Archive for Maggio, 2022

Il conflitto costa 929 euro a famiglia. E lo stop al gas russo vale un -2% di Pil

domenica, Maggio 29th, 2022

Gian Maria De Francesco

Più povertà per tutti. È il risultato dell’impennata dell’inflazione che, determinando una contrazione del Pil, «restringe» la ricchezza prodotta e, di conseguenza, il reddito disponibile. Secondo l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, gli effetti della guerra in Ucraina produrranno per l’anno in corso una riduzione del Pil di 24 miliardi di euro reali che corrisponde a una perdita di potere d’acquisto medio per ciascuna famiglia italiana pari a 929 euro. A livello territoriale le famiglie più penalizzate saranno quelle residenti in Trentino Alto Adige (-1.685 euro), nella Valle d’Aosta (-1.473 euro) e nel Lazio (-1.279 euro). Gli artigiani mestrini hanno calcolato l’impatto del contesto recessivo confrontando le previsioni di crescita del Pil realizzate prima dell’avvio del conflitto con quelle successive all’invasione russa. Da queste emerge che la diminuzione della ricchezza prodotta nel nostro Paese sarà dell’1,4 per cento equivalenti a 24 miliardi di euro che, rapportati ai 25 milioni di famiglie presenti in Italia, si traduce in una perdita di potere d’acquisto per ciascun nucleo di 929 euro.

Ovviamente, in caso di deterioramento del clima macroeconomico, le stime della Cgia di Mestre dovranno essere ulteriormente riviste al ribasso. Ed è proprio a questo scenario che ha guardato ieri il Centro studi Confindustria (CsC) nella Congiuntura flash. Un eventuale blocco all’import di gas russo avrebbe «un impatto pesante» tale da creare «uno shock su volumi e prezzi». Gli economisti di viale dell’Astronomia stimano che lo stop potrebbe causare una forte carenza di volumi di gas per industria e servizi e un aumento addizionale dei costi energetici. «L’impatto totale sul Pil in Italia, nell’orizzonte 2022-2023, è stimabile in quasi un -2,0% in media all’anno», si legge nell’approfondimento. L’industria, infatti, verrebbe privata di tutta la fornitura di gas di cui necessita (cioè i 9,5 miliardi di metri cubi annui consumati finora), mentre i servizi subirebbero una riduzione delle forniture di gas pari a 4,5 miliardi di metri cubi (su 7,8). La stima del CsC è di una perdita di valore aggiunto nell’industria pari a 9 miliardi di euro nel periodo di 12 mesi, cui va sommata quella nei servizi pari ad altri 9 miliardi. A questo andrebbe sommato l’impatto sull’economia che deriverebbe da un potenziale rincaro ulteriore dei prezzi delle commodity energetiche.

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Viaggio nel popolo del Sì “I giudici non pagano mai”

domenica, Maggio 29th, 2022

Alberto Giannoni

«Chi sbaglia paga». È scritto sugli adesivi, sulle borse per la spesa, e soprattutto nel vissuto degli elettori, leghisti e del centrodestra: «I giudici – dicono un po’ tutti – sono gli unici che non pagano mai».

In piazza Marconi ad Abbiategrasso, davanti al Municipio si è riunito un gruppetto di militanti. Donatella garantisce che Matteo Salvini, alla battaglia per la giustizia giusta, ci crede davvero: «Ci sono imprenditori e cittadini – racconta la dirigente locale del partito – che sono incappati nella giustizia e ci sono rimasti imbottigliati per anni». Il referendum sulla responsabilità civile dei giudici è stato cassato, ma l’idea è che lo strapotere delle toghe debba essere limitato e responsabilizzato. Al tavolo si avvicina Luigi, candidato alle Comunali, e racconta la sua storia. Stava guidando di ritorno da Genova e un’auto l’ha fatto volare giù da un viadotto. «Sono salvo per miracolo – dice – Avevo 30 anni e un figlio piccolo e di me dicevano: Chèst chì al camina più. Quel tizio al volante aveva bevuto e chissà cos’altro. Otto anni per definire la cosa nel processo civile e alla fine ho avuto un risarcimento che non è bastato neanche a pagare la macchina. Fiducia nella giustizia? Glielo dico in abbiatese: Mì gha l’hoo no». Lo scrive in un post-it, e assicura che quello è «l’idem sentire» della gente.

È il penultimo fine settimana di campagna referendaria, prima del voto del 12 giugno sui 5 quesiti promossi da Partito Radicale e Carroccio. I leghisti hanno aperto i loro gazebo in mille piazze e nel prossimo week-and faranno il bis. Intanto si mobilitano anche «Più Europa» e Azione di Carlo Calenda. La Lega solo in Lombardia è in 500 piazze. Ad Abbiategrasso come in molti altri centri ci sarà il «traino» delle Comunali. Ma l’astensione preoccupa. Aldo è un militante leghista da anni, ma viene dal Psi e ricorda la campagna degli anni Ottanta, sull’onda del caso Tortora. «Per portare la gente a votare – dice – abbiamo affisso i manifesti in tutti i Comuni, anche dove non si vota, e lasciamo i volantini nelle cassette». Francesco, assessore comunale, spiega che la giustizia lenta e inefficiente è un problema per l’economia, e fa scappare gli investimenti proprio come la burocrazia farraginosa. «Qui sono venuti a firmare anche elettori di sinistra, di Iv – raccontano – e poi ci sono i comitati del Sì degli avvocati».

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Le tre nomine del Papa per Roma: ecco le mosse di Bergoglio

domenica, Maggio 29th, 2022

Francesco Boezi

A Piazza San Pietro e dintorni, la novità della settimana è di sicuro la nomina del cardinale Matteo Maria Zuppi (peraltro di origini romane) a presidente della Conferenza episcopale italiana. Tuttavia, Papa Francesco non si è fermato a questa – peraltro fondamentale – nomina, e sta operando altre mosse all’interno della Chiesa italiana.

Jorge Mario Bergoglio, infatti, ha scelto tre vescovi ausiliari per l’arcidiocesi di Roma, che ricopre un ovvio ruolo centrale (oltre che simbolico) nel contesto ecclesiastico italiano. Tutti e tre i prelati individuati dal Santo Padre per Roma sono semplici sacerdoti, e dunque dovranno diventare vescovi prima di iniziare a svolgere il loro incarico. Del resto, lo stile del pontefice è sempre lo stesso: “pescare” dal basso personalità che possano rappresentare la sua “Chiesa in uscita” e far sì che i vertici organizzativi non perdano, come magari è successo in passato, il contatto con il mondo e con i fedeli.

I nomi sono quelli di monsignor Daniele Salera, di monsignor Riccardo Lamba e di monsignor Baldassarre Reina, così come ripercorso da Aci Stampa. Si tratta, in almeno due casi su tre, di sostituzioni necessarie per raggiunti limiti di età. Resta invece al suo posto il cardinale Angelo De Donatis, che è il vicario del vescovo di Roma per l’Arcidiocesi Metropolitana. Una realtà enorme, specie in relazione a quasi tutte le diocesi italiane, che dunque necessita di essere gestita da ben più di un solo presule, considerando anche l’esigenza di coprire l’intero territorio cittadino.

Ma questo – come abbiamo già avuto modo di accennare parlando proprio del nuovo vertice della Cei – potrebbe non essere l’assetto definitivo dell’istituzione diocesana della capitale. “Accorpamento”, infatti, è una parola che Bergoglio sta iniziando a declinare sul pratico, riunificando numerose diocesi territoriali, semplificando le strutture organizzative e limitando sotto il profilo numerico i monsignori deputati a esercitare il “potere” diocesano. Il principio vale pure per la Cei, che nel frattempo dovrà procedere con il proseguo del Sinodo interno che terminerà nel 2023, con l’auspicio pontificio per cui, alla fine del “cammino”, il volto della Chiesa italiana possa essere diverso. E anche Roma potrebbe conoscere il suo alleggerimento.

Uno dei punti irrisolti rispetto alla “rivoluzione” organizzativa, a questo proposito, è la possibilità – com’era accaduto nel caso del cardinale Camillo Ruini e del cardinale Ugo Poletti – che il vicario del Papa per Roma finisca per essere stessa persona che ricopre l’incarico di presidente dei vescovi italiani. Significherebbe un ritorno a Roma per Matteo Maria Zuppi che lascerebbe così l’arcidiocesi di Bologna.

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Come la guerra di Spagna

domenica, Maggio 29th, 2022

Domenico Quirico

La guerra di Spagna e la guerra in Ucraina si assomigliano. Sono senza dubbio due guerre giuste contro un sopruso, una violenza: ovvero hanno messo di fronte un regime democratico aggredito a dittature, (nel 1936 accorsero in appoggio dei golpisti locali); combattenti stranieri scesi in campo in sostegno dell’uno e dell’altro campo; la prova generale di un conflitto più grande tra sistemi politici, ideologici e territoriali decisi a contendersi il mondo. Di tanto in tanto nella Storia accade di pensare di essere, immobili, al centro di una sconfinata distruzione. A costringerti a intervenire non è solo la paura, la vergogna di esser separato da altri uomini che soffrono, l’angoscia che ti prende di fronte alla forza bruta delle moltitudini e dei loro astuti burattinai. La guerra di Spagna, forse una delle guerre più “letterarie” e raccontate, fu uno di questi momenti. Per certi aspetti anche l’Ucraina, in circostanze storiche diverse, lo è. L’odio spinge l’uomo alla guerra più selvaggia e alla demolizione della immagine umana. In circostanze come queste un dato di fatto è qualunque cosa porti gli uomini su un terreno comune. È il momento in cui gli intellettuali, se non fanno nulla, pur avendo i mezzi per impedire o denunciare un massacro, un genocidio, una prepotenza contro i diritti dell’uomo, si accorgono che possono perdere la loro anima, abdicare a ciò che sono. Parlo di intellettuali, scrittori poeti filosofi, non dei giornalisti. A cui spetta invece per obbligo il compito, pericoloso e puntuale, di raccontare giorno per giorno la cronaca di quella realtà.

Nel 1936 molti intellettuali gettarono via la macchina da scrivere e partirono per la Spagna, a combattere, alcuni, nelle file degli aggrediti, da Hemingway a Malraux a Orwell, molti di più come Mauriac, per condividere quella tragedia con le vittime. Combatterono e persero quella guerra. Al ritorno, dopo averla vissuta, scrissero i capolavori che servirono per capire, e a sconfiggere quella rassegnazione di fronte al Male per cui l’uomo diventa, al momento buono, disponibile per ogni sorta di violenza. E preparare le ragioni della nuova battaglia che poco dopo li avrebbe ritrovati sui fronti della guerra mondiale. Anche novanta giorni fa gli intellettuali dell’Occidente si sono schierati nella quasi totalità a favore degli aggrediti, degli ucraini. Ma c’è una differenza, evidente e ricca di conseguenze, si direbbe un più generale segno dei tempi. A parte qualche frettolosa visita nella zona dell’Ucraina non travolta dalla guerra, visita “tecnica”, il tempo necessario per un reportage letterario, tutti si sono affannati a scriver subito il capolavoro, il racconto sulla guerra allo stesso tempo necessaria e impossibile, blasfema perché stupratrice del sacro suolo europeo. Alcuni libri sono usciti quasi in diretta, senza che si sappia come andrà a finire, chi saranno i vincitori e i vinti. Invece che a Kiev o a Odessa li si incontra, gli intellettuali, tutte le sere negli studi delle tv europee e americane a descrivere una guerra che non hanno visto, a fornire motivazioni all’invio di armi per prolungare la resistenza e annientare eventualmente il tiranno. Fu un interrogativo anche della guerra di Spagna, i totalitarismi italiano e tedesco lo risolsero armando il “tercio” di Franco per provare le loro armi nuove e micidiali, i repubblicani dovettero accontentarsi, vista la viltà delle democrazie di allora, soprattutto della assistenza non proprio disinteressata di Stalin. Ma verrebbe da dire che l’appello ad aiutare gli aggrediti ha un diverso valore e forza se fatto dal fronte dell’Ebro, allora, e del Dnepr, oggi, e non dal salotto tv. A ragione un noto filosofo francese a chi gli chiedeva conto di questa “diserzione” rispetto ai loro “antenati” ha risposto che “si sente più a suo agio con la tastiera di un computer che con una mitragliatrice…”. E nessuno chiede certo agli intellettuali di arruolarsi nei battaglioni di Zelensky. Il problema semmai è nella legittimità, e efficacia, di descrivere una guerra, analizzarla, invocarla senza averla mai provata nella sua incalzante brutalità. In guerra c’è poco spazio per la fantasia, provarla fa girare la testa, dubitare delle stesse nostre sensazioni, ci si sente colpevoli, sono i morti che comandano, che ti interrogano, si dialoga con le ombre. È nel primo morto che si incontra, in un fosso, riverso in un campo o tra le macerie, che è tutto il senso della faccenda.

È un dibattito antico: come si può legittimamente creare nell’opinione pubblica la consapevolezza di una “guerra giusta”? Perchè questo è diventato ormai uno dei compiti degli intellettuali impegnati, quelli di cui si parla oggi forse più che negli anni trenta con reverenza, perfino con soggezione, in quanto interlocutori indispensabili per chi governa, capaci di forgiare la pubblica opinione e di garantire una legittimazione simbolica; sostituendo, ha detto qualcuno forse con troppa enfasi, in tale ruolo i preti.

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Guerra Russia-Ucraina, il piano Ue per svuotare i granai: “Via 4 milioni di tonnellate al mese”

domenica, Maggio 29th, 2022

Marco Bresolin

INVIATO A BRUXELLES. «Agevolare le esportazioni di cibo dall’Ucraina attraverso diverse rotte terrestri e attraverso i porti marittimi dell’Ue». Il linguaggio usato nell’ultima bozza di conclusioni del Consiglio europeo, che sarà discussa domani dai leader Ue, riconosce una cosa: per svuotare i granai ucraini non è sufficiente creare un corridoio sicuro. Ne servono diversi: via mare, via fiume, via terra e via ferro. Per questo, al momento, sul tavolo ci sono diverse opzioni, ma tutte (o quasi) devono fare i conti con un ostacolo non indifferente: la volontà di Vladimir Putin. Diretta e indiretta, visto che una delle soluzioni allo studio prevede il transito attraverso la Bielorussia e dunque richiede il via libera di Alexander Lukashenko. L’obiettivo fissato dall’Ue è di portar fuori 3-4 milioni di tonnellate al mese.

La rotta su cui si sta lavorando con più attenzione è quella che parte dal porto di Odessa e poi scende nel Mar Nero per poi cercare uno sbocco attraverso il Bosforo. Per farlo bisogna però superare il blocco navale russo ed aggirare le mine marine (o, in alternativa, sminare le acque). Ieri il quotidiano spagnolo El Pais ha avanzato l’ipotesi di una missione navale europea per scortare le navi cariche di grano ucraino: l’idea sarebbe partita dall’Alto Rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell, anche se si tratta di un progetto ancora in una fase embrionale, tanto che non è mai stato discusso ufficialmente dagli ambasciatori dei Ventisette nelle riunioni preparatorie. Non è escluso che qualcuno possa avanzare la proposta al summit di domani, ma certamente i tempi non sono così maturi da potersi aspettare un via libera già a questo Consiglio europeo. Fonti Ue fanno notare che ci sono molti ostacoli militari a questo tipo di operazione, che potrebbe richiedere il coinvolgimento dell’Onu, oltre che il via libera della Turchia. «Avventurarsi in questo percorso – spiega un diplomatico – potrebbe rendere i Paesi europei cobelligeranti e comunque il rischio di incidente sarebbe troppo alto». Fonti italiane spiegano che un’eventuale missione Ue vedrebbe anche l’impegno di Roma, ma lo stesso Luigi Di Maio ha messo le cose in chiaro: «La Russia deve essere certamente un interlocutore» nell’operazione «svuotiamo i granai», tanto che il ministro degli Esteri ha evocato «il modello Azovstal»: «I prigionieri Azovstal sono stati evacuati e i corridoi per il grano seguano lo stesso percorso», che passa per forza di cose da un accordo con Mosca.

La seconda opzione, non necessariamente alternativa, punta invece verso Nord. I binari della rete ferroviaria ucraina hanno lo stesso scartamento di quelli bielorussi e dunque questo renderebbe possibile una continuità nel trasporto dei camion carichi di grano, che poi potrebbero arrivare in Lettonia e Lituania e da lì raggiungere i porti del Baltico. Per questa rotta, però, serve il via libera di Lukashenko, che in cambio chiede un allentamento delle sanzioni. Un’altra rotta già esplorata passa per la Polonia, ma il diverso scartamento con le ferrovie ucraine rallenta notevolmente il percorso perché alla frontiera è necessario spostare le merci su altri vagoni. Più rapido il percorso che va in Romania sulle chiatte attraverso le acque del Danubio e che sbocca nel porto di Costanza, sempre nel Mar Nero. Ma dall’inizio della guerra a oggi da qui sono passate soltanto 240 mila tonnellate di grano, circa l’1% di quello attualmente bloccato in Ucraina.

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Pedofilia, gli orchi della Chiesa: da inizio anno una denuncia al giorno

domenica, Maggio 29th, 2022

Domenico Agasso

ROMA. Dopo l’annuncio del primo report nazionale della Cei sulla pedofilia nella Chiesa, e l’avvio dell’inchiesta sugli anni 2000-2021, guardando i dati non ufficiali che si conoscono finora il lavoro per i vescovi presenta uno scenario tutt’altro che agevole e trionfale. Ma «ci prenderemo le botte che dobbiamo prenderci e anche le nostre responsabilità», ha assicurato con forza il neo presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi. Secondo gli ultimi numeri raccolti e analizzati da Rete L’Abuso, l’associazione che a oggi rappresenta uno dei punti di riferimento più costanti per i «sopravvissuti» agli abusi sessuali del clero, in Italia ci sono «164 sacerdoti indagati, 162 condannati in via definitiva, circa 30 vescovi insabbiatori, 161 nuove segnalazioni da inizio anno». A queste cifre si deve aggiungere quello che secondo il presidente Francesco Zanardi è «il dato più importante: 471 crimini impuniti», ossia le situazioni in cui il reato è andato in prescrizione oppure le cui vittime «non se la sono sentita di andare a denunciare i fatti in un centro di ascolto diocesano».

Zanardi è membro anche di Italy Church Too, associazione di vittime che si è costituita negli ultimi mesi «dal basso», con l’intento di promuovere la costituzione di una commissione di inchiesta indipendente sulle violenze sessuali commesse da ecclesiastici nel nostro Paese, su modello di quelle che hanno indagato in Germania e in Francia.

Rete l’Abuso ha realizzato anche calcoli di proiezione elaborati in base alle vicende irlandesi (1.259 denunce dal 1975, allontanati vescovi e oltre 100 preti): «In Italia ci sarebbe un milione di vittime potenziali. Se si pensa che la commissione d’inchiesta francese ha messo in luce 216mila vittime, e se si fanno le proporzioni tra clero francese e clero italiano, ci si rende conto che questo dato presunto è molto credibile».

È solo di qualche giorno fa la condanna a cinque anni di carcere per padre Vincenzo Esposito, 64 anni, originario di Caltavuturo ma assegnato alla parrocchia di San Feliciano Magione (Perugia), accusato di prostituzione minorile perché avrebbe preteso da quattro sedicenni prestazioni sessuali a pagamento attraverso delle videochiamate.

«Offrire denaro della Caritas, in contanti, in cambio del silenzio della vittima di violenza sessuale di don Giuseppe Rugolo»: sarebbe stata questa «la proposta della Diocesi di Piazza Armerina, guidata da monsignor Rosario Gisana», spiega Zanardi. La circostanza «è stata confermata in aula da Antonio Ciavola (allora capo della Squadra mobile di Enna e ora in servizio a Caltanissetta), nel corso del processo presieduto da Francesco Pitarresi che si celebra al tribunale di Enna e vede imputato Rugolo, agli arresti domiciliari da un anno».

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dai legali di Vladimir Resendiz Gutierrez, già rettore del seminario minorile dei Legionari di Cristo di Gozzano (Novara), chiuso per carenza di vocazioni: deve scontare sei anni di carcere per avere abusato di giovani allievi dell’istituto.

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E Salvini in volo con Draghi ha taciuto sul “piano Mosca”

domenica, Maggio 29th, 2022

Federico Capurso Ilario Lombardo

Quando nel pomeriggio di venerdì lo incrocia sullo stesso aereo di linea che porterà entrambi da Roma a Milano, Mario Draghi non conosce ancora le intenzioni di Matteo Salvini. La notizia sul leghista pronto a partire per Mosca uscirà poco dopo, anticipata dal sito della Stampa. Eppure, il leader non dice nulla al capo del governo, non gli anticipa di avere già tutto pianificato, voli, scali, incontri programmati in Russia.

E infatti, appena la notizia viene resa nota, superato il primo momento di incredulità, a Palazzo Chigi si attivano per capire quanto l’organizzazione del viaggio sia avanzata. Prima di una qualsiasi reazione, il premier vuole essere certo che il decollo di Salvini sia effettivamente imminente. Così, in serata vengono attivati contatti tra gli staff. Lo raccontano fonti della Lega. Il senso del messaggio dei collaboratori del premier è: «Questo viaggio ci può creare un problema e mandare all’aria tutto il lavoro diplomatico portato avanti da Draghi». Il capo del governo aveva sentito Volodymyr Zelensky al telefono appena poche ore prima, e Vladimir Putin il giorno precedente. Al centro dei colloqui, la questione del grano, 22 milioni di tonnellate bloccate nei porti del sud dell’Ucraina. Con grande fatica Draghi ha ottenuto la disponibilità di entrambi i leader a studiare un percorso comune per creare un corridoio e far partire le navi verso il Nord Africa e il Medio Oriente. In gioco c’è la stabilità del Mediterraneo, che verrebbe frantumata dalle conseguenze di una crisi alimentare sulle popolazioni più povere.

È questo il contesto in cui, all’improvviso, l’intero governo viene a conoscenza del blitz moscovita che sta preparando Salvini. Anche al Quirinale restano sbalorditi. La frenata che poco dopo arriva dalla Lega sa quasi di ripensamento. Così la interpretano a Palazzo Chigi. Draghi ufficialmente non dice nulla. E anche l’indomani evita di far trapelare nervosismo o contrarietà. Terrà questa posizione, fino a quando non ci sarà – se ci sarà – un annuncio ufficiale del viaggio.

A parlare, e a dare forma all’imbarazzo provocato da Salvini a tutto il governo, saranno i ministri e i partiti, e lo farà anche Giorgia Meloni dall’opposizione. Luigi Di Maio parla dalla Puglia, ospite di Bruno Vespa, nella masseria di Manduria, dove il giornalista ha organizzato due giorni di incontri con politici e manager. E un velo di imbarazzo, per un attimo, balena sul volto del titolare degli Esteri quando si trova costretto ad ammettere che la Farnesina era all’oscuro della possibile trasferta di Salvini a Mosca: «L’ho appreso dalle agenzie», si stringe nelle spalle abbozzando un sorriso. Per Di Maio è escluso che quel viaggio possa rappresentare un intralcio nei tentativi di riapertura di un canale di dialogo con la Russia, ma restano le perplessità per la sgrammaticatura nei rapporti con Palazzo Chigi: «Con Putin ci parla Draghi – puntualizza il ministro – perché si parlano tra omologhi e con obiettivi ben specifici».

Se invece l’intenzione è di andare a discutere di pace con dei ministri del governo russo o con il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, poco cambia, «ognuno ha i suoi obiettivi», taglia corto il ministro M5S. Ma l’obiettivo è assicurare il «massimo coordinamento» intorno al premier. E questo viaggio, organizzato all’insaputa dell’intero governo, si muove chiaramente in una direzione opposta e contraria.

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Europa e Italia tra Habermas e la barca dell’oligarca

domenica, Maggio 29th, 2022

MASSIMO GIANNINI

A pochi giorni da una disastrosa miccia referendaria che lui stesso ha voluto e ora non sa disinnescare, a pochi mesi da una rischiosa sfida politica che sancirà la sua perduta egemonia sulla destra, Salvini insegue ogni refolo di vento elettorale. Gli italiani sono stanchi di guerra? E lui veste il saio di Francesco e va a portare la croce in Russia e in Ucraina. Mariupol o Metropol per lui pari sono. Purché fruttino una manciata di voti.

Ma è fin troppo facile prendersela con Salvini. Dopo l’informativa del premier in Parlamento, oltre alla boutade sull’Expo 2030 da far svolgere a Odessa, se ne sono dette e sentite di tutti i colori. E non solo dai leghisti, ma anche dai pentastellati. È l’intero panorama partitico del Paese, immerso nel flusso della propaganda permanente, che mette tristezza. Ogni atto politico nasce e finisce nel gorgo della contesa elettorale. A fare il paio con il “viaggio della speranza” del novello Don Matteo della Lega, c’è anche il misterioso “piano di pace segreto in quattro punti” depositato dal ministro degli Esteri sul tavolo del segretario generale dell’Onu. Intenzione lodevole, ma un altro gesto estemporaneo e improvvisato. Non ha colto di sorpresa solo la solita premiata ditta del Cremlino Peskov&Sacharova, che per contratto devono bocciare tutto. Ma anche i partner Usa e Ue, che per contratto devono sapere tutto. Spariamo proiettili d’argento, nel buio dell’emergenza bellica e ad uso puramente interno. Esorcizzano la paura, senza alimentare la speranza. Non servono ad aprire spiragli veri al negoziato tra i belligeranti, ma a blandire un’opinione pubblica angosciata dalla guerra, che costa centinaia di migliaia di morti e già pesa per mille euro sui bilanci delle famiglie. Draghi fa quel che può, e con il suo prestigio internazionale copre miserie e mediocrità della nazione. Ingoia vecchi rospi e nuovi compromessi (come la legge sulla concorrenza e i balneari, sulla quale abbiamo solo comprato altro tempo). Ma è il prezzo da pagare, per blindare una premiership comunque credibile, almeno fino alle elezioni del 2023.

Per il resto, tra i partiti non si scorge un orizzonte lontano da costruire e condividere. A meno di non voler considerare tale l’idea futuribile ma implausibile di far governare insieme la sinistra riformista e la destra estremista. Un patto tra Partito democratico e Fratelli d’Italia, che corrono da soli all’uninominale in nome della responsabilità nazionale, non è solo contro natura (per quanto piaccia ai “terzisti” alle vongole di casa nostra, le differenze tra destra e sinistra sono sempre più marcate). È anche contro logica rispetto al sistema elettorale vigente (per quanto si scommetta sulle rispettive “vocazioni maggioritarie”, le alleanze spurie nei collegi rischiano di costare caro a chi non si coalizza). E per quanto Letta e Meloni siano litigiosamente simpatici come Sandra&Raimondo, la politica non è una scoppiettante sit-com degli Anni Settanta. Rimane “sangue e merda”, persino più di quanto non lo fosse ai tempi di Rino Formica.

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Illusioni e false promesse su tasse e concorrenza

domenica, Maggio 29th, 2022

di Ferruccio de Bortoli

Una diffusa ipocrisia nazionale si è esercitata di recente sulle concessioni balneari, su un presunto taglio generalizzato delle aliquote fiscali e sul Servizio sanitario nazionale

G li anni del denaro facile stanno finendo. Ma noi facciamo finta di non accorgercene. Se la maggioranza è così litigiosa pur avendo a disposizione risorse un tempo inimmaginabili, dobbiamo chiederci che cosa accadrebbe — a quale livello di rissa si arriverebbe — se anziché spendere e investire, si dovesse risparmiare e tagliare. È accaduto anni fa, rischia di succedere ancora. L’inflazione erode i risparmi. Il potere d’acquisto si indebolisce. Se si promette agli italiani che lo Stato possa porvi totale rimedio, si finisce solo per ingannarli. L’inflazione è una tassa occulta e regressiva (colpisce i più deboli). La cosa curiosa è che ce la siamo, almeno in parte, autoprodotta con l’infernale meccanismo del 110 per cento (33 miliardi per mettere a posto l’1 per cento del patrimonio abitativo). Senza conflitto d’interesse tra cliente e fornitore (tanto paga un terzo, il contribuente) i prezzi semplicemente esplodono. Lo spaccio di promesse azzardate diffonde l’illusione di un salvagente pubblico universale contro l’inflazione che disabitua famiglie e imprese a calcolarne, nel medio periodo, gli effetti composti.

I vincoli di bilancio europei sono stati giustamente sospesi anche per il 2022 ma la crescita del costo del denaro e il progressivo disimpegno negli acquisti della Banca centrale europea, creeranno una situazione di relativa debolezza del nostro debito. Questo nonostante la durata media, superiore ai sette anni, sia una forte garanzia di stabilità. Ma non eterna. La tendenza è questa. Ed è forse opportuno che un governo guidato dall’ex governatore della Banca d’Italia e dall’ex presidente della Bce, svolga una preziosa opera di pedagogia economica, spiegando i rischi cui probabilmente andremo incontro. Certo, li correremo quando ci sarà un altro esecutivo, dopo una campagna elettorale che si annuncia generosa di promesse, oltre che avara di verità scomode. Ma i tecnici non devono essere eletti. Ed è un fatto di onestà repubblicana che la gente conosca anche i pericoli, li valuti. Le famiglie italiane sono finanziariamente più prudenti di quelle di Paesi cosiddetti frugali; le comunità si dimostrano avvertite, responsabili, solidali. Non è detto che un discorso sincero e realistico non debba suscitare consenso e dunque voti. Famiglie, imprese e comunità sanno che per distribuire bisogna prima produrre. Prima, non dopo. Questa semplice constatazione è sepolta in un’affannosa rincorsa corporativa. Nell’idea perversa che lo Stato possa e debba fare tutto. E che si tratti solo di attendere, di riscuotere un diritto ormai svincolato da qualsiasi dovere.

Sono tre i tavoli sui quali si è esercitata negli ultimi tempi una diffusa ipocrisia nazionale. Il primo è il più recente e riguarda le concessioni balneari. Assolutamente curioso che l’attenzione sia stata concentrata solo sui risarcimenti. Con una corsa di alcune forze politiche ad intestarseli. Rarissime e coraggiose le voci contrarie. Un po’ più di concorrenza fa bene a tutti. Anche ai gestori che possono sfruttare economie di scala. Nel vissuto popolare sembra che l’Italia sia costretta alle gare e che se dipendesse da noi lasceremmo perdere. Ma allora perché farle in tante altre attività? Siccome il demanio è di tutti, ne consegue che siamo totalmente disinteressati al riconoscimento, pur con tutte le tutele per i soggetti interessati, di un canone di mercato. Più che generosi, irresponsabili.

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Settecento milioni al giorno per la guerra dello zar. La Russia ha già esaurito il 70% della forza militare

domenica, Maggio 29th, 2022

di Francesco Verderami

ROMA Quella che doveva essere un’«operazione militare speciale», si sta rivelando per Putin una guerra onerosa in termini di uomini, mezzi e soldi. Dal 24 febbraio, data d’inizio del conflitto, la Federazione russa ha utilizzato in Ucraina il 70% della sua forza militare convenzionale, con un impegno economico quotidiano che si aggira attorno ai settecento milioni di euro. Sono numeri elaborati da centri di analisi occidentali in possesso della Nato e dei Paesi che ne fanno parte. Danno la misura dello sforzo di Mosca pur di soggiogare Kiev. Testimoniano una volta di più quanto fossero «sopravvalutate le capacità belliche» degli invasori, come ha detto anche Draghi. Sono il motivo per cui Putin ha dovuto rivedere i suoi piani iniziali.

Nel primo mese di guerra la Russia ha impiegato le migliori risorse a sua disposizione. Ma la resistenza ucraina le ha inflitto perdite considerevoli: sono circa trentamila gli uomini lasciati finora sul campo insieme alla distruzione dei mezzi a tecnologia più avanzata, sostituiti con truppe poco addestrate e carri armati degli anni Sessanta. Così lo sforzo è stato concentrato in una porzione di territorio ed è stato sostenuto soprattutto da attacchi missilistici: «Duemilaquattrocento, con testate di diverso tipo», secondo quanto ha riferito Zelensky. Nel Donbass — in base alle rilevazioni dell’Alleanza atlantica — i militari russi procedono «a ondate», potendo contare su un rapporto di forza che in principio era di due a uno in loro favore. E che si è ulteriormente sbilanciato perché gli ucraini non hanno ricambi.

Ma proprio per l’errato calcolo bellico iniziale di Putin, «la guerra non ha preso un’inerzia definita»: lo spiega un autorevole esponente dell’esecutivo italiano, secondo il quale «senza situazioni impreviste e imprevedibili che facciano di colpo cambiare le sorti del conflitto, e senza gli spiragli di pace a cui si è riferito Draghi, si andrà avanti per mesi». Anche perché c’è una avvertenza che il ministro della Difesa Guerini ha posto in una riunione di governo: «Conquistare il territorio è cosa diversa dal controllarlo». Un modo per spiegare che i russi non hanno certezza di consolidare la loro avanzata su aree così vaste del Paese: visti gli uomini e i mezzi attualmente a disposizione, sarebbero comunque in difficoltà. Usano l’artiglieria per colpire a distanza, hanno ripreso i bombardamenti aerei notturni. Ma sul campo è un’altra cosa.

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