Archive for Giugno, 2022

Draghi irritato dai giochi 5S, in ballo il destino d’Europa

martedì, Giugno 21st, 2022

Annalisa Cuzzocrea

Alla fine a impuntarsi è stato Mario Draghi. Alle nove e mezzo di sera, quando a Palazzo Chigi è stata inviata l’ennesima riscrittura di un testo limato fino alle virgole per accontentare le richieste del Movimento 5 stelle, il presidente del Consiglio ha detto: «No, a questo punto vediamo domani». Cioè stamattina alle 8:30, quando i rappresentanti dei gruppi si incontreranno di nuovo con il sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola per siglare l’intesa finale sulla risoluzione di maggioranza da presentare prima della partenza del premier per il Consiglio europeo.

La riunione negli uffici del Senato è durata sei ore. Da una parte la delegazione M5S guidata dalla capogruppo a Palazzo Madama Mariolina Castellone, dall’altra quella del Pd e delle altre forze di maggioranza. «Siamo a un passo», hanno detto i partecipanti per tutto il pomeriggio, ma quell’ultimo passo non si è riuscito ancora a compierlo. È una questione di virgole, di rimandi legislativi, di passaggi tabù. Il primo da superare è il riferimento al decreto Ucraina, quello che autorizza l’invio di armi fino a fine anno. Palazzo Chigi pretende ci sia. I 5 stelle non lo volevano: quel che hanno chiesto fin dal primo momento è di vincolare il governo a un passaggio parlamentare in caso di nuovi aiuti militari.

«Conte non vuole rompere su questo», è il refrain di chi ha il mandato a trattare. Ma il presidente M5S pretende una cosa che il premier non è disposto a concedere. E cioè di costringerlo a un passaggio parlamentare prima di decisioni chiave sulla crisi ucraina.

È come se i due, nonostante la miriade di emissari e l’esistenza del telefono, non riuscissero a comunicare. Da giorni Draghi aveva spiegato che quel passaggio era per lui «inaccettabile». E da giorni i 5 stelle dicevano che per loro un nuovo passaggio in Parlamento era obbligato. Come si esca da qui è difficile dirlo. Luigi Di Maio è stato accusato dai suoi e anche da alcuni alleati di aver descritto una contraddizione che non esisteva, di aver complicato la mediazione con un’uscita scomposta contro il Movimento rappresentando un anti-atlantismo inesistente. Di sicuro, il capo della Farnesina ha fatto i suoi calcoli. Ma la fatica su un documento che doveva essere molto semplice, affidando al premier italiano il mandato di fare quel che serve in accordo con gli alleati europei per aiutare il popolo ucraino, dimostra che l’ex capo politico M5S non ha inventato nulla. La distanza è reale. La difficoltà del governo ad andare avanti in modo coeso su una crisi le cui conseguenze sono già nelle case degli italiani, in termini di inflazione, aumenti del costo dell’energia e paura di ritrovarsi coinvolti nel conflitto, è ormai provata.

Conte e i suoi vicepresidenti, i più aggressivi nei confronti di Di Maio e della sua linea in politica estera, continuano a ripetere che a parlare deve essere solo la diplomazia e che solo in quel senso il nostro governo deve aumentare gli sforzi. Non hanno raccolto le aperture di Draghi, il desiderio di pace italiano ed europeo espresso nella visita al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, l’impegno diplomatico dimostrato anche dal prossimo viaggio in agenda, ad Ankara dal 5 al 7 luglio. Così come non hanno ascoltato le parole di ieri di Volodymyr Zelensky che al Parlamento italiano dice: «Aiutateci».

Dal canto suo Palazzo Chigi non ama essere impegnato in estenuanti mediazioni sulle virgole dei testi per dare l’impressione a Giuseppe Conte e ai suoi 5 stelle di aver ottenuto una vittoria o un vantaggio. Il rapporto è a dir poco estenuato. Perché anche se il presidente M5S continua a ripetere che non metterà mai in dubbio atlantismo ed europeismo e che anche il Movimento sta senza esitazione dalla parte dell’Ucraina, cioè degli aggrediti, le sue parole di questi giorni hanno seminato più di un dubbio nella testa di Draghi e di chi lo circonda.

Il premier non ritiene di poter svolgere a pieno il suo ruolo in una crisi già complicatissima se la forza politica più numerosa della sua maggioranza si esprime continuamente in senso contrario. Non si tratta di non rispettare la democrazia parlamentare, ma di essere in grado di prendere impegni a livello europeo e internazionale senza rischiare di vederli sconfessati un giorno dopo dalle discussioni tra i partiti.

Del resto, quel che ripete da giorni è che «i progressi verso la pace si possono fare solo se si va avanti uniti, sia in Italia che in Europa», e di unità nelle ultime ore non se ne è vista per niente.

La preoccupazione del presidente del Consiglio comprende ovviamente anche quel che è accaduto in Francia: Emmanuel Macron, che già aveva avuto un atteggiamento altalenante rispetto alla richiesta dell’Ucraina di entrare nell’Unione europea, potrebbe essere ancora più tiepido dopo il voto di domenica e la rivalsa della sinistra “insoumise” di Mélenchon e della destra estrema di Marine Le Pen. Olaf Scholz ha altrettanti problemi con la sua maggioranza in Germania, oltre a storici legami di interessi con la Russia di Vladimir Putin. Il ruolo di Draghi era quello di spingere gli alleati europei in una direzione chiara a favore del governo di Kiev per far arrivare l’Ucraina al tavolo della pace nelle migliori condizioni possibili. Se non avrà neanche lui la libertà di farlo, l’intero quadro rischia di deteriorarsi e le promesse della presidente del Parlamento europeo Metsola e della presidente della commissione Ursula von der Leyen rischieranno di restare lettera morta.

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La crisi dei 5Stelle e le scelte del Pd

martedì, Giugno 21st, 2022

di Stefano Folli

Più i 5S di Conte si spingono avanti nel criticare la politica governativa verso l’Ucraina, più la marcia indietro dell’ultimo minuto sarà per loro dolorosa. Ci sarebbe una via d’uscita, naturalmente: non fermarsi, andare avanti fino a mettere in crisi Draghi, costi quel che costi. Ma ovviamente non è credibile. Che un partito uscito malconcio dalle elezioni amministrative e ormai a un passo dall’implosione abbia la voglia e la forza di provocare la caduta dell’esecutivo su un tema riguardante le alleanze internazionali dell’Italia, sembra a tutti inverosimile. C’è un limite al cinismo con cui si cerca di scaricare sul governo le infinite contraddizioni di un movimento frantumato e in buona misura privo di senso quattro anni dopo il trionfo elettorale del 2018.

  La marcia indietro è dunque l’unica opzione realistica, a meno che la situazione ai vertici del M5S non sia del tutto sfuggita di mano. Ma in tal caso a rimettere le cose a posto ci penserebbero i parlamentari “grillini”, timorosi delle elezioni anticipate e consapevoli che quasi nessuno di loro tornerà in Parlamento. S’intende che il presidente del Consiglio farà il possibile, sul piano delle rassicurazioni verbali, per rendere la retromarcia meno mortificante. Dirà dell’impegno italiano per la pace e non a caso le comunicazioni alle Camere arrivano dopo il viaggio a Kiev e le altre iniziative che hanno visto Palazzo Chigi e la Farnesina molto attivi nelle ultime settimane. Se Conte e i suoi si accontentano – come tempo fa si erano accontentati di piccoli ritocchi al programma di aumento delle spese militari fino al 2 per cento del Pil -, l’ennesima finta crisi potrà essere archiviata.

  Resta il punto politico. La frattura tra i 5S è profonda e insanabile. Un movimento senza autentiche radici e senza una rotta si sta sbriciolando come effetto di una contesa personale rivestita di rispettabili principi. Ovvio che un eventuale appoggio esterno non risolverebbe le angosce che segnano il tramonto del partito, mentre al tempo stesso provocherebbe l’instabilità del governo: i 5S sono pur sempre il gruppo di maggioranza relativa e Di Maio agli Esteri non è sostituibile, a meno di non voler provocare uno smottamento dei fragili assetti nella coalizione. Ne deriva che il Pd, che si considera non a torto l’asse del sistema e il primo sostenitore di Draghi, oggi ha una doppia responsabilità. La prima è dissuadere Conte dal disimpegnarsi dal governo: e questo è senz’altro il compito più facile per le ragioni appena dette. 

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La Bce e lo scudo delle illusioni

martedì, Giugno 21st, 2022

di Tito Boeri e Roberto Perotti

In questi giorni i mercati si sono dimostrati per un verso troppo ottimisti sul debito pubblico italiano, per un altro troppo pessimisti. Sull’eccesso di ottimismo: lo spread tra i titoli del debito pubblico italiano e quelli del debito tedesco è fortemente aumentato fino all’annuncio, mercoledì scorso, di uno scudo anti-spread allo studio presso la Bce; da allora è calato del 20 per cento. Non siamo sicuri che sia una reazione giustificata.


In cosa consisterebbe questo scudo? Il programma anti-pandemia della Bce ha in pancia 1,65 trilioni di titoli di stato acquistati negli ultimi due anni: 280 miliardi sono italiani, o il 17 per cento, esattamente pari alla quota della Banca d’Italia nell’Eurosistema. Il programma è terminato: la Bce si limiterà a reinvestire i titoli in scadenza. L’idea dello scudo anti-spread sembrerebbe consentire alla Bce di reinvestire in titoli italiani più del 17 per cento di tutti i titoli che scadono ogni anno in questo programma.

Non si sa esattamente quanti titoli scadranno ogni anno. E bisogna aggiungere i reinvestimenti dei titoli in scadenza del programma di acquisti “regolare” della Bce, iniziato nel 2014 e che finirà anch’esso tra poco. I calcoli sono un po’ complicati, ma sulla base dei pochissimi dati disponibili abbiamo stimato che se la Bce reinvestisse in titoli di stato italiani il 17 per cento dei titoli in scadenza nei due programmi, comprerebbe circa 70 miliardi di titoli italiani. Se invece con lo scudo antispread la Bce raddoppiasse (una ipotesi forte) la quota di titoli italiani che reinveste nel programma anti-pandemia, comprerebbe in totale 100 miliardi di titoli italiani.

Difficile che faccia la differenza nel caso di panico dei mercati (che al momento non è alle viste). Ricordiamo che solo di titoli a medio e lungo termine l’anno venturo scadranno oltre 250 miliardi di debito pubblico italiano. Inoltre, per fare un confronto, nel 2011 e 2012 il Securities Market Programme della Bce comprò titoli dei paesi con problemi di debito pubblico. Raggiunse la stessa cifra, 100 miliardi di titoli italiani, quando il nostro debito pubblico era ben inferiore a quello attuale; ma questo non bastò a prevenire la forte crisi di allora.


Il secondo motivo per cui le prime reazioni dei mercati potrebbero essere troppo ottimistiche è che quasi tutti i paesi, eccetto quelli del sud Europa, sono contrari a uno scudo anti-spread che sia al tempo stesso di dimensioni utili a evitare una crisi e “incondizionato”.


La Bce sta tentando di quadrare il cerchio, ma sarà una impresa difficile. I paesi nordeuropei acconsentirebbero, seppur con riluttanza, a un piano anti-spread serio solo se fosse accompagnato da condizioni stringenti imposte all’Italia. D’altra parte, nessun governo italiano, tantomeno un futuro governo a maggioranza più o meno sovranista, sarà disposto a firmare una lunga lista di condizioni con Bce e Commissione, come fece la Grecia. Il risultato più probabile, come abbiamo visto, è uno scudo anti-spread men che impenetrabile…


L’ironia è che uno scudo anti-spread, e potenzialmente illimitato, esiste già: l’Outright Monetary Transaction Programme, creato nel settembre 2012 dopo il famoso discorso di Draghi del “whatever it takes”. È l’unico programma davvero senza limiti agli acquisti. Ma richiede la firma di condizioni, tra le quali l’adesione al programma del Fondo Salva Stati (Mes).


Se i mercati sono eccessivamente ottimisti sullo scudo, sembrano commettere l’errore opposto sulla sostenibilità del debito. Dimenticano una grossa differenza con la crisi del 2011: l’inflazione. Allora non c’era, oggi c’è. Sia chiaro: tutti noi ne faremmo volentieri a meno, ma dato che c’è è importante tenere conto di tutti i suoi effetti. Un effetto è di ridurre il peso del debito pubblico sul Pil, e il costo del servizio del debito.


Anche qui i calcoli non sono immediati, ma intuitivamente, quando c’è inflazione e crescita positiva il denominatore del rapporto debito pubblico/Pil, il Pil cresce almeno al tasso di inflazione, e questo riduce il rapporto. Si dirà che se aumenta l’inflazione tipicamente aumenta anche il tasso di interesse che si paga sul debito, e questo si riflette in un maggiore accumulo del debito pubblico, il numeratore del rapporto. Vero, ma finora il tasso di interesse è aumentato molto meno dell’inflazione.

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Dall’Olanda all’Italia l’Europa riaccende il vecchio carbone

martedì, Giugno 21st, 2022

di Luca Fraioli

ll carbone, ancora lui. Sembrava relegato ormai ai romanzi di Dickens o alle locomotive dei vecchi western. E invece all’Europa tocca tornare a spalarlo e bruciarlo anche nell’era digitale e dei cambiamenti climatici. Lo ha ammesso a malincuore il ministro tedesco dell’Economia Robert Habeck, annunciando la volontà di Berlino di puntare sulle centrali che producono elettricità con il più inquinante dei combustibili fossili: «È una decisione amara, ma è essenziale per ridurre il consumo di gas». Un duro colpo per l’esponente dei Verdi, diventato vice cancelliere con l’obiettivo opposto: far assumere alla Germania la leadership di un nuovo mondo alimentato dalle rinnovabili.

Ma la crisi energetica innescata dal conflitto ucraino non ha fatto saltare solo i piani di Habeck. Anche l’Austria si sta attrezzando per tornare al carbone, dopo la parziale chiusura dei rubinetti del gas da parte della Russia. Vienna ha annunciato di voler riattivare la centrale di Mellach, nel sud del Paese. «Ci vorranno diversi mesi», ha spiegato il governo: Mellach – ultima centrale a carbone in Austria – era stata chiusa nel 2020, nell’ambito del piano del governo di arrivare al 2030 con una produzione di energia 100% rinnovabile. E una decisione analoga è arrivata ieri dall’Olanda, che ha eliminato fino al 2024 il tetto del 35% di capacità a cui funzionavano gli impianti a carbone, per ridurre le emissioni. Nel caso la Russia dovesse bloccare del tutto la vendita di gas, anche l’Italia è pronta a far marciare a pieno regime le sei centrali ancora operative, in teoria da pensionare entro il 2025.

Se le decisioni di Vienna e L’Aia confermano il ritorno al passato, è il dietrofront di Berlino a destare le maggiori preoccupazioni. Per il suo valore simbolico e quantitativo. Dei circa 50 gigawatt di fabbisogno elettrico giornaliero della Germania infatti, ben 15 vengono dal carbone. Mentre la piccola Olanda si ferma a 1,45. In Italia la domanda giornaliera di elettricità è 33 gigawatt ma solo 3 vengono dalle centrali a carbone.

Il problema è capire quanto il ricorso al carbone sia temporaneo, legato all’emergenza, o quanto invece rischi di vanificare gli sforzi per decarbonizzare il comparto energetico. La Commissione europea con il RepowerEu ha concesso un ritorno temporaneo ai fossili, ribadendo però che il futuro sono rinnovabili e risparmio energetico. «Dobbiamo utilizzare questa crisi per andare avanti, non per ricadere nei combustibili inquinanti: non è ancora detto che prenderemo la svolta giusta», ha detto ieri la presidente della Commissione von der Leyen. La Germania ci crede ancora: «L’uscita dal carbone nel 2030 non vacilla affatto», ha detto ieri Berlino.

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Draghi va avanti sulle armi a Kiev e blinda Di Maio: i 5Stelle non otterranno il rimpasto

martedì, Giugno 21st, 2022

di Serenella Mattera e Matteo Pucciarelli

ROMA – Non sarà una partita tra correnti a cambiare il volto del governo. Lo ribadiscono con fermezza in queste ore ai vertici dell’esecutivo. Vale per l’aiuto a Kiev che, se così si deciderà con gli alleati, continuerà finché sarà necessario. E vale per il ruolo del ministro degli Esteri, messo in discussione da Giuseppe Conte. Il leader del Movimento per ora ha congelato il tema dell’espulsione di Luigi Di Maio dal partito e dalla squadra di Draghi, ma se scissione sarà (“Se lui andrà via”, dicono i fedelissimi) valuterà di chiederne la sostituzione. Sa già, perché il messaggio pare gli sia stato fatto pervenire per canali informali, che Mario Draghi di rimpasti non ha mai voluto sentir parlare. E soprattutto che, sottolineano qualificate fonti governative, non esiste l’ipotesi di cambiare il ministro degli Esteri in piena guerra. Anche perché, viene fatto notare, Di Maio “gode di ottima reputazione, sta facendo bene a livello internazionale e viene stimato dai colleghi di governo: che una dinamica tra correnti interrompa la continuità nella gestione della politica estera è fuori da ogni possibilità”.

A sera a Palazzo Chigi, nonostante il rinvio della riunione fiume sulla risoluzione di maggioranza, si mostrano fiduciosi che lo strappo in Aula sull’Ucraina non si consumerà. Nessuno, concordano ai vertici del Pd, può permettersi di rompere sulla politica estera mentre è in corso il conflitto: “Conte ne è consapevole, non ha intenzione di farlo”, assicura chi tiene i contatti con lui. Si vedrà, ribattono dal governo. Quel che è certo è che Draghi in Aula al Senato, alle 15, nel lungo e denso intervento su tutti i temi al centro del prossimo Consiglio europeo, dalla richiesta di un tetto al prezzo del gas a quella di nuovi aiuti europei anti-inflazione, fino alla risposta da dare all’aggressione di Mosca a Kiev, ribadirà la linea.

L’Italia ha promosso da subito con forza, rivendicherà, l’adesione dell’Ucraina all’Ue. Si muove e continuerà a muoversi, in sintonia con gli alleati dell’Ue e della Nato, per sostenere lo sforzo di difesa ucraino, perché solo così si possono creare le condizioni della de-escalation, solo così si può indurre Vladimir Putin a sedersi a un tavolo di trattativa. Ma la difesa non sarà il cuore del discorso del premier, che potrebbe non citare affatto l’invio di armi. Perché ora ogni sforzo è per provare ad aprire il varco a una tregua e quindi a una trattativa.

Draghi racconterà quanto fatto finora, riferirà della visita a Kiev con Emmanuel Macron e Olaf Scholz, e indicherà un percorso che passa dai vertici di Ue, G7, Nato e dal bilaterale in Turchia, per sbloccare in fretta almeno la partita del grano, con mediazione dell’Onu. La linea, assicura chi è vicino al premier, emergerà con chiarezza. Il governo si muove nel solco del Parlamento, ne vuole l’unità. E Draghi, come sempre, ascolterà ogni intervento per poi replicare. Nella speranza che intanto i pontieri abbiano ‘sminato’ il campo dal tentativo del M5s contiano di “commissariare” l’azione del governo. E nell’auspicio che il voto non fotografi una maggioranza divisa, indebolendo il governo.


Certo, riconosce più di un ministro, anche se oggi non si consumerà lo strappo, i prossimi mesi si annunciano assai difficili. Draghi è stato chiaro: si va avanti finché ci sono le condizioni per agire, dalle riforme al Pnrr. E Di Maio ai colleghi avrebbe assicurato che da qui in poi si batterà su ogni singolo dossier per evitare che il M5s saboti l’esecutivo. Ma non conviene neanche a Conte, ragiona un esponente di governo ‘draghiano’, in un momento di crisi “attentare alla stabilità del governo: sarebbe autolesionista, la stagione del populismo è finita”.

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L’Italia a secco, le Regioni pronte al razionamento dell’acqua

martedì, Giugno 21st, 2022

di Riccardo Bruno

L’allarme in Pianura Padana, il Po ai minimi storici. Il 40% dei terreni agricoli in estrema siccità. Tra le ipotesi, il divieto di riempimento delle piscine. Ancora ondate di caldo per i prossimi 15 giorni

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Il Po a Ostiglia, Mantova, in una foto del 20 giugno (Riccardo Dalle Luche/Ansa)

Non c’è scampo per chi vuole sfuggire al caldo. Sabato scorso, alle due del pomeriggio, sul Col Major, poco sotto la vetta del Monte Bianco, la colonnina è salita a 10,4 gradi. Considerando che eravamo a quota 4.750 metri, è facile capire la portata dell’ondata bollente che sta investendo tutta l’Italia e non solo. Il dato più allarmante è che ormai da diverse settimane le temperature rimangono sopra la media e in più arrivano dopo un inverno mite e poco piovoso, soprattutto al Nord. Il risultato è una condizione di siccità che si trascina da mesi e fa temere il peggio.

Razionamenti

Per questo le Regioni hanno rotto gli indugi e si stanno muovendo rapidamente, intanto per chiedere lo stato di emergenza (il Lazio ha annunciato che domani decreterà quello di calamità), ma anche per uniformare le decisioni su tutto il proprio territorio. Le ipotesi a cui si sta lavorando riguardano nell’immediato la riduzione dello spreco, con il razionamento fino allo stop dell’erogazione durante la notte, dando priorità all’uso per fabbisogni primari (ad esempio vietando di riempire le piscine). Sono provvedimenti che già in molti Comuni sono stati presi. Almeno in una decina in Piemonte, dove da giorni si ricorre alle autobotti e alle chiusure notturne della distribuzione. E ancora nelle province di Savona e di Imperia, o a Tesimo, in Alto Adige, dove il sindaco ha disposto che l’acqua si possa «usare per bere e fare la doccia» ma non per innaffiare i giardini.

Laghi e il Po

La situazione è particolarmente difficile in circa 145 centri del Novarese e dell’Ossolano, ma anche in provincia di Bergamo e nell’Appennino Parmense. E lungo tutta la Pianura Padana. «Il Po è un rigagnolo, quelli che venivano chiamati fiumi ora li chiamo torrenti» è l’amara considerazione di Alessandro Folli, presidente lombardo dell’Anbi (l’Associazione nazionale bonifiche irrigazioni e miglioramenti fondiari). Sul Delta, il cuneo salino (l’acqua del mare che risale lungo il fiume) è arrivato a raggiungere i 21 chilometri. A Pontelagoscuro, nel Ferrarese, la portata è scesa a 180 metri cubi al secondo, cifra più consona a un piccolo corso d’acqua che non al Grande fiume. I laghi del Nord Italia non stanno meglio: quello Maggiore ha un riempimento al 20%, quello di Como al 18% con un livello di meno 9 centimetri rispetto allo zero idrometrico. Non è ancora in emergenza il lago di Garda, con un riempimento al 60%, mentre il lago di Bracciano, nel Lazio, è a meno 25 centimetri rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

Desertificazione

L’ultimo bollettino dell’Osservatorio siccità del Cnr, pubblicato il 10 giugno, mostra gli effetti soprattutto sul settore agricolo, con oltre il 40% dei terreni irrigui interessato da siccità severa o estrema nel medio e lungo periodo (ultimi sei mesi/un anno). Con una fascia di popolazione esposta a queste condizioni limite che è raddoppiata passando dal 14 al 30%.

Proprio sabato scorso, Copernicus, il servizio dell’Unione europea che effettua il monitoraggio del territorio, ha rilevato in Sardegna il record della temperatura del suolo con ben 51 gradi. Mentre l’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) avverte su un altro rischio, quello della desertificazione. «Interessa già un quarto del suolo italiano, ma la situazione può peggiorare a causa della siccità, soprattutto se persiste» ha spiegato Francesca Assennato, coordinatrice dell’Area monitoraggio integrato suolo e territorio dell’istituto. Altra conseguenza non trascurabile sono gli incendi, triplicati dall’inizio dell’anno rispetto alla media storica secondo uno studio della Coldiretti.

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Armi all’Ucraina, martedì il test per Draghi al Senato. Le condizioni del governo

martedì, Giugno 21st, 2022

di Maria Teresa Meli

Scompare dal testo della risoluzione del Movimento 5 Stelle il no alle armi a Kiev, si tratta su un maggior coinvolgimento del Parlamento. Le condizioni dell’esecutivo guidato da Draghi che non vuole sentirsi sotto tutela

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L’onore delle armi si concede a un avversario che combatte strenuamente. Ma i 5 Stelle si presentano alla riunione di maggioranza con il sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola, che rappresenta Palazzo Chigi, avendo già issato bandiera bianca su due punti per loro fondamentali fino a qualche giorno fa: il no all’invio delle armi a Kiev e la richiesta di voto su una eventuale nuova spedizione di forniture militari in Ucraina.

Quindi il tema dell’incontro diventa un altro: come trovare un accordo tra tutti che salvi la faccia a Giuseppe Conte? I dem ci provano. Del resto, le richieste dei grillini nella riunione di Palazzo Cenci sono assai più modeste di quelle precedenti: «Noi vogliamo che prima degli snodi cruciali a livello internazionale il governo passi per il Parlamento». E tra gli «snodi», ovviamente, c’è l’invio delle armi in Ucraina.

Ma da Palazzo Chigi sono già arrivate due condizioni di cui Amendola si fa interprete: il governo «non può stare sotto tutela» e una risoluzione parlamentare non può smentire un decreto legge, quello, già votato da entrambe le Camere, con il sì del M5S, che autorizza eventuali nuovi invii di armi fino al 31 dicembre. In soldoni: se i 5 stelle ci tengono tanto a sottolineare nel documento della maggioranza il necessario coinvolgimento del Parlamento sulla questione delle attrezzature militari, bisogna richiamare anche quel decreto. I 5 Stelle non vorrebbero, Leu li segue, il Pd, con Alessandro Alfieri e Piero De Luca, propone due possibili mediazioni.

Si tenta quindi di introdurre un passaggio assai generico sul fatto che il governo «continuerà ad aggiornare il Parlamento». La capogruppo M5S al Senato Mariolina Castellone prima apre poi si inalbera: «Sono termini troppo generici, così non va bene». Amendola sfodera le sue doti diplomatiche per trovare la quadra: «Cerchiamo una soluzione che vada bene a tutti». Intanto a Palazzo Chigi il premier, dopo aver messo i suoi paletti, lima il discorso che terrà oggi al Senato. Parlerà della strategia per arrivare alla pace, ma nel quadro degli impegni assunti con la Ue.

E ieri una bozza delle conclusioni del Consiglio europeo rilanciata dalle agenzie di stampa recitava così: la Ue «rimane fortemente impegnata» a «fornire ulteriore sostegno militare» all’Ucraina. I grillini che hanno chiesto la «de-escalation» dell’impegno militare preferiscono fare finta di niente: già devono vedersela con il premier che ha fatto sapere che il coinvolgimento del Parlamento non può tramutarsi in «autorizzazioni preventive» al governo.

Se dem e Leu cercano una mediazione che salvi la faccia a Conte, le altre forze politiche appaiono meno generose. Iv, +Europa, FI e Lega non accettano le richieste del M5S e Matteo Salvini, per una volta almeno apparentemente coperto e allineato, critica i 5 Stelle: «Avere un ministro degli Esteri sconfessato dal suo partito con una guerra in corso non è il massimo». E poi, a mo’ di rivincita, osserva: «Il governo non rischia certamente per noi». In realtà il governo, almeno oggi, non rischia affatto. Certo, la riunione di maggioranza prosegue per ore e ore, ma non solo per le difficoltà di trovare una via d’uscita onorevole al M5S. L’idea è quella di tirarla avanti il più a lungo possibile, onde evitare che il testo esca troppo presto e che i grillini, divisi come sono, possano boicottarlo prima dell’arrivo in Aula. E comunque il M5S ha bisogno di dimostrare di essere riuscito a tenere in stallo il governo, visto che non ha ottenuto ciò che chiedeva. Infatti alle 21.30 si decide di aggiornare l’incontro alle 8.30 di stamattina.

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Con Omicron si rischiano anche più casi di Long Covid: lo studio pubblicato su The Lancet

martedì, Giugno 21st, 2022

di Luigi Ripamonti

Lo indicano diversi studi e lo sottolinea un report elaborato dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Il professor Alberto Mantovani: «C’è ancora molto da capire di questa sindrome, ma cominciamo a metterne a fuoco alcuni meccanismi»

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(Getty Images)

Il Long Covid è un fenomeno destinato ad aumentare. Lo indica uno studio inglese pubblicato sulla rivista The Lancet che ne ha confrontato l’insorgenza dopo l’infezione acuta con le varianti Delta oppure Omicron del virus Sars-CoV-2. Chi è stato infettato con Delta ha una probabilità maggiore di andare incontro a Long Covid, ma Omicron è talmente più diffusa e contagiosa da far prevedere agli autori un notevole incremento della sindrome in termini assoluti. «L’analisi britannica conferma le nostre preoccupazioni, sia in termini di conseguenze individuali del Long Covid sia di ricadute sociali, e compare in coincidenza con un report sul tema appena elaborato dall’Accademia Nazionale dei Lincei», commenta il professor Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto Humanitas di Milano e primo firmatario del documento, che è stato coordinato da Gianni Bussolati e al quale hanno contribuito Maria Concetta Morrone, Carlo Patrono, Gabriella Santoro, Stefano Schiaffino e Giuseppe Remuzzi.

La diffusione

«Del resto già nello studio tedesco Epiloc, il 20% delle persone (fra i 18 e i 25 anni) aveva riferito almeno una moderata compromissione del proprio stato di salute e della capacità lavorativa a distanza dall’infezione acuta — sottolinea Mantovani —. Altre stime inglesi parlano di disturbi nel 20% dei casi dopo 5 settimane e nel 10% dopo 3 mesi. Indagini cinesi hanno evocato problemi anche dopo 2 anni . I sintomi, a cominciare da dolori e spossatezza, sono di varia gravità e possono investire polmoni e bronchi, sistema nervoso, rene, intestino, senza dimenticare l’impatto sulle funzioni metaboliche. Uno degli impatti che è emerso con maggior forza più di recente è quello che insiste su cuore e vasi».

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Il gas ora fa paura: domani il comitato di sicurezza. I ministri studiano il piano razionamenti

lunedì, Giugno 20th, 2022

Sofia Fraschini

Si apre una settimana clou per l’industria italiana. Il Paese si avvicina ora dopo ora allo «stato di allerta» per le forniture di gas e tra domani e mercoledì prenderà una serie di misure che andranno probabilmente nella direzione di limitare i consumi (in primis aziendali) per tutelare gli stoccaggi, ovvero le riserve di gas che l’Italia sta accumulando in vista dell’inverno. Tutto questo alla luce del graduale calo delle forniture da Mosca registrato la scorsa settimana. Ma se da un lato la situazione si fa emergenziale, dall’altro, l’Eni di cui lo Stato è grane azionista si sta facendo in quattro per aumentare gli approvvigionamenti e ieri ha annunciato una storica alleanza con il Qatar nel Gnl.

In questo contesto le prossime 48 ore saranno cruciali per capire in che direzione andrà il governo nei prossimi mesi, anche se dopo l’emergenza già dichiarata in Germania, è difficile che l’Italia possa muoversi diversamente. Domani al ministero della Transizione ecologica, ci sarà una riunione del Comitato sicurezza sul livello d’allarme per il gas, e mercoledì il ministro Roberto Cingolani vedrà anche le società fornitrici, tra cui Eni ed Enel. Secondo il piano del governo, l’alert scatta per l’interruzione della fornitura e/o in caso di eventi climatici sfavorevoli di eccezionale intensità. Ma cosa si deciderà? Il primo passo sarebbe quello di invitare le industrie, attraverso il trasportatore Snam, a limitare volontariamente i consumi, come prevedono i contratti di fornitura. In caso di attuazione del piano emergenziale, inoltre, in prima battuta spetterebbe agli operatori, come Eni, emanare misure per il risparmio delle materie energetiche e aumentare le importazioni, riducendo la domanda totale impiegando combustibili alternativi negli impianti industriali. Saranno gli operatori, in concerto con il governo, a mettere sul piatto i numeri e a muoversi di conseguenza.

Questo mentre, in parallelo, la società guidata da Claudio Descalzi ha annunciato un importantissimo accordo che se non cambierà nell’immediato il futuro degli approvvigionamenti gas ne opziona un’importante fetta dal 2025. Eni è entrata nel più grande progetto al mondo di gas naturale liquefatto in Qatar. La società italiana è stata selezionata da QatarEnergy come nuovo partner internazionale per l’espansione del progetto North Field East nel paese del Golfo. L’accordo di partnership – firmato da Descalzi con il ministro per gli Affari energetici, presidente e ad di QatarEnergy, Saad Sherida Al-Kaabi – prevede la creazione della nuova joint venture, con QatarEnergy al 75% e Eni al 25%. La joint venture a sua volta deterrà il 12,5% dell’intero progetto North Field East, di cui fanno parte 4 mega treni Gnl con una capacità combinata di liquefazione di 32 milioni di tonnellate l’anno. Il progetto consentirà di aumentare la capacità di esportazione di Gnl del Qatar dagli attuali 77 milioni a 110 milioni di tonnellate l’anno. Con un investimento di 28,75 miliardi di dollari, il progetto dovrebbe entrare in produzione entro fine 2025 e impiegherà tecnologie e processi all’avanguardia per minimizzare l’impronta carbonica complessiva. L’accordo ha una durata di 27 anni e costituisce per Eni una mossa strategica, rafforzando la presenza in Medio Oriente del Cane a Sei Zampe, che ottiene l’accesso a un produttore di Gnl leader a livello globale, con riserve di gas naturale tra le più grandi al mondo. «Questo accordo è una significativa pietra miliare per Eni e si inserisce nel nostro obiettivo di diversificazione verso fonti energetiche più pulite», ha spiegato Descalzi.

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ll “partito dell’ombrellone” che accende gli irrequieti

lunedì, Giugno 20th, 2022

Vittorio Macioce

Il luogo sembra piuttosto affollato, come una sorta di stabilimento balneare della politica da ombrellone. Ci passa chi spera in un cambio di passo, chi trova scomodo sedersi a destra o sinistra, chi ha trovato occupata la sua vecchia casa, chi pensa che dilapidare l’esperienza del governo Draghi sia da irresponsabili, chi da sempre ci sta in attesa del ritorno di uno scudocrociato, chi non ha più nulla da perdere. Quelli che mancano al momento sono gli elettori, anche perché in questa confusione faticano a capire di cosa esattamente si stia parlando. Il «grande centro» rischia di restare così una leggenda metropolitana. Non è che non esiste, è che ognuno che arriva si mette a litigare con il vicino di posto. «Tu qua non ci puoi stare».

A guardarlo troppo da vicino il «centro» ricorda la taverna di Mos Eisley in Star Wars, sul lontano pianeta Tatooine, popolata da gente stravagante e che in alcune occasioni può apparire perfino malvagia. Non è del tutto vero, ma è consigliabile non dare la schiena. Il «centro», se esiste, ha bisogno di una definizione più chiara. Non basta dire che non sono sovranisti, populisti e che non vogliono morire lettiani o qualsiasi altro tipo di segretario piddino che non abbia l’accento toscano e il sorriso poco rassicurante. A pensarci bene neppure lui, l’uomo che un tempo stralunava al 40 per cento, può oggi dare un volto a tutti. C’è chi lo considera una spina nel centro.

Tra questi c’è Carlo Calenda, lui che il centro lo teorizza e lo ha portato anche alle elezioni romane con una certa soddisfazione. Ecco Calenda l’altra sera, con l’aria condizionata a sbollire il sudore, ha fatto i nomi dei frequentatori, indicando pure quelli che non ci dovrebbero stare. La lista dei centristi è lunga. Ci trovi appunto Renzi e lo stesso Calenda, con un problema caratteriale di reciproca incompatibilità e poi a seguire: Beppe Sala da Milano, Giggino Di Maio usurpato da Giuseppe Conte, tre ministri berlusconiani come Carfagna, Gelmini e Brunetta (ma più che centristi sono draghiani), Toti e Brugnaro, Emma Bonino con il sogno di più Europa, Gori da Bergamo, Del Bono, Tinagli e Cottarelli, l’ormai sedentario Mastella, stanco di migrazioni, qualcuno sospetta che a guardare al «centro», per allargare i confini del centrodestra, ci sia anche Giorgetti, stanco del «situazionismo social» di Salvini. In questi giorni è arrivato anche Gianfranco Librandi, fondatore di «Italia c’è», che non manca di spirito di avventura. «Abbiamo commissionato sondaggi per capire cosa vogliono i cittadini. Stiamo costruendo un veliero. Speriamo che Di Maio e Sala si innamorino del nostro progetto. Il nostro veliero ha bisogno di nostromi famosi che sappiano indicare le rotte giuste. Tutti ci osservano».

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