Lo sconcerto di alcuni ministri, a
partire da Di Maio. Si temono effetti sull’azione diplomatica avviata da
Roma. Il leader della Lega: «Non è certo che andrò»
Sono
più le domande che le reazioni. Perché sarà vero e in fondo anche
scontato, se non altro per ragioni di necessaria cortesia istituzionale,
che Matteo Salvini non potrà non informare Mario Draghi di un eventuale viaggio a Mosca. Ma le domande, e più di una punta di imbarazzo che si abbina alle
stesse, riguardano tutti gli interrogativi possibili sulla visita.
Compresa quello della sua effettiva praticabilità.
«È una notizia che si commenta da sola»,
rilevano con una punta di fastidio, sconcerto e persino d’ironia a
Palazzo Chigi. Alcuni ministri del governo sono sbigottiti. Persino
nella Lega, sia fra i governatori che fra i membri dell’esecutivo,
emergono perplessità molto corpose. C’è la paura che Salvini esponga l’Italia a una brutta figura,
ricordando fra le altre cose che il viaggio dello stesso Salvini in
Polonia, poco dopo lo scoppio della guerra, fu denso di polemiche,
critiche e contestazioni.
Intanto proprio il leader della Lega, commenta su Rai Radio Uno: «Sono in Italia. Non ho certezze che ci andrò, ci stiamo lavorando. E si va se serve,
certezze non ce ne sono». Per alcuni — aggiunge — «sarei già partito
ieri. Non è un viaggio di piacere: si va se serve. Non vado a nome del
governo, do il mio mattoncino». La freddezza che si riscontra nei commenti a caldo riguarda anche i precedenti, il fatto che i rapporti di Salvini e
altri esponenti della Lega con il potere russo non sempre sono stati
giudicati trasparenti, sia da inchieste giornalistiche sia da indagini
giudiziarie, indagini che non hanno coinvolto direttamente il leader
della Lega, ma hanno acceso un faro non sempre limpido sulla sua rete di
relazioni con Mosca.
C’è poi almeno un altro motivo di fastidio dentro il governo: mentre l’Italia è impegnata su più fronti per cercare di svolgere in modo efficace un ruolo diplomatico nella crisi ucraina,
di sicuro la visita a Mosca di un membro di rilievo della maggioranza
verrebbe letto in modo negativo in ambienti internazionali. Sarebbe
quasi un unicum, nel panorama delle visite politiche in Russia
dall’inzio del conflitto.
di Francesco Battistini, Andrea Marinelli, Guido Olimpio, Marta Serafini
Le notizie di sabato 28 maggio sulla
guerra, in diretta. Salvini prepara la visita a Mosca. Kadyrov: un
gruppo di combattenti ceceni ha preso il pieno controllo della linea di
contatto con «i nazionalisti ucraini»
• La guerra in Ucraina è arrivata al 94esimo giorno: qui lo speciale sui tre mesi di conflitto. • I russi avanzano nel Donbass. Zelensky: «È genocidio». Biden pronto a inviare armi più potenti. • Salvini pensa alla possibilità di una visita a Mosca – ma nella mattinata di oggi ha anche affermato che «è difficile» e che «se vado, non è a nome del governo». • Ieri la telefonata tra Draghi e Zelensky:
«Dobbiamo sbloccare i porti insieme per prevenire una crisi
alimentare». Putin accusa gli ucraini per le mine nei porti che fermano
le navi con i carichi di grano e per i negoziati sospesi. • La Chiesa ortodossa ucraina si stacca da Mosca e si dichiara indipendente. • Secondo il sito di notizie Meduza, la Russia starebbe valutando un secondo assalto a Kiev, forse in autunno.
Ore 08:53 – La «mobilitazione segreta» in Russia
Pochi giorni fa, la
Russia ha cancellato alcuni dei limiti per l’arruolamento — in
particolare, quello «superiore», che era finora in vigore, e che
impediva di arruolare gli over 40.
Secondo Kiev, però, le operazioni di mobilitazione in corso a Mosca sono ben più ampie.
«In Russia sono in corso misure di mobilitazione segrete», scrive su
Facebook lo Stato Maggiore Generale delle Forze Armate dell’Ucraina,
secondo cui, tra l’atro, «continua la formazione degli ufficiali di
riserva per le esigenze delle unità dell’aeronautica e delle forze di
difesa aerea negli istituti di istruzione della Repubblica di
Bielorussia».
Ore 08:34 – Perché siamo entrati nella «terza fase» della guerra
(Andrea Marinelli e Guido Olimpio) Dopo tre mesi di combattimenti intensi, la resistenza è in grande difficoltà nell’est del Paese, dove i russi — aggiustate tattiche e obiettivi — stanno avendo la meglio.
Proprio questi rovesci hanno convinto gli Stati Uniti a compiere un nuovo passo in avanti nell’invio di armi.
La prossima settimana gli Usa dovrebbero approvare un nuovo pacchetto di aiuti che comprenderebbe anche gli Mlrs, con i quali la resistenza può ingaggiare obiettivi da lunga distanza e con precisione.
Sono sistemi composti da 12 tubi che sparano razzi da 300 chilogrammi. La gittata massima — dipende dalle munizioni — può arrivare a 300 chilometri, ben più ampia di qualunque mezzo attualmente in dotazione agli ucraini.
Il governo di Kiev chiede però anche i sistemi Himars (High Mobility Artillery Rocket System), che sparano razzi simili ma sono più leggeri e manovrabili. È un’arma devastante contro concentrazioni di truppe e mezzi: essendo mobile, spara e si sposta rapidamente sottraendosi al fuoco nemico.
Con queste armi, si entrerebbe in una «terza fase» del conflitto, e del supporto occidentale all’Ucraina: «La prima “ondata” di armi ha permesso un “contenimento”, poi gli ucraini hanno sollecitato una mossa ulteriore: carri armati, aerei, armi pesanti per provare a riconquistare territorio. Gli Stati Uniti hanno risposto nei primi giorni d’aprile. E tra la fine di aprile e metà maggio c’è stato un altro momento importante, proiettato verso il futuro. Al vertice di Ramstein, in Germania, i Paesi donatori hanno deciso una transizione dell’esercito ucraino verso i prodotti Nato, che permetterà di fornire armi e soprattutto munizioni — di cui c’è continua necessità — senza doverle racimolare alla «fiera» dell’Est Europa».
Qui sotto, il grafico con le «tre fasi» di guerra.
Ore 08:21 – L’India aggira le sanzioni occidentali: il «doppio gioco» di Modi
(Federico Rampini)
I motori dell’Air Force One erano ancora caldi per la lunga trasferta
di Joe Biden in Asia, dove il presidente americano aveva partecipato
anche a un vertice del Quad, il quadrilatero strategico in funzione
anti-Cina che include India, Giappone, Australia.
Ed ecco che da Delhi è arrivato l’ennesimo tradimento. Altro che allinearsi con l’America sulla guerra in Ucraina.
Il governo di Narendra Modi ha annunciato che l’India continuerà a comprare petrolio dalla Russia. Più di prima.
Delhi e Mosca stanno mettendo a punto un meccanismo finanziario per facilitare i pagamenti e gli scambi fra rublo e rupia aggirando le sanzioni occidentali contro Vladimir Putin.
L’India si sta comportando in modo perfino più «sfacciato» della
Cina. Le aziende di Stato cinesi sono più circospette nelle loro
transazioni con la Russia perché non vogliono finire a loro volta sulla
lista nera delle sanzioni. Il governo Modi invece procede alla luce del sole,
incrementa i propri acquisti di energia dalla Russia, e lo fa con
grande abilità negoziale: ottiene sconti molto sostanziali rispetto ai
prezzi di mercato.
Ore 08:15 – «Ci sono diecimila russi, in questa regione»
Due giorni fa, il
governatore della regione di Luhansk, Sergiy Gaidai, aveva parlato dello
«choc» della popolazione e dei militari, vedendo i soldati russi
«uscire da ogni parte».
Oggi — parlando alla tv nazionale ucraina — prova a dare una
dimensione numerica a quello choc: ci sarebbero, ha spiegato, «diecimila
truppe russe» nella sua regione. E si tratta di «unità stanziate in
modo permanente nella regione, che stanno cercando di assaltarla e di
conquistare terreno in qualsiasi direzione».
Ore 07:47 – I russi hanno conquistato una città strategicamente importante
Ormai è un appuntamento noto: ogni giorno, il ministero della Difesa britannico pubblica un report che fa il punto sull’andamento delle operazioni sul campo. Ed è un report colmo di informazioni di enorme rilevanza — anche perché la Gran Bretagna ha mostrato di avere, fino ad ora, informazioni estremamente accurate su ciò che accade tra Mosca e Kiev.
Quello di oggi, però, è un report preoccupante per l’Ucraina. Perché l’intelligence militare di Londra spiega che «il 27 maggio, le forze russe hanno probabilmente catturato la maggior parte della città di Lyman, nel nord dell’Oblast di Donetsk, in quella che probabilmente è un’operazione preliminare per la prossima fase dell’offensiva russa nel Donbas».
Si tratta di una conquista «strategicamente importante», perché Lyman «è sede di un importante nodo ferroviario e dà accesso a importanti ponti ferroviari e stradali sul fiume Siverskyy Donets».
«Nei prossimi giorni», quindi , «è probabile che le unità russe nell’area diano priorità alla forzatura dell’attraversamento del fiume»: e «una testa di ponte vicino a Lyman darebbe alla Russia un vantaggio nella potenziale prossima fase dell’offensiva nel Donbass, quando probabilmente cercherà di avanzare verso le città chiave controllate dagli ucraini più in profondità nell’Oblast di Donetsk, Sloviansk e Kramatorsk».
«Se la Russia riuscisse a conquistare queste aree, molto probabilmente il Cremlino lo vedrebbe come un risultato politico sostanziale e lo ritrarrebbe al popolo russo come una giustificazione dell’invasione».
La notizia è stata data dalla Tass, la agenzia di Stato
russa, battendo i media occidentali. La velocità, che ha bucato la cappa
di silenzio e indifferenza in cui il Cremlino di solito si rinchiude, è
il primo metro di misura della «contentezza» con cui Putin ha ricevuto
la chiamata italiana.
Il presidente del Consiglio Draghi dopo due mesi ha ancora formato
(figurativamente) il numero del Presidente di Mosca «per chiedere», come
ha poi riferito, «se si potesse far qualcosa per sbloccare il grano che
giace oggi nei depositi ucraini… visto che la crisi avrà proporzioni
gigantesche e conseguenze umanitarie terribili». Ne è seguito uno
scambio che a momenti suona «ironico»: Putin ha infatti risposto di
essere disposto a «sbloccare il grano in cambio della fine delle
sanzioni». Mettendo di fatto fine così subito a ogni idea di trattativa.
Con sicurezza (ironia involontaria?) ha però confermato che la Russia
ha intenzione di garantire una fornitura ininterrotta di gas a prezzi
fissati nei contratti all’Italia.
Il Presidente del Consiglio, che non ama i toni gloriosi, ha dato
alla fine una valutazione realistica del risultato: «Può essere un
tentativo che non andrà da nessuna parte, ma la gravità della situazione
ci impone di rischiare e provare cose che possono anche non riuscire.
Proverò dunque a telefonare a Zelensky». Ma da Chigi indicano questo
esempio come il metodo che Draghi intende mettere sul tavolo per il
ruolo di pacificatore che dà all’Italia: «Un atteggiamento pragmatico,
che mette sul tavolo una questione per volta, con una soluzione per
volta».
Fa bene Palazzo Chigi ad essere cauto. Tuttavia una notizia
importante esce da questo scambio telefonico: e non ha a che fare con i
contenuti di una trattativa, ma con la sicurezza e un qual certo
entusiasmo con cui Putin l’ha sbandierata.
Del resto, è stata una giornata in cui Putin è apparso in ottima
forma, a dispetto di tutte le voci che lo danno malato. Al foro
economico euroasiatico ha preso in giro le misure occidentali: «Con le
sanzioni siamo più forti», e ha parlato con irrisione dei «gendarmi
globali che cercano di bloccare il mondo». Ma, dice, «isolare la Russia è
impossibile, assolutamente irrealistico nel mondo moderno, coloro che
cercano di farlo si faranno male da soli». Il quadro che ha dato
all’Occidente è invece devastante, «inflazione mai vista in 40 anni,
crescente disoccupazione, guai nelle catene di approvvigionamento, e
aggravarsi delle crisi globali come quella alimentare».
La notizia è proprio questa: Putin è tornato sulla scena, ed è di ottimo umore. E ha buone ragioni per esserlo.
Dal palco del congresso della Cisl, il premier Mario Draghi
annuncia che la pressione fiscale calerà dello 0,4%, ed è «la riduzione
più consistente degli ultimi sei anni». Poi tende la mano ai sindacati
provando a far ripartire la concertazione: «Spero che lo spirito di
collaborazione possa rafforzarsi», anche per arginare il fenomeno
drammatico delle morti sul lavoro: «Molto resta ancora da fare». Ma le
tensioni tra Cgil, Cisl e Uil sono al livello di guardia.
«L’unità non è un feticcio fine a se stesso», diceva due giorni fa
Luigi Sbarra aprendo la kermesse della confederazione. Certo non si
aspettava che «gli amici di Cgil e Uil» lo prendessero in parola,
disertando la seconda giornata del congresso, con Maurizio Landini e
Pierpaolo Bombardieri che non si sono presentati, nonostante l’invito a
partecipare a una tavola rotonda sulla politica internazionale.
I leader di Cgil e Uil hanno comunicato la loro assenza per motivi
familiari, inviando i responsabili dei dipartimenti internazionali. Una
presa di distanza evidente, nonostante tutti i protagonisti neghino
divisioni. I delegati della Cisl, nei conciliaboli a margine dei lavori,
hanno pochi dubbi: «È un film già visto, almeno potevano mandare due
esponenti un po’ più rappresentativi per ascoltare Draghi», ripetono.
Sbarra, invece, molto diplomaticamente, non vede retroscena: «Non
penso ci sia una spaccatura nel sindacato, abbiamo apprezzato mercoledì
la presenza di Landini e Bombardieri». Al di là delle assenze, però, la
divergenza di vedute tra i confederali è difficile da negare: dal
salario minimo alla rappresentanza, dalla guerra in Ucraina fino al
giudizio sull’esecutivo.
«Il metodo del dialogo e del confronto è quello che ci ha consentito
nell’ultimo anno di conquistare risultati importanti. Questa è la strada
e così vogliamo costruire un grande patto sociale», ribadisce il
segretario della Cisl. Già, il patto sociale sul modello di quello di
Ciampi del ’93, una proposta su cui la Cisl insiste da mesi e che non
convince Cgil e Uil. Bombardieri è stato molto critico: «E che ci
scriviamo dentro? Quali sono i contenuti? La precarietà aumenta ma non
mi pare che il governo abbia intenzione di cambiare linea». Stesso
discorso sul taglio del cuneo fiscale e la detassazione degli aumenti
contrattuali. Per Landini le misure messe in campo dal governo, e
apprezzate dalla Cisl come il bonus da 200 euro, sono «assolutamente
insufficienti».
Una batteria ad alghe sarebbe stata perfetta per un romanzo
di Emilio Salgari, magari per alimentare un profondimetro o una lampada
sottomarina. E invece alla University of Cambridge ne hanno sviluppata
una per dare energia a un microprocessore Arm, con la prospettiva domani
di fare lo stesso con un vero e proprio sensore internet-of-things. Sì,
uno di quei piccoli dispositivi che in un appartamento consentono di
controllare una tapparella, oppure comunicare all’aspirapolvere che
siamo usciti e può iniziare le pulizie.
“Si chiama Synechocystis e oggi è classificato come un
cianobatterio, ma fino a 20-30 anni fa era chiamata alga blu-verde, data
la sua pigmentazione; biologicamente è simile a una pianta”, ci spiega Paolo Bombelli,
uno dei ricercatori del team del Dipartimento di Biochimica dell’ateneo
che ha seguito il progetto. “Ne abbiamo sfruttato le proprietà di
fotosintesi per creare un piccolo sistema elettrochimico che, alimentato
con la luce, produce corrente elettrica”.
Arm Research, che ha sede proprio a Cambridge, ha sviluppato il chip di test, costruito la scheda correlata e impostato l’interfaccia cloud di raccolta dati per gli esperimenti. Tutti i dettagli sono stati esplicitati nello studio Powering a microprocessor by photosyntesis recentemente pubblicato, dopo la consueta revisione, sulla rivista scientifica Energy&Environmental Science
Come funziona la bio batteria
Una batteria ad alga come quella realizzata dal team di Cambridge è
una potenziale risposta al problema dell’alimentazione dei dispositivi
internet-of-things. Saranno più di un trilione nel mondo entro il 2035,
secondo il noto produttore inglese di chip Arm. E di certo
l’alimentazione non potrà essere gestita tramite miliardi di piccole
batterie agli ioni di litio – un materiale sempre più richiesto anche a
causa del boom delle auto elettriche e ibride.
Ecco spiegato il senso di un dispositivo fotosintetico, a ridotto
impatto ambientale, capace di sfruttare costantemente la luce naturale
oppure quella artificiale come fonte energetica. “Nello studio abbiamo
confermato che la batteria ha funzionato sei mesi, ma in verità siamo
riusciti ad alimentare il chip Arm Cortex M0+ per più di un anno e
probabilmente avremmo potuto proseguire se non avessimo dovuto
restituire il processore”, sottolinea Bombelli.
Nello specifico, la corrente generata doveva consentire al chip di
eseguire un solo comando: ovvero confermare l’esecuzione di una semplice
operazione aritmetica e in caso contrario – quindi mancanza di corrente
– generare una notifica di errore. Il contatore ha raggiunto i 125
miliardi di operazioni in sei mesi e di fatto non si è mai fermato. La
corrente prodotta variava durante l’intera giornata, ma ovviamente il
picco veniva raggiunto nelle ore diurne. Durante le ore notturne
comunque veniva assicurata una soglia minima grazie all’energia chimica
accumulata in precedenza.
Molti si meravigliano dello scarso interesse verso i referendum sulla giustizia, a meno di tre settimane dal 12 giugno. Trattano temi che dovrebbero essere al centro della pubblica attenzione, essendo il mal funzionamento della macchina giudiziaria in cima all’agenda delle lamentele da parte dei cittadini. Il che non è certo un mistero. Invece, ora che è arrivato il momento di dare una spinta al Parlamento, di fronte al quale è già all’esame la riforma Cartabia, ecco la nebbia in cui sfumano tutti i buoni propositi. In realtà non assistiamo a quasi nulla di nuovo, salvo un’indifferenza persino maggiore che in passato. Come sempre accade, il referendum pone due ordini di problemi: uno di sostanza, che tocca il merito dei quesiti; e uno politico che investe il quadro generale, soprattutto nell’ambito della maggioranza. Sul primo punto – il merito dei problemi evocati dall’iniziativa referendaria – il fronte del “sì” è variegato, espressione disordinata della società. C’è il comitato promotore, ci sono i radicali e i leghisti, nonché un arcipelago di professori, intellettuali, professionisti, liberali senza partito, anche politici o ex politici che ritrovano un pezzetto della loro gioventù. Manca finora la mobilitazione che in altre occasioni lasciava presagire la vittoria (ma talvolta si trattava solo di un’illusione). Anche nel 1974, quando si votò per il divorzio, il percorso apparve tormentato. In quel caso c’era da difendere la legge Fortuna-Baslini, un socialista e un liberale, e a guidare la corsa c’era un personaggio carismatico, del tutto anomalo nella società politica, qual era Marco Pannella. Non fu semplice neanche allora scuotere la pigrizia del sistema: il Pci, ad esempio, si mosse solo all’ultimo e non condivise il palco “laico” di piazza del Popolo. Si avvertiva peraltro un’atmosfera elettrica oggi carente. Certo, il tema del divorzio era facilmente percepibile: Sì o No. Viceversa la materia della giustizia è complessa e il nodo gordiano si presta poco al taglio netto, come fa notare Sabino Cassese sulla Stampa. Tuttavia l’autorevole costituzionalista non ha dubbi sulla scelta: voterà “sì” ai cinque quesiti perché la paralisi dell’impianto giudiziario è intollerabile, per responsabilità che sono anche della magistratura e per la buona ragione che la riforma Cartabia, frutto di un difficile compromesso, ha bisogno di una scossa. La pensa allo stesso modo Claudio Petruccioli, uomo di sinistra oggi lontano dall’attività di partito, ma tra i fondatori dell’associazione Libertà Eguale: “C’è anche una questione di carattere politico – dice al Riformista – negli ultimi decenni sono stati alterati i rapporti tra i poteri”.
Sotto le armi fino a cinquant’anni. È la risposta di Vladimir Putin alle pesanti perdite subite dalle sue forze in tre mesi di guerra in Ucraina. Il parlamento russo ha approvato una legge che alza l’età massima per servire nell’esercito dai 40 ai 50 anni. Non significa che tutti gli uomini fino a quella età saranno costretti a indossare l’uniforme e andare a combattere nel Donbass: è soltanto, per il ministero della Difesa, la possibilità di arruolare volontari cinquantenni, a contratto, ovvero stipendiati. Non si tratta dunque della mobilitazione generale, che secondo alcune indiscrezioni sarebbe stata annunciata dal capo del Cremlino nel discorso del 9 maggio per la parata sulla Piazza Rossa, nell’anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale. Una misura del genere avrebbe rivelato al Paese che l’invasione del vicino non è una “operazione militare speciale”, com’è obbligatorio chiamarla in Russia, bensì un’autentica guerra. E una leva di massa per gli adulti di ogni età sarebbe stata uno strumento rischioso, capace di allargare il dissenso popolare verso il conflitto: a nessuno piace armarsi e partire per il fronte, specie a chi ha passato da un pezzo gli anni del servizio militare e ha già un lavoro, una famiglia. Ma l’iniziativa lanciata da Mosca sembra una mobilitazione strisciante, una leva nascosta, per reagire ai 15 mila morti e al numero ancora più grande di soldati feriti e fatti prigionieri dal 24 febbraio a oggi: in tutto pari a un terzo della forza di invasione di 150 mila uomini, secondo l’intelligence occidentale.
ROMA – Trovata l’intesa politica sui
balneari e anche sul catasto, aggiornato ma senza aumentare le tasse. Le
due deleghe – concorrenza e fisco – ripartono, anche se il percorso
parlamentare non è completato, ma almeno per il fisco c’è l’impegno
delle forze di maggioranza ad un iter rapido. Le riforme andranno poi
attuate con i decreti delegati del governo: un percorso lungo e
insidioso.
Il Cdm intanto approva un’altra legge delega per riordinare gli
incentivi alle imprese, oggi quasi 1.500. “Siamo vicini a un accordo sul
fisco, la legge sulla concorrenza si è sbloccata, gli obiettivi del
Pnrr saranno raggiunti prima del 30 giugno, molti già il 20 giugno: sono
molto più tranquillo e soddisfatto”, anticipava in conferenza stampa il
premier Mario Draghi. “La situazione è più serena dei giorni scorsi, il
programma del governo va avanti e va avanti bene”.
L’accordo sui balneari riesce dunque a svelenire il clima politico.
Anche se, ora che il testo sulla concorrenza passa alla Camera, altre
frizioni potrebbero aprirsi su taxi e Ncc, la Lega lo minaccia da
giorni, chiedendo lo stralcio della norma. “La discussione è stata lunga
e difficile, ma ringrazio tutti i partiti per l’accordo raggiunto”,
dice Draghi. “L’indennizzo dato a chi perde la concessione da chi
subentra sarà definito dal governo nei decreti delegati, come sempre
accade nelle leggi delega”. Insorge subito Giorgia Meloni, leader di
FdI: “Accordo ridicolo e vergognoso. Rimandare gli indennizzi al governo
vuol dire lasciare senza tutele e certezze i concessionari attuali che
si vedranno in buona parte espropriate le loro aziende a favore di
multinazionali straniere”.
L’accordo sui balneari, mediato dal viceministro allo Sviluppo
economico Gilberto Pichetto Fratin (Fi), viene in realtà incontro a
molte richieste del settore. Spariscono dal testo i riferimenti al
“valore residuo” e alla “perizia” sulle spiagge date in concessione e si
introduce la possibilità di derogare al Codice della navigazione nella
futura definizione dell’indennizzo. Anche all’articolo 49 che dispone,
alla scadenza della concessione, il passaggio di diritto allo Stato – e
senza alcun compenso al concessionario uscente – delle “opere
inamovibili” costruite in zona demaniale. Questi correttivi dovrebbero
far salire l’importo del futuro indennizzo. I bandi di gara si faranno
nel 2024 o nel 2025 se ci fossero “impedimenti oggettivi”, come i
ricorsi. Anche qui i balneari hanno di fatto guadagnato un anno.
Viviamo tempi difficili. Negli ultimi anni, in particolare, passiamo da una “paura” all’altra. Dopo il Covid, la guerra in Ucraina.
Non lontano dai nostri confini. Anche per questo il rapporto degli
italiani con la politica è cambiato, come abbiamo osservato nelle
precedenti indagini condotte da Demos per Repubblica. Il
sondaggio appena concluso conferma l’atteggiamento volatile dei
cittadini, che non trovano più riferimenti politici precisi. E stabili.
Oggi i FdI hanno superato il Pd di un punto o poco più: 22,3% a 21%. Mentre Lega e M5S si posizionano fra il 13 e il 16%. E gli altri sotto il 10%. FI: all’8%. I rimanenti: meno del 5%. È una conferma che la distanza fra i cittadini e i partiti si è allargata, complice la pandemia. Mentre, parallelamente, si è rafforzato il consenso verso i Presidenti. Oltre al Capo dello Stato, il Presidente del Consiglio. Favorito da una maggioranza di “quasi” tutti. “Quasi” senza opposizione.
Così, il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, è divenuto il riferimento principale di “quasi” tutti. Come Giuseppe Conte,
prima di lui, sostenuto da un largo consenso, fino alle “dimissioni
forzate”, nel febbraio 2021. Una tendenza confermata da questo
sondaggio. Il governo, infatti, mantiene un grado di fiducia molto
elevato: 63%. Lo stesso, identico, indice di consenso nei confronti di
Mario Draghi. A conferma della stretta connessione tra il governo e il
(suo) Capo. Quasi 8 italiani su 10, inoltre, prevedono (e, forse,
auspicano) che questo governo rimarrà in carica fino al termine della
legislatura. Draghi è seguito, a distanza, da Giuseppe Conte. Favorito, a
sua volta, dal precedente ruolo di governo, piuttosto che dall’attuale
posizione, alla guida del M5S. È, comunque, significativo come quasi
tutti i leader politici proposti nel sondaggio di Demos abbiano visto
salire il loro grado di fiducia. Perché i leader contano più dei
partiti. Giorgia Meloni e Paolo Gentiloni, in particolare, hanno affiancato Giuseppe Conte. Giorgia Meloni: il volto dell’opposizione. Paolo Gentiloni: il volto (italiano) dell’Europa. In tempi di guerra.
L’incremento maggiore (+7 punti), però, è registrato da Dario Franceschini, molto attivo sul fronte della cultura. E da Silvio Berlusconi. Seppure il Cavaliere non sia fra i più apprezzati. D’altra parte, anche in passato è stato un leader “divisivo”, più che “con-diviso”. Simbolo della Seconda Repubblica e del passaggio dalla “democrazia dei partiti” alla “democrazia del pubblico”. Fondata sui media e sulla “personalizzazione”.
La rilevazione di Ipsos: Carroccio al 15,1%, 5 Stelle al 13,7. Italexit al 4,5. Governo, cala il gradimento
Il mese di maggio è stato
piuttosto turbolento nel rapporto tra alcuni partiti della maggioranza e
il governo e ciò ha avuto il duplice effetto di far registrare la
flessione sia nel gradimento del governo, sia del consenso per i partiti
che hanno espresso posizioni critiche riguardo all’esecutivo, dall’invio delle armi all’Ucraina al decreto concorrenza, dalla riforma del catasto al termovalorizzatore in provincia di Roma. E potremmo continuare.
La conflittualità nella maggioranza
determina nell’opinione pubblica la convinzione che venga penalizzata
l’azione del governo e i partiti siano più intenti a salvaguardare i
propri interessi rispetto a quelli del Paese, soprattutto in una fase
complessa come quella che stiamo vivendo. Ne consegue che l’indice di
gradimento dell’operato del governo e del presidente Draghi fa segnare
una flessione di tre punti rispetto ad aprile, attestandosi
rispettivamente a 55 e 58 e riportandosi sui valori dell’aprile dello
scorso anno, quando ancora non si erano visti gli effetti della campagna
vaccinale con il conseguente progressivo ritorno alla normalità.
Quanto agli orientamenti di voto,
le due forze politiche che si sono maggiormente distinte nelle critiche
al governo, Lega e M5s, fanno segnare un arretramento di oltre un punto.
Nella graduatoria dei partiti troviamo al primo posto Fratelli d’Italia
e Pd, entrambi in crescita ed appaiati al 21%, seguiti dalla Lega che
scende al 15,1% (-1,4%) e dal M5S che si attesta al 13,7% (-1,3%).
Per entrambe le forze politiche si tratta del livello più basso
registrato nell’intera legislatura. Al quinto posto si colloca Forza
Italia con l’8,3% (in flessione dello 0,5%), alle prese con qualche
tensione interna riguardante soprattutto il ruolo dell’Italia nello
scenario bellico. A seguire, continua il trend di crescita di Italexit,
oggi al 4,5%, che attrae gli elettori delusi soprattutto della Lega e
del M5s, quindi la Federazione Azione/+Europa con il 3,2%. Tutte le
altre forze politiche si collocano al di sotto della soglia del 3%
mentre il «partito» degli indecisi e degli astensionisti aumenta di un
punto, raggiungendo il 41%.
Sulla base delle stime odierne
si conferma il testa a testa tra il cosiddetto «campo largo» (46,2%) e
il centrodestra (44,4%); quest’ultimo continua a prevalere sul
centrosinistra (32,5%) e sull’alleanza giallorossa (38%), pur riducendo
il vantaggio rispetto ad aprile.
Riguardo al gradimento dei leader, Giorgia Meloni si conferma
al primo posto con un indice pari a 36 (+1), seguita da Conte che fa
segnare una flessione di due punti (indice 32) e da Speranza (31) in
calo di 3 punti, da ricondurre prevalentemente alla minore enfasi
mediatica sul Covid nel mese di maggio. A seguire Berlusconi (27), Letta
e Bonino (appaiati a 26), Paragone (25) e Salvini che viene raggiunto
da Toti a 24. Gli altri leader fanno registrare una flessione da
attribuire più alla minore visibilità nel corso del mese che a critiche
particolari. Da notare l’aumento di due punti di Renzi (15) che si
riporta sui valori di febbraio.
Lo scenario odierno fornisce qualche elemento di riflessione sul rapporto tra opinione pubblica e partiti. In un clima sempre più caratterizzato da una forte preoccupazione per le conseguenze economiche del conflitto in atto che vanno ad aggiungersi all’aumento delle diseguaglianze che si è determinato dopo più di due anni di pandemia, la maggioranza dei cittadini esprime l’auspicio che un governo di unità nazionale, costituito da una maggioranza anomala, nella quale sono presenti forze politiche antagoniste tra loro, faccia uscire il Paese dalle difficoltà esistenti. Non mancano certamente elementi di contrarietà rispetto all’operato dell’esecutivo da parte di una minoranza non trascurabile della popolazione e soprattutto dei ceti meno abbienti, ma nella percezione comune, la conflittualità politica ostacola l’azione del governo, soprattutto nei momenti di emergenza. In altri termini, dai partiti e dai leader ci si aspettano critiche ma non conflitti. È un problema di misura, mancando la quale ci rimettono (quasi) tutti: simul stabunt simul cadent.