli idrocarburi. •
Il consigliere del sindaco di Mariupol ha postato su Telegram una foto,
raccapricciante, di corpi ammassati dai russi in un supermercato. «A
Mariupol i russi buttano cadaveri di civili ucraini in un supermercato.
Li ammassano come in una discarica», ha detto.
Ore 08:36 – Kiev, forze russe avanzano nel centro di Severodonetsk
Le forze russe sono
avanzate verso il centro di Severodonetsk. Lo scrive su Telegram
Sergei Gaidai, capo della regione di Lugansk. «I russi stanno avanzando
verso il centro della città. I combattimenti continuano, la situazione è
molto difficile». Aggiungendo che i «soldati russi uccisi non vengono
portati via e l’odore di decomposizione ha riempito la zona».
Ore 08:25 – Potente esplosione nel centro di Melitopol
Una grande esplosione
si è verificata questa mattina nel centro di Melitopol. Secondo quanto
fonti ucraine è avvenuta non lontano dal quartier generale delle forze
russe quindi — riporta Ria Melitopol — e non è escluso che si possa trattarsi di un’azione messa in campo dalla resistenza ucraina.
Ore 08:20 – Borrell: embargo sul petrolio? Accordo entro il pomeriggio
«Raggiungeremo un accordo sul prossimo pacchetto di sanzioni entro lunedì pomeriggio». Lo ha annunciato alla radio France Info l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell,
in vista del Consiglio europeo che dovrà decidere sul nuovo round di
sanzioni contro la Russia. «Nel prossimo pacchetto di sanzioni contro la
Russia non falliremo sull’embargo petrolifero», ha confermato Borrell, ribadendo che «alla fine ci sarà un accordo», malgrado la resistenza dell’Ungheria.
Ore 08:05 – La Nato: «Non abbiamo più vincoli che ci impediscano di mettere truppe nell’Est europa
Mircea Geoana, il vice
segretario generale della Nato, ha spiegato che l’Alleanza atlantica non
è più vincolata a intese del passato che le impedivano di schierare
truppe nell’Est dell’Europa, perché Mosca ha «svuotato di senso» il
patto tra Nato e Russia attaccando l’Ucraina.
«Mosca», ha detto, «ha aggredito un Paese vicino e interrotto il
dialogo con la Nato. Credo che il patto» del 1997 «sia ormai svuotato di
significato. Ora non abbiamo vincoli che ci impediscano di irrobustire
adeguatamente il fianco est della Nato», con una presenza «robusta,
flessibile e sostenibile».
Ore 07:56 – L’ex consigliere di Putin e l’ipotesi del viaggio di Salvini: «Ben venga, è leader di un partito amico»
(Marco Imarisio) «Se non ci riusciamo con le auto di lusso, va bene anche una bicicletta».
Sergey Markov è un uomo spiritoso. Questo non toglie che l’ex
consigliere di Vladimir Putin dal 2011 al 2018, ex deputato della Duma
dal 2007 al 2012, attuale direttore dell’Istituto di Ricerche politiche a
Mosca, sempre sotto l’egida dell’attuale «verticale del potere» russa,
rimane un uomo molto di parte.
Markov, cosa intende con la similitudine iniziale? «Credo che la usiate anche voi in Italia… Semplice. Certe mosse
negoziali spettano ai governi in carica. Ai Draghi, ai Macron. Ma se
loro non ce la fanno a recepire le ragioni del nostro Paese , ben
vengano i leader di partiti amici come Salvini. E se falliscono anche
loro, toccherà poi agli scrittori, agli attori, ai cantanti, ai poeti.
Il problema va risolto».
Ore 07:43 – Le «perdite devastanti» della Russia tra i suoi giovani ufficiali
«La Russia ha probabilmente subito perdite devastanti tra i suoi ufficiali di grado medio e inferiore nel conflitto».
A riportarlo — nel suo bollettino quotidiano — è il ministero della
Difesa britannico, che fa riferimento in particolare ai «comandanti di
brigata e battaglione» ma anche ai «giovani ufficiali».
«La perdita di gran parte della generazione più giovane di ufficiali
professionisti aggraverà probabilmente gli attuali problemi nella
modernizzazione del suo approccio al comando e al controllo», afferma il
bollettino, ed è «probabile che i gruppi tattici di battaglione che
vengono ricostituiti in Ucraina dai sopravvissuti di più unità siano
meno efficaci a causa della mancanza di leader giovani».
L’intelligence londinese ha poi fatto riferimento a «molteplici
rapporti credibili di ammutinamenti» tra le file dell’esercito russo,
indicando come «probabile che la mancanza di comandanti di plotone e di
compagnia esperti e credibili provochi un’ulteriore diminuzione del
morale e una continua scarsa disciplina».
Ore 07:27 – I russi sono entrati a Severodonetsk, dice l’Ucraina
Le forze russe sono
entrate a Severodonetsk, la città del Donbass che da giorni è colpita da
una pioggia, senza fine, di colpi di artiglieria pesante («fino a 200
all’ora»).
Secondo quanto riferito dal governatore ucraino della regione di
Luhansk, «l’esercito russo è entrato in città. Non ci sono né gas né
acqua corrente, in città, e non c’è modo di ripristinare quei servizi.
Oltre un milione di persone sono senza acqua».
Il presidente ucraino Zelensky ha spiegato che «il fuoco è così
intenso che i soccorritori non hanno potuto verificare la consistenza
dei danni e il numero delle vittime, l’intera rete infrastrutturale
cruciale della città è già stata distrutta, il 90% delle case sono state
danneggiate».
«La cattura di Severdonetsk è un obiettivo fondamentale» per i
russi, ha aggiunto il presidente ucraino, assicurando che le forze
ucraine stanno «facendo di tutto per respingere questa offensiva».
Ore 07:19 – Le esecuzioni in piazza e le torture, nelle città occupate dai russi
(Marta Serafini)
«Il modello è sempre lo stesso. Prima cambiano la rete e le tv per
diffondere la loro propaganda. Poi prendono gli amministratori locali e
li portano in piazza per torturarli e ucciderli davanti alla popolazione
in modo che non si ribelli».
Alexander Dunets è stato sindaco prima di Scastja, nella regione di
Lugansk, poi di Kreminna nella regione di Donetsk e ha fatto parte
dell’esercito di Kiev. Entrambe le cittadine sono state occupate dai
russi. E da entrambe arrivano racconti terribili.
«Chi è dentro mi manda messaggi disperati. Tutti stanno rintanati
in cantina per paura delle rappresaglie. Ma la moglie di un mio collega
del consiglio comunale mi ha detto che hanno preso suo marito di forza,
lo hanno trascinato davanti al comune e gli hanno sparato davanti a quei
pochi cittadini che si erano azzardati a uscire per cercare un po’ di
cibo».
Non riesce a risvegliarsi dall’incubo anche Mariupol, dove ieri,
secondo quanto denunciato anche dal consigliere del sindaco Petro
Andryushchenko su Telegram, i russi hanno ammassato in un supermercato
di Svybody Avenue una ventina di corpi emersi durante un tentativo di
aggiustare delle tubature dell’acqua danneggiate. «È una discarica di
cadaveri. I russi li stanno portando e li stipano come se fossero
spazzatura», ha scritto Andryushchenko.
(Federico Fubini)
Il grande furto del tesoro di Mariupol è iniziato. E rischia di portare
con sé una cascata di complicazioni, che potrebbero spingere molti
Paesi anche lontani dalla Russia e dall’Ucraina a decidere una volta per
tutte con chi stare: con la nazione aggredita e derubata dei suoi
prodotti o dalla parte dell’aggressore, che presto potrebbe mettere in
vendita quei beni.
Nella notte fra sabato e domenica — come anticipato ieri dal Corriere —
sono emersi i primi dettagli di quella che sembra un’operazione di
saccheggio del metallo prodotto a Mariupol. Da giorni la città è ormai
in mano all’esercito di Mosca e almeno una nave è già entrata in porto
per prelevare — secondo la parte ucraina — 2.700 tonnellate di prodotti in metallo da trasportare 160 chilometri più a oriente nel porto russo di Rostov.
L’agenzia di Mosca Tass ha confermato l’arrivo del mercantile a
Mariupol, mentre un portavoce del porto ha detto a Reuters che il carico
sarebbe destinato alla città russa sul Mare di Azov.
La reazione di Kiev non si è fatta attendere. «Il saccheggio dei
territori occupati continua — ha denunciato via Telegram la responsabile
per i diritti umani dell’Ucraina Lyudmila Denisova —. Dopo il grano,
gli occupanti si stanno dando a esportare prodotti in metallo».
Ma perché quel materiale è così importante? E come impatta la produzione di chip?
Previsto
l’arrivo di un centinaio di pullman da tutta Italia per la
manifestazione in piazza Santi Apostoli a Roma. La protesta, a pochi
giorni dalla conclusione dell’anno scolastico, è stata proclamata dai
sindacati contro le novità in tema di formazione, reclutamento, salario e
carriera varate dal governo con il Decreto Legge 36/22. “Misure
inaccettabili” le avevano definite le organizzazioni sindacali. Contrari
i presidi: “E’ una manifestazione populista”. Molte scuole sono chiuse e
solo alcune apriranno per poche ore vista l’assenza di docenti e
personale Ata.
La protesta è stata indetta da FLC CGIL, CISL Scuola, UIL Scuola, SNALS
Confsal e GILDA Unams, che hanno anche organizzato un sit-in a Roma a
Piazza SS. Apostoli (con qualche polemica preventiva, non essendo stata
concessa dalla Questura Piazza Montecitorio, tradizionale luogo di
protesta di fronte al Parlamento). Quattro le richieste principali dei
sindacati al governo: stralciare dal decreto tutte le disposizioni che
invadono il campo della contrattazione, dalla formazione agli aspetti
economici e normativi che riguardano il rapporto di lavoro; rivalutare
nel nuovo contratto le retribuzioni: più risorse nella legge di Bilancio
e no a un sistema a premi per pochi; dare stabilità al lavoro e
rafforzare gli organici invece che tagliarli, con un sistema di
reclutamento che assicuri la copertura dei posti vacanti e preveda
opportunità di stabilizzazione per i precari; riconoscere la
professionalità di chi lavora nella scuola come risorsa fondamentale:
mettere in sicurezza le scuole, ridurre gli alunni per classe.
Per i sindacati il Dl 36/22 “invade i campi della contrattazione in
materia di reclutamento e formazione: capitoli che dovrebbero essere,
appunto, regolati tra le parti. Quella disegnata dal decreto è una
formazione tra l`altro finanziata con un cospicuo taglio di personale
(10mila unità), mentre le nuove modalità di reclutamento – oltre a dare
un nuovo impulso al mercato dei crediti – non lasciano nessuna
possibilità di stabilizzazione per i precari, quelli che da anni hanno
permesso alle scuole di andare avanti. Il tutto, tradendo lo spirito del
Patto per la scuola, siglato un anno fa, che invece “prometteva”
scelte condivise. Infine sul contratto – concludono i sindacati –
le cifre stanziate sono assolutamente insufficienti per dare una
risposta dignitosa all`impegno del personale della scuola”.
“Lo sciopero avrà una alta adesione perché le ragioni della protesta
sono motivate: il governo sceglie di costruire una formazione per pochi,
finanzata con il taglio degli organici. In più si umiliano i precari
con un nuovo sistema di reclutamento e gli si nega l’abilitazione. Un
intervento da respingere, che io non chiamo nemmeno la riforma. Viene
tradito il Patto per la scuola. Il contratto poi è scaduto da tre anni e
ci aspettiamo un investimento serio per il rinnovo contrattuale: le
risorse stanziate non bastano anche dato l’impegno della scuola tutta
negli anni della pandemia. Evidenziamo l’inadeguatezza del governo
rispetto alle esigenze della scuola”, dice Francesco Sinopoli che guida
la Flc Cgil.