Archive for Giugno, 2022

Marco Travaglio infama la Casellati? Condannato e spennato: il prezzo del conto da pagare

martedì, Giugno 7th, 2022

Antonio Rapisarda

La notizia è che nello scontro, anzi nella “carica” del Fatto Quotidiano contro Maria Elisabetta Alberti Casellati, il Fatto Quotidiano alla fine si è schiantato. Ha perso. Anche se è sempre difficile da quelle parti ammetterlo. Ma quando c’è di mezzo una condanna il “fatto” tutt’ al più può essere camuffato. Non di certo taciuto. La notizia, dunque, è la seguente: «Ho vinto la causa di diffamazione contro i giornalisti del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, Ilaria Proietti e Carlo Tecce». A comunicarlo, in maniera del tutto chiara, non è la testata incriminata ma la seconda carica dello Stato che ha allegato il dispositivo della pronuncia. Il risultato? Ben 25mila euro che i condannati (il direttore e due cronisti), in solido con il gruppo editoriale, dovranno versare in sede civile a titolo di risarcimento per i misfatti. 

Di che cosa parliamo? Di una campagna, come racconta lo stesso direttore del Fq Marco Travaglio, che si è radicalizzata (gli scontri fra lui e la Casellati, documentati almeno fin dal 2011, sono letteratura televisiva) dall’inizio dell’elezione della senatrice di Forza Italia come presidente di Palazzo Madama. Uno smacco per il giornale-partito dei 5 Stelle: dato che rimarrà impresso nella storia il fatto che i grillini, bramosi già ai tempi di governare e normalizzarsi a ogni costo, finirono per votare proprio la berlusconiana di ferro addirittura alla presidenza del Senato. Di qui una serie reiterata di articoli e articoli che hanno preso di mira l’esponente azzurra, cinque dei quali, come è stato accertato dal Tribunale di Padova, sono stati ritenuti diffamatori. Al contrario di quanto ritiene il direttore, dal cui editoriale sembrerebbe essere dinanzi ad una condanna parziale, nel dispositivo si legge «che Marco Travaglio, Carlo Tecce e Ilaria Proietti sono stati condannati ex art. 12 l. 47/1978» al risarcimento dei danni.
LA PUBBLICAZIONE
Non solo. È stata ordinata la pubblicazione della sentenza per estratto a cura e spese dei convenuti sul Corriere della Sera, Il Mattino, il Gazzettino e Il Fatto Quotidiano nonché al rimborso di oltre 10mila di spese processuali. Niente male per quello che sul Fatto di ieri viene più che minimizzato, evidenziando – al contrario – solo quella parte della pronuncia favorevole alla campagna. La realtà è del tutto diversa. Perché se da un lato – come riportato nell’editoriale – il giudice ha riconosciuto in diverse delle circostanze denunciate l’esercizio legittimo del diritto di critica, dall’altra parte ha sancito che la Casellati è stata inequivocabilmente diffamata. Ecco due titoli in questione: «Le “marchette” di mamma Casellati alla figlia Ludovica», «La Casellati bestemmia in Aula e tutti la coprono». Nonostante le evidenze, nella “rielaborazione” il Fatto finge di aver vinto: si tratterebbe, come ha scritto il giornalista anti-Cav, di un «contentino» (sic) che il Tribunale avrebbe concesso al presidente del Senato. Alla faccia del motto caro ai giustizialisti: «Le sentenze non si giudicano, si rispettano». Ma tant’ è. Per Travaglio & co l’illecito – parafrasando la celebre canzone estiva di qualche tempo fa – si limiterebbe a tre parole: «Bestemmia, marchette e minacce».

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Perché il prezzo della benzina sale nonostante il taglio delle accise?

martedì, Giugno 7th, 2022

Sandra Riccio

Il prezzo della benzina si avvicina di nuovo a livelli record e rischia di cancellare gli sforzi del governo e quindi il taglio delle accise di 25 centesimi applicato e prorogato ormai da mesi (calcolando anche l’Iva si arriva a un bonus di 30,5 centesimi al litro). Il governo era intervenuto a marzo quando il costo della benzina verde era arrivato a 2,184 euro al litro. Ieri 5 giugno, secondo i dati comunicati dai gestori all’Osservaprezzi del Mise, il prezzo medio nazionale praticato della benzina in modalità self era a quota 1,969 euro/litro (1,952 il valore del 2 giugno), con i diversi marchi compresi tra 1,953 e 1,986 euro/litro (no logo 1,966). Quanto al servito, per la benzina il prezzo medio praticato era aumentato a 2,100 euro/litro (2,080 il valore del 2 giugno).

Ma perché i prezzi al distributore continuano a salire? I tagli decisi dal governo dovrebbero frenare questa corsa e invece chi fa il pieno oggi rischia di pagare come se non ci fosse stato alcun intervento.

La risposta sta nel meccanismo di determinazione del prezzo della benzina (e degli altri carburanti). Questo valore viene definito ogni giorno sui mercati internazionali e in particolare sulla piazza finanziaria di Londra. Qui gli operatori del settore decidono le quotazioni dei carburanti che poi saranno trasferite ai marchi dei distributori. A incidere sulla decisione sono vari fattori, come la domanda del momento oppure le pressioni che arrivano dal contesto di crisi geopolitica.

«In ogni caso il prezzo di produzione della benzina si aggira intorno ai 60-70 centesimi al litro – spiega Furio Truzzi, presidente di Assoutenti -. E’ un valore che non giustifica le attuali quotazioni alla pompa che in questo periodo sono spinte in alto soprattutto dalla speculazione finanziaria che sta approfittando del sentiment contingente».

L’esperto spiega che, dalle analisi fatte, i prezzi dei carburanti dalla nave, vale a dire dal produttore, alla pompa, ossia ai “venditori”, sono molto controllati e c’è poco margine di rincaro se non nell’ordine di pochi centesimi. Vuol dire che l’oscillazione di aumento in questo percorso è molto bassa e si colloca sotto i 10 centesimi.

«Indubbiamente la domanda sta giocando la sua parte ma sicuramente siamo in una situazione di grandissimo momento speculativo sui mercati internazionali» sostiene Furio Truzzi che poi prosegue: «La nostra idea è che non bastino più misure tampone come il taglio delle accise ma occorrano interventi strutturali. Il governo deve decidere di passare a prezzi amministrati con le compagnie che dovranno così assorbire la spinta dei rialzi».

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Amministrative, divisioni e corse separate al voto: a rischiare di più è il centrodestra

martedì, Giugno 7th, 2022

Federico Geremicca

Non sarà certo la madre di tutte le battaglie, eppure il combinato disposto del voto di domenica prossima (amministrative più referendum) rischia di avere effetti dirompenti sul già precario equilibrio in cui versa il sistema dei partiti. E così, come fosse l’ultima amichevole prima della sfida della vita (le elezioni politiche della primavera 2023), le squadre provano tattiche e schemi di gioco. Scoprendo – anzi, riscoprendo – che il problema maggiore non sono gli avversari, ma – come si dice – il clima nello spogliatoio. Le squadre sono litigiose, divise al loro interno e preda dei clan. E i capitani s’azzuffano, molto preoccupati dalla posta in palio.

La posta in palio dovrebbe essere, naturalmente, la conquista delle più grandi città che vanno al voto (ventisei capoluoghi di provincia e quattro di regione): ma l’appuntamento si è caricato come sempre di significati assai diversi, con esperimenti che ora attendono il giudizio degli elettori. I voti veri – e non più i sondaggi – confermeranno la crescita di Giorgia Meloni (che infatti in centri importanti correrà da sola e non con gli alleati)? Quanto profonda sarà la nuova emorragia che pare attendere i Cinquestelle, e che effetto produrrà sul traballante patto col Pd? E Salvini poi? Porta al voto una nuova lista (Prima l’Italia) che pare fatta apposta per confondere le acque e mascherare la crisi: ma se i conti non tornassero comunque, se perdesse in città simbolo (perfino Verona pare contendibile) e i referendum finissero spiaggiati dall’astensionismo? Che ne sarebbe del Capitano?

A rischiare di più – per la profondità della crisi che attraversa – è senz’altro il centrodestra. Le diffidenze che segnano ormai da tempo i rapporti nella triade al comando, hanno prodotto anche stavolta spaccature e corse separate in molte importanti città (da Parma a Verona, passando per Messina e Catanzaro). Ora si paventano sconfitte inattese, e in quel caso varrebbe la pena di fare i conti con qualcosa che non torna. È dall’estate del Papeete, infatti, dalla crisi del governo gialloverde, che il centrodestra chiede elezioni politiche anticipate: quel voto non è arrivato, ma ne sono arrivati altri, numerosi e importanti. Bene: la cronaca dice che – a partire dalle battaglie campali perdute in Emilia e Toscana – Berlusconi, Salvini e la Meloni non ne hanno più vinta quasi nessuna, franando clamorosamente in tutte le maggiori città del Paese (Roma, Milano, Napoli, Torino…). Dov’è il problema? E come si risolve?

Dall’altro lato le cose non vanno granché meglio. Il Pd infatti tiene, ma i Cinquestelle continuano a calare. Renzi è imperscrutabile, va un po’ di qua e un po’ di là (a Genova, per esempio, è schierato col centrodestra). Calenda si batte, ponendo condizioni fin troppo stringenti. E il chimerico campo largo cui pensa Letta, insomma, resta ancora un’aspirazione. In più, c’è l’inatteso problema della traiettoria del “nuovo Conte”. In ossequio all’italianissimo qua nessuno è fesso – e in barba ai risultati che sta producendo sulla stessa Lega la linea di governo e opposizione imposta da Salvini – Giusppe Conte è tornato a fare l’“avvocato del popolo”, scimmiottando l’ex alleato. Cominciare dalla guerra in Ucraina, non è parsa una grande idea. Ma tant’è. L’interrogativo, adesso, riguarda il futuro prossimo: fin dove può spingersi? Non fino alle elezioni anticipate, giurano molti: ma ha il problema di tenere assieme un Movimento che perde un pezzo al giorno e che sembra sfuggirgli in ogni direzione. Tutto può succedere.

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Bonus 200 euro a luglio, come sarà erogato categoria per categoria e chi sarà escluso

martedì, Giugno 7th, 2022

Entra nel vivo il tema del bonus da 200 euro, misura una tantum che interesserà oltre 30 milioni di persone, introdotta dal Governo con il decreto Aiuti, arriverà con la busta paga di luglio. Il contributo anti-inflazione è destinato a lavoratori, pensionati e disoccupati, ed è stato esteso anche a chi percepisce il reddito di cittadinanza, ai lavoratori stagionali, ai collaboratori domestici e agli autonomi (in questo ultimo caso da definire forma e sostanza). Per tutti vale il tetto annuo del reddito di 35mila euro. Le modalità di erogazione variano a seconda dei destinatari. 

Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, dopo la pubblicazione del testo normativo in Gazzetta Ufficiale, spicca l’eliminazione del criterio “reddituale” – a vantaggio di un criterio “contributivo” – per definire gli aventi e non aventi diritto del bonus; criterio reddituale che, invece, il legislatore ha deciso di mantenere per la categoria dei pensionati.

Per gli autonomi, il decreto non stabilisce nessun indirizzo specifico di erogazione, ma demanda a un successivo decreto, da definire di concerto fra i dicasteri di Lavoro e Finanza, il compito di chiarire le regole operative per la concessione dell’indennità. Infine, per le “altre categorie di soggetti” non classificabili come dipendenti o pensionati, e tantomeno come autonomi, che in ogni caso saranno destinatarie del bonus, e per le quali varranno regole ancora diverse avendo come riferimento l’INPS.

Nel dettaglio:
Lavoratori dipendenti
Rispetto a quanto era emerso dalle bozze del decreto prima che fosse pubblicato in Gazzetta, la differenza sostanziale sta nella scelta di un criterio “contributivo” anziché “reddituale” per delimitare il diritto all’indennità. Posto che il lavoratore, se in possesso dei requisiti, si ritroverà automaticamente questi 200 euro “caricati” sulla busta paga di luglio (quindi in buona sostanza non dovrà richiederli), quel che va rimarcato è appunto il criterio selettivo di stampo contributivo opzionato dal legislatore.

Praticamente, per stabilire chi avrà diritto ai 200 euro, non verrà verificato il superamento dei 35.000 euro di reddito nel 2021, piuttosto se il lavoratore (che comunque non deve percepire alcun trattamento pensionistico) abbia beneficiato «per almeno una mensilità nel primo quadrimestre dell’anno 2022» dell’esonero contributivo pari allo 0,8% «sulla quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore». Questo esonero è oltretutto riconosciuto a condizione che la retribuzione imponibile, parametrata su base mensile per tredici mensilità, non ecceda l’importo di 2.692 euro. Insomma, il lavoratore dovrà controllare le buste paga del periodo gennaio-aprile 2022 e verificare se la riduzione contributiva dello 0,8% abbia avuto luogo in almeno una di quelle quattro buste paga. Solo in questo caso potrà beneficiare dei 200 euro sulla busta paga del prossimo luglio.

Pensionati
L’Inps (o altro ente di previdenza incaricato), con la mensilità di luglio 2022 l’Inps erogherà d’ufficio l’indennità una tantum di 200 euro ai titolari di pensione, ai “prepensionati” e a chi a giugno avrà percepito l’indennità di disoccupazione. Per il calcolo del tetto dei 35mila euro si tiene conto dei redditi di qualsiasi natura (compresi quelli esenti da imposta o soggetti a ritenuta alla fonte o a imposta sostitutiva), mentre non rientrano nel conteggio il reddito della casa di abitazione e le sue pertinenze, i trattamenti di fine rapporto e le competenze arretrate sottoposte a tassazione separata, l’assegno al nucleo familiare, gli assegni familiari e l’assegno unico universale. L’indennità una tantum di 200 euro non costituisce reddito ai fini fiscali, non è cedibile, né sequestrabile, né pignorabile e non costituisce reddito ai fini fiscali né ai fini della corresponsione di prestazioni previdenziali e assistenziali.

Lavoratori autonomi
Non è ancora chiara la questione legata ai lavoratori autonomi perché il legislatore, oltre a stanziare una dotazione finanziaria di 500 milioni per “coprire” l’erogazione del bonus, non ha di fatto delineato nessun identikit riguardo a coloro che ne avranno diritto, derogando anzi ai dicasteri di Economia e Lavoro l’adozione, entro 30 giorni dall’entrata in vigore del Decreto Aiuti, di un provvedimento attuativo ove siano «definiti i criteri e le modalità per la concessione dell’indennità». È certo in ogni caso che il bonus andrà a esaurimento, essendo appunto finanziato da un Fondo limitato a 500 milioni; quindi, a parità di requisiti, anche il fattore tempo con cui i papabili beneficiari faranno domanda potrebbe rivelarsi decisivo.

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I tormenti di Salvini: se domenica FdI vincerà nelle città del Nord per la Lega sarà la tempesta perfetta

martedì, Giugno 7th, 2022

FRANCESCO OLIVO

ROMA

L’incubo di Matteo Salvini è il sorpasso di Giorgia Meloni nelle città del Nord. Un anno fa a Milano l’operazione è stata a un passo dal compiersi: la lista di FdI si fermò soltanto a 4.400 da quella della Lega. Stavolta i tempi sembrano maturi.

I sondaggi sono poco affidabili per questo tipo di elezioni, ma di calcoli già se ne fanno. Nel Carroccio danno per perso o quasi il Sud, in Sicilia non ci sarà nemmeno Alberto da Giussano nelle schede (la lista si chiama Prima l’Italia), pochissime aspettative anche nelle regioni del Centro. Se poi nel Settentrione si dovesse tornare alla cifre della Lega post bossiana, quella risollevata proprio da Salvini, allora si potrebbe aprire un inedito dibattito sulla leadership dalle conseguenze imprevedibili. Il progetto del segretario della Lega nazionale, diventerebbe difficilmente sostenibile sopra al Po. Meloni lo sa e da più di anno ormai sta lavorando alla conquista di territori finora quasi sconosciuti per un partito a forte trazione romana (e meridionale).

Ieri, al Porto Antico di Genova ad ascoltare Meloni c’erano cinquecento persone, in un caldo lunedì pomeriggio, la cifra è considerevole e i leghisti lo stanno notando con preoccupazione. La presidente di FdI è attenta a evitare di caricare troppo di significati il voto di domenica: «Io credo che all’interno del centrodestra le elezioni amministrative non determinino niente, perché all’interno della coalizione ci sono regole per le politiche nelle quali si determinano automaticamente le responsabilità di ciascuno, ma questa location – ha detto dal palco, accanto al sindaco Marco Bucci – dimostra la crescita esponenziale di Fratelli d’Italia che speriamo di vedere anche all’indomani del voto del 12 giugno». Piazze affollate si sono viste a Como, Lodi, Monza e Piacenza. Per non dire della Sicilia, dove un successo delle liste potrebbe imporre la riconferma di Nello Musumeci.

L’operazione sorpasso al Nord è in marcia soprattutto nei medi-grandi centri, dove il voto di opinione può pesare di più, mentre nei piccoli Comuni le dinamiche locali e il maggiore radicamento di Lega e Forza Italia possono frenare l’onda. Le città principali segnate sulle agende dei dirigenti di Lega e Fratelli d’Italia sono Verona, Alessandria e Como, dove un tempo la formazione di Meloni non superava il 4% e oggi invece punta al primato della coalizione o persino a conquistare il municipio (a Como).

A Verona le divisioni del Carroccio e il passaggio a FdI del sindaco uscente Federico Sboarina avranno un peso. I dirigenti della destra puntano anche a un sorpasso ad Alessandria, città del capogruppo alla Camera della Lega Riccardo Molinari, mentre a Como, Meloni ha potuto scegliere il candidato sindaco (Giordano Molteni), grazie al lavoro ai fianchi del suo deputato comasco Alessio Butti. Gli occhi dei dirigenti lombardi sono puntati anche su Lodi, Buccinasco, Magenta, San Donato e Sesto San Giovanni.

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Peschiera, la violenza che cresce e quel che c’è da fare, prima che sia tardi

martedì, Giugno 7th, 2022

di Beppe Severgnini

Domenica sera, nel pronto soccorso dell’ospedale di Crema, i carabinieri tenevano divisi due ragazzi che s’ insultavano e volevano picchiarsi, dopo le botte che si erano già date e le ferite che si erano procurate. Il Commissariato di Crema in aprile ha indagato due minori di anni 15 per lesioni aggravate: avvicinavano i coetanei, li provocavano, li picchiavano, scappavano. In marzo tre ragazzi, in pieno centro, hanno aggredito alcuni coetanei con bastoni e bottiglie. Un diciottenne ha minacciato un compagno di classe con un coltello.

L’elenco sarebbe più lungo. Spesso si tratta di ragazzi stranieri, molte le ragazze. Bel tempo, serate lunghe, risse per divertimento. Questo accade nella mia città, piena di sole e di giovani turisti che si scattano i selfie nella piazza dove hanno girato Chiamami col tuo nome .

Crema è benestante, ben amministrata e tranquilla, secondo gli standard nazionali. Carabinieri e polizia fanno il loro lavoro.
Eppure, nelle ultime settimane, è successo quello che ho scritto, anzi molto di più.
Perché sono poche le famiglie che denunciano, temendo forse ritorsioni.

Preferiscono lamentarsi sui social, privando le forze dell’ordine dello strumento che consentirebbe loro di agire.

Quello che succede a Crema sta accadendo ovunque.


Le notizie arrivano sui media nazionali solo quando gli episodi sono veramente gravi o particolarmente odiosi.

L’inseguimento col machete per le strade di Torino (arrestato, già scarcerato); le molestie sessuali sui treni (domenica di ritorno da Gardaland, ma sui regionali le ragazze vengono infastidite continuamente); le botte come passatempo (durante il fine settimana scene di guerra sul Garda, ma risse anche a Jesolo, Treviso, Vittorio Veneto, Lucca, Firenze, Pesaro, Chieti, Trani, Foggia, Palermo e in chissà quanti altri posti).

Ormai certe cose non fanno notizia. Ma se accettiamo questa orrenda consuetudine, prepariamoci a un futuro francese. Quartieri fuorilegge, città divise, società spaccata, disordini, estrema destra in ascesa.

Accadrà, se non ne parliamo.
Anzi: accadrà perché non ne parliamo.

Solo la scuola e le forze dell’ordine sembrano aver capito cosa sta accadendo: ma non basta.

Dov’ è la politica, dove sono i partiti, dove sono i leader? Offrire slogan dopo un episodio grave non serve a niente. Servono proposte sociali, nuove norme, sanzioni efficaci. Per quei ragazzi la denuncia è solo un fastidio, un prezzo ragionevole da pagare per la gloria sui social. Insegnanti, parrocchie, associazioni e società sportive provano a intercettarli e aiutarli: ma non basta, evidentemente. Le famiglie sembrano impotenti (spesso inconsapevoli, talvolta complici).

Educare una nuova generazione alla convivenza italiana è un progetto enorme, ma indispensabile. L’alternativa? Pensare che tutto questo non ci riguardi. Finché – su un treno, in una strada, su una spiaggia – succederà qualcosa che non dovrebbe succedere, a noi o alle persone cui vogliamo bene. Allora capiremo, ma sarà tardi.

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Sanzioni, l’oligarca Vladimir Potanin salvo grazie al nichel: una stretta sulle sue miniere fermerebbe l’economia

martedì, Giugno 7th, 2022

di Paolo Valentino

Fedelissimo di Putin, secondo uomo più ricco di Russia, è fuori dalla lista delle sanzioni: una stretta sulle sue miniere in Siberia manderebbe in tilt l’economia mondiale

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO — Sono tempi duri per gli oligarchi russi. Le sanzioni occidentali ne restringono la libertà di movimento e congelano i favolosi patrimoni all’estero: ville e yacht sequestrati, carte di credito bloccate, conti bancari irraggiungibili. Gli Stati Uniti, l’Unione europea e il Regno Unito li puniscono per la vicinanza e il sostegno politico e finanziario a Vladimir Putin e alla sua guerra di aggressione.

Eppure non tutti gli oligarchi sono uguali, agli occhi dell’Occidente. Ce ne sono alcuni più uguali degli altri. E a fronte dei quasi 40 plurimiliardari sanzionati, ce ne sono almeno altrettanti che rimangono ancora fuori dalla lista nera. Una combinazione un po’ ipocrita di valutazioni politiche, economiche e geostrategiche spinge infatti i Paesi occidentali a risparmiarli.

Di tutti, il caso più clamoroso è quello di Vladimir Potanin, 61 anni e un patrimonio che prima dell’inizio della guerra era valutato sopra i 30 miliardi di dollari, il che fa di lui il secondo uomo più ricco della Russia. Eppure, parliamo di un fedelissimo dello Zar, che ha lealmente appoggiato sin dagli inizi, sempre pronto a esaudirne i desideri e a giocare secondo le sue regole, perfino quando nelle partite di hockey — una delle passioni che condivide con Putin insieme allo sci — bisognava farlo segnare e vincere.

Ma nonostante questo, Potanin continua a viaggiare, godersi i suoi due super yacht, agire sui mercati, anche per conto del Cremlino, come se non ci fosse alcuna guerra. Per completezza d’informazione, il suo nome figura nella lista dei sanzionati approvata da Australia e Canada, ma né gli Stati Uniti, né l’Ue hanno alcuna intenzione di aggiungerlo alle loro. Perché?

La risposta è semplice: Potanin è azionista di maggioranza di Norilsk Nickel, azienda mineraria siberiana che produce il 15% del nichel e il 40% del palladio usati nel mondo, due materie prime indispensabili rispettivamente per la fabbricazione dei microchip e delle automobili. Sanzionarlo rischierebbe di far esplodere il prezzo dei due metalli, con conseguenze devastanti sulle forniture per l’industria automobilistica e quella dei semiconduttori.

L’esenzione di Potanin dalle sanzioni è una benedizione per il Cremlino, che grazie a lui sta riprendendo il controllo di una serie di banche, svendute frettolosamente dai gruppi occidentali che hanno lasciato la Russia dopo il 24 febbraio o da altri oligarchi che hanno osato criticare la guerra. Così, il suo gruppo Interros ha riacquistato Rosbank da Société Générale, cui l’aveva venduta nel 2008. E quando il miliardario russo residente a Londra, Oleg Tinkov, è stato costretto dal Cremlino a vendere il suo 35% della florida Tinkoff Bank per aver definito su Instagram «schifosa» l’azione dell’esercito russo in Ucraina, Potanin è stato pronto a rilevarlo. «Per un prezzo ridicolo, il 3% del suo valore reale», accusa Tinkov.

Nato da una famiglia della nomenklatura comunista, Potanin seguì il padre in una carriera privilegiata da funzionario del ministero del Commercio dell’Urss fino al 1990, anno in cui approfittò del caos della perestrojka gorbacioviana per fondare Interros con un capitale di 10 mila dollari prestatigli da organizzazioni statali. Due anni dopo, la sua Uneximbank diventò banca di riferimento del nuovo Stato russo: da 300 milioni di dollari nel 1992, le sue attività passarono a 2 miliardi nel 1994.

Ma il suo capolavoro lo fece l’anno seguente. Fu lui, infatti, a ingegnare il «furto del secolo», lo schema passato alla storia con il nome di loans for shares, prestiti per azioni. Con Boris Eltsin sempre più impopolare nel Paese e la certa prospettiva di perdere le elezioni del 1996, il gruppo dei sei oligarchi originali «prestò» al governo miliardi di dollari (in realtà depositati nelle loro banche dal governo stesso) ottenendo come collaterali le proprietà statali e sapendo che non sarebbero mai stati ripagati. Quando il Paese, secondo l’accordo, andò in default sui prestiti, gli oligarchi si ritrovarono proprietari dei pezzi più pregiati dei beni pubblici. A Potanin, mente del piano, toccò appunto la Norilsk Nickel: la pagò 170 milioni di dollari, lo stesso anno in cui l’azienda registrò introiti per 3,3 miliardi di dollari. In cambio, gli oligarchi spesero senza limiti per sostenere la campagna di Eltsin, schierando le loro televisioni, assumendo squadre di strateghi americani o più semplicemente comprando milioni di voti. Eltsin venne rieletto. Come ulteriore premio, Potanin diventò vicepremier, carica che tenne per due anni.

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Ucraina Russia, news sulla guerra di oggi | La rabbia di Medvedev, l’ex presidente russo: «Odio gli occidentali, voglio farli sparire»

martedì, Giugno 7th, 2022

di Francesco Battistini, Lorenzo Cremonesi e Paolo Foschi

Le notizie di martedì 7 giugno sulla guerra, in diretta: Kiev annuncia di aver respinto la flotta russa nel Mar Nero, ma le truppe di Mosca hanno rilanciato l’offensiva terrestre

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Un soldato ucraino esce da un bunker scavato nel terreno vicino alla linea del fronte, nel Donbass (Aris Messinis / Afp)

• La guerra in Ucraina è arrivata al 104esimo giorno. La Russia, dopo qualche giorno di difficoltà, sembra aver rilanciato l’offensiva sulla città di Severodonetsk e in tutta la regione di Donetsk. La nuova fase del conflitto era stata segnata il giorno precedente con il ritorno delle bome su Kiev dopo oltre un mese di relativa tranquillità per la Capitale.
• Le speranze dell’Ucraina di resistere e riconquistare i territori occupati dalle truppe di Mosca sono legate all’invio di nuove forniture di armi, in particolare da Usa e Gran Bretagna. Zelensky ringrazia Londra «per aver compreso le nostre richieste di aiuto».
• La Marina ucraina intanto annuncia di aver respinto la flotta russa nel Mar Nero
• Bruxelles accusa la Russia di aver distrutto il secondo più grande terminal di grano. Ed è proprio il ricatto alimentare della Russia uno dei grandi problemi del conflitto: una situazione che rischia di destabilizzare non solo i Paesi più poveri dove manca il cibo, ma anche l’Europa che potrebbe essere raggiunta da flussi migratori ingestibili.
• Marina Ovsyannikova, la giornalista che protestò sulla tv russa, contestata e «cacciata» dall’Ucraina.

Ore 10:22 – La Turchia vuole comprare il grano dall’Ucraina con lo sconto del 25%

Le autorità turche intendono acquistare grano dall’Ucraina con uno sconto di oltre il 25%. Lo ha affermato il ministro dell’agricoltura e del patrimonio forestale turco Vakhit Kirishchi, osservando che Ankara sta compiendo «sforzi diplomatici attivi» per sbloccare le esportazioni di grano dai porti ucraini.

Ore 10:22 – Gazprom, transito via l’Ucraina attraverso Sudzha

I flussi di gas attraverso l’Ucraina passano attraverso Sudzha dopo lo stop al transito attraverso Sokhranvka. Lo riporta Bloomberg citando quanto ha reso noto Gazprom. Il colosso dell’energia russo ha inoltre comunicato che il transito di gas attraverso l’Ucraina si attesta a 40,9 milioni di metri cubi al giorno.

Ore 10:10 – Mega yacht russo alle Figi sarà consegnato agli Usa

La corte suprema delle Figi ha stabilito che il superyacht di proprietà russa Amadea dovrà essere rimosso dalle sue acque e consegnato agli Stati Uniti a causa dei suoi elevati costi di gestione, che la nazione insulare del Pacifico vede come uno spreco di denaro. Lo riporta il Guardian. Sospettato di appartenere all’oligarca russo Suleiman Kerimov, lo yacht era stato sequestrato dalla polizia delle Figi a metà aprile. L’Fbi aveva detto che gli Stati Uniti avrebbero pagato i suoi costi di gestione stimandoli in oltre 25 milioni di dollari all’anno. Tuttavia, finora è stato il governo delle Figi a pagare il conto, in attesa della conclusione di un ricorso in appello contro il sequestro avviato dalla proprietà del superyacht, la Millemarin Investments. La corte ha stabilito che in nome dell’interesse pubblico lo yacht deve lasciare «le acque delle Figi», perché la sua manutenzione «sta costando cara al governo delle Figi».

Ore 10:07 – Russia consegna alcuni corpi di combattenti ad Azovstal

I corpi di alcuni combattenti ucraini uccisi mentre difendevano la città portuale di Mariupol dalle forze russe nell’acciaieria Azovstal sono stati consegnati a Kiev: lo hanno riferito alcune famiglie dell’unità ucraina Azov, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Reuters. Le forze ucraine che difendevano Mariupol sono rimaste rintanate nelle acciaierie per settimane mentre le forze russe cercavano di catturare la città.

Ore 10:04 – La rabbia di Medvedev, l’ex presidente russo: «Odio gli occidentali, voglio farli sparire»

Dmitry Medvedev, alleato di lunga data del presidente russo Vladimir Putin e attualmente vicepresidente del consiglio di sicurezza della Russia , questa mattina non ha usato mezzi termini su Telegram. Ha appena pubblicato questo post: «Mi viene spesso chiesto perché i miei post su Telegram sono così duri. La risposta è che li odio. Sono bastardi e secchioni. Vogliono la morte per noi, Russia. E finché sono vivo, farò di tutto per farli sparire».

Ore 09:39 – Miroshnik: nove civili uccisi nel Donetsk

Rodion Miroshnik , nominato ambasciatore in Russia dall’autoproclamata Repubblica popolare di Luhansk, ha scritto su Telegram che nove civili sono stati uccisi dai bombardamenti nella vicina autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk nelle ultime 24 ore. Riferisce che tra le vittime c’era un adolescente nato nel 2005 e che altre 18 persone sono rimaste ferite. La Russia è l’unico Stato membro delle Nazioni Unite a riconoscere la Repubblica popolare di Luhansk e la Repubblica popolare di Donetsk.

Ore 08:52 – Kiev, 263 bambini morti e 467 feriti da inizio conflitto

Dall’inizio della guerra in Ucraina sono morti 263 bambini e 467 sono rimasi feriti. Lo rende noto la procura generale di Kiev nel suo bollettino quotidiano su Telegram.

Ore 08:48 – A Kiev riapre un teatro, biglietti esauriti

Uno spiraglio di speranza nell’orrore della guerra. Un teatro a Kiev è stato riaperto per la prima volta da quando le forze russe hanno invaso il Paese e i biglietti per lo spettacolo di domenica sono andati esauriti. «Ci chiedevamo come sarebbe stato, se gli spettatori sarebbero venuti durante la guerra, se avrebbero pensato al teatro, se fosse di qualche interesse – ha detto uno degli attori, Yuriy Felipenko – e siamo stati felici che i primi tre spettacoli abbiano fatto registrare il tutto esaurito».

Kostya Tomlyak, un altro attore, spiega di aver esitato a recitare in tempo di guerra. Ma l’afflusso di persone che sono tornate a Kiev da quando le ostilità sono diminuite lo ha convinto che è necessario andare avanti. «Si continua a vivere, anche se non si dimentica che c’è la guerra».

Ore 08:46 – Kiev, pesanti combattimenti in corso a Severodonetsk

Pesanti combattimenti sono in corso nella città dell’Ucraina orientale di Severodonetsk, le truppe russe stanno continuando a prenderla d’assalto, secondo quanto dichiara l’esercito di Kiev nel suo rapporto operativo della mattina, citato dal Guardian. Secondo lo Stato maggiore, le truppe ucraine hanno respinto gli attacchi russi nelle città di Nahirne, Berestov, Krynychne e Rota e avrebbero anche colpito alcune unità militari di Mosca nella regione di Kherson (Sud) e depositi di munizioni nella regione di Mykolayiv, sempre nel meridione del Paese. L’ultimo aggiornamento fornito dal capo militare regionale del Lugansk Sergiy Gaidai afferma che gli attacchi russi in direzione di Novookhtyrka e Voronove sono stati respinti.

Ore 08:23 – I colloqui con la Russia sono «al livello zero»

«Zero».

È questo il livello dei colloqui diplomatici tra Russia e Ucraina, dopo 104 di missili, bombe, morti feriti, sfollati. E a dirlo è il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky.

I colloqui di pace, ha detto, «sono a livello zero»: e mentre a Severodonetsk la battaglia infuria, strada per strada (ma «i nostri eroi» hanno «ogni possibilità» di respingere i russi: «mantengono le loro posizioni, duri scontri di strada continuano in città», ha affermato il leader di Kiev), una situazione «molto minacciosa» si è sviluppata nella regione di Zaporizhzhia, dove si trova la più grande centrale nucleare d’Europa.

«Lysychansk, Slovyansk, Bakhmut, Sviatohirya, Avdiivka, Kurakhove e altri obiettivi dei raid russi sono i punti più caldi del confronto oggi», ha aggiunto. «L’esercito russo sta cercando di usare forze aggiuntive in direzione del Donbass, ma il Donbass ucraino resiste ancora, e resiste fermamente».

Ore 08:09 – La battaglia del grano, per punti

(Gianluca Mercuri) Se il fronte diplomatico non offre grandi spiragli, a preoccupare nell’immediato è quello alimentare, con oltre 50 Paesi africani e asiatici a rischio carestia e l’Europa esposta a una gigantesca ondata di profughi, l’Italia in prima linea.
•Il piano turco
Domani Lavrov potrà volare senza intoppi ad Ankara, dove dovrebbe formalizzare con il presidente turco Erdogan il piano anticipato dal quotidiano russo Izvestia. Si tratta di sminare il porto di Odessa, far partire le navi ucraine cariche di grano e cereali e farle scortare dalle navi turche. C’è però un problema, anzi due.

•Il no ucraino
Per sminare il porto di Odessa, a quanto pare, ci vuole un mese. E gli ucraini temono che la Russia ne approfitti per provare lo sbarco. «Putin vi dice che non userà le vie commerciali per attaccare Odessa? È lo stesso Putin che diceva a Scholz e a Macron che non avrebbe mai attaccato l’Ucraina…», ha twittato il ministro degli Esteri Kuleba.

Ma allora come?
Gli ucraini vorrebbero che insieme ai turchi ci fossero altri Paesi, ma è difficile trovarne di graditi ai russi. D’altra parte, se fidarsi di Putin è sempre un azzardo, spostare il grano senza accordarsi con lui pare complicato. Anche perché a Kiev, spiega Francesco Battistini, non piacciono nemmeno le alternative: «Passare col grano per la Bielorussia (“resterebbe sotto controllo russo”), creare un corridoio per farlo salpare dal porto di Mariupol già sminato (“idem”), usare i fiumi (“inadatti”)…».

•Intanto il grano brucia
«Le forze russe hanno distrutto il secondo più grande terminal di grano in Ucraina, a Mykolaiv. Un altro attacco missilistico che contribuisce alla crisi alimentare globale», ha twittato ieri sera l’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue Josep Borrell.

•Il Dataroom
La questione del grano è spiegata nei dettagli in questo lavoro di Francesco Battistini, Milena Gabanelli e Massimo Sideri.

•Intanto al fronte
Nell’Est del Paese il pendolo dei combattimenti, che nel fine settimana sembrava oscillare a favore degli ucraini, ora torna dalla parte dei russi: «Le valutazioni negative sono dei dirigenti locali e del presidente Zelensky reduce da una visita nel Donbass. Mosca ha lanciato nella mischia il possibile», scrivono Andrea Marinelli e Guido Olimpio, che raccontano la presenza di volontari stranieri al fianco degli ucraini. Lorenzo Cremonesi si è spinto in Donbass fino a 7 chilometri dalle linee russe (qui il suo videoreportage) e ha colto l’ansia ucraina di usare i nuovi lanciarazzi promessi da americani e inglesi.

(Questa sintesi è stata pubblicata su PrimaOra, la newsletter che gli abbonati al Corriere ricevono ogni mattina nella propria casella di posta elettronica, uno dei tre appuntamenti giornalieri de «Il Punto». Per iscriversi: corriere.it/newsletter )

Ore 07:39 – Così Putin fa svanire nel nulla la «colomba» Kozak, il suo storico consigliere

(Marco Imarisio) Sono tempi in cui le colombe svaniscono nel nulla. E se poi volavano sul Cremlino, possibile che abbiano fatto una brutta fine.

Pomeriggio del 21 febbraio. Dmitry Kozak è uno degli uomini più forti della verticale russa del potere.
Vladimir Putin li ha riuniti tutti al Cremlino, al vertice del Consiglio di sicurezza, per annunciare loro l’intenzione di riconoscere le due autoproclamate repubbliche del Donbass. È il momento in cui il mondo capisce che non deve più chiedersi se l’Armata rossa entrerà in Ucraina, ma solo quando lo farà.

Quella riunione passa alla storia recente per il modo brusco in cui il presidente zittisce e umilia il capo dei servizi segreti Sergey Naryskhin, che chiedeva più tempo per evitare un intervento militare. Ma poco prima c’era stata un’altra vittima. Kozak è il vicedirettore dello staff di Putin. Ma il legame tra i due esula da ogni incarico ricoperto dall’ex soldato dei Corpi speciali. Il presidente lo ha sempre avuto con sé da quando entrambi erano consiglieri del sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak, affidandogli ruoli molto delicati. Per questo, da cinque anni, lo ha messo a capo dell’operazione speciale, che a quella data significava solo la gestione dei rapporti con l’Ucraina.

Quando inizia a parlare, Kozak spiega come il governo di Kiev non abbia fatto alcun passo in avanti verso la Russia. Fa una sorta di mea culpa, dicendo che dal 2015 esiste una situazione di stallo anche se qualche progresso sarebbe ancora possibile per via diplomatica.

Ma c’è qualcosa che non va.

Fuori dall’inquadratura, si sente uno «spasiba», un grazie detto ad alta voce da Putin. Basta così, non c’è bisogno di aggiungere altro. Kozak invece prosegue, mentre il presidente tamburella con la mano sul tavolo, visibilmente spazientito.

Lo «spasiba» questa volta risuona ancora più perentorio.

Da allora, più nessuna notizia di una delle personalità più in vista e più vicine al presidente russo.

Una corsa del gambero, fino alla smaterializzazione.
Il 24 febbraio, Kozak viene rimosso da ogni incarico.

(Il racconto completo è qui)

Ore 07:13 – Così il nichel salva l’oligarca Potanin, fedelissimo di Putin

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La Farnesina convoca l’ambasciatore russo Razov, il segnale di Draghi e Di Maio al diplomatico diventato politico

martedì, Giugno 7th, 2022

di Marco Galluzzo

L’invito durante il colloquio al ministero a cambiare la prassi comunicativa delle ultime settimane e a portare giustificazioni per le sue affermazioni

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Lui si è difeso, anzi ha cercato quasi di rilanciare con una nota nel pomeriggio, rinnovando, anche se in modo più pacato, l’accusa di propaganda contro media italiani ritenuti «ostili». Il copione in apparenza cambia solo di poco, nonostante la strigliata della Farnesina e la convocazione negli uffici del segretario generale del ministero Esteri Ettore Sequi.

Ma per l’ambasciatore russo Sergey Razov, 69 anni, qualcosa è decisamente mutato dopo la convocazione concordata nel week end da Mario Draghi con il ministro Luigi Di Maio. È cambiato un dato: non può più permettersi, almeno questo è stato il richiamo, la stessa prassi comunicativa delle ultime settimane. Almeno se non vuole mettere a rischio la sua permanenza in Italia.

Perché da quanto si riscontra sia a Palazzo Chigi sia alla Farnesina il senso della convocazione è stato quello di comunicare una soglia, una sorta di limite entro il quale il diplomatico che gode ancora della fiducia del Cremlino dovrà rimanere in futuro. «La metamorfosi di un diplomatico in esponente politico non è contemplata, in nessun Paese europeo», è il succo che del colloquio con Sequi fa una fonte di governo.

Bisognerà vedere se Razov rispetterà quanto gli è stato consigliato, di certo il governo italiano è pronto a ulteriori passi se si ripresenteranno «dichiarazioni al limite, parole gravi, espressioni calunniose inaccettabili» da parte di un diplomatico, secondo la sintesi della vicenda che viene fatta da una delle persone che hanno gestito il dossier.

Nel corso del colloquio con l’ambasciatore Ettore Sequi è stato chiesto conto di diverse dichiarazioni ritenuti gravi, inopportune, necessarie di un chiarimento: dalle parole, sin troppo leggere, condite anche con un pizzico di ironia, rilasciate nel giorno della Festa della Repubblica, piccato per non essere stato invitato alle cerimonie da parte del capo dello Stato, Sergio Mattarella; sino alle dichiarazioni contro i media e i giornalisti italiani accusati di fare disinformazione contro il sistema di interessi del governo russo, e infine contro i politici italiani, dei quali è stata messa in dubbio «la moralità».

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Referendum sulla giustizia al voto, l’ultima sfida alle riforme Cartabia

lunedì, Giugno 6th, 2022

di Liana Milella

ROMA – Per un intero anno le riforme della giustizia – penale, civile, del Csm – hanno corso parallele a un’altra “corsa”, quella dei referendum, anch’essi sulla giustizia, lanciati dai Radicali, e sottoscritti dalla Lega. Alla partenza erano sei, al traguardo del voto sono cinque, poiché la Consulta, come vedremo, ne ha tagliato fuori uno, di certo quello più popolare, sulla responsabilità civile “diretta” dei magistrati. Nel lontano 1987, ai tempi di Marco Pannella e sull’onda del caso Tortora, aveva fatto l’en plein con 80,21% dei sì. Ma adesso i cinque quesiti, stando ai sondaggi, arrancano penosamente per via del quorum, e rischiano di non raggiungere neppure quello necessario superando il 50% degli aventi diritto al voto. Chi li propone, Matteo Salvini in testa, accusa i media, parla di “censura e bavaglio”, chiede “aiuto” addirittura a Mario Draghi e Sergio Mattarella, accusa la sinistra di “nascondere” i referendum con l’obiettivo “di avere magistrati politicizzati con i quali provare a vincere se perdono le elezioni”.

Uno scorcio di campagna referendaria del tutto sotto tono e per giunta alla fine avvelenata. Ma la “sfida” tra le tre riforme – sottoscritte dalla Guardasigilli Marta Cartabia e già votate dalla maggioranza Draghi alla Camera, Lega compresa – e i referendum adesso è giunta all’ultimo traguardo. Se ne conoscerà l’esito a distanza di soli tre giorni. Perché domenica 12 giugno – dalle 7 alle 23 – le urne non si aprono solo per le elezioni amministrative in 978 Comuni, ma anche per i cinque referendum.

Mercoledì 15 giugno, invece, l’ultima delle tre riforme di Cartabia, quella del Csm che interviene su ben tre temi (carriere dei giudici, avvocati nei consigli giudiziari, firme per candidarsi a palazzo dei Marescialli), arriva in aula al Senato per il voto finale. Suspense esclusa. Perché il premier Draghi ha già ribadito più volte che il testo uscirà da Palazzo Madama con il voto finale. Pronto per entrare in vigore. Visto che il voto per rinnovare il Csm si approssima e sarà comunque necessario un rinvio rispetto alla scadenza di settembre. Più di un’indiscrezione conferma che si voterà a novembre per dare il tempo di “digerire” la riforma e il nuovo sistema elettorale (un maggioritario binominale, con una correzione proporzionale).

Ma comunque la sfida sui quesiti referendari ci sarà lo stesso. E lo dimostra il fiorire dei gazebo Radical-leghisti in tutta Italia. Nonché lo sciopero della fame del leghista Roberto Calderoli, che si paragona a Pannella – “Il mio è un gesto estremo, ma Pannella ce lo ha insegnato: a mali estremi, estremi rimedi” – e protesta anche lui perché, a suo dire, i referendum sarebbero stati silenziati dai media e soprattutto dalla tv di Stato. Giusto ieri ha fatto sapere che, sulle sue orme, altre 160 persone sarebbero in sciopero della fame. 

La preoccupazione di Calderoli è il quorum. Ma un giurista come Nello Rossi, direttore della rivista promossa da Magistratura democratica, Questione giustizia, ha appena pubblicato oggi un articolo sostenendo che “nell’astenersi dal partecipare al voto referendario non si può scorgere solo inerzia, apatia politica o disinteresse, ma anche la volontà di non consentire, con il proprio attivo concorso, a un’iniziativa referendaria ritenuta superflua o dannosa”. Rossi scrive inoltre: “Non recarsi ai seggi (o rifiutarsi di ritirare le schede dei referendum nei Comuni dove si vota anche per le elezioni amministrative) è una opzione non solo libera, non solo legittima, ma pienamente rispondente alla logica propria del referendum abrogativo. La Costituzione, infatti, nel prevedere che il referendum è valido solo se partecipa alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto (il cosiddetto quorum strutturale) ha voluto che esso sia vivificato e validato da una effettiva partecipazione popolare.”

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