Un po’ Lula, un po’ Mélenchon. Alla testa di un nuovo partito
della sinistra populista, messo insieme a tavolino utilizzando sigle e
personaggi in cerca di autore (dai 5S di Conte a Leu al Prc), ma senza
assumersi i rischi della leadership in prima persona: il suo sogno è
fare il burattinaio, muovendo le piazze contro il governo Draghi e il
parlamento, perché «il popolo non si sente più rappresentato, e infatti
non va a votare per gli attuali partiti», che ormai «rispondono alle
multinazionali e a altri interessi».
Il piano potrebbe ricordare
vagamente Trump o il generale Pappalardo, ma invece il protagonista è il
capo del principale sindacato italiano: Maurizio Landini. Che per
discuterne ha convocato per domani un summit di leader e dirigenti del
centrosinistra, con lui a capotavola. Ci saranno Enrico Letta, Carlo
Calenda, Roberto Speranza, Giuseppe Conte, Ettore Rosato per Iv e ancora
Fratoianni, Elly Schlein, Acerbo (Rifondazione, che a quanto pare
ancora esiste). Sul tavolo, la legge di bilancio «alternativa» made in
Cgil per lanciare l’attacco a Draghi e costruire l’autunno caldo che
dovrebbe far maturare il nuovo partito melenchonian-lulista. Parole
d’ordine: recupero integrale dell’inflazione sui salari,
defiscalizzazione, decontribuzione, riduzione dell’orario a parità di
salario, pensione a 62 anni per tutti. I contenuti della sfida politica
li ha spiegati il 18 giugno scorso dal palco della manifestazione di
Piazza San Giovanni: «Vogliamo che prima di scrivere la legge
finanziaria Draghi ne discuta con noi: dobbiamo capovolgere il percorso.
Costruiamola noi e sosteniamola nelle piazze. I partiti non possono far
finta di niente: se il 50% non va a votare vuol dire che non si sente
rappresentato da nessuno». Della rappresentanza di chi non va a votare
si sente evidentemente investito lui: «E non ci fermeremo fino a quando
il Parlamento non accetta di mediare con noi, e non tra loro». Governo e
parlamento, in pratica, devono scrivere la prossima manovra sotto
dettatura della Cgil, e sotto la pressione della «piazza» evocata da
Landini. In una clamorosa inversione dei rapporti vigenti in democrazia
tra rappresentanza politica e parti sociali. Non a caso persino in Cgil
qualche critico si spinge a parlare di «ipotesi eversiva di stampo
populista».
Ma
su questa piattaforma, e usando la forza di pressione del sindacato (di
cui a dicembre sarà rieletto segretario) come massa di manovra, Landini
pensa non solo di mettere spalle al muro il governo, ma anche di far
nascere un rassemblement tra sigle della sinistra e quel che resta di
M5s, pronto a scendere in campo nel 2023: i suoi rapporti con Conte (che
cerca disperatamente un’ancora che lo tenga a galla), Leu e compagni
sono intensi, e Bersani si è già spinto a prevedere che «in autunno ci
sarà una novità politica». E a sostenere che dalla crisi dei 5S, grazie a
Conte, sta emergendo «una sinistra di nuovo conio».
Il vertice Nato a Madrid segna una svolta: l’ufficializzazione che il
post-Guerra fredda è finito e che la Russia rappresenta non più un
partner strategico, ma una minaccia diretta per l’Europa. Associata ad
una mano tesa a Mosca, la deterrenza è rimasta un pilastro per
l’Alleanza Atlantica anche nel periodo che si è aperto dopo la fine
della Guerra fredda. A seguito della crescente aggressività della
Russia, soprattutto dal 2014 in poi, la deterrenza è andata via via
aumentando, fino agli attuali 40mila militari in alta allerta che oggi
si trovano sul territorio Nato. 40mila militari rappresentano sì
un’efficace deterrenza, ma non una vera e propria difesa laddove ce ne
fosse bisogno. Come è noto, la Russia aveva mobilitato ben più di
200mila uomini ai propri confini occidentali prima di dare il via
all’invasione dell’Ucraina.
Il vertice Nato non poteva non prendere atto che la guerra c’è e che
non dà segni di poter finire in tempi brevi. Finché Vladimir Putin
rimarrà al potere è difficile, se non impossibile, immaginare una reale
pace. È per questo che la postura militare cambia: sarebbe semmai
irresponsabile non farlo. Saranno così 300mila i militari Nato in alta
allerta per rispondere ad un eventuale “spillover” nel resto del
continente della guerra in corso in Ucraina. Gli Stati Uniti in
particolare hanno risposto positivamente alle richieste degli alleati
est-europei, con una base permanente in Polonia e 5mila uomini
aggiuntive in Romania. Il vertice dell’Alleanza segna una svolta anche
perché inquadra la guerra in Ucraina e lo scontro con Mosca come parte
di una sfida molto più ampia che vede come protagonista la Cina. Il
nuovo Concetto Strategico non dipinge esplicitamente un mondo diviso tra
democrazie e autocrazie, ma è chiaro nel definire quella posta da
Pechino come una sfida sistemica non soltanto ai nostri interessi, ma
anche ai nostri valori. Probabilmente, se gli Stati Uniti non vedessero
lo scontro con Mosca collegato all’antagonismo con la Cina, non si
spenderebbe tanto su una potenza, quella russa, tanto pericolosa quanto
palesemente in declino. Infine, il vertice di Madrid ha visto l’invito
formale dell’Alleanza Atlantica alla Finlandia e alla Svezia, in
risposta alle richieste di adesione dei due Paesi nordici minacciati da
Mosca. Il nodo del veto della Turchia è stato sciolto con un memorandum
d’intesa tra Svezia, Finlandia e Turchia, e la luce verde di Joe Biden
alla vendita di caccia F-16 ad Ankara. La ratifica dell’adesione da
parte dei trenta Stati membri della Nato non sarà immediata, ed è
prevedibile che Ankara dia ancora del filo da torcere mentre si avvicina
a elezioni presidenziali l’anno prossimo il cui risultato è tutto
tranne che scontato. Detto questo, l’allargamento dell’Alleanza è una
questione di quando, non più di sé; un altro segnale di drammatica presa
d’atto della “Zeitenwende” che stiamo vivendo. L’era in cui vivevamo
era confortevole, non c’è dubbio: un’era segnata da pace e prosperità,
ma anche da una buona dose di ipocrisia e convenienza, visto che ci
ostinavamo a non vedere che qualcosa di radicale stava cambiando a
Mosca. C’è chi lo fa ancora, puntando il dito contro l’espansione della
Nato, e citando le preoccupazioni della Russia o i diritti delle
minoranze russofone in Ucraina orientale (le prime vittime della guerra
criminale del Cremlino). Eppure Putin e l’intero establishment russo
parlano ormai apertamente del reale obiettivo di questa guerra: la
restaurazione del territorio “storico” della Russia. È evidente che un
progetto del genere non si ferma volontariamente nel Donbas.
Inevitabilmente l’Alleanza Atlantica, che ruota attorno alla difesa
collettiva e che include e includerà Paesi che rappresentano potenziali
prede di Putin, deve fare i conti con questa nuova realtà.
La giustizia francese ha negato all’Italia l’estradizione di vari
cittadini italiani riparati in Francia per sfuggire all’esecuzione di
condanne definitive inflitte nel nostro Paese per gravi reati (anche
omicidi) di matrice terroristica. A fronte di questa eventualità,
qualche tempo fa un ministro francese ebbe a rivolgersi a quella fazione
dei suoi concittadini che era contraria alla estradizione chiedendo che
cosa avrebbe detto se qualcuno avesse osato rifiutare alla Francia
l’estradizione di uno o più responsabili del grave attentato
terroristico del Bataclan (proprio in questi giorni arrivato ad un
pubblico processo lungamente atteso dall’opinione pubblica tutta). In
questo modo quel ministro voleva significare che ci sono leggi
dell’umanità che devono affermarsi come vere leggi sanzionate, anziché
essere solo frasi di stile, relegate in qualche preambolo di accordi
internazionali. In altre parole, che vi sono diritti insopprimibili
legati alla dignità, ai sentimenti, alle radici culturali e alle
esigenze di ogni stato democratico. La giustizia francese – nel caso dei
terroristi italiani non estradati – sembra aver deciso in base a
criteri tutt’affatto diversi. In sostanza, chi uccide e viene condannato
in Italia per gravi fatti di terrorismo, se scappa in Francia può
essere perdonato e sottratto alla giustizia italiana.
Difficile, davvero difficile, non ipotizzare che su atteggiamenti di
questo tipo possa influire in modo decisivo anche un antico pregiudizio
verso il nostro Paese, alimentato dalla favola di un’Italia di fatto
«fascista» che ha combattuto il terrorismo a colpi di teoremi, di accuse
senza prove, di imputati condannati in violazione dei principi dello
stato di diritto. La favola quindi di personaggi che se commettevano
gravi delitti lo facevano per nobili ideali da assumere come
giustificazioni scriminanti. Un saggio ha detto che si può anche
diventare ex terroristi ma non si diventa mai ex assassini. Vale a dire
che ci sono delitti contro la civile convivenza democratica che non
possono essere cancellati con un tratto di penna, dimenticando che sono
stati commessi nell’ambito di una guerra unilaterale spietata e feroce,
dichiarata dalle catacombe della clandestinità contro persone
arbitrariamente elette a simboli da abbattere. Farlo equivale a rendersi
vittime di una colpevole amnesia, con un senso etico a corrente
alternata o geograficamente variabile, se non del tutto carente.
Mi rendo conto di aver espresso opinioni che mi espongono alle ire
dei tanti «benpensanti» ( anche italiani) sempre pronti ad
autoproclamarsi garantisti doc, squalificando nel contempo come
giustizialisti, manettari o forcaioli tutti coloro che la pensano
diversamente. In realtà molto spesso il loro è un garantismo peloso,
selettivo: nel senso che l’applicazione delle regole viene diversificata
a seconda dello status ed in particolare delle tendenze politiche di
questo e di quello. Il contrario del garantismo vero, classico: che è
veicolo di eguaglianza o altrimenti non è.
ROMA. Il dipartimento della Salute degli Stati Uniti, in
collaborazione con il dipartimento della Difesa, ha annunciato un
accordo per l’acquisto di oltre 100 milioni di dosi del vaccino anti
Covid-19 Pfizer per la campagna di vaccinazione autunnale. Il contratto
da 3,2 miliardi di dollari comprende sia dosi per adulti che per uso
pediatrico. Analizzando i numeri che giornalmente vengono forniti circa
l’andamento della pandemia in Italia, è ragionevole prevedere che
assisteremo nelle prossime settimane quasi certamente ad un incremento
dei casi tale da configurare una quinta ondata in estate. Infatti, il
monitoraggio settimanale della pandemia indica un progressivo netto
aumento dei nuovi contagi praticamente in tutte le regioni italiane, con
un’incidenza che supera i 500 casi per 100.000 abitanti in diverse
province. A questa crescita che non accenna a diminuire si associa, ma
in misura minore, l’aumento dei ricoveri in area medica ed in terapia
intensiva, mentre i decessi restano sostanzialmente invariati.
Diffusione delle varianti La diffusione delle
varianti Omicron 4 e 5, che sono più trasmissibili anche se non più
gravi, contribuisce grandemente alla circolazione del virus ed al
conseguente attuale aumento dei casi. Inoltre, ciò che sta accadendo in
questo periodo sfata la convinzione che l’estate doveva essere
considerata un porto franco, quando il virus circola di meno. Nel 2020
ha certamente influenzato il basso numero di contagi estivi, l’onda
lunga del lockdown attuato da marzo a giugno e nel 2021 la percentuale
crescente di soggetti recentemente vaccinati e quindi protetti nei
confronti delle varianti allora in circolazione. L’incidenza di
infezioni ospedaliere da SARS-CoV-2 avvenute in 12 ospedali regionali
del Massachussets, tra il 21 luglio 2020 ed il 28 febbraio 2022, viene
descritta in uno studio (Komplas M. e altri)
da cui emerge un significativo aumento delle infezioni
intra-ospedaliere da SARS-CoV-2 legato alla variante Omicron. Questo
aumento può essere spiegato dall’ampia diffusione in comunità di
Omicron, variante che si caratterizza per una maggiore contagiosità e
che determina una elevata incidenza di infezioni negli operatori
sanitari, nei visitatori ed in altri pazienti che possono quindi essere
altrettante sorgenti di infezione.
Misure di controllo Per questo motivo,
nell’articolo si sottolinea che, a dispetto delle stringenti misure di
controllo delle infezioni e dell’obbligo vaccinale per gli operatori
sanitari, il rischio di infezioni intra-ospedaliere può essere
significativamente elevato quando una variante virale, come Omicron, è
molto trasmissibile ed è diffusa ampiamente nel territorio. Uno studio (Caccuri F e altri)
sottolinea che le mutazioni che insorgono nello spike di SARS-CoV-2
contribuiscono largamente all’adattamento virale all’uomo. Infatti, la
persistenza di un virus all’interno di un organismo consente
l’evoluzione del virus e ciò per SARS-CoV-2 si è probabilmente
verificato in pazienti immunocompromessi che consentono la replicazione
virale per un lungo tempo. Infatti, gli autori dimostrano l’esistenza di
mutanti minori di SARS-CoV-2 in campioni biologici ottenuti da un
paziente immunocompromesso che si sono sviluppati nel corso di una
infezione persistente (222 giorni di replicazione virale). In
particolare, il mutante originale è stato sostituito da una quasi specie
minore che esprime due mutazioni critiche nello spike e questo
determina sia una più rapida capacità replicativa del mutante rispetto
all’originale, che un maggior effetto sul sistema immunitario ed in
particolare sulla produzione di gamma interferone. L’importanza di
questa segnalazione risiede nel fatto che la comparsa di una quasi
specie virale diversa da quella originale, se ha una capacità
replicativa maggiore, può soppiantare il virus originale e, quasi
certamente, questo è il meccanismo che ha dato origine alle varianti che
oggi conosciamo di SARS-CoV-2.
Il ruolo del microbioma intestinale
E’ noto che il microbioma intestinale, gioca un ruolo importante in diverse malattie ed in questo studio (De Maio F. e altri)
è stato analizzato il microbioma intestinale di 30 pazienti
ospedalizzati con polmonite da SARS-CoV-2. Dall’analisi dei risultati
emerge chiaramente che l’infezione da SARS-CoV-2, induce significativi
cambiamenti nella flora microbica intestinale, cambiamenti che tendono a
regredire in tempi piuttosto lunghi. Inoltre, esistono molti fattori
riferibili al microbioma intestinale che potrebbero influenzare il
decorso della malattia COVID-19 e per questo l’auspicio è che studi
analoghi con casistiche più significative vengano condotti al più presto
per chiarire questo importante aspetto. Una press release (Comunicato stampa)
della Food and Drug Administration (FDA) americana ha annunciato che è
stato autorizzato l’uso emergenziale dei vaccini contro COVID-19 Moderna
e Pfizer per la prevenzione della malattia nei bambini al di sotto dei 6
anni di età. Questa autorizzazione si basa sulla valutazione dei dati
di sicurezza ed efficacia ottenuti somministrando i vaccini a mRNA in
questa fascia d’età ed in considerazione dei noti e potenziali benefici
che sono maggiori dei potenziali e noti effetti collaterali.
Proviamo a immaginare un punto di vista diverso per decifrare
la scarsa attenzione che l’opinione pubblica occidentale e italiana, in
particolare i giovani, presta al quotidiano aggravarsi e allargarsi del
fronte della guerra ucraina. Ormai sotto vesti Nato ascesa a scenari
globali. Dopo cinque mesi continua a esser percepita come un conflitto
barbaro ma circoscritto ai due protagonisti, che prima o poi basterà una
spintarella per far abbiosciare il colpevole, Putin, e reintegrare
l’Ucraina nei suoi sacrosanti diritti di paese invaso e parzialmente
smembrato. Anche se non basta avere ragione in guerra e in politica,
bisogna avere vittoria.
È sorprendente: la guerra in sé non spaventa, eppure è una mischia
feroce, selvaggia. Semmai turbano un po’ le sue conseguenze indirette,
aumento dei costi economici, penurie, nuove migrazioni. Non parlo del
giudizio sulla giustizia della causa ucraina e il torto russo, invasore
che fa di tutto per rendersi odioso, condiviso da una larga maggioranza
perché evidente. Parlo della paura: fisica, personale, elementare, che
ti impregna la giornata, la paura di essere anche tu sotto le bombe e
nelle trincee come i soldati del Donbass. Riusciamo a vivere nella
guerra lontano dalla guerra come se intorno a noi si fosse avvolto una
specie di bozzolo. La malattia del secolo, la preoccupazione, qui non si
avverte.
Invece pacifisti e cassandre scomparse, Papa zittito, si aspettano
fiduciosi le vacanze. Sono dunque efficaci le rassicurazioni dei
governanti che più agiscono per prolungare la guerra ed alzarne il
livello più usano i diminutivi, garantiscono che noi non la stiamo
combattendo. Direttamente: ecco l’avverbio chiave, direttamente.
A dar loro una mano nel controllare umori e tremori dell’opinione
pubblica contribuisce il fatto che questa è la prima guerra non
geograficamente periferica che le giovani generazioni italiane vedono in
televisione e sui media vecchi e nuovi senza che per loro contenga la
possibilità, o meglio l’incubo, di essere coinvolte in prima persona a
causa della leva obbligatoria.
Immaginiamo che la leva non sia stata sospesa dal 1990 e poi abolita
dal 2005 e sostituita da un esercito di professionisti, ponendo fine (ma
davvero in modo definitivo?) a un dibattito avviato con la leva in
massa dei rivoluzionari del 1789. Immaginiamo che ogni sera migliaia di
famiglie guardino al telegiornale le scene del tritacarne russo con la
sua brutalità meccanica e ascoltino le contromisure che la Nato riunita a
Madrid e i governi occidentali adottano per sconfiggere quello che è
stato ormai definito come “il nemico’’ (e non è questa una esplicita
dichiarazione di guerra’’?). Cosa accadrebbe, intendo politicamente, se
dovessero riflettere sulla possibilità che arrivi la “cartolina’’ che
accompagnerebbe obbligatoriamente i figli mariti e i nipoti verso
caserme e reggimenti, appena abbandonate dopo i dieci mesi con salutare
esultanza? Se la scelta non fosse dunque per noi molto accademica, tra
pace e condizionatore. Ma non ci fosse come un tempo nessuna scelta:
ovvero la guerra e basta.
La garbata attenzione all’Ucraina cambierebbe senso, come può
cambiare la direzione del vento. Ma l’attenzione, il rifiuto della
guerra dovrebbe essere istintivo, indipendente dal coinvolgimento
diretto.
Nessuna nostalgia, per carità, per la “naja’’. Per sintetizzare in
una parola breve ed efficace il servizio militare nel secondo dopoguerra
basta una sola paroletta: uffa! quella sopravvivenza militaresca,
quella specie di morta gora dopo tutto quello che la seconda guerra
mondiale aveva distrutto apparteneva al massimo alla meditazione sulla
stupefacente forza di sopravvivenza delle istituzioni umane. Ma quei
mesi inutili passati in caserma da cui la maggioranza non vedeva l’ora
di evadere per riprendere la via più spedita verso la vita normale,
collegavano migliaia di giovani alla idea della guerra, alla possibilità
un giorno che quei fucili, quei cannoni dovessero impugnarli e puntarli
verso altri uomini, sconosciuti, il Nemico. Che stava a oriente come ai
tempi di Cecco Beppe. La guerra insomma per loro esisteva. Dopo la fine
della leva è scomparsa. Divenuta impossibile. Remota. Riguardava coloro
che l’avevano scelta come mestiere e accettavano l’ipotesi di morire.
Se esistesse ancora questa paura privata, la massa dei dubbiosi dei
contrari sarebbe molto alta. Ci sarebbero i cortei e i sit-in contro la
guerra. Non a favore della Russia, che i putiniani se li sono inventati i
trinceristi dell’atlantismo: perché senza reprobi come si fa a dire di
avere ragione? Un tempo si dubitò se valesse la pena morire per Danzica.
Credo, purtroppo, che sorgerebbero dubbi anche se valga la pena morire
per il Donbass.
L’assenza del rischio personale incide sulla percezione della guerra.
Nel senso che essere come è giusto a fianco degli ucraini appare come
faccenda teorica, senza conseguenze.
La istituzione della leva che fu il primo atto del nuovo Stato
unitario, ha cambiato l’Italia, mescolando genti che appartenevano a
Stati diversi, ha insegnato una lingua comune a masse di analfabeti che
la scuola non poteva ancora raggiungere. Ha davvero fatto gli italiani.
INVIATO A MADRID. La crisi, adesso, è una minaccia concreta.
Lo intuisce Mario Draghi. Lo intuisce quando chiude la telefonata con
Giuseppe Conte e quando gli riportano gli ultimatum dei leghisti, pronti
a lasciare il governo dopo l’accelerazione impressa da Pd e M5S alle
leggi sulla cannabis e sulla cittadinanza ai figli di immigrati che
frequentano le scuole italiane. È una giornata che sembra complicarsi di
ora in ora, per il presidente del Consiglio, volato l’altro ieri sera a
Madrid per un importantissimo vertice della Nato, forse il più
importante della sua storia, il primo che si tiene mentre l’Europa
riscopre il sapore di ferro della guerra in casa. Eppure, Draghi lascia
il vertice con un giorno di anticipo, a sorpresa, per rientrare a Roma
in serata, dopo la cena con i leader al museo del Prado. E dopo lunghe
ore di polemiche scatenate dai due principali partiti della coalizione.
Alle tre di pomeriggio, Draghi convoca la stampa per una breve
dichiarazione. In Italia, sta succedendo di tutto. Le rivelazioni sulle
telefonate del premier a Beppe Grillo, in cui, secondo quanto il comico
avrebbe confessato al professore Domenico De Masi e a diversi deputati,
Draghi avrebbe chiesto di liquidare la leadership di Conte, hanno
mandato su tutte le furie l’avvocato. L’ex premier attacca il suo
successore frontalmente. È la prima volta che succede. Con toni che
suonano implacabili e prima di salire al Quirinale dal presidente Sergio
Mattarella.
Per ore Draghi non smentirà nulla delle ricostruzioni. Lo farà solo
all’ora di cena, quando fonti di Palazzo Chigi preciseranno che il
presidente del Consiglio «non ha mai detto o chiesto» a Grillo di
rimuovere Conte dal M5S. Stessa smentita che quasi contemporaneamente
arriva da Grillo, il che ha fatto sospettare un contatto tra i due. Nel
pomeriggio, però, Draghi si limita a rivelare solo di aver sentito al
telefono Conte, di aver «iniziato» con lui un chiarimento e di aver
rinviato il confronto a un faccia a faccia che il presidente del
Consiglio avrebbe voluto avere già oggi, al suo ritorno a Roma.
La telefonata, in realtà, non sarebbe andata benissimo. Almeno stando
alle fonti più vicine a Conte. È Draghi a cercare il leader. In un
primo momento, il presidente del M5S, impegnato in una riunione, non
risponde. Poi è lui a richiamare il premier. Draghi prova a spiegare
quello che è avvenuto e a dare la sua versione dei fatti. Conte non gli
crede, ed è categorico. Durante il colloquio più volte userà il termine
«grave». «È molto grave quello che è successo – dice – Non ne faccio una
questione personale, ma di democrazia e di istituzioni». Per Conte, è
inaudito che il premier intervenga nella vita interna di un partito. Ma
c’è di più.
di Lorenzo Cremonesi, Andrea Nicastro e Paolo Foschi
Le notizie di giovedì 30 giugno sulla guerra, in diretta
• La guerra in Ucraina è arrivata al 127esimo giorno. • I russi continuano a premere su Lysychansk. Alle forze di Kiev mancano armi, munizioni e dispositivi indispensabili come i visori notturni. • Gli 007 Usa: «Mosca userà l’atomica? Possibile». Nuovo scambio di prigionieri: liberati 144 soldati ucraini, tra cui 95 combattenti del reggimento Azov. • La Nato aumenterà la presenza in Europa: in arrivo in Italia un altro battaglione Usa e un sistema di difesa antiaerea. Draghi ha lasciato il summit in anticipo. •
Stoltenberg: «Gli alleati sono pronti a una guerra lunga. Sapevamo
dell’invasione già in ottobre, abbiamo lavorato per impedirla». • Zelensky ha ricevuto ieri il presidente dell’Indonesia e il miliardario Richard Branson.
Ore 09:07 – Ucraina: partita una nave con 7.000 tonnellate di grano
Una nave con 7.000
tonnellate di grano ha lasciato il porto ucraino occupato di Berdyansk.
Lo riferiscono le autorità filo-russe.
Ore 08:44 – Putin: «L’adesione Finlandia e Svezia non preoccupa Mosca»
L’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia non
preoccupa la Russia che si riserva tuttavia di rispondere a un
eventuale «dispiegamento di infrastrutture e contingenti militari
dell’Alleanza atlantica» nei due Paesi nordici «seguendo il principio
della reciprocità», ha affermato Vladimir Putin. Svezia e Finlandia nella Nato «non creano lo stesso problema che si porrebbe nel caso dell’Ucraina» nell’Alleanza atlantica.
«Non abbiamo dispute
territoriali con loro. La loro adesione alla Nato non ci preoccupa. Sono
liberi di fare quello che vogliono», ha ribadito Putin da Ashgabat.
«Con Finlandia e Svezia avevamo relazioni positive, e ora ci saranno
alcune tensioni. E’ evidente, non c’è modo di evitarlo», ha aggiunto il
Presidente russo.
Ore 08:25 – Lisichansk sotto bombardamenti incessanti, «no tregua»
La città in prima linea Lysychansk, è sotto incessanti bombardamenti mentre la Russia continua con la
sua offensiva nell’Ucraina orientale. Il governatore regionale Serhiy
Haidai ha dichiarato alla televisione ucraina: «La battaglia è in corso.
I russi sono costantemente in offensiva. Non c’è tregua. Assolutamente viene tutto bombardato».
Le autorità ucraine hanno affermato che stavano cercando di evacuare i
residenti dalla città, al centro degli attacchi della Russia, dove circa
15.000 persone sono rimaste sotto gli incessanti bombardamenti.
Le forze russe stanno circondando la città mentre provano a prendere la regione industrializzata del Donbass orientale. Tutte le strade da e per Lisichansk sono controllate dalle truppe della Federazione russa e
dai ribelli della sedicente autoproclamata Repubblica di Lugansk, la
via Lysichansk-Artyomovsk è completamente chiusa, secondo Rodion
Miroshnik, un funzionario russo. Il territorio della raffineria di
Lysichansk è passato completamente sotto il controllo delle forze russe.
Ore 07:45 – Putin: «L’obiettivo della Russia è liberare il Donbass»
(Luca Angelini da Prima Ora)
Putin ieri ha anche detto che, per quanto riguarda l’«operazione
militare speciale» (leggi invasione) in Ucraina, «l’obiettivo della
Russia è liberare il Donbass». Da Kiev, l’inviato Andrea Nicastro segnala,
però, che la direttrice dell’intelligence americana, Avril Haines, non è
d’accordo: «Dobbiamo aspettarci di tutto, da Mosca. Putin non ha
rinunciato all’idea di conquistare tutta l’Ucraina». E aggiunge: «I
russi impiegheranno anni a riprendersi. Potranno avanzare, ma in modo
limitato e la frustrazione potrebbe indurli ad attacchi cibernetici, a controllare le reti dell’energia e persino all’uso dell’atomica.
Da parte loro gli ucraini dovrebbero riuscire a stabilizzare il fronte e
a riconquistare parte del Sud. La guerra si prospetta lunga». (Qui il punto militare di Andrea Marinelli e Guido Olimpio)
Nicastro segnala anche che, nel più grande scambio di prigionieri
dall’inizio dell’invasione, 144 soldati ucraini sono stati liberati da
Mosca in cambio di altrettanti russi. Tra gli ucraini c’erano 95
«difensori di Mariupol» e, tra questi, 43 del reggimento Azov. «Il tabù è
rotto. Anche se i 144 sono in gran parte gravemente feriti, l’idea di
processarli non è un obiettivo irrinunciabile».
Ore 07:38 – L’arci-putinista Patrushev, il «clown» Medvedev e gli altri. Chi conta davvero a Mosca?
(Marco Imarisio) Quasi tutti gli uomini del presidente. E quanto pesano, soprattutto. Sono mesi in cui per forza di cose gli esercizi di Cremlinologia sono diventati un sottogenere giornalistico,
con annesse previsioni sul nuovo Zar nell’improbabile caso di
abbandono, o peggio, da parte di Vladimir Putin. Novaya Gazeta, il
quotidiano diretto dal premio Nobel Dmitry Muratov, ha fatto una operazione diversa. Sulla sua edizione online,
l’unica ormai possibile, ha affidato ad alcuni politologi la valutazione
sulla effettiva rilevanza dei personaggi che più di tutti recitano il
ruolo di guerrafondai e nemici dell’Occidente.
Cominciamo con i due cattivi mediatici per eccellenza, Ramzan Kadyrove Dmitry Medvedev , i due uomini che ogni mattina danno il buongiorno al creato con
parole sempre più aggressive contro «i nemici della Russia». Il leader
ceceno si è accreditato con i consueti toni sguaiati come il cattivo
tenente di Putin. Ma è innegabile come la guerra in Ucraina gli stia
dando la possibilità di uscire dal cono d’ombra del leader regionale e
di ritagliarsi un ruolo importante a livello federale. Non ha alcuna
possibilità di sostituirlo, ma almeno è diventato un interlocutore del
presidente. Quella dell’ex delfino dello Zar è invece una parabola
opposta. La tribuna degli esperti di Novaya Gazeta è concorde su
Medvedev. Un grande avvenire dietro le spalle, e un presente gramo. «La
sua figura ormai non appartiene più alla politica, è diventato una specie di clown dei media» dice ad esempio l’analista Nikolay Petrov.
Ore 06:09 – I russi: controlliamo tutte le vie di accesso a Lisichansk
Tutte le strade da e
per Lisichansk sono controllate dalle truppe della Federazione russa e
dai ribelli dell’autoproclamata Repubblica di Lugansk, la via
Lysichansk-Artyomovsk è completamente chiusa. Lo rende noto Rodion
Miroshnik, un funzionario russo secondo Ria Novosti. Il territorio della
raffineria di Lisichansk è passato completamente sotto il controllo
delle forze russe.
Beppe Grillo trascina anche Conte in
uno show dove solo lui è il mattatore. Il suo passaggio lascia
strascichi tra i 5 Stelle: «Ci sta triturando»
Un po’ istrione, un po’ guastatore. Beppe Grillo
nelle sue giornate romane si è ripreso la scena e lo ha fatto a modo
suo. Ha detto tutto e il contrario di tutto disorientando eletti e
vertici Cinque Stelle. «Il Movimento non esce dall’esecutivo».
«Valutiamo l’appoggio esterno». «Il limite dei due mandati è un totem?
Sì, certo». Eppure: «Si potrebbe pensare a qualche eccezione, ma vediamo
ora i dettagli con Giuseppe». L’ex premier è anche il bersaglio di
battute pubbliche: «Avevo un progetto» sulle tecnologie digitali, «l’ho dato anche a Conte, ma
darlo a Conte è come buttarlo dalla finestra». E di sfoghi privati,
come quello raccontato da Domenico De Masi. «Secondo Grillo, Draghi gli ha chiesto di rimuoverlo dal M5S, perché inadeguato», racconta il sociologo al
Fatto
parlando di Conte.
Proprio questo episodio però diventa il caso incendiario del giorno.
E Grillo ancora una volta spiazza i cronisti: «Storielle». Ma in realtà
il caso lascia il segno. «Ogni volta vengo strumentalizzato e
raccontano ca…ate su di me e su Draghi…». Le parole raccolte dall’Adnkronos
e il fatto che il leader abbia scelto di far saltare la riunione
con i ministri M5S hanno l’effetto di riaccendere il dibattito interno.
E innescare congetture. «Beppe è una furia. Per tutto», dicono gli stellati.
«Ora farà sentire il suo dissenso ogni volta che potrà: è stato un
errore cercare di metterlo all’angolo». «Ma no, è solo stanco»,
controbattono esponenti contiani commentando gli impegni disdetti
all’ultimo dallo showman. E anche fonti vicine al garante ribadiscono:
«Ha avuto giornate pesanti».
Sta di fatto che il garante riesce nel giro di 72 ore a destabilizzare qualsiasi certezza e a trascinare anche Conte in uno show
dove solo lui è mattatore. «Ci sta triturando e noi siamo qui ad
applaudirlo come pagliacci», masticano amaro alcuni Cinque Stelle al
secondo mandato. «Conte e Grillo sono inconciliabili: che ne prendano
atto», dicono ai piani alti del Movimento. Insomma, l’uragano Grillo,
anche se velato di amarezza riesce comunque a scombinare i piani.
E così l’unica certezza è che salta la candidatura
alle primarie in Sicilia di Giancarlo Cancelleri: uno stellato che
Grillo lanciava dieci anni fa sul palcoscenico della politica
attraversando a nuoto lo Stretto, uno stellato che nel 2021 si è
schierato al fianco di Conte proprio contro il garante. Lo stop a
Cancelleri — che ieri ha annunciato il suo passo indietro alla
candidatura dopo che Skyvote ha reso noto che era impossibile procedere a
una votazione entro i tempi richiesti — potrebbe dare il la a nuovi
addii nei prossimi giorni. Ma l’Elevato, come si fa chiamare, è
irremovibile. Grillo non accetta di metterci la faccia sulle deroghe. La
partita per ora è sospesa, ma molto probabilmente sarà il presidente
M5S a doverci mettere la faccia, salvando i big storici «in nome delle
competenze».
Le
amministrative non possono dirci cosa accadrà quando si terranno le
elezioni politiche. Se non altro perché l’astensione, presumibilmente,
sarà più bassa e le situazioni locali non peseranno sugli orientamenti
di voto. Come i sondaggi, esse confermano solo che i principali sfidanti
saranno Fratelli d’Italia e il Partito democratico. La frammentazione
partitica resterà forte, la somma dei voti dei due partiti maggiori,
plausibilmente, non raggiungerà la metà dei voti validi. Ma essi saranno, l’uno per l’altro, l’avversario da battere.
Ciascuno dei due partiti ha oggi, accanto a elementi di forza, anche
qualche seria debolezza. Mentre la sua posizione sull’Europa è il
tallone d’Achille di FdI, il cosiddetto «campo largo» è quello del Pd.
A differenza dei suoi (confusi) partner del
centrodestra, Giorgia Meloni ha conferito al suo partito caratura e
piglio di forza di governo con la decisa scelta atlantista in difesa
dell’Ucraina. Adesso FdI (al pari del Pd) è un partito che ha acquistato
un forte credito presso i nostri alleati occidentali. Chi pensa che in
politica queste cose contino poco è afflitto da provincialismo. A
dispetto delle apparenze, e di ciò che è accaduto in queste
amministrative, è possibile che FdI riesca anche a presentarsi alle elezioni con uno schieramento di destra relativamente coeso.
A causa del fatto che la stella politica di Salvini sembra al tramonto.
Con Forza Italia e con una Lega in cui tornino a contare i presidenti
di Regione e gli amministratori locali, forse non sarà difficile per FdI
trovare intese su questioni strategiche come, per esempio, tasse o
politica dell’immigrazione.
L ’Unione europea, invece, è una specie
di macigno sulla strada che conduce a Palazzo Chigi. La difesa della
«sovranità nazionale» e la conseguente postura polemica nei confronti
dell’«Europa che c’è» sono per FdI elementi identitari. Un po’ come lo ius soli o il sostegno al movimento Lgbt per il Pd. Ma la differenza è che mentre ius soli
e battaglie Lgbt, quali che possano esserne gli effetti di lungo
termine sulla società, non incidono sul gioco degli interessi qui ed
ora, non hanno un rapporto immediato con il tenore di vita degli
italiani o con l’andamento della vita economica, le posizioni che si
assumono sull’Europa hanno, eccome, un rapporto diretto e immediato con
tutto ciò.
Come ha scritto Sergio Fabbrini (Il Sole 24ore, 26 giugno), a causa della stretta interdipendenza fra i Paesi europei, è un grave errore trattare il tema dell’Europa come se avesse a che fare con la «politica estera».
L’Unione europea e tutto ciò che la riguarda sono ormai parte
integrante della politica interna. Per accettarlo FdI dovrebbe fare un
piccolo strappo identitario, dovrebbe riconoscere che, a differenza dei
secoli passati, sovranità e interesse nazionale non coincidono. Ormai si difende l’intereresse nazionale partecipando al gioco dell’integrazione, non tentando di allentarne i vincoli.
E occorre l’autorevolezza per riuscirci. Non è andando lancia in resta
contro l’Europa che Mario Draghi ha spianato la strada per l’Ucraina
nella Ue o che ora sembra riuscire nell’impresa di spingere una Germania
indecisa a tutto a porre un tetto al prezzo del gas. Non è che FdI
debba fare abiure ma qualche seria correzione di rotta sì. Quale che sia
la compatibilità con l’appartenenza al gruppo dei conservatori europei.
Se andrà a Palazzo Chigi Meloni non potrà inseguire fantomatiche
«confederazioni». Dovrà piuttosto gestire al meglio, in stretta
cooperazione con le autorità di Bruxelles e gli altri governi europei, i
fondi del Pnrr. Quando si va al governo finisce il tempo della poesia e
comincia quello della prosa.
L’Europa non è certo un ostacolo per il Partito democratico.
Esso è partito europeista per antonomasia. In realtà, proprio la Nato
(date le posizioni ostili che persistono in certe aree della sinistra)
avrebbe potuto essere per il Pd un problema ma la decisa posizione
assunta da Enrico Letta sull’Ucraina ha sgombrato il terreno da ogni
equivoco. Il Pd ha il vantaggio di
essere da tanti anni (salvo il breve periodo giallo-verde) forza di
governo. Nella prossima campagna elettorale dovrà guardarsi dall’accusa,
che certamente il centro-destra gli scaglierà contro, di volere la
patrimoniale. In un Paese di ceto medio diffuso e di proprietari
di case, se il sospetto si diffonderà per il Pd la sconfitta sarà
pressoché sicura.
Ma il suo vero punto debole è la politica delle alleanze.
Qui gioca un vecchio riflesso, una tradizione che risale ai tempi del
Partito comunista. I comunisti, durante le campagne elettorali, non
presentavano programmi. Era l’ideologia il programma. Essi si limitavano
a chiamare a raccolta gli elettori «contro il potere democristiano». La
conventio ad excludendum, la
convenzione che escludeva la possibilità che il Pci andasse al governo,
lo esimeva dal presentare proposte concrete. Era sufficiente fare
promesse di «grandi trasformazioni» che, comunque, il Pci non sarebbe
mai stato chiamato a mantenere. Echi del passato ritornano quando
esponenti del Pd ci spiegano che un’alleanza con i 5Stelle (magari
imbarcando anche Renzi e Calenda) è oggi necessaria «per battere le
destre». Ma batterle per fare cosa? Un’alleanza fra forze così
eterogenee, una alleanza solo «contro»,
costruita all’unico scopo di «battere le destre», nelle nuove
condizioni, ha ottime probabilità di contribuire a farle vincere.
In una recente intervista Enrico Letta sembra consapevole del problema.
Ma, per come si esprimono, diversi esponenti del suo partito non paiono
averlo compreso. Finite le vecchie ideologie, se vuoi vincere le
elezioni devi spiegare che cosa vuoi fare. E solo dopo, di risulta, devi
dire contro chi sei. Qui la difficoltà per il Pd è indubbia. Si tratti
di politica estera o di politica energetica (caso del termovalorizzatore
a Roma) ci sono pochi temi su cui Pd e 5Stelle potrebbero concordare.
Per non dire della possibilità di aggregare uno come Calenda, il cui
credito presso settori del Paese dipende proprio dalla sua
indisponibilità a stringere accordi con i vari populisti. Altro che
campo largo.
Draghi costretto a tornare in
anticipo dal vertice Nato di Madrid, ma smentisce di aver mai chiesto a
Grillo di sostituire Conte alla guida del Movimento 5 Stelle. E il
cofondatore del Movimento: «Io strumentalizzato»
DALLA NOSTRA INVIATA MADRID — Lo sguardo di Mario Draghi sul
capolavoro di Velazquez, Las Meninas, è stanco e sfuggente, forse il
presidente italiano ha già la testa al Consiglio dei ministri di oggi.
Cruciale, decisivo per le sorti del governo. Non tanto e non solo per il
provvedimento che dovrà ridurre il peso delle bollette, quanto per le minacce di rottura che arrivano dai leader di M5S e Lega.
Nonostante le rassicurazioni di Palazzo Chigi la crisi con Giuseppe Conte non è rientrata. L’ex premier, che a sera ha drammatizzato
salendo al Quirinale, ha parlato per oltre un’ora con il presidente
Mattarella. E con i fedelissimi non ha escluso la possibilità di uscire
dall’esecutivo. Non è il solo. Perché ieri, mentre il capo del governo
era chiuso alla Fiera di Madrid con Biden, Macron, Scholz, Johnson e gli
altri leader della Nato, Salvini accusava l’ala sinistra di «far
saltare il governo». Le bollette, certo. Ma c’è anche l’allarme sulla tenuta dell’esecutivo dietro la scelta (sofferta) di Draghi di cambiare in
corsa l’agenda e lasciare, dopo la prima giornata, l’importantissimo
summit spagnolo sulla strategia di difesa dopo l’aggressione russa
all’Ucraina.
Alle tre e mezzo del pomeriggio il premier accetta di rispondere alle domande dei giornalisti. Due sono sulla Nato e quella del Corriere
è sui rapporti con Conte. È vero che il premier ha chiesto a Beppe
Grillo la testa del leader del Movimento? E se i 5 Stelle escono, si fa
un’altra maggioranza o si va a votare? La risposta dell’inquilino di
Palazzo Chigi è netta («Il governo non cade»), ma l’imbarazzo è
evidente. Tanto che pochi minuti dopo l’ira di Conte fa il giro del
Parlamento: «Draghi non ha smentito niente». Ci vorrà qualche ora
ancora, e contatti con il fondatore del M5S, prima che la presidenza del
Consiglio invii una nota lapidaria per dire che mai l’ex presidente
della Bce ha chiesto a Grillo di rimuovere Conte. Ma ormai il caso è
deflagrato e la bomba sono le parole che il presidente del Movimento ha
detto a Draghi, al telefono, dieci minuti prima delle brevi
dichiarazioni ai giornalisti. Era stato il premier a chiamare, ma Conte
stava in riunione e si è fatto vivo con calma, con uno sfogo che ha
sorpreso Draghi.
«Per il rispetto che ho delle istituzioni e del tuo ruolo non ti avrei attaccato pubblicamente
mentre eri impegnato al vertice Nato. Ma se è vero che hai chiesto a
Grillo la mia testa — va giù duro Conte — è una cosa gravissima, non per
l’attacco personale a me da parte di un premier tecnico, ma perché in
ballo c’è il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche».
Draghi è spiazzato e vuole chiarire, conferma le conversazioni con
Grillo ma smentisce categoricamente di aver mai chiesto al comico e
fondatore di rimuovere il leader del M5S. Ma Conte non ha finito: «A che
gioco state giocando? Se ci volete fuori dal governo me lo dovete dire,
chiaro e tondo». Il plurale lega Draghi a Luigi Di Maio. Conte sospetta
che premier e ministro abbiano lavorato di sponda per buttarlo fuori
dalla maggioranza, dopo essersi assicurati, con la scissione, una
scialuppa di salvataggio in Parlamento: «Ci sono voluti due giorni per
aggiungere un aggettivo alla risoluzione sull’Ucraina. Chigi e Farnesina
bloccavano ogni nostra proposta e intanto Di Maio, tra Camera e Senato,
raccoglieva le firme per spaccare il M5S». E ancora, ancora. L’accusa
di aver «piazzato la norma sull’inceneritore nel decreto Aiuti, che
stanziava 14 miliardi per i cittadini con misure volute da noi», e la
rabbia per «lo stop al superbonus».