La notizia è che nello scontro, anzi nella “carica” del Fatto Quotidiano contro Maria Elisabetta Alberti Casellati,
il Fatto Quotidiano alla fine si è schiantato. Ha perso. Anche se è
sempre difficile da quelle parti ammetterlo. Ma quando c’è di mezzo una
condanna il “fatto” tutt’ al più può essere camuffato. Non di certo
taciuto. La notizia, dunque, è la seguente: «Ho vinto la causa di
diffamazione contro i giornalisti del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio,
Ilaria Proietti e Carlo Tecce». A comunicarlo, in maniera del tutto
chiara, non è la testata incriminata ma la seconda carica dello Stato
che ha allegato il dispositivo della pronuncia. Il risultato? Ben 25mila
euro che i condannati (il direttore e due cronisti), in solido con il
gruppo editoriale, dovranno versare in sede civile a titolo di
risarcimento per i misfatti.
Di che cosa parliamo? Di una campagna, come racconta lo stesso direttore del Fq Marco Travaglio, che si è radicalizzata (gli scontri fra lui e la Casellati, documentati almeno fin dal 2011, sono letteratura televisiva) dall’inizio dell’elezione della senatrice di Forza Italia come presidente di Palazzo Madama. Uno smacco per il giornale-partito dei 5 Stelle: dato che rimarrà impresso nella storia il fatto che i grillini, bramosi già ai tempi di governare e normalizzarsi a ogni costo, finirono per votare proprio la berlusconiana di ferro addirittura alla presidenza del Senato. Di qui una serie reiterata di articoli e articoli che hanno preso di mira l’esponente azzurra, cinque dei quali, come è stato accertato dal Tribunale di Padova, sono stati ritenuti diffamatori. Al contrario di quanto ritiene il direttore, dal cui editoriale sembrerebbe essere dinanzi ad una condanna parziale, nel dispositivo si legge «che Marco Travaglio, Carlo Tecce e Ilaria Proietti sono stati condannati ex art. 12 l. 47/1978» al risarcimento dei danni. LA PUBBLICAZIONE Non solo. È stata ordinata la pubblicazione della sentenza per estratto a cura e spese dei convenuti sul Corriere della Sera, Il Mattino, il Gazzettino e Il Fatto Quotidiano nonché al rimborso di oltre 10mila di spese processuali. Niente male per quello che sul Fatto di ieri viene più che minimizzato, evidenziando – al contrario – solo quella parte della pronuncia favorevole alla campagna. La realtà è del tutto diversa. Perché se da un lato – come riportato nell’editoriale – il giudice ha riconosciuto in diverse delle circostanze denunciate l’esercizio legittimo del diritto di critica, dall’altra parte ha sancito che la Casellati è stata inequivocabilmente diffamata. Ecco due titoli in questione: «Le “marchette” di mamma Casellati alla figlia Ludovica», «La Casellati bestemmia in Aula e tutti la coprono». Nonostante le evidenze, nella “rielaborazione” il Fatto finge di aver vinto: si tratterebbe, come ha scritto il giornalista anti-Cav, di un «contentino» (sic) che il Tribunale avrebbe concesso al presidente del Senato. Alla faccia del motto caro ai giustizialisti: «Le sentenze non si giudicano, si rispettano». Ma tant’ è. Per Travaglio & co l’illecito – parafrasando la celebre canzone estiva di qualche tempo fa – si limiterebbe a tre parole: «Bestemmia, marchette e minacce».
Il prezzo della benzina si avvicina di nuovo a livelli record
e rischia di cancellare gli sforzi del governo e quindi il taglio delle
accise di 25 centesimi applicato e prorogato ormai da mesi (calcolando
anche l’Iva si arriva a un bonus di 30,5 centesimi al litro). Il governo
era intervenuto a marzo quando il costo della benzina verde era
arrivato a 2,184 euro al litro. Ieri 5 giugno, secondo i dati comunicati
dai gestori all’Osservaprezzi del Mise, il prezzo medio nazionale
praticato della benzina in modalità self era a quota 1,969 euro/litro
(1,952 il valore del 2 giugno), con i diversi marchi compresi tra 1,953 e
1,986 euro/litro (no logo 1,966). Quanto al servito, per la benzina il
prezzo medio praticato era aumentato a 2,100 euro/litro (2,080 il valore
del 2 giugno).
Ma perché i prezzi al distributore continuano a salire? I tagli
decisi dal governo dovrebbero frenare questa corsa e invece chi fa il
pieno oggi rischia di pagare come se non ci fosse stato alcun
intervento.
La risposta sta nel meccanismo di determinazione del prezzo della
benzina (e degli altri carburanti). Questo valore viene definito ogni
giorno sui mercati internazionali e in particolare sulla piazza
finanziaria di Londra. Qui gli operatori del settore decidono le
quotazioni dei carburanti che poi saranno trasferite ai marchi dei
distributori. A incidere sulla decisione sono vari fattori, come la
domanda del momento oppure le pressioni che arrivano dal contesto di
crisi geopolitica.
«In ogni caso il prezzo di produzione della benzina si aggira intorno
ai 60-70 centesimi al litro – spiega Furio Truzzi, presidente di
Assoutenti -. E’ un valore che non giustifica le attuali quotazioni alla
pompa che in questo periodo sono spinte in alto soprattutto dalla
speculazione finanziaria che sta approfittando del sentiment
contingente».
L’esperto spiega che, dalle analisi fatte, i prezzi dei carburanti
dalla nave, vale a dire dal produttore, alla pompa, ossia ai
“venditori”, sono molto controllati e c’è poco margine di rincaro se non
nell’ordine di pochi centesimi. Vuol dire che l’oscillazione di aumento
in questo percorso è molto bassa e si colloca sotto i 10 centesimi.
«Indubbiamente la domanda sta giocando la sua parte ma sicuramente
siamo in una situazione di grandissimo momento speculativo sui mercati
internazionali» sostiene Furio Truzzi che poi prosegue: «La nostra idea è
che non bastino più misure tampone come il taglio delle accise ma
occorrano interventi strutturali. Il governo deve decidere di passare a
prezzi amministrati con le compagnie che dovranno così assorbire la
spinta dei rialzi».
Non sarà certo la madre di tutte le battaglie, eppure il
combinato disposto del voto di domenica prossima (amministrative più
referendum) rischia di avere effetti dirompenti sul già precario
equilibrio in cui versa il sistema dei partiti. E così, come fosse
l’ultima amichevole prima della sfida della vita (le elezioni politiche
della primavera 2023), le squadre provano tattiche e schemi di gioco.
Scoprendo – anzi, riscoprendo – che il problema maggiore non sono gli
avversari, ma – come si dice – il clima nello spogliatoio. Le squadre
sono litigiose, divise al loro interno e preda dei clan. E i capitani
s’azzuffano, molto preoccupati dalla posta in palio.
La posta in palio dovrebbe essere, naturalmente, la conquista delle
più grandi città che vanno al voto (ventisei capoluoghi di provincia e
quattro di regione): ma l’appuntamento si è caricato come sempre di
significati assai diversi, con esperimenti che ora attendono il giudizio
degli elettori. I voti veri – e non più i sondaggi – confermeranno la
crescita di Giorgia Meloni (che infatti in centri importanti correrà da
sola e non con gli alleati)? Quanto profonda sarà la nuova emorragia che
pare attendere i Cinquestelle, e che effetto produrrà sul traballante
patto col Pd? E Salvini poi? Porta al voto una nuova lista (Prima
l’Italia) che pare fatta apposta per confondere le acque e mascherare la
crisi: ma se i conti non tornassero comunque, se perdesse in città
simbolo (perfino Verona pare contendibile) e i referendum finissero
spiaggiati dall’astensionismo? Che ne sarebbe del Capitano?
A rischiare di più – per la profondità della crisi che attraversa – è
senz’altro il centrodestra. Le diffidenze che segnano ormai da tempo i
rapporti nella triade al comando, hanno prodotto anche stavolta
spaccature e corse separate in molte importanti città (da Parma a
Verona, passando per Messina e Catanzaro). Ora si paventano sconfitte
inattese, e in quel caso varrebbe la pena di fare i conti con qualcosa
che non torna. È dall’estate del Papeete, infatti, dalla crisi del
governo gialloverde, che il centrodestra chiede elezioni politiche
anticipate: quel voto non è arrivato, ma ne sono arrivati altri,
numerosi e importanti. Bene: la cronaca dice che – a partire dalle
battaglie campali perdute in Emilia e Toscana – Berlusconi, Salvini e la
Meloni non ne hanno più vinta quasi nessuna, franando clamorosamente in
tutte le maggiori città del Paese (Roma, Milano, Napoli, Torino…).
Dov’è il problema? E come si risolve?
Dall’altro lato le cose non vanno granché meglio. Il Pd infatti
tiene, ma i Cinquestelle continuano a calare. Renzi è imperscrutabile,
va un po’ di qua e un po’ di là (a Genova, per esempio, è schierato col
centrodestra). Calenda si batte, ponendo condizioni fin troppo
stringenti. E il chimerico campo largo cui pensa Letta, insomma, resta
ancora un’aspirazione. In più, c’è l’inatteso problema della traiettoria
del “nuovo Conte”. In ossequio all’italianissimo qua nessuno è fesso – e
in barba ai risultati che sta producendo sulla stessa Lega la linea di
governo e opposizione imposta da Salvini – Giusppe Conte è tornato a
fare l’“avvocato del popolo”, scimmiottando l’ex alleato. Cominciare
dalla guerra in Ucraina, non è parsa una grande idea. Ma tant’è.
L’interrogativo, adesso, riguarda il futuro prossimo: fin dove può
spingersi? Non fino alle elezioni anticipate, giurano molti: ma ha il
problema di tenere assieme un Movimento che perde un pezzo al giorno e
che sembra sfuggirgli in ogni direzione. Tutto può succedere.
Entra nel vivo il tema del bonus da 200 euro, misura una tantum che
interesserà oltre 30 milioni di persone, introdotta dal Governo con il
decreto Aiuti, arriverà con la busta paga di luglio. Il
contributo anti-inflazione è destinato a lavoratori, pensionati e
disoccupati, ed è stato esteso anche a chi percepisce il reddito di
cittadinanza, ai lavoratori stagionali, ai collaboratori domestici e
agli autonomi (in questo ultimo caso da definire forma e
sostanza). Per tutti vale il tetto annuo del reddito di 35mila euro. Le
modalità di erogazione variano a seconda dei destinatari.
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, dopo la pubblicazione
del testo normativo in Gazzetta Ufficiale, spicca l’eliminazione del
criterio “reddituale” – a vantaggio di un criterio “contributivo” – per
definire gli aventi e non aventi diritto del bonus; criterio reddituale
che, invece, il legislatore ha deciso di mantenere per la categoria dei
pensionati.
Per gli autonomi, il decreto non stabilisce nessun indirizzo
specifico di erogazione, ma demanda a un successivo decreto, da definire
di concerto fra i dicasteri di Lavoro e Finanza, il compito di
chiarire le regole operative per la concessione dell’indennità. Infine,
per le “altre categorie di soggetti” non classificabili come dipendenti o
pensionati, e tantomeno come autonomi, che in ogni caso saranno
destinatarie del bonus, e per le quali varranno regole ancora diverse
avendo come riferimento l’INPS.
Nel dettaglio: Lavoratori dipendenti Rispetto
a quanto era emerso dalle bozze del decreto prima che fosse pubblicato
in Gazzetta, la differenza sostanziale sta nella scelta di un criterio
“contributivo” anziché “reddituale” per delimitare il diritto
all’indennità. Posto che il lavoratore, se in possesso dei requisiti, si
ritroverà automaticamente questi 200 euro “caricati” sulla busta paga
di luglio (quindi in buona sostanza non dovrà richiederli), quel che va
rimarcato è appunto il criterio selettivo di stampo contributivo
opzionato dal legislatore.
Praticamente, per stabilire chi avrà diritto ai 200 euro, non verrà
verificato il superamento dei 35.000 euro di reddito nel 2021, piuttosto
se il lavoratore (che comunque non deve percepire alcun trattamento
pensionistico) abbia beneficiato «per almeno una mensilità nel primo
quadrimestre dell’anno 2022» dell’esonero contributivo pari allo 0,8%
«sulla quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia
e i superstiti a carico del lavoratore». Questo esonero è oltretutto
riconosciuto a condizione che la retribuzione imponibile, parametrata su
base mensile per tredici mensilità, non ecceda l’importo di 2.692 euro.
Insomma, il lavoratore dovrà controllare le buste paga del periodo
gennaio-aprile 2022 e verificare se la riduzione contributiva dello 0,8%
abbia avuto luogo in almeno una di quelle quattro buste paga. Solo in
questo caso potrà beneficiare dei 200 euro sulla busta paga del prossimo
luglio.
Pensionati L’Inps (o altro ente di previdenza
incaricato), con la mensilità di luglio 2022 l’Inps erogherà d’ufficio
l’indennità una tantum di 200 euro ai titolari di pensione, ai
“prepensionati” e a chi a giugno avrà percepito l’indennità di
disoccupazione. Per il calcolo del tetto dei 35mila euro si tiene conto
dei redditi di qualsiasi natura (compresi quelli esenti da imposta o
soggetti a ritenuta alla fonte o a imposta sostitutiva), mentre non
rientrano nel conteggio il reddito della casa di abitazione e le sue
pertinenze, i trattamenti di fine rapporto e le competenze arretrate
sottoposte a tassazione separata, l’assegno al nucleo familiare, gli
assegni familiari e l’assegno unico universale. L’indennità una tantum
di 200 euro non costituisce reddito ai fini fiscali, non è cedibile, né
sequestrabile, né pignorabile e non costituisce reddito ai fini fiscali
né ai fini della corresponsione di prestazioni previdenziali e
assistenziali.
Lavoratori autonomi Non è ancora chiara la
questione legata ai lavoratori autonomi perché il legislatore, oltre a
stanziare una dotazione finanziaria di 500 milioni per “coprire”
l’erogazione del bonus, non ha di fatto delineato nessun identikit
riguardo a coloro che ne avranno diritto, derogando anzi ai dicasteri di
Economia e Lavoro l’adozione, entro 30 giorni dall’entrata in vigore
del Decreto Aiuti, di un provvedimento attuativo ove siano «definiti i
criteri e le modalità per la concessione dell’indennità». È certo in
ogni caso che il bonus andrà a esaurimento, essendo appunto finanziato
da un Fondo limitato a 500 milioni; quindi, a parità di requisiti, anche
il fattore tempo con cui i papabili beneficiari faranno domanda
potrebbe rivelarsi decisivo.
L’incubo di Matteo Salvini è il sorpasso di Giorgia Meloni nelle
città del Nord. Un anno fa a Milano l’operazione è stata a un passo dal
compiersi: la lista di FdI si fermò soltanto a 4.400 da quella della
Lega. Stavolta i tempi sembrano maturi.
I sondaggi sono poco affidabili per questo tipo di elezioni, ma di
calcoli già se ne fanno. Nel Carroccio danno per perso o quasi il Sud,
in Sicilia non ci sarà nemmeno Alberto da Giussano nelle schede (la
lista si chiama Prima l’Italia), pochissime aspettative anche nelle
regioni del Centro. Se poi nel Settentrione si dovesse tornare alla
cifre della Lega post bossiana, quella risollevata proprio da Salvini,
allora si potrebbe aprire un inedito dibattito sulla leadership dalle
conseguenze imprevedibili. Il progetto del segretario della Lega
nazionale, diventerebbe difficilmente sostenibile sopra al Po. Meloni lo
sa e da più di anno ormai sta lavorando alla conquista di territori
finora quasi sconosciuti per un partito a forte trazione romana (e
meridionale).
Ieri, al Porto Antico di Genova ad ascoltare Meloni c’erano
cinquecento persone, in un caldo lunedì pomeriggio, la cifra è
considerevole e i leghisti lo stanno notando con preoccupazione. La
presidente di FdI è attenta a evitare di caricare troppo di significati
il voto di domenica: «Io credo che all’interno del centrodestra le
elezioni amministrative non determinino niente, perché all’interno della
coalizione ci sono regole per le politiche nelle quali si determinano
automaticamente le responsabilità di ciascuno, ma questa location – ha
detto dal palco, accanto al sindaco Marco Bucci – dimostra la crescita
esponenziale di Fratelli d’Italia che speriamo di vedere anche
all’indomani del voto del 12 giugno». Piazze affollate si sono viste a
Como, Lodi, Monza e Piacenza. Per non dire della Sicilia, dove un
successo delle liste potrebbe imporre la riconferma di Nello Musumeci.
L’operazione sorpasso al Nord è in marcia soprattutto nei
medi-grandi centri, dove il voto di opinione può pesare di più, mentre
nei piccoli Comuni le dinamiche locali e il maggiore radicamento di Lega
e Forza Italia possono frenare l’onda. Le città principali segnate
sulle agende dei dirigenti di Lega e Fratelli d’Italia sono Verona,
Alessandria e Como, dove un tempo la formazione di Meloni non superava
il 4% e oggi invece punta al primato della coalizione o persino a
conquistare il municipio (a Como).
A Verona le divisioni del Carroccio e il passaggio a FdI del sindaco
uscente Federico Sboarina avranno un peso. I dirigenti della destra
puntano anche a un sorpasso ad Alessandria, città del capogruppo alla
Camera della Lega Riccardo Molinari, mentre a Como, Meloni ha potuto
scegliere il candidato sindaco (Giordano Molteni), grazie al lavoro ai
fianchi del suo deputato comasco Alessio Butti. Gli occhi dei dirigenti
lombardi sono puntati anche su Lodi, Buccinasco, Magenta, San Donato e
Sesto San Giovanni.
Domenica sera, nel pronto soccorso
dell’ospedale di Crema, i carabinieri tenevano divisi due ragazzi che
s’ insultavano e volevano picchiarsi, dopo le botte che si erano già
date e le ferite che si erano procurate. Il Commissariato di Crema in
aprile ha indagato due minori di anni 15 per lesioni aggravate:
avvicinavano i coetanei, li provocavano, li picchiavano, scappavano. In
marzo tre ragazzi, in pieno centro, hanno aggredito alcuni coetanei con
bastoni e bottiglie. Un diciottenne ha minacciato un compagno di classe
con un coltello.
L’elenco sarebbe più lungo. Spesso si tratta di ragazzi stranieri, molte le ragazze. Bel tempo, serate lunghe, risse per divertimento. Questo accade nella mia città, piena di sole e di giovani turisti che si scattano i selfie nella piazza dove hanno girato Chiamami col tuo nome .
Crema è benestante, ben amministrata e tranquilla, secondo gli standard nazionali. Carabinieri e polizia fanno il loro lavoro. Eppure, nelle ultime settimane, è successo quello che ho scritto, anzi molto di più. Perché sono poche le famiglie che denunciano, temendo forse ritorsioni.
Preferiscono lamentarsi sui social, privando le forze dell’ordine dello strumento che consentirebbe loro di agire.
Quello che succede a Crema sta accadendo ovunque.
Le notizie arrivano sui media nazionali solo quando gli episodi sono veramente gravi o particolarmente odiosi.
L’inseguimento col machete per le strade di Torino (arrestato, già scarcerato); le molestie sessuali sui treni (domenica di ritorno da Gardaland,
ma sui regionali le ragazze vengono infastidite continuamente); le
botte come passatempo (durante il fine settimana scene di guerra sul
Garda, ma risse anche a Jesolo, Treviso, Vittorio Veneto, Lucca,
Firenze, Pesaro, Chieti, Trani, Foggia, Palermo e in chissà quanti altri
posti).
Ormai certe cose non fanno notizia. Ma se accettiamo questa orrenda consuetudine, prepariamoci a un futuro francese. Quartieri fuorilegge, città divise, società spaccata, disordini, estrema destra in ascesa.
Accadrà, se non ne parliamo. Anzi: accadrà perché non ne parliamo.
Solo la scuola e le forze dell’ordine sembrano aver capito cosa sta accadendo: ma non basta.
Dov’ è la politica, dove sono i partiti, dove sono i leader? Offrire slogan dopo un episodio grave non serve a niente. Servono proposte sociali, nuove norme, sanzioni efficaci.
Per quei ragazzi la denuncia è solo un fastidio, un prezzo ragionevole
da pagare per la gloria sui social. Insegnanti, parrocchie, associazioni
e società sportive provano a intercettarli e aiutarli: ma non basta,
evidentemente. Le famiglie sembrano impotenti (spesso inconsapevoli,
talvolta complici).
Educare una nuova generazione alla convivenza italiana è un progetto enorme, ma indispensabile.
L’alternativa? Pensare che tutto questo non ci riguardi. Finché – su un
treno, in una strada, su una spiaggia – succederà qualcosa che non
dovrebbe succedere, a noi o alle persone cui vogliamo bene. Allora
capiremo, ma sarà tardi.
Fedelissimo di Putin, secondo uomo
più ricco di Russia, è fuori dalla lista delle sanzioni: una stretta
sulle sue miniere in Siberia manderebbe in tilt l’economia mondiale
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO — Sono tempi duri per gli oligarchi russi. Le sanzioni occidentali ne restringono la libertà di movimento e congelano i favolosi patrimoni all’estero:
ville e yacht sequestrati, carte di credito bloccate, conti bancari
irraggiungibili. Gli Stati Uniti, l’Unione europea e il Regno Unito li puniscono per la vicinanza e il sostegno politico e finanziario a Vladimir Putin e alla sua guerra di aggressione.
Eppure non tutti gli oligarchi
sono uguali, agli occhi dell’Occidente. Ce ne sono alcuni più uguali
degli altri. E a fronte dei quasi 40 plurimiliardari sanzionati, ce ne
sono almeno altrettanti che rimangono ancora fuori dalla lista nera. Una combinazione un po’ ipocrita di valutazioni politiche, economiche e geostrategiche spinge infatti i Paesi occidentali a risparmiarli.
Di tutti, il caso più clamoroso è quello di Vladimir Potanin, 61 anni e un patrimonio che prima dell’inizio della guerra era valutato sopra i 30 miliardi di dollari, il che fa di lui il secondo uomo più ricco della Russia.
Eppure, parliamo di un fedelissimo dello Zar, che ha lealmente
appoggiato sin dagli inizi, sempre pronto a esaudirne i desideri e a
giocare secondo le sue regole, perfino quando nelle partite di hockey —
una delle passioni che condivide con Putin insieme allo sci — bisognava
farlo segnare e vincere.
Ma nonostante questo, Potanin
continua a viaggiare, godersi i suoi due super yacht, agire sui mercati,
anche per conto del Cremlino, come se non ci fosse alcuna guerra. Per
completezza d’informazione, il suo nome figura nella lista dei
sanzionati approvata da Australia e Canada, ma né gli Stati Uniti, né
l’Ue hanno alcuna intenzione di aggiungerlo alle loro. Perché?
La risposta è semplice: Potanin è azionista di maggioranza di Norilsk Nickel,
azienda mineraria siberiana che produce il 15% del nichel e il 40% del
palladio usati nel mondo, due materie prime indispensabili
rispettivamente per la fabbricazione dei microchip e delle automobili.
Sanzionarlo rischierebbe di far esplodere il prezzo dei due metalli, con
conseguenze devastanti sulle forniture per l’industria automobilistica e
quella dei semiconduttori.
L’esenzione di Potanin dalle
sanzioni è una benedizione per il Cremlino, che grazie a lui sta
riprendendo il controllo di una serie di banche, svendute
frettolosamente dai gruppi occidentali che hanno lasciato la Russia dopo
il 24 febbraio o da altri oligarchi che hanno osato criticare la
guerra. Così, il suo gruppo Interros ha riacquistato Rosbank da Société Générale,
cui l’aveva venduta nel 2008. E quando il miliardario russo residente a
Londra, Oleg Tinkov, è stato costretto dal Cremlino a vendere il suo
35% della florida Tinkoff Bank per aver definito su Instagram «schifosa»
l’azione dell’esercito russo in Ucraina, Potanin è stato pronto a
rilevarlo. «Per un prezzo ridicolo, il 3% del suo valore reale», accusa
Tinkov.
Nato da una famiglia della nomenklatura comunista, Potanin seguì il padre in una carriera privilegiata da funzionario del ministero del Commercio dell’Urss
fino al 1990, anno in cui approfittò del caos della perestrojka
gorbacioviana per fondare Interros con un capitale di 10 mila dollari
prestatigli da organizzazioni statali. Due anni dopo, la sua Uneximbank
diventò banca di riferimento del nuovo Stato russo: da 300 milioni di
dollari nel 1992, le sue attività passarono a 2 miliardi nel 1994.
Ma il suo capolavoro lo fece
l’anno seguente. Fu lui, infatti, a ingegnare il «furto del secolo», lo
schema passato alla storia con il nome di loans for shares,
prestiti per azioni. Con Boris Eltsin sempre più impopolare nel Paese e
la certa prospettiva di perdere le elezioni del 1996, il gruppo dei sei
oligarchi originali «prestò» al governo miliardi di dollari (in realtà
depositati nelle loro banche dal governo stesso) ottenendo come
collaterali le proprietà statali e sapendo che non sarebbero mai stati
ripagati. Quando il Paese, secondo l’accordo, andò in default sui
prestiti, gli oligarchi si ritrovarono proprietari dei pezzi più
pregiati dei beni pubblici. A Potanin, mente del piano, toccò appunto la
Norilsk Nickel: la pagò 170 milioni di dollari, lo stesso anno in cui
l’azienda registrò introiti per 3,3 miliardi di dollari. In cambio, gli oligarchi spesero senza limiti per sostenere la campagna di Eltsin,
schierando le loro televisioni, assumendo squadre di strateghi
americani o più semplicemente comprando milioni di voti. Eltsin venne
rieletto. Come ulteriore premio, Potanin diventò vicepremier, carica che
tenne per due anni.
di Francesco Battistini, Lorenzo Cremonesi e Paolo Foschi
Le notizie di martedì 7 giugno sulla
guerra, in diretta: Kiev annuncia di aver respinto la flotta russa nel
Mar Nero, ma le truppe di Mosca hanno rilanciato l’offensiva terrestre
• La guerra in Ucraina è arrivata al 104esimo giorno. La Russia, dopo qualche giorno di difficoltà, sembra aver rilanciato l’offensiva sulla città di Severodonetsk e in tutta la regione di Donetsk. La nuova fase del conflitto era stata segnata il giorno precedente con il ritorno delle bome su Kiev dopo oltre un mese di relativa tranquillità per la Capitale. • Le speranze dell’Ucraina di resistere e riconquistare i territori occupati dalle truppe di Mosca sono legate all’invio di nuove forniture di armi, in particolare da Usa e Gran Bretagna.Zelensky ringrazia Londra «per aver compreso le nostre richieste di aiuto». • La Marina ucraina intanto annuncia di aver respinto la flotta russa nel Mar Nero • Bruxelles accusa la Russia di aver distrutto il secondo più grande terminal di grano. Ed è proprio il ricatto alimentare della Russia
uno dei grandi problemi del conflitto: una situazione che rischia di
destabilizzare non solo i Paesi più poveri dove manca il cibo, ma anche
l’Europa che potrebbe essere raggiunta da flussi migratori ingestibili. • Marina Ovsyannikova, la giornalista che protestò sulla tv russa, contestata e «cacciata» dall’Ucraina.
Ore 10:22 – La Turchia vuole comprare il grano dall’Ucraina con lo sconto del 25%
Le autorità turche
intendono acquistare grano dall’Ucraina con uno sconto di oltre il 25%.
Lo ha affermato il ministro dell’agricoltura e del patrimonio forestale
turco Vakhit Kirishchi, osservando che Ankara sta compiendo «sforzi
diplomatici attivi» per sbloccare le esportazioni di grano dai porti
ucraini.
Ore 10:22 – Gazprom, transito via l’Ucraina attraverso Sudzha
I flussi di gas
attraverso l’Ucraina passano attraverso Sudzha dopo lo stop al transito
attraverso Sokhranvka. Lo riporta Bloomberg citando quanto ha reso noto
Gazprom. Il colosso dell’energia russo ha inoltre comunicato che il
transito di gas attraverso l’Ucraina si attesta a 40,9 milioni di metri
cubi al giorno.
Ore 10:10 – Mega yacht russo alle Figi sarà consegnato agli Usa
La corte suprema delle
Figi ha stabilito che il superyacht di proprietà russa Amadea dovrà
essere rimosso dalle sue acque e consegnato agli Stati Uniti a causa dei
suoi elevati costi di gestione, che la nazione insulare del Pacifico
vede come uno spreco di denaro. Lo riporta il Guardian. Sospettato di
appartenere all’oligarca russo Suleiman Kerimov,
lo yacht era stato sequestrato dalla polizia delle Figi a metà aprile.
L’Fbi aveva detto che gli Stati Uniti avrebbero pagato i suoi costi di
gestione stimandoli in oltre 25 milioni di dollari all’anno. Tuttavia,
finora è stato il governo delle Figi a pagare il conto, in attesa della
conclusione di un ricorso in appello contro il sequestro avviato dalla
proprietà del superyacht, la Millemarin Investments. La corte ha
stabilito che in nome dell’interesse pubblico lo yacht deve lasciare «le
acque delle Figi», perché la sua manutenzione «sta costando cara al
governo delle Figi».
Ore 10:07 – Russia consegna alcuni corpi di combattenti ad Azovstal
I corpi di alcuni combattenti ucraini uccisi mentre difendevano la città portuale di Mariupol dalle forze russe nell’acciaieria Azovstal sono
stati consegnati a Kiev: lo hanno riferito alcune famiglie dell’unità
ucraina Azov, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Reuters. Le
forze ucraine che difendevano Mariupol sono rimaste rintanate nelle
acciaierie per settimane mentre le forze russe cercavano di catturare la
città.
Ore 10:04 – La rabbia di Medvedev, l’ex presidente russo: «Odio gli occidentali, voglio farli sparire»
Dmitry Medvedev,
alleato di lunga data del presidente russo Vladimir Putin e attualmente
vicepresidente del consiglio di sicurezza della Russia , questa mattina
non ha usato mezzi termini su Telegram. Ha appena pubblicato questo
post: «Mi viene spesso chiesto perché i miei post su Telegram sono così
duri. La risposta è che li odio. Sono bastardi e secchioni. Vogliono la
morte per noi, Russia. E finché sono vivo, farò di tutto per farli
sparire».
Ore 09:39 – Miroshnik: nove civili uccisi nel Donetsk
Rodion Miroshnik ,
nominato ambasciatore in Russia dall’autoproclamata Repubblica popolare
di Luhansk, ha scritto su Telegram che nove civili sono stati uccisi dai
bombardamenti nella vicina autoproclamata Repubblica popolare di
Donetsk nelle ultime 24 ore. Riferisce che tra le vittime c’era un
adolescente nato nel 2005 e che altre 18 persone sono rimaste ferite. La
Russia è l’unico Stato membro delle Nazioni Unite a riconoscere la
Repubblica popolare di Luhansk e la Repubblica popolare di Donetsk.
Ore 08:52 – Kiev, 263 bambini morti e 467 feriti da inizio conflitto
Dall’inizio della
guerra in Ucraina sono morti 263 bambini e 467 sono rimasi feriti. Lo
rende noto la procura generale di Kiev nel suo bollettino quotidiano su
Telegram.
Ore 08:48 – A Kiev riapre un teatro, biglietti esauriti
Uno spiraglio di
speranza nell’orrore della guerra. Un teatro a Kiev è stato riaperto per
la prima volta da quando le forze russe hanno invaso il Paese e i
biglietti per lo spettacolo di domenica sono andati esauriti.
«Ci chiedevamo come sarebbe stato, se gli spettatori sarebbero venuti
durante la guerra, se avrebbero pensato al teatro, se fosse di qualche
interesse – ha detto uno degli attori, Yuriy Felipenko – e siamo stati
felici che i primi tre spettacoli abbiano fatto registrare il tutto
esaurito».
Kostya Tomlyak, un
altro attore, spiega di aver esitato a recitare in tempo di guerra. Ma
l’afflusso di persone che sono tornate a Kiev da quando le ostilità sono
diminuite lo ha convinto che è necessario andare avanti. «Si continua a vivere, anche se non si dimentica che c’è la guerra».
Ore 08:46 – Kiev, pesanti combattimenti in corso a Severodonetsk
Pesanti combattimenti
sono in corso nella città dell’Ucraina orientale di Severodonetsk, le
truppe russe stanno continuando a prenderla d’assalto, secondo quanto
dichiara l’esercito di Kiev nel suo rapporto operativo della mattina,
citato dal Guardian. Secondo lo Stato maggiore, le truppe ucraine hanno
respinto gli attacchi russi nelle città di Nahirne, Berestov, Krynychne e
Rota e avrebbero anche colpito alcune unità militari di Mosca nella
regione di Kherson (Sud) e depositi di munizioni nella regione di
Mykolayiv, sempre nel meridione del Paese. L’ultimo aggiornamento
fornito dal capo militare regionale del Lugansk Sergiy Gaidai afferma
che gli attacchi russi in direzione di Novookhtyrka e Voronove sono
stati respinti.
Ore 08:23 – I colloqui con la Russia sono «al livello zero»
«Zero».
È questo il livello dei colloqui diplomatici tra Russia e Ucraina,
dopo 104 di missili, bombe, morti feriti, sfollati. E a dirlo è il
presidente ucraino, Volodymyr Zelensky.
I colloqui di pace, ha detto, «sono a livello zero»:
e mentre a Severodonetsk la battaglia infuria, strada per strada (ma «i
nostri eroi» hanno «ogni possibilità» di respingere i russi:
«mantengono le loro posizioni, duri scontri di strada continuano in
città», ha affermato il leader di Kiev), una situazione «molto
minacciosa» si è sviluppata nella regione di Zaporizhzhia, dove si trova
la più grande centrale nucleare d’Europa.
«Lysychansk, Slovyansk, Bakhmut, Sviatohirya, Avdiivka, Kurakhove e
altri obiettivi dei raid russi sono i punti più caldi del confronto
oggi», ha aggiunto. «L’esercito russo sta cercando di usare forze
aggiuntive in direzione del Donbass, ma il Donbass ucraino resiste
ancora, e resiste fermamente».
Ore 08:09 – La battaglia del grano, per punti
(Gianluca Mercuri)
Se il fronte diplomatico non offre grandi spiragli, a preoccupare
nell’immediato è quello alimentare, con oltre 50 Paesi africani e
asiatici a rischio carestia e l’Europa esposta a una gigantesca ondata
di profughi, l’Italia in prima linea. •Il piano turco Domani Lavrov potrà volare senza intoppi ad Ankara, dove dovrebbe
formalizzare con il presidente turco Erdogan il piano anticipato dal
quotidiano russo Izvestia. Si tratta di sminare il porto di Odessa, far
partire le navi ucraine cariche di grano e cereali e farle scortare
dalle navi turche. C’è però un problema, anzi due.
•Il no ucraino Per sminare il porto di Odessa, a quanto pare, ci vuole un mese. E
gli ucraini temono che la Russia ne approfitti per provare lo sbarco.
«Putin vi dice che non userà le vie commerciali per attaccare Odessa? È
lo stesso Putin che diceva a Scholz e a Macron che non avrebbe mai
attaccato l’Ucraina…», ha twittato il ministro degli Esteri Kuleba.
• Ma allora come? Gli ucraini vorrebbero che insieme ai turchi ci fossero altri Paesi,
ma è difficile trovarne di graditi ai russi. D’altra parte, se fidarsi
di Putin è sempre un azzardo, spostare il grano senza accordarsi con lui
pare complicato. Anche perché a Kiev, spiega Francesco Battistini, non
piacciono nemmeno le alternative: «Passare col grano per la Bielorussia
(“resterebbe sotto controllo russo”), creare un corridoio per farlo
salpare dal porto di Mariupol già sminato (“idem”), usare i fiumi
(“inadatti”)…».
•Intanto il grano brucia «Le forze russe hanno distrutto il secondo più grande terminal di
grano in Ucraina, a Mykolaiv. Un altro attacco missilistico che
contribuisce alla crisi alimentare globale», ha twittato ieri sera
l’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue Josep Borrell.
•Il Dataroom La questione del grano è spiegata nei dettagli in questo lavoro di Francesco Battistini, Milena Gabanelli e Massimo Sideri.
•Intanto al fronte Nell’Est del Paese il pendolo dei combattimenti, che nel fine settimana sembrava oscillare
a favore degli ucraini, ora torna dalla parte dei russi: «Le
valutazioni negative sono dei dirigenti locali e del presidente Zelensky
reduce da una visita nel Donbass. Mosca ha lanciato nella mischia il
possibile», scrivono Andrea Marinelli e Guido Olimpio,
che raccontano la presenza di volontari stranieri al fianco degli
ucraini. Lorenzo Cremonesi si è spinto in Donbass fino a 7 chilometri
dalle linee russe (qui il suo videoreportage) e ha colto l’ansia ucraina di usare i nuovi lanciarazzi promessi da americani e inglesi.
(Questa sintesi è stata pubblicata
su PrimaOra, la newsletter che gli abbonati al Corriere ricevono ogni
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Ore 07:39 – Così Putin fa svanire nel nulla la «colomba» Kozak, il suo storico consigliere
(Marco Imarisio)
Sono tempi in cui le colombe svaniscono nel nulla. E se poi volavano
sul Cremlino, possibile che abbiano fatto una brutta fine.
Pomeriggio del 21 febbraio. Dmitry Kozak è uno degli uomini più forti della verticale russa del potere. Vladimir Putin li ha riuniti
tutti al Cremlino, al vertice del Consiglio di sicurezza, per annunciare
loro l’intenzione di riconoscere le due autoproclamate repubbliche del
Donbass. È il momento in cui il mondo capisce che non deve più chiedersi
se l’Armata rossa entrerà in Ucraina, ma solo quando lo farà.
Quella riunione passa alla storia recente per il modo brusco in cui
il presidente zittisce e umilia il capo dei servizi segreti Sergey
Naryskhin, che chiedeva più tempo per evitare un intervento militare. Ma
poco prima c’era stata un’altra vittima. Kozak è il vicedirettore dello staff di Putin.
Ma il legame tra i due esula da ogni incarico ricoperto dall’ex soldato
dei Corpi speciali. Il presidente lo ha sempre avuto con sé da quando
entrambi erano consiglieri del sindaco di San Pietroburgo Anatoly
Sobchak, affidandogli ruoli molto delicati. Per questo, da cinque anni,
lo ha messo a capo dell’operazione speciale, che a quella data
significava solo la gestione dei rapporti con l’Ucraina.
Quando inizia a parlare, Kozak spiega come il governo di Kiev non
abbia fatto alcun passo in avanti verso la Russia. Fa una sorta di mea
culpa, dicendo che dal 2015 esiste una situazione di stallo anche se qualche progresso sarebbe ancora possibile per via diplomatica.
Ma c’è qualcosa che non va.
Fuori dall’inquadratura, si sente uno «spasiba», un grazie detto ad alta voce da Putin. Basta così, non c’è bisogno di aggiungere altro. Kozak invece prosegue, mentre il presidente tamburella con la mano sul tavolo, visibilmente spazientito.
Lo «spasiba» questa volta risuona ancora più perentorio.
Da allora, più nessuna notizia di una delle personalità più in vista e più vicine al presidente russo.
Una corsa del gambero, fino alla smaterializzazione. Il 24 febbraio, Kozak viene rimosso da ogni incarico.
L’invito durante il colloquio al
ministero a cambiare la prassi comunicativa delle ultime settimane e a
portare giustificazioni per le sue affermazioni
Lui si è difeso, anzi ha cercato quasi di rilanciare con una nota nel pomeriggio, rinnovando, anche se in modo più pacato, l’accusa di propaganda contro media italiani ritenuti «ostili». Il copione in apparenza cambia solo di poco, nonostante la strigliata della Farnesina e la convocazione negli uffici del segretario generale del ministero Esteri Ettore Sequi.
Ma per l’ambasciatore russo Sergey Razov, 69 anni, qualcosa è decisamente mutato dopo la convocazione concordata nel week end da Mario Draghi con il ministro Luigi Di Maio.
È cambiato un dato: non può più permettersi, almeno questo è stato il
richiamo, la stessa prassi comunicativa delle ultime settimane. Almeno
se non vuole mettere a rischio la sua permanenza in Italia.
Perché da quanto si riscontra sia
a Palazzo Chigi sia alla Farnesina il senso della convocazione è stato
quello di comunicare una soglia, una sorta di limite entro il quale il diplomatico che gode ancora della fiducia del Cremlino dovrà rimanere in futuro. «La metamorfosi di un diplomatico in esponente politico non è contemplata, in nessun Paese europeo», è il succo che del colloquio con Sequi fa una fonte di governo.
Bisognerà vedere se Razov rispetterà quanto gli è stato consigliato, di certo il governo italiano è pronto a ulteriori passi se si ripresenteranno «dichiarazioni al limite, parole gravi, espressioni calunniose inaccettabili»
da parte di un diplomatico, secondo la sintesi della vicenda che viene
fatta da una delle persone che hanno gestito il dossier.
ROMA – Per un intero anno le riforme della giustizia
– penale, civile, del Csm – hanno corso parallele a un’altra “corsa”,
quella dei referendum, anch’essi sulla giustizia, lanciati dai Radicali,
e sottoscritti dalla Lega. Alla partenza erano sei, al traguardo del
voto sono cinque, poiché la Consulta, come vedremo, ne ha tagliato fuori
uno, di certo quello più popolare, sulla responsabilità civile
“diretta” dei magistrati. Nel lontano 1987, ai tempi di Marco Pannella
e sull’onda del caso Tortora, aveva fatto l’en plein con 80,21% dei sì.
Ma adesso i cinque quesiti, stando ai sondaggi, arrancano penosamente
per via del quorum, e rischiano di non raggiungere neppure quello
necessario superando il 50% degli aventi diritto al voto. Chi li
propone, Matteo Salvini in testa, accusa i media, parla di “censura e bavaglio”, chiede “aiuto” addirittura a Mario Draghi e Sergio Mattarella,
accusa la sinistra di “nascondere” i referendum con l’obiettivo “di
avere magistrati politicizzati con i quali provare a vincere se perdono
le elezioni”.
Uno scorcio di campagna referendaria del tutto sotto tono e per
giunta alla fine avvelenata. Ma la “sfida” tra le tre riforme –
sottoscritte dalla Guardasigilli Marta Cartabia e già
votate dalla maggioranza Draghi alla Camera, Lega compresa – e i
referendum adesso è giunta all’ultimo traguardo. Se ne conoscerà l’esito
a distanza di soli tre giorni. Perché domenica 12 giugno – dalle 7 alle
23 – le urne non si aprono solo per le elezioni amministrative in 978
Comuni, ma anche per i cinque referendum.
Mercoledì 15 giugno, invece, l’ultima delle tre riforme di Cartabia, quella del Csm che interviene su ben tre temi (carriere dei giudici, avvocati nei consigli giudiziari, firme per candidarsi a palazzo dei Marescialli), arriva in aula al Senato per il voto finale. Suspense esclusa. Perché il premier Draghi ha già ribadito più volte che il testo uscirà da Palazzo Madama con il voto finale. Pronto per entrare in vigore. Visto che il voto per rinnovare il Csm si approssima e sarà comunque necessario un rinvio rispetto alla scadenza di settembre. Più di un’indiscrezione conferma che si voterà a novembre per dare il tempo di “digerire” la riforma e il nuovo sistema elettorale (un maggioritario binominale, con una correzione proporzionale).
Ma comunque la sfida sui quesiti referendari ci sarà lo stesso. E lo
dimostra il fiorire dei gazebo Radical-leghisti in tutta Italia. Nonché
lo sciopero della fame del leghista Roberto Calderoli,
che si paragona a Pannella – “Il mio è un gesto estremo, ma Pannella ce
lo ha insegnato: a mali estremi, estremi rimedi” – e protesta anche lui
perché, a suo dire, i referendum sarebbero stati silenziati dai media e
soprattutto dalla tv di Stato. Giusto ieri ha fatto sapere che, sulle
sue orme, altre 160 persone sarebbero in sciopero della fame.
La preoccupazione di Calderoli è il quorum. Ma un giurista come Nello Rossi, direttore della rivista promossa da Magistratura democratica, Questione giustizia, ha appena pubblicato oggi un articolo sostenendo che “nell’astenersi dal partecipare al voto referendario non si può scorgere solo inerzia, apatia politica o disinteresse, ma anche la volontà di non consentire, con il proprio attivo concorso, a un’iniziativa referendaria ritenuta superflua o dannosa”. Rossi scrive inoltre: “Non recarsi ai seggi (o rifiutarsi di ritirare le schede dei referendum nei Comuni dove si vota anche per le elezioni amministrative) è una opzione non solo libera, non solo legittima, ma pienamente rispondente alla logica propria del referendum abrogativo. La Costituzione, infatti, nel prevedere che il referendum è valido solo se partecipa alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto (il cosiddetto quorum strutturale) ha voluto che esso sia vivificato e validato da una effettiva partecipazione popolare.”