Archive for Giugno, 2022

L’Europa senza mappa

lunedì, Giugno 6th, 2022

di Ezio Mauro

Dopo la breve stagione universale della globalizzazione, il confine riemerge come nuovo simbolo dell’epoca in un mondo che si restringe impaurito. Confine contestato e riconsacrato, attaccato e difeso in una guerra che mette in gioco la geografia interna dell’Europa così come l’abbiamo ereditata dal tracciato di pace del febbraio 1945 a Jalta. Quell’accordo di spartizione dell’Europa è saltato con l’invasione russa dell’Ucraina, perché si basava su una ridefinizione della mappa storica e politica accettata e condivisa da tutte le parti in causa: strappando l’angolo ucraino, l’intera mappa viene messa in discussione e perde la sua funzione di garanzia dell’insieme, lasciando l’Europa senza fondamenta riconosciute e benedette dalla politica. Nulla è certo, tutto può tornare in revoca. Fingiamo che non sia così, ma in realtà con la guerra noi europei siamo entrati in un equilibrio mobile e provvisorio, quasi fossimo isole nella corrente, con la geografia che si autonomizza dalla storia, costretta a inseguire in faticoso ritardo.

Come se temesse questo momento, nei lunghi decenni del dopoguerra in realtà l’Europa si era costantemente preoccupata di dare garanzie a se stessa, nella convinzione che la pace non è una rivelazione di fede che cala sugli uomini di buona volontà ipotecando il loro futuro, ma una faticosa e costante costruzione umana, dunque fatalmente minacciata dalla sua fragilità ed esposta ai venti imprevedibili della politica, che in ogni momento possono cambiare velocità e direzione. La pace, in una parola, ha bisogno di manutenzione continua, non è una risorsa naturale, piuttosto una conquista culturale che ne fa il presupposto necessario di una civiltà, la condizione indispensabile per assicurare il suo sviluppo. Questa parte del mondo, in particolare, ha vissuto direttamente la sfida dei due totalitarismi, il fascismo-nazismo e il comunismo fatto Stato e realizzato in un impero, con lo sbocco del primo nella seconda guerra mondiale e del secondo nell’infinita guerra fredda con l’impero concorrente, gli Stati Uniti. La doppia esperienza travagliata del Novecento ha consigliato all’Europa di non limitarsi a predicare e custodire la pace, ma piuttosto di ancorarla alle regole, alle istituzioni e al metodo della democrazia, unico vero antidoto di garanzia alle tentazioni autoritarie, dispotiche e totalitarie che incubano quasi inevitabilmente pulsioni di guerra e di conquista.

All’ombra delle grandi organizzazioni internazionali di salvaguardia costruite per dotare la pace di strumenti giuridici, diplomatici e politici impegnativi per gli Stati e i governi nazionali, l’Europa ha fatto la sua parte. Prima di tutto con la realizzazione – a tappe nei tempi, ma grandiosa nelle ambizioni – di uno spazio comune di cooperazione e di mercato che si è via via trasformato in una vera e propria Unione, anche se imperfetta perché incompiuta. E intanto nello sforzo continuo di dare una norma alla pace, trasformarla in un impegno per quelle nazioni che proprio qui, in Europa, avevano convocato gli eserciti di ogni Paese in due guerre mondiali nel secolo. Si trattava di garantire la convivenza civile nel continente inquieto, dunque pericoloso, trasformando quei confini stabiliti per eredità della geografia, per lascito della storia, per convenzione dei governi in una visione europea d’insieme, di cui tutti i Paesi sentissero la responsabilità e quindi la necessità di una tutela, nella garanzia di quello che potremmo chiamare l’ordine europeo.

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Covid, allarme per l’ultima variante di Omicron. E in Portogallo i casi già risalgono

lunedì, Giugno 6th, 2022

 Annunciata in Sudafrica e arrivata in sordina in Europa, la sottovariante BA.5 della Omicron potrebbe diventare una sorvegliata speciale: è alla sua presenza che si lega l’aumento repentino dei casi di Covid-19 in Portogallo, è la principale sospettata anche per un aumento dei casi in Germania e, a chiudere il cerchio, arrivano i primi dati secondo cui ha almeno due mutazioni che la rendono più contagiosa rispetto alle sue sorelle, ossia alle altre sottovarianti di Omicron che finora abbiamo imparato a conoscere, prima fra tutte la BA.2. Fa accezione la BA.4, nella quale sono state identificate le stesse mutazioni.

E’ questo il quadro generale che sta spingendo molti esperti a sospettare che la BA.4 e la BA.5 possano essere un segnale che il virus SarsCoV2 sta cambiando, al punto da provocare ondate periodiche. Il dibattito, al quale sta dedicando molto spazio la rivista Nature sul suo sito, al punto che alcuni esperti ritengono che le sottovarianti capaci di generare nuove ondate meritino un nome proprio, come finora è accaduto per le varianti, dall’Alfa alla Delta. “E’ davvero prematuro dire che il virus SarsCoV2 si stia indebolendo”, osserva il virologo Francesco Broccolo, dell’Università Bicocca di Milano.

I dati del ministero della Salute indicano per l’Italia un costante decremento di casi e ricoveri e una situazione dei decessi sostanzialmente stazionaria. In 24 ore i nuovi casi sono passati da 22.527 a 15.082, individuati per mezzo di 123.699 test, fra molecolari e antigenici rapidi, e un tasso di positività pari a 12,1%. I decessi sono stati 27, ossia 20 meno in un giorno. Per quanto riguarda i ricoveri, sono stabili a 218 nelle terapie intensive, con 18 ingressi giornalieri; nei reparti ordinari sono 4.411, ovvero 31 meno in un giorno. In Italia, come nel resto del mondo, Omicron è la variante del virus SarsCoV2 che domina in assoluto. Quanto alle due sottovarianti BA.4 e BA.5, i dati dell’Istituto Superiore di Sanità riferiti al 3 maggio scorso indicavano che le sequenze rlevate corrispondevano rispettivamente allo 0,47% e 0,41% al totale delle sequenze del virus SarsCov2 ottenute in Italia.

Per quanto riguarda la circolazione della BA.5 in Europa, i dati dell’Agenzia britannica per la sicurezza sanitaria (UKHSA) relativi all’8 maggio scorso indicano che allora in Portogallo rappresentava il 18,47% del virus SarsCoV2 in circolazione (al 20 maggio era aumentata al 37%), contro le percentuali decisamente inferiori di Germania e Gran Bretagna (in entrambe 1,28%) e poi Francia (0,88) e Danimarca (0,41%).

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Scali pieni e piloti stremati. Il grande ingorgo dei cieli che mette a rischio I’estate

lunedì, Giugno 6th, 2022

di Aldo Fontanarosa

ROMA – Da settimane alcuni degli aeroporti più organizzati al mondo – dall’Olanda al Regno Unito – conoscono ore, a volte intere giornate di esasperazione e rabbia.

Preoccupati dalla pandemia, per quasi due anni i turisti, i manager e gli studenti si erano tenuti lontani dagli aerei. Ora hanno semplicemente ripreso a volare. Negli scali, però, non hanno trovato più addetti alla sicurezza, alla gestione dei bagagli e personale di terra sufficienti a fronteggiare un simile afflusso di passeggeri. Troppe le persone licenziate nei mesi del Covid-19; troppi i lavoratori precari che si sono rifiutati di tornare in aeroporto perché la fatica sarebbe stata tanta, la paga inadeguata. 

E così gli aeroporti di Schiphol ad Amsterdam, di Heathrow a Londra, di Dublino in Irlanda – quasi leggendari per efficienza – hanno conosciuto l’onta delle file infinite, degli anziani svenuti per la fatica, dei pompieri a distribuire acqua ai più deboli, delle risse, dei voli cancellati a ripetizione. Disagi anche a Bruxelles – che ha avviato un piano straordinario di reclutamento di 1200 addetti per lo scalo di Zaventem – e a Francoforte.

I problemi, che hanno fatto capolino già a marzo, ancora oggi non sono arginati. Il primo giugno, il Regno Unito ha accusato 150 cancellazioni di voli (soprattutto da Tui Airways, easyJet e British Airways). Con effetto domino, i disagi si sono trasferiti da Heathrow – pilastro del trasporto aereo inglese – agli altri aeroporti londinesi di Stansted e Gatwick; e ancora a Manchester e Glasgow.

Quasi mille le persone che hanno perso il volo domenica 29 maggio a Dublino per le code lunghissime, con il governo irlandese che ha perfino valutato l’impiego dell’esercito per sbloccare la situazione. Il 30 maggio, Klm ha ordinato a 40 velivoli, in teoria gremiti di passeggeri, di rientrare vuoti ad Amsterdam perché lo scalo non avrebbe retto l’onda d’urto degli arrivi.

Chi prevedeva un ritorno graduale al viaggio in aereo, dunque è stato smentito. L’Eurocontrol, osservatorio tra i più qualificati, ci dice che il traffico in Europa era ancora fermo al 68% a gennaio, rispetto allo stesso mese del 2019, ultimo anno prima della pandemia.

Tre mesi dopo, quando il Covid è sembrato sotto controllo, la voglia di spostarsi è esplosa come un tappo di spumante portando il traffico all’82% (siamo ad aprile). Sempre Eurocontrol stima l’afflusso dei passeggeri nelle prossime settimane e la corsa alla carta d’imbarco – questo è ormai sicuro – non si fermerà. Uno scenario realistico dà la domanda di volo a ridosso del 90% (rispetto sempre al 2019) già a giugno e luglio prossimi. Uno scenario ottimistico, ma non improbabile, la colloca al 95%.

Oltre ai passeggeri, pagano il conto dell’impennata dei viaggi i piloti. Tra marzo e aprile, gli equipaggi di Delta hanno manifestato in tutti gli Stati Uniti con cartelli eloquenti: “Più stanchi noi, meno sicuri voi”. Li hanno seguiti a ruota i piloti della Southwest. E ha fatto il giro del mondo la notizia del comandante del volo Ita del 30 aprile, da New York a Roma, sospettato di essersi addormentato a bordo. Un Lamezia-Malpensa di Ryanair del 2 aprile è stato annullato. Gli equipaggi hanno confidato ai passeggeri: siamo sfiniti.

L’Italia sembra fuori quantomeno dall’emergenza scali. Il merito è probabilmente del governo che ha stanziato 800 milioni per pagare la cassa integrazione ai lavoratori delle società di gestione degli aeroporti. Posti di lavoro che dunque sono stati congelati, ma non persi. Posti ora riattivati, con la crescita vigorosa di arrivi e partenze. L’Enac, l’ente sentinella della sicurezza nei cieli, ha distribuito i soldi, conservando peraltro 160 milioni in cassa. 

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Nigeria, sanguinoso attacco in una chiesa cattolica: almeno 50 morti

lunedì, Giugno 6th, 2022

Sono almeno 50 le vittime dell’attacco sferrato nella chiesa di San Francesco a Owo, nello stato nigeriano di Ondo, da un commando di uomini armati. Lo riferisce il quotidiano di Lagos, The Nation Newspaper. Tra le vittime anche donne e bambini, scrivono i media. Diversi i feriti, alcuni dei quali trasportati in ospedale in gravissime condizioni.  La Nigeria “non si arrenderà mai al male e alla gente malvagia”, non importa quale sarà “il prezzo da pagare”, ha detto il presidente Muhammadu Buhari commentando il sanguinoso attacco di domenica 5 giugno.
In un comunicato pubblicato dal suo portavoce Femi Adesina, Buhari ha condannato l’azione e i suoi responsabili, che a suo dire sono attesi “da pene eterne sulla Terra e nell’aldila’”. “Solo anime provenienti dagli inferi potevano concepire e portare a termine un atto così crudele”, ha aggiunto il presidente nigeriano. 

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Non è l’Arena, Alessandro Sallusti lascia la diretta: “Cremlino palazzo di m… basta sceneggiate”

lunedì, Giugno 6th, 2022

A Non è l’Arena, il talk show condotto dalla Piazza Rossa di Mosca, da Massimo Giletti su La7, è accaduto di tutto. L’ultima puntata era stata preceduta da fortissime polemiche per la richiesta da parte del conduttore di condurre il programma dalla Russia con un’intervista a Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri del Cremlino, Sergej Lavrov. Tra gli ospiti in collegamento dell’Italia c’era anche il direttore di Libero, Alessandro Sallusti.

Cosa voglio capire qui. Massimo Giletti arrivato a Mosca: clamorosa 'missione' in Russia

E proprio Sallusti nel corso della trasmissione ha deciso di abbandonare la diretta. Dopo che la Zakharova aveva parlato quasi un’ora, il direttore di Libero, rivolgendosi a Giletti, ha affermato: “A questa sceneggiata io non voglio più partecipare, grazie”.
E ancora: “Pensavo fossi andato a Mosca per parlare al popolo russo. Mi trovo davanti ad un asservimento totale di fronte alla peggiore propaganda che ci possa essere. Il Cremlino è un palazzo di merda, lì il comunismo ha fatto i più grossi crimini”. Poi l’affondo: “Rinuncio al compenso pattuito ma non ci sto a fare la foglia di fico a quei due coglioni che hai lì di fianco, me ne vado”.

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Ucraina, la Costituzione e il diritto alla difesa

lunedì, Giugno 6th, 2022

di Sabino Cassese

Il prossimo 21 giugno, il Presidente del Consiglio dei ministri sarà sentito al Senato, in vista del Consiglio europeo che ha all’ordine del giorno il tema dell’Ucraina. Alcune delle forze politiche di governo manifestano segni di insofferenza nei confronti dell’indirizzo da esse stesse approvato il 1 marzo scorso. Si ripresentano gli interrogativi più volte affacciati in questi mesi: facendosi coinvolgere nel conflitto, l’Italia viola la propria Costituzione? Fornire armi agli ucraini aggrediti ci fa divenire cobelligeranti? L’Italia sta rispettando il diritto internazionale?

Questi sono problemi sui quali si intrecciano in modo inestricabile diritto nazionale, diritto europeo e diritto internazionale, perché l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (articolo 10 della Costituzione) e la potestà legislativa statale va esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (articolo 117).

La Costituzione stabilisce che «l’Italia ripudia la guerra» (articolo 11), ma non impone un pacifismo assoluto. I costituenti discussero a lungo sul verbo da adoperare, se «rinunzia» o «condanna», per poi scegliere «ripudia». Aggiunsero che ripudiavano la «guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», quindi non tutte le guerre. Aggiunsero che «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino» (articolo 52) e che «le Camere deliberano lo stato di guerra» (articolo 78). Quindi, la Costituzione non bandisce la guerra, esclude solo quella di offesa, e solo a certe condizioni. Queste norme furono il frutto di una «ispirazione comune», come osservò Meuccio Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione.

Se è vietata la guerra di offesa, mentre è consentita quella di autodifesa, è consentita anche quella di difesa di altri popoli? In altre parole, l’autodifesa si estende anche ad altri? L’articolo 11, quello sul ripudio delle guerre di offesa, continua disponendo che l’Italia promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni. È a questo scopo che l’Italia ha sottoscritto la Carta delle Nazioni Unite, le cui disposizioni si intrecciano dunque con quelle costituzionali, che esse stesse consentono «limitazioni della sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni». L’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite consente l’autotutela, sia individuale, sia collettiva, nel caso di un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite. Questa norma non è diversa, nel contenuto, dall’articolo 52 del codice penale italiano, che prevede il cosiddetto soccorso difensivo.

Il diritto di difesa collettiva sancito dalla Carta dell’Onu ha poi avuto, negli ultimi venti anni, una applicazione particolare nei casi di crimini di guerra e contro l’umanità, tanto numerosi in Ucraina: si è affermato il principio della «responsabilità di proteggere», perché i membri della comunità internazionale debbono assistere singoli Stati a prendere appropriate iniziative collettive anche a difesa di altre nazioni. Sono quasi 150 le risoluzioni di organi dell’Onu che, a partire dal «World Summit» del 2005, hanno fatto valere tale responsabilità.

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Crisi del grano: come Putin sta forzando l’immigrazione dall’Africa verso l’Europa

lunedì, Giugno 6th, 2022

di Francesco Battistini, Milena Gabanelli e Massimo Sideri

La Russia, con 10,1 miliardi di dollari di valore all’anno, è il primo esportatore di grano al mondo. Può non sembrare enorme rispetto ad altri mercati (gas e petrolio), ma da essa dipende la maggior parte dell’apporto calorico e del foraggio da animali da allevamento in molti Paesi poveri. E si tratta di grano tenero, quello per fare il pane, che ha un peso importante sui panieri dei prezzi di tutti i Paesi: come per l’energia, chi controlla il grano controlla il carovita. Una lista dei Paesi che dipendono per più del 50% delle proprie importazioni dal grano russo fornisce un’idea accurata del peso di Vladimir Putin nella geopolitica della fame: secondo la Fao, Kazakhstan, Mongolia, Armenia, Azerbaijan e Georgia dipendono quasi al 100% dal grano russo, mentre hanno una dipendenza tra il 50 e il 100% Bielorussia, Turchia, Finlandia, Libano, Pakistan e molti Paesi africani.

La vera vittima: l’Africa

L’Egitto comprava dall’Ucraina il 22% del proprio fabbisogno, la Tunisia il 49%, La Libia il 48%, la Somalia il 60%, il Senegal il 20%, la Repubblica Democratica del Congo il 14%, la Tanzania il 4%, il Sudan il 5%. Come è noto questo grano è bloccato. Ma cosa sta accadendo nei porti russi? I numeri ci svelano che il granaio del mondo non ha mai smesso di mandare grano verso Turchia, Medio Oriente e i clienti africani: l’Egitto continua a ricevere da Mosca il 60% del proprio grano importato, la RDC il 55%, la Tanzania il 60%, il Senegal il 46%, il Sudan il 70%, la Somalia il 40%, il Benin il 100%, e di poco si discosta l’Eritrea.

Numeri che fanno comprendere bene alcune solide alleanze che si sono venute a creare in questi mesi sullo scacchiere della guerra russa contro l’Ucraina. In primis la Turchia, un Paese che ha un’importanza strategica visto lo sbocco del Mar Nero sullo stretto dei Dardanelli: non è un caso che all’inizio della Prima guerra mondiale proprio in questo imbuto si giocò una strategia «della fame» simile a quella che sta creando la Russia bloccando le navi ucraine. L’Impero Ottomano bloccò il passaggio del grano verso il Mediterraneo per colpire Francia e Gran Bretagna. Questo causò già allora un’esplosione dei futures sul grano (+ 45%) sulla Borsa di Chicago, ancora oggi la maggiore piazza al mondo per le materie prime. I futures sono dei prodotti finanziari che ne permettono l’acquisto a un prezzo atteso in una data futura.

La storia si ripete

La stessa missione navale Ue per scortare i carichi di grano ucraini, se mai ci fosse, avrebbe bisogno del placet di Ankara: la Convenzione di Montreux del 1936 stabilisce che, quando c’è una guerra nell’area, spetta alla Turchia l’ultima parola su chi può navigare attraverso i Dardanelli e il Bosforo. Solo Bulgaria e Romania, altri due Paesi rivieraschi e membri della Nato, avrebbero il diritto di scortare i convogli navali. Per inciso, gli altri maggiori esportatori di grano, Europa a parte, si trovano tutti distanti dal Mediterraneo: sono Canada, Argentina, Stati Uniti e Australia. In tutto il mondo, nel 2021, sono stati prodotti 777 milioni di tonnellate di grano (tipo wheat): la produzione negli ultimi dieci anni, come è accaduto con tutti i cereali (2.799 milioni di tonnellate totali), è aumentata. Ma, di pari passo, sono cresciuti anche gli stock, cioè le capacità di conservazione che per il grano può superare i due anni.

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Ucraina Russia, news sulla guerra di oggi | Johnson invia a Kiev nuovi lanciarazzi. Navi russe verso l’Africa con il «grano rubato»

lunedì, Giugno 6th, 2022

di Francesco Battistini, Lorenzo Cremonesi e Redazione Online

Le notizie di lunedì 6 giugno sulla guerra, in diretta. Il Regno Unito fornirà all’esercito di Kiev lanciarazzi con un raggio di 80 chilometri per contrastare l’offensiva russa

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• La guerra in Ucraina è arrivata al 103esimo giorno. E dopo oltre un mese, le bombe tornano a Kiev. Un bombardamento russo ha colpito ieri all’alba una fabbrica nella zona orientale della capitale ucraina: «obiettivo militare», per Mosca.
• «I russi controllavano il 70% di Severodonetsk, ma nel giro di due giorni sono stati respinti, ora la città è divisa a metà», ha detto il governatore di Lugansk Serhiy Gaidai.
La consegna di nuove armi a Kiev da parte dei suoi alleati – secondo il presidente russo Vladimir Putin – ha il solo obiettivo di «estendere il conflitto il più possibile». «Se l’Ucraina avrà missili a lungo raggio – avverte – colpiremo nuovi siti». Kiev all’Occidente: serve aiuto costante fino alla vittoria.
• Mosca attacca Roma: campagna italiana anti russa. Di Maio replica: basta mistificazioni

Ore 08:55 – Kiev: «Severodonetsk sotto attacco russo, colpite città vicine»

Continua l’assalto russo su Severodonetsk, nella regione di Luhansk, dove le forze armate di Mosca stanno lanciando colpi di mortaio e di artiglieria contro i soldati ucraini che difendono la città. Lo riferisce l’esercito ucraino, spiegando che nell’attacco russo sono anche state colpite le vicine città di Slovyansk, Lysychansk e Orikhove. Danneggiate, inoltre, infrastrutture nelle città di Metolkino, Borivske, Ustynivka e Toshkivka, secondo l’ultimo rapporto diffuso dallo stato maggiore delle forze armate ucraine. Le forze russe stanno anche bombardando le infrastrutture civili degli insediamenti di Chernihiv e Sumy.

Ore 08:42 – Salvini: spero non serva votare su nuove armi

«Spero che non ci sia bisogno di votare un nuovo invio di armi e che si voglia usare la diplomazia». Sono le parole del segretario della Lega Matteo Salvini ai microfoni di del programma Aria pulita su 7 gold, rispondendo alla domanda su cosa voterebbe. Prima possibile bisogna aprire «Il tavolo di dialogo, che potrebbe essere in Turchia, a me piacerebbe fosse in Vaticano, e poi saranno Ucraina e Russia a decidere».

Ore 08:21 – 31.250 soldati, e 14 generali

Sarebbero 31.250 i soldati russi che hanno perso la vita nel corso di questi 103 giorni di guerra in Ucraina. A fornire il conteggio sono le forze armate di Kiev: come sempre, non ci sono conferme ufficiali da parte di Mosca.

Nel suo aggiornamento sulle perdite subite finora dall’esercito russo, lo Stato maggiore di Kiev indica anche di aver distrutto 176 elicotteri e 551 droni, 1.386 carri armati, 690 pezzi di artiglieria, 3.400 veicoli blindati per il trasporto delle truppe, 125 missili da crociera e 13 navi.

A fare rumore, però, oltre a queste cifre (immense), è il conteggio dei generali di Mosca che sarebbero caduti nel corso della «operazione speciale»: se venissero confermate le morti di Berdnikov e di Kutuzov, sarebbero almeno 14 gli alti ufficiali di Mosca uccisi dalle truppe di Kiev.

Ore 07:53 – I prezzi che salgono (anche da noi)

«Non ci fosse la guerra, sarebbe la grande storia di oggi: l’inflazione rialza la testa, torna in Italia e in Europa un animale che i più giovani non sapevano neanche esistesse. Ma con quali conseguenze?».

Sono queste le prime parole del primo numero di Whatever it takes, la nuova newsletter settimanale firmata da Federico Fubini, e dedicata agli abbonati al Corriere della Sera (ma la si può provare gratis per 30 giorni; basta cliccare qui).

La risposta non è immediata, ma Fubini spiega, anzitutto, le differenze tra l’inflazione in Europa e quella negli Stati Uniti:

«L’inflazione che abbiamo in Europa e in Italia è frutto del rincaro dei prodotti importati, a partire dagli aumenti dell’energia (più 39% annuo) e del cibo (più 8% circa). Al netto di questi, il carovita non sta mettendo radici. Non ce n’è ancora evidenza, almeno. E questa è una differenza fondamentale con gli Stati Uniti»

Il problema, però, è che «in primavera la fiducia dei consumatori ha messo a segno dei crolli da record, in Europa e in Italia. I rincari di guerra – alla pompa di benzina, al supermarket – portano le famiglie a tagliare su altre spese».

Come può reagire la Bce? Fubini indica una linea che eviti i rischi di chi vuole «giocare a fare lo sceriffo»: ed è quella dell’italiano Fabio Panetta: «se la Banca centrale si intestardisce a riportare molto in fretta l’inflazione al 2% – non potendo lei stessa produrre da Francoforte gas e petrolio a basso costo – dovrà distruggere la domanda e far crollare i prezzi di tutto ciò che non è energia. Cioè, deve riportarci in recessione. E rischiare di mandare alle stelle lo spread dell’Italia. Sarebbe la replica degli errori – passati ormai nei libri di storia su cosa non fare – che la Bce commise nel 2008 e nel 2011, quando alzò i tassi durante la peggiore crisi dal 1929.

Questa settimana il vertice della Bce torna a riunirsi per discutere le prossime mosse. Un ritocco ai tassi in estate sarebbe comunque ragionevole. Ma speriamo non decida di festeggiare… come fosse il 2011».

Qui la newsletter integrale, qui il pulsante per poterla ricevere, ogni lunedì.

Ore 07:41 – Le armi occidentali, Kiev e l’Isola dei serpenti

Il quotidiano bollettino dell’intelligence militare britannica — per quanto tendenzialmente sempre «favorevole» a Kiev — resta una lettura obbligata, ogni mattina, per capire che cosa si stia muovendo sul campo di battaglia, e dove siano puntati gli occhi degli 007 occidentali.

I punti di attenzione sono tre, nel bollettino odierno:

L’attacco a Kiev di ieri: «Alle prime ore del mattino di domenica 5 giugno, missili russi Kh-101 lanciati da caccia di Mosca hanno colpito infrastrutture ferroviarie a Kiev — con ogni probabilità un tentativo di impedire il rifornimento di armi occidentali verso le zone di combattimento, a Est». È la «guerra dei convogli» di cui hanno parlato Andrea Marinelli e Guido Olimpio, qui.

Il Donbass: «Pesanti combattimenti continuano nella città – contesaa – di Severodonetsk. Le forze russe spingono verso Sloviansk, e il loro tentativo è quello di circondare le truppe ucraine».

Il mare: «Dopo aver perso il Moskva ad aprile, le forze russe hanno spostato diversi sistemi di difesa missilistica sull’Isola dei Serpenti, per fornire copertura aerea alle navi che operano nell’area. Quest’attività contribuisce a rendere effettivo il blocco navale delle coste ucraine, e impedisce la ripresa del commercio marittimo — compreso l’export di grano». Con quali conseguenze, lo spiegano Milena Gabanelli, Danilo Taino e Massimo Sideri, qui.

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La campagna della Russia anti Italia pianificata all’inizio di marzo

lunedì, Giugno 6th, 2022

di Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini

La propaganda sulle armi, le sanzioni e la «russofobia» partita dal ministero degli Esteri di Mosca e subito rilanciata da social, influencer e opinionisti

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L’attacco del ministero degli Esteri di Mosca all’Italia per la «violazione dei diritti dei cittadini russi» era stato pianificato già dagli inizi di marzo, pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina. Una campagna di disinformazione che ha due obiettivi: denunciare la «russofobia» e dimostrare che «le sanzioni contro la Russia danneggiano soprattutto i Paesi che le applicano».

È uno dei temi su cui più si mobilita la rete dei sostenitori di Putin politici, influencer, giornalisti freelance — con interviste tv, post sui social network e petizioni, rilanciati dai siti web filorussi. Su questa attività, che punta a diffondere notizie false per scopi di propaganda, l’indagine del Copasir è in fase avanzata.

Gli analisti e gli esponenti del Comitato parlamentare di controllo sull’attività dei servizi segreti prevedono che la pressione aumenterà nei prossimi giorni, come sempre avviene in corrispondenza di scadenze politiche e parlamentari cruciali: il 21 giugno il premier Mario Draghi riferirà alle Camere in vista del Consiglio europeo e poi si voterà la risoluzione di maggioranza sulla guerra. Un appuntamento decisivo per chi ha come obiettivo il boicottaggio dell’azione del governo e contesta, oltre alla scelta dell’Italia di aderire convintamente alle sanzioni contro Mosca, l’invio di armi e apparecchiature militari alle autorità ucraine. Come si è visto sin dalle prime settimane del conflitto, la propaganda si attiva per screditare l’azione dell’esecutivo guidato da Draghi e per dimostrare che le sanzioni «danneggiano soprattutto chi le decreta».

La «russofobia»

Il 5 marzo l’ambasciata russa in Italia posta sulla sua pagina Facebook un annuncio esplicito: «A causa dell’aggravata situazione internazionale e della campagna di disinformazione anti russa dei media, il numero di casi di discriminazione nei confronti dei cittadini russi all’estero è aumentato vertiginosamente». Sui canali Telegram viene rilanciato il messaggio per giorni, l’Italia è accusata di essere in prima linea nella «russofobia» e il 28 marzo si avvia la petizione su Change.org «contro la disumanizzazione del popolo russo da parte dei nostri media». Esattamente quanto denunciato dal ministro degli Esteri Sergey Lavrov due giorni fa, nel suo ennesimo attacco al nostro Paese.

Le sanzioni

Negli ultimi giorni la tesi più accreditata dalla rete filorussa è che «la colpa del taglio delle forniture di gas verso l’Europa è dell’Ucraina» e soprattutto che «l’Ue è la vera vittima delle misure contro la Russia». È il cavallo di battaglia della portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova: «Per la mancanza di materie prime russe molti produttori di carta, vetro, cosmetici, potrebbero dover chiudere». Messaggio rilanciato da Cesare Sacchetti, gestore di un canale Telegram con oltre 60 mila iscritti, ritenuto uno degli appartenenti al circuito della disinformazione: «L’Ue è costretta a tornare sui propri passi e pagare il gas in rubli».

Alle sanzioni come boomerang per chi le applica attinge anche il freelance Giorgio Bianchi. Intervenendo il 2 aprile in collegamento dall’Ucraina al convegno della «Commissione dubbio e precauzione», il giornalista definì le sanzioni «la pistola che spara direttamente nelle mutande del contribuente e delle imprese europee». I gruppi filorussi si scatenano su Twitter e Telegram, prendendo di mira il governo italiano anche su aspetti apparentemente minori: «Si è esportato il 20% in meno del vino friulano. Una cosa è certa: le sanzioni all’Italia stanno funzionando».

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Nicola Gratteri: “Il bavaglio ai magistrati è un errore. Così le cosche puntano ai soldi del Pnrr”

domenica, Giugno 5th, 2022

ANNALISA CUZZOCREA

Nicola Gratteri è convinto che la riforma della presunzione d’innocenza sia completamente sbagliata. Secondo il procuratore di Catanzaro, «il rischio è che i magistrati non possano più spiegare ai cittadini le ragioni delle loro scelte».

C’è anche l’esigenza di evitare che l’opinione pubblica condanni un cittadino prima che lo faccia la giustizia, perché spesso ad avere più risonanza è il punto di vista dell’accusa. Non crede che la riforma sia nata per questo?
«Il problema è che da una parte si è ribadito quanto previsto nella direttiva europea del 2016, sulla necessità di assicurare il diritto al riconoscimento della presunzione fino all’accertamento incontrovertibile della colpevolezza. E fin qui va bene. Ma poi si è introdotto un principio, non previsto nella direttiva, secondo cui è vietata ogni forma di comunicazione, da parte delle procure e degli organi di polizia, sull’attività giudiziaria. Da oggi in poi i procuratori parleranno solo per comunicati stampa. Così non sarà più lo Stato a informare, ma gli indagati, gli imputati e i loro avvocati. Che cosa c’entra questo con la presunzione di innocenza? E quando mai si è visto un procuratore della Repubblica affermare in una conferenza stampa che la persona oggetto di custodia cautelare fosse colpevole, prima del processo?».

Ammetterà che spesso, a fronte di errori giudiziari e processi lunghissimi, la reputazione di persone innocenti è stata distrutta per sempre.
«Spiegare, in modo corretto e oggettivo, che cosa abbia fatto lo Stato, è importante per i cittadini. Si pensi agli imprenditori, vittime di estorsione, che decidono di collaborare. Illustrare questo tramite gli organi di stampa è importante per sollecitare le persone a fidarsi dello Stato. Francamente trovo molto strano che l’Ordine dei giornalisti, quando si stava discutendo l’approvazione, non abbia detto nulla».

Il governatore di Bankitalia Visco ha detto che il rischio principale del Pnrr al Sud è l’infiltrazione della criminalità organizzata. Cosa bisognava fare, secondo lei, che non si è fatto?
«Penso che il rischio di infiltrazione non riguardi solo il Sud, ma l’intero Paese. Da tempo le mafie si sono radicate lontano dai territori d’origine e rischiano di rilevare, ancora di più a buon mercato, le imprese in difficoltà. Secondo me c’è stato un abbassamento di attenzione nella lotta alle mafie. Da quando hanno cominciato a centellinare la violenza, sono sparite dal dibattito politico. Purtroppo, per certe persone, le mafie esistono solo quando sparano, ma in realtà quando sono silenti sono ancora più pericolose. L’impatto economico delle mafie, per esempio, non consiste solo nel valore del loro fatturato, ma anche in quello derivante dalle distorsioni della spesa pubblica e dai condizionamenti che possono esercitare sugli appalti pubblici e nel saccheggio delle risorse destinate ai territori. Le distorsioni della concorrenza indeboliscono le imprese sane e creano il terreno di coltura ideale per garantire il radicamento delle mafie».

Ci sono segnali che la ‘ndrangheta sia interessata ai fondi europei?
«Più che segnali ci sono certezze. Le mafie hanno sempre trasformato le crisi in opportunità. Si stanno organizzando soprattutto nei Comuni, nelle Regioni, dove le risorse del Pnrr verranno spese. Servono più attenzione e più controlli. Bisogna tenere gli occhi sempre aperti».

Perché se ne parla sempre meno, tranne che per celebrare anniversari?
«C’era chi sosteneva che bisognasse convivere con le mafie. Hanno sempre goduto di una lunga e colpevole legittimazione, anche da parte di chi avrebbe dovuto combatterle. Ce lo dice la storia del nostro Paese. Se hanno messo radici anche al Nord, le ragioni vanno principalmente ricercate in quegli ambienti politico-imprenditoriali che con le mafie hanno scelto di adottare logiche di pura convenienza».

Lei ha duramente criticato la riforma Cartabia, soprattutto sull’improcedibilità.
«La politica non può pensare di accorciare i tempi della giustizia intervenendo con la tagliola dei termini che, si sa già, con questo sistema non potranno mai essere rispettati. È uno schiaffo alla gente onesta, alle vittime, che si aspettano risposte dalla giustizia e invece verranno mortificate nelle loro aspettative. Per accorciare i tempi ci voleva ben altro. Prima di tutto uomini (magistrati, personale amministrativo e di polizia giudiziaria) e mezzi adeguati rispetto a una mole di affari giudiziari elefantiaca».

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