La premessa, non di maniera, è che tutto ancora è in corso. E dunque tutto potrebbe ancora accadere. Ma quello che è successo, è già abbastanza: l’Italia nelle ultime 24 ore è stata il teatro di un combattimento, come mai se n’erano visti nel nostro paese. La sua infrastruttura più strategica in materia di sicurezza informatica, l’Agenzia nazionale per la cybersicurezza, è finita sotto attacco da parte degli hacker russi del collettivo Killnet. Un attacco di Ddos, dunque in grado di bloccare la rete ma non di esfiltrare dati. Un attacco dimostrativo più che offensivo ma che potenzialmente, in termine di immagine per lo meno, avrebbe potuto avere effetti disastrosi. Così, però, non è stato. I nostri tecnici per dieci ore hanno affrontato la mole di dati che i russi, in tre momenti diversi della giornata, hanno scaraventato loro contro. E sono riusciti a non mandare in blocco l’infrastruttura e a reggere il colpo. Tanto che in nottata, a metà tra il cavalleresco e lo scherno, gli stessi hacker di Killnet hanno offerto l’onore delle armi all’Agenzia guidata dal professor Roberto Baldoni, con al fianco Nunzia Ciardi, ex capo della Polizia postale: “Csirt (l’acronimo del Computer security incident respons team, il sito attraverso il quale l’Agenzia indica gli alert e i report sugli attacchi informatici, ndr): sono eccellenti gli specialisti che lavorano in questa organizzazione. Abbiamo effettuato migliaia di attacchi e al momento vediamo che questi ragazzi sono dei bravi professionisti! Governo italiano, ti consigliamo di aumentare lo stipendio di diverse migliaia di dollari a questa squadra. CSIRT Accettate i miei rispetti, signori!”. Ma che è successo? Come è stato raccontato, dopo una prima offensiva cominciata il 12 maggio i russi di Killnet – ufficialmente hacker autonomi ma che in realtà si muovono come terza gamba del Cremlino – hanno annunciato un nuovo attacco contro l’Italia. Fino a questo momento hanno attaccato i siti di aziende e istituzioni, cercando di paralizzarne i servizi. In almeno due casi hanno, però, provato anche a rubare dati: la Polizia è riuscita a evitare l’intrusione nei propri database mentre non è ancora chiaro se siano riusciti a entrare in quelli del Ministero degli Interni. Su questo sta indagando comunque la procura di Roma che ha aperto un fascicolo per terrorismo. Come si diceva, i russi sono tornati alla carica nei giorni scorsi annunciando un attacco tra il 29 e il 30 maggio. Che c’è stato.
Snam porta a casa la prima delle due
navi rigassificatrici che permetterà al nostro Paese di utilizzare gas
naturale liquefatto per sostituire le importazioni di metano dalla
Russia e che contribuirà a sganciarci dalla dipendenza da Mosca.
Il gruppo guidato da Stefano Venier ha annunciato di aver chiuso il
contratto per l’acquisto della Fsru (Floating storage and regasification Unit)
su cui stava lavorando da quando il governo italiano ha deciso la nuova
politica energetica. «Snam e Golar Lng Limited – si legge nella nota
inviata poco dopo le 7 e 30 del primo giugno – hanno firmato un
contratto per l’acquisizione, da parte del gruppo Snam, del 100% del
capitale sociale di Golar Lng NB 13 Corporation, che possiede come unico
asset la nave di stoccaggio e rigassificazione (Fsru) “Golar Tundra”,
per un corrispettivo di 350 milioni di dollari (circa 330 milioni di
euro)».
Golar Tundra, 5 miliardi di metri cubi di gas
L’operazione è stata approvata dal consiglio di amministrazione di Snam il 30 maggio. La Golar Tundra può operare sia come nave metaniera per il trasporto del gas naturale liquefatto (Lng) sia come Fsru, cioè come per lo stoccaggio e la rigassificazione. Costruita nel 2015, Golar Tundra ha una capacità di stoccaggio di circa 170.000 metri cubi di gas naturale liquefatto e una capacità di rigassificazione continua di 5 miliardi di metri cubi l’anno. «Si prevede che la Fsru possa iniziare la propria attività nel corso della primavera del 2023, a valle della conclusione dell’iter autorizzativo e regolatorio e della realizzazione delle opere necessarie al collegamento alla rete di trasporto».
Venier: «Maggiore sicurezza e diversificazione»
«Con l’acquisto della Golar Tundra – ha commentato l’amministratore delegato Stefano Venier – Snam compie un passo decisivo per favorire una maggiore sicurezza e diversificazione degli approvvigionamenti energetici dell’Italia, in linea con la propria missione. Il ruolo della nuova Fsru a beneficio del Paese sarà essenziale: da sola potrà contribuire a circa il 6,5% del fabbisogno nazionale, portando la capacità di rigassificazione italiana a oltre il 25% della domanda. Snam ha completato l’operazione con rapidità ed efficacia in un mercato caratterizzato da un elevato livello di competitività e scarsità dell’offerta e continua a lavorare alla ricerca di una seconda Fsru di dimensioni simili, sulla quale è attualmente in corso una negoziazione in esclusiva che si prevede possa concludersi entro fine giugno». La nave è stata acquistata dallo stesso gruppo da cui Snam il 18 maggio ha acquistato la piccola Fsru Golar Arctic che servirà a portare il gas in Sardegna, unica regione d’Italia che ne è ancora priva. Si tratta di una società fondata nel 1946in Norvegia con sede a Bermuda e quotata al Nasdaq di New York.
Nella strage alla scuola elementare di Uvalde, Texas, è stato usato l’AR-15: un fucile semiautomatico progettato dagli americani per il conflitto in Vietnam. Si tratta di un’arma micidiale che spara a raffica proiettili piccoli e velocissimi, colpiscono l’obiettivo a 800 metri al secondo, con caricatori da 45 o 60 colpi. Quando il proiettile colpisce una parte dura, perde stabilità e traiettoria dentro al corpo umano devastandolo. Se colpisce una spalla, il foro di uscita lo trovi dietro la schiena all’altezza del fegato. È un’arma da guerra, ma venduta negli Usa anche come arma da caccia o difesa personale. L’AR-15 è stato utilizzato per compiere la strage di Aurora, Colorado, nel luglio 2012 (14 vittime); Newtown, Connecticut, dicembre 2012 (27 vittime alla scuola elementare «Sandy Hook» di cui 20 bambini tra i 6 e i 7 anni); San Bernardino, California, dicembre 2015 (14 vittime); Orlando, Florida, giugno 2016 (49 vittime); Parkland, Florida, febbraio 2018 (17 studenti al liceo «Marjory Stoneman Douglas»). E infine i 19 bambini e 2 insegnanti di Uvalde. Nessun poliziotto armato di pistola può fronteggiare un soggetto con in mano un AR-15.
Il Secondo emendamento della Costituzione americana risale al 1791,
e proclama il diritto dei singoli cittadini a possedere armi per
difendersi. Nel 1934 il governo statunitense interviene per la prima
volta con una interpretazione restrittiva della norma imponendo limiti e
controlli con il National Firearms Act:
registrazione di alcune categorie di armi (fucili a canna rigata e
fucili a canna liscia inferiore a 18 pollici, armi con silenziatore,
mitragliatrici), il divieto di possedere fucili senza il porto d’armi e
ne scoraggia l’uso con una tassa di 200 dollari. Nel 1968 c’è un nuovo
intervento normativo con il Gun Control Act che vieta trasferimenti interstatali di armi da fuoco e l’acquisto di pistole e fucili per corrispondenza.
Reagan e la lobby delle armi
La storia si allenta negli anni 80, quando Reagan, il primo presidente eletto con l’appoggio della lobby delle armi, la NRA, presenta il «Firearm Owners’ Protection Act», legge che abroga parzialmente le limitazioni, ma stabilisce il divieto della vendita libera di fucili automatici ai civili. Nel 1992 tornano i democratici al potere e Bill Clinton vara il «Brady Bill», che rende più difficile l’acquisto di una pistola, e «l’Assault Weapons Ban», bando sulle armi d’assalto come i fucili semiautomatici tipo l’AR-15, e limita anche il numero di proiettili per caricatore. Nel 2004 l’amministrazione Bush non rinnova il bando, ma la svolta arriva tra il 2008 e il 2010 con le sentenze «District of Columbia v Heller» e «McDonald v City of Chicago». La corte Suprema, presieduta dal conservatore Antonin Scalia stabilisce che possedere armi per la difesa personale è un diritto fondamentale dei cittadini su tutto il territorio nazionale.
A
ripensarci tanti anni dopo, la frattura monarchia-repubblica aperta dal
referendum del 2 giugno del 1946 fu ricucita in un tempo
sorprendentemente breve. E non era stata certo una spaccatura da poco:
quasi undici milioni di italiani, pari al 45,7% dei votanti su scala
nazionale e maggioranza nel Meridione, avevano votato per conservare la
monarchia sabauda. Il clima era stato così incandescente («o la
Repubblica o il caos», aveva minacciato Nenni) che le accuse di brogli
durarono per anni. De Gasperi, ben consapevole del radicamento della
causa monarchica nel Paese, aveva voluto il referendum proprio per
togliere alla Dc la responsabilità della decisione. Non a caso la scelta
dei due primi capi dello Stato, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, cadde
su personalità che avevano votato per la monarchia al referendum.
Eppure, in pochi anni, la delicatissima questione della forma di Stato smise di essere una causa di conflitto politico.
La Repubblica seppe assorbire il dissenso, grazie alla crescita
economica e ai massicci investimenti pubblici nel Mezzogiorno, guidati
dalla Dc; e grazie alla scelta del Pci di Togliatti di accettare il
gioco democratico nell’arena costituzionale garantita dalla scelta
repubblicana. Già alla fine degli anni ‘50 i partiti monarchici avevano
esaurito la loro forza politica, nonostante il successo locale del
laurismo a Napoli.
Ben diversamente le cose andarono con l’altra
grande frattura politica che segnò il primo dopoguerra: quella tra i
sostenitori dell’adesione italiana alla Nato e i suoi contestatori.
Tra chi scelse l’Occidente e gli Stati Uniti nella nuova divisione del
mondo e chi invece immaginava di poter stare dall’altra parte nella Guerra Fredda incipiente, con il comunismo e con l’Urss.
Ci fu anche nel mondo cattolico una spinta per tenere una
posizione «neutralista», o l’illusione di un possibile «terzaforzismo»
per il nostro Paese. Ma il dissenso
nella Dc, che De Gasperi aveva tollerato sulla monarchia, venne invece
combattuto e sconfitto sulla questione delle alleanze internazionali.
Così il Pci, che pure aveva fatto fronte comune con gli altri partiti
antifascisti per far nascere la Repubblica e aveva poi partecipato a
scriverne le regole nella Costituzione, finì all’opposizione per i
successivi quarant’anni, fino a Berlinguer. E anzi le onde d’urto
provocate da quella frattura sembrano essere arrivate fino ai giorni
nostri: se ne sente un’eco nelle polemiche dei filo-russi contro il
sostegno all’Ucraina dell’Italia.
Questi precedenti storici ci dicono che, contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, perfino
una questione istituzionale serissima come quella della monarchia può
essere risolta con gli strumenti della politica e con il compromesso.
Ne è un magnifico esempio la Quinta Repubblica francese, di fatto una
«monarchia repubblicana». Non così è per la politica estera, che in
definitiva è l’essenza della politica, perché il suo oggetto è
l’interesse nazionale.
Ogni qualvolta si presenta in termini da reclamare scelte di
campo — e il tempo che stiamo vivendo è una di quelle volte — impone
decisioni nette e conseguenti. Non è aggirabile con giochi di parole e
soluzioni pasticciate. Ogni crisi internazionale — come ha scritto di recente Angelo Panebianco —
lascia un panorama politico che non sarà mai più quello di prima. Si
può infatti dire — ed è stato detto — che l’atto di nascita della
Repubblica italiana è duplice: c’è il referendum istituzionale del 2
giugno, e ci sono le elezioni del 18 aprile del 1948, che diedero la
maggioranza assoluta alla Dc e aprirono la strada, meno di un anno dopo,
all’adesione dell’Italia alla Nato. Una sorta di Costituzione materiale
che vincolò la Repubblica e si affiancò alla Costituzione vera e
propria, scaturita dal referendum del 1946 e dalla collaborazione delle
forze antifasciste.
Salvini avrebbe partecipato ad
almeno 3 incontri all’ambasciata russa in Italia: il Copasir indaga sul
ruolo di un diplomatico, poi espulso, che avrebbe fatto da tramite. Il
premier: il governo è collocato con Ue e Nato, e non si sposta
MILANO — «Ho raccomandato anche al Copasirche l’importante è che questi rapporti siano trasparenti». Formale e felpata, arriva la chiosa del premier Mario Draghi
(che precisa anche che il governo «è fermamente collocato nell’Ue e nel
nostro rapporto storico transatlantico») a rafforzare il coro di
critiche che hanno investito Matteo Salvini e il suo progetto di missione a Mosca.
Un piano maturato dopo che il leader leghista avrebbe partecipato per almeno tre volte a incontri all’ambasciata russa in Italia.
Salvini persevera per il terzo giorno consecutivo nel suo insolito
silenzio in piena campagna elettorale. E così la scena è tutta o quasi
dei suoi contestatori.
Il segretario pd Enrico Letta
è netto: «Con Salvini l’incompatibilità è totale. Mentre stavamo
discutendo in Europa, Salvini con un non meglio identificato consigliere
che è anche consulente dell’ambasciata russa, andava a cena dall’ambasciatore a fare non si sa cosa».
Il leader dem ne approfitta per avvertire i 5 Stelle in previsione
del 21 giugno: «Nato e Ue sono i pilastri sui quali un governo si regge e
se questi pilastri vengono meno la maggioranza non può stare insieme,
se non è unita su questi temi».
Su Salvini il leader di Azione Carlo Calenda taglia corto: «È un leader abbastanza disperato, dice cose a vanvera».
La replica è affidata, insieme a una serie di dichiarazioni concertate che arrivano alle agenzie in serata, ai capigruppo leghisti di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo: «Attaccare chi vuole la pace non è un bel segnale che arriva dall’Europa. Salvini è l’unico pronto a mettersi in gioco per cercare la via del dialogo». E il vicesegretario Lorenzo Fontana: «Indegno il doppiopesismo nei confronti di Salvini». Di suo, il segretario aggiunge un messaggio destinato a chi ha fatto distinguo (Giorgetti), affidato alla chat del partito: «La Lega è una grande squadra, che ha vinto e vincerà a lungo, per questo il tentativo di alimentare litigi e divisioni si ripete sempre uguale, noioso e inutile».
Diatribe intestine a parte, il progetto salviniano e le modalità con cui si è mosso, a partire dal ricorso al consulente Antonio Capuano e dai rapporti con l’ambasciata russa, continuano ad alimentare la discussione, in Italia e non solo.
I salari troppo bassi e la povertà, ma non solo. Perché sono
tante le disuguaglianze di cui soffre il Paese, avverte Tito Boeri alla
vigilia dell’apertura del Festival internazionale dell’economia che
inizia oggi a Torino sotto la sua direzione.
«Nel Paese – spiega l’economista – come rivela una indagine curata da
Nando Pagnoncelli che presenteremo domani (oggi – ndr), c’è molta
indignazione per i livelli e la natura delle disuguaglianze che sono
nate dopo la pandemia. Sono disuguaglianze diverse, come quelle sulle
condizioni di salute o il livello di apprendimento scolastico dopo la
chiusura delle scuole, che si aggiungono a quelle che già c’erano in
termini di redditi e ricchezza. Disuguaglianze che la gente non è
disposta a tollerare soprattutto quando sono slegate dal merito».
Sui salari a causa dell’inflazione siamo all’emergenza…
«L’inflazione è chiaramente una preoccupazione molto forte,
soprattutto per coloro che hanno redditi fissi: è uno choc in più che si
aggiunge a una situazione già di forte disagio che fa nascere forti
preoccupazioni sulla coesione sociale».
E come si evita il peggio?
«Innanzitutto bisogna cercare di contenere queste disuguaglianze,
perché hanno raggiunto livelli eccessivi, ma soprattutto bisogna che
corrispondano davvero a differenze nell’impegno individuale anziché alla
fortuna oppure ai clientelismi. E soprattutto non devono essere legate a
discriminazioni, altro tema che al festival tratteremo a vari livelli:
discriminazioni di genere (dai divari salariali uomo/donna alle
differenze nelle carriere, all’accesso alle posizioni manageriali),
etniche, legate alle varie disabilità o agli orientamenti sessuali».
Aumentare le paghe serve a sostenere la domanda allontanando la recessione.
«La prima cosa da fare è preoccuparsi dei livelli più bassi. Per cui
in Italia è fondamentale affrontare seriamente la questione del salario
minimo. È disdicevole che la cosa venga continuamente rinviata: questo è
il momento».
Per i sindacati il riferimento sono i minimi fissati dai contratti nazionali.
«No, non è la soluzione, perché i contratti nazionali coprono una
percentuale di lavoratori che è decrescente nel tempo e oggi abbiamo già
più di 3 milioni di lavoratori che hanno salari inferiori ai minimi
stabiliti dalla contrattazione collettiva. Come in Germania anche in
Italia i sindacati dovrebbero prendere atto che, a partire dai servizi,
ci sono tantissimi lavoratori non coperti dai contratti collettivi. Per
questo dovremmo affidarci ad un salario minimo fissato per legge. Poi è
chiaro che dove c’è contrattazione collettiva questo minimo sarà più
alto».
Tanti lavoratori precari e in part-time involontario stanno sotto la soglia di povertà.
«Questo è un altro aspetto del problema, che si affronta con altri
tipi di strumenti, come il reddito minimo garantito. In Italia esiste il
reddito di cittadinanza, che nel momento in cui si introduce un salario
minimo andrebbe però ridefinito. I due livelli vanno coordinati tra di
loro in modo attento, altrimenti si rischia di fare danni».
L’embargo dell’Europa al petrolio russo scatterà alla fine
dell’anno e prevede lo stop alle importazioni via mare. L’Italia, ha
detto il premier Mario Draghi, non esce penalizzata dal nuovo accordo
sulle sanzioni, e il motivo è presto detto: nel 2021 il 10% del greggio
che l’Italia importa è di origine russa, pari a 5,7 milioni di
tonnellate. E anche il 10% dei prodotti petroliferi importati viene da
Mosca. I due terzi dei barili che arrivano nel nostro Paese sono
destinati alla raffineria di Priolo, nel siracusano, dove si concentra
un quinto della produzione di carburanti. L’altra rotta importante è
verso il porto di Trieste, ma per il resto le quantità di greggio e
prodotti petroliferi destinate al mercato italiano rappresentano una
quota non particolarmente significativa. Quindi, il piano messo in campo
dal governo per ridurre la dipendenza dal gas di Putin vale anche per
l’oro nero: incrementi degli stoccaggi e import dall’Africa.
Le conseguenze però le sentiranno, eccome, i lavoratori della
raffineria di Priolo di proprietà della russa Lukoil. L’altro effetto
sarà il rialzo della benzina, visto che le quotazioni del petrolio
stanno risalendo.
I costi Ieri a Londra i prezzi del petrolio hanno
superato i 124 dollari al barile, dopo l’accordo dei leader europei. Il
presidente degli Usa Joe Biden ha chiesto all’Opec di aprire i
rubinetti e sta valutando una visita in Arabia Saudita, ma il principe
Faisal bin Farhan la scorsa settimana a Davos ha detto che l’Opec ha già
fatto tutto il possibile per stabilizzare i mercati. L’Opec+, il
cartello petrolifero a guida saudita allargato alla Russia, sarebbe
intenzionato a mantenere invariati i piani di produzione di greggio,
nonostante l’accordo di Bruxelles. Per il Wall Street Journal alcuni
membri dell’Opec stanno valutando l’ipotesi di sospendere la Russia dal
cartello.
Il governo Draghi ha tagliato le accise sulla benzina garantendo uno
sconto di 30 centesimi al litro alla pompa, tuttavia questo
provvedimento scadrà l’8 luglio.
La media nazionale della benzina in modalità self service la
settimana scorsa (23-29 maggio) si è attestata a 1,885 euro al litro,
circa un centesimo in più rispetto alla settimana precedente quando era a
1,873 euro. Il gasolio, sempre al self, a quanto emerge dai dati del
ministero della Transizione ecologica, tocca 1,812 euro al litro, quasi
un centesimo in meno della settimana precedente (1,819).
Le rotte
Secondo il Financial Times l’Italia negli ultimi anni ha
quadruplicato le importazioni del greggio russo, diventando uno dei
migliori clienti di Putin. Rispetto a prima della guerra in Ucraina, nel
nostro Paese giungono da Mosca 450 mila barili al giorno. Per trovare
un precedente simile bisogna tornare indietro di dieci anni. Tuttavia,
scrive il quotidiano finanziario britannico, una parte di questi barili
transita solamente in Italia per poi finire in Germania. Il greggio
“italiano” è consumato soprattutto dai trasporti su strada; la domanda
dei tir per il gasolio, ad esempio, è altissima. L’intesa siglata dai
Paesi Ue blocca l’export del petrolio russo via mare, mentre continuerà a
viaggiare negli oleodotti, almeno per ora. Si tratta di un compromesso
raggiunto per ottenere il sì dell’Ungheria. Comunque, complessivamente
l’embargo riguarderà i 2/3 dell’oro nero del Cremlino e scatterà tra
otto mesi. Alcune eccezioni saranno concesse alla Repubblica ceca per 18
mesi e fino al 2024 per la Bulgaria. Allo stop alle navi si dovrebbe
aggiungere anche quello di Polonia e Germania dai tubi. Intanto, Italia,
Austria, Repubblica ceca e Germania stanno stringendo un patto per
potenziare la pipeline che parte da Trieste.
Le forniture Davide Tabarelli, presidente di
Nomisma Energia, contattato da La Stampa, sottolinea proprio come
l’accordo sull’embargo spingerà inevitabilmente i costi dei carburanti:
«Dopo l’intesa europea il prezzo del petrolio è aumentato di tre
dollari, la benzina arriverà a nuovi picchi». Il premier Mario Draghi ha
definito la decisione Ue «un grande successo», Tabarelli è d’accordo
dal punto di vista politico, ma è molto cauto sul futuro che attende
l’Italia: «Sotto il profilo energetico abbiamo dei problemi, sostituire
questi volumi non sarà così facile, la domanda sta tornando ai livelli
pre-pandemici del 2019: parliamo di 100 milioni di barili al giorno per
tutto il mondo, l’Europa ne consuma 10 milioni e ne importa tre dalla
Russia». In più, «veniamo da otto anni in cui non sono stati fatti
investimenti sulla capacità produttiva».
ROMA. L’inflazione fa segnare un’altra fiammata record, ma
per il governatore di Bankitalia bisogna tener duro ed evitare di
innescare una rincorsa tra prezzi e salari, a suo giudizio «vana»,
limitandosi semmai a concedere aumenti una tantum. Visco ha da poco
iniziato a leggere le sue «considerazioni finali» che l’Istat scodella i
dati preliminari sui prezzi a maggio. Ed è uno choc: dopo il calo di
aprile legato alle misure del governo, l’indice sale di 0,9 sul mese
precedente e addirittura di 6,9 punti rispetto al 2021. Si tratta di un
livello che non si registrava dal 1986 e che per i consumatori si
traduce in media in una stangata da 2.421 euro a famiglia.
Colpa (ancora) del caro energia (+42, 2% in 12 mesi), ma anche dei
rincari di alimentari e trasporti. Il risultato finale è una inflazione
acquisita per il 2022 che sfiora al 5,7% ed una inflazione di base al
3,5% che desta a sua volta allarme. Inevitabile che ripartano le
polemiche sulla perdita del potere dei salari su cui tornano ad
insistere i sindacati.
Per Visco la guerra sta determinando «un significativo rallentamento
dell’economia mondiale» e a suo giudizio l’inflazione resterà a livelli
elevati quest’anno per poi calare nel 2023. «L’aumento dei prezzi delle
materie prime importate è una tassa ineludibile per il Paese» ha poi
aggiunto. Più che la politica monetaria, che ha il compito di assicurare
la stabilità dei prezzi nel medio termine, però tocca soprattutto al
governo intervenire con «opportuni interventi di bilancio di natura
temporanea, calibrati con attenzione alle finanza pubbliche» allo scopo
di contenere i rincari delle bollette energetiche e sostenere il reddito
delle famiglie. Attenzione, però: «L’azione pubblica può ridistribuirne
gli effetti tra famiglie, fattori di produzione, generazioni presenti e
future, non può annullarne l’impatto d’insieme».
Sui contratti, per ora, la situazione appare sotto controllo visto
che non si registrano «segnali di trasmissione delle pressioni dai
prezzi alle retribuzioni». Stando alla relazione annuale di Bankitalia
sino ad oggi «la crescita delle retribuzioni minime stabilite dalla
contrattazione nazionale è stata molto contenuta (0, 9% nel settore
privato non agricolo, 0, 6% nel complesso dell’economia)». Questo perché
gli accordi in vigore sono stati in larga parte rinnovati prima
dell’incremento dell’inflazione e perché la debolezza della domanda ha
rallentato le trattative nei settori dei servizi più colpiti dalla
pandemia (commercio, ristorazione, alberghi). E anche le trattative in
corso nei settori chimico-farmaceutico, delle assicurazioni e
dell’energia, pur prefigurando rialzi superiori rispetto al passato,
presentano nel complesso richieste moderate.
AGGIORNAMENTI DALL’UCRAINA DI MONICA PEROSINO, NICCOLÒ ZANCAN. DIRETTA A CURA DI DANIELA LANNI, MARINA PALUMBO
È il 98° giorno di guerra in Ucraina. Gli Stati Uniti forniranno
all’Ucraina sistemi missilistici Himars, che hanno una gittata di 80
chilometri. Lo riferiscono fonti dell’amministrazione dopo che Joe
Biden, in un editoriale sul New York Times, ha annunciato l’invio a Kiev
di sistemi missilistici più avanzati.
L’Ue sembra aver trovato l’accordo sull’embargo al petrolio russo: il
sesto pacchetto di sanzioni prevede lo stop immediato al greggio via
mare. Rinviato invece l’embargo per quello trasportato da oleodotti. In
queste ore però l’Unione europea starebbe valutando la possibilità di
introdurre dazi al petrolio russo in arrivo via oleodotti nel caso in
cui non si arrivasse a un accordo chiaro sulla scadenza delle deroghe
prevista dall’intesa al vertice europeo per Paesi che non hanno sbocco
sul mare: in particolare le deroghe riguardano gli Stati dove arriva
l’oleodotto Druzhba, tra i quali l’Ungheria di Orban.
Oggi si deciderà della black list del sesto pacchetto di sanzioni e
il patriarca Kirill potrebbe essere incluso nella lista nera. I leader
Ue sono pronti inoltre a offrire 9 miliardi di euro per le esigenze
immediate e l’avvio della ricostruzione dell’Ucraina.
Roman Abramovich ha intentato una causa presso la Corte europea della
Giustizia di Lussemburgo contro il Consiglio dell’Unione europea per le
sanzioni adottate nei suoi confronti in seguito all’invasione russa
dell’Ucraina. La causa del magnate russo è stata registrata dal
tribunale il 25 maggio scorso.
Il ministro degli esteri russo, Serghei Lavrov, sarà in visita in
Turchia la prossima settimana per discutere della creazione di “corridoi
sicuri” per il trasporto del grano ucraino, come annunciato dal suo
omologo turco Mevlut Cavusoglu.
Intanto Putin avrebbe dato l’ordine di occupare l’intera regione di
Lugansk e Donetsk entro il 1° luglio. E il Consiglio norvegese per i
rifugiati fa sapere che circa 12.000 civili sono intrappolati a
Severodonetsk e l’amministrazione militare di Kiev ha riferito che è in
costruzione la prima linea di difesa della capitale, per fronteggiare un
eventuale nuovo attacco russo.
Segui gli aggiornamenti ora per ora
08.40 – Il Canada ha imposto sanzioni a 22 persone e a 4 società russe Il
Canada ha imposto sanzioni a 22 persone e a 4 società russe. La
decisione è stata presa in risposta all’invasione dell’Ucraina, come
riporta il sito web del governo canadese. L’elenco delle sanzioni
include funzionari delle istituzioni finanziarie russe e membri delle
loro famiglie, nonché istituzioni finanziarie e banche. La prima nella
lista delle persone è la campionessa olimpica Alina Kabayeva, direttrice
generale del National Media Group e, secondo vari media, compagna e
madre dei figli di Putin.
08.30 – Ucraina: sale a 243 il bilancio bambini morti, 446 i feriti È
salito a 243 il numero dei bambini ucraini morti dall’inizio
dell’invasione russa, mentre 446 sono rimasti feriti. Lo ha riferito
questa mattina il Parlamento ucraino, secondo quanto riporta il Guardian.
08.20 – 007 Gb: “Metà Severodonetsk in mano a russi e ceceni” Oltre
metà di Severodonetsk, la città nell’oblast di Lugansk, da giorni
assediata dalle truppe ucraine, è «ora occupata dalle forze russe, tra i
quali i combattenti ceceni». Lo ha rilevato l’intelligence militare Gb
nel suo ultimo aggiornamento della situazione sul campo in Ucraina. «Le
operazioni di terra russe rimangono strettamente focalizzate», si legge
ancora nel rapporto, «con il peso della potenza di fuoco concentrato in
un piccolo settore dell’oblast di Lugansk. Nel corso del 30-31 maggio, i
combattimenti si sono intensificati nelle strade di Severodonetsk« e
«le forze russe che si sono avvicinate al centro della città».
Gli Usa inviano il
sistema missilistico a lungo raggio HIMARS: l’arma più potente mai usata
da Kiev e che potrebbe colpire anche il territorio russo
07.45 – Zelensky: “Putin male oscuro, Dio da nostra parte” «Dio
è dalla nostra parte» e Putin e la Russia sono «il male oscuro»: lo ha
detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un’intervista
all’emittente Usa, Newsmax.
07.35 – Zelensky: “L’Ucraina non può cedere nulla a Mosca” La
posizione dell’Ucraina come «perimetro difensivo» per il mondo contro
la Russia significa che Kiev non può “cedere” nulla: così il presidente
ucraino Volodymyr Zelenskyy durante un’intervista al sito di notizie
americano Newsmax. «Non siamo pronti a cedere nessuno dei nostri
territori, perché i nostri territori sono i nostri territori: è la
nostra indipendenza, la nostra sovranità; questo è il problema», ha
detto Zelenskyy riconoscendo che «ci sono alcune difficoltà con alcuni
territori. Ci sono alcuni dettagli, ma tutte queste difficoltà
potrebbero essere discusse e quelle discussioni sarebbero necessarie per
fermare la guerra».
07.34 – Zelensky,: “Lanciarazzi Usa solo per autodifesa. Non abbiamo intenzione di attaccare la Russia” I
lanciarazzi a lunga gittata MLRS richiesti agli Stati Uniti non
sarebbero utilizzati dall’esercito ucraino per attaccare il territorio
russo, ma esclusivamente per l’autodifesa contro gli invasori. Lo ha
precisato, in una intervista al canale conservatore americano Newsmax
il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, dopo che nei giorni scorsi
l’invio di tali armi era stato ipotizzato e poi smentito dal presidente
Usa Joe Biden. «So di persone negli Stati Uniti e anche alla Casa Bianca
che pensano che possiamo usare gli MLRS per attaccare la Russia.
Guarda, non attaccheremo la Russia. Non siamo interessati alla
Federazione Russa, non stiamo combattendo sul suo territorio come loro
fanno con noi», ha precisato Zelensky.
05.50 – Zelensky: “Perdiamo tra i 60 e i 100 soldati ogni giorno” L’Ucraina
sta perdendo dai 60 ai 100 soldati ogni giorno, ha detto il presidente
Volodymyr Zelensky in un’intervista al canale americano Newsmax ripresa
da Cnn e Tass. «La situazione nell’Est è molto difficile. Ogni giorno
perdiamo dai 60 ai 100 soldati e contiamo qualcosa come 500 feriti in
combattimento», ha detto Zelensky.