Due convocazioni in due giorni. Il piano di emergenza sulle forniture di gas entra nel vivo. Martedì è prevista una riunione tecnica del Comitato a cui parteciperanno rappresentanti del ministero per la Transizione ecologica, dell’authority Arera, delle società di rete Snam e Terna, dell’Eni, Edison e delle tre aziende di gestione dei rigassificatori: Snam, Olt e Adriatic Lng. Il secondo è un incontro mercoledì alla presenza del ministro Roberto Cingolani e dei vertici delle società coinvolte.
È presumibile che la soglia di allarme sarà alzata al
secondo livello. Una misura precauzionale che non deve preoccupare, che
però serve a monitorare meglio gli approvvigionamenti. Ieri Eni ha
comunicato di non voler rendere più note le richieste a Gazprom. Si
tratta di informazioni sensibili, di valore commerciale e psicologico
visto che ogni annuncio rischia di ripercuotersi sul prezzo-spot del gas
alla Borsa di Amsterdam complicando la vita (e riducendo i margini)
degli operatori che ora devono comprare gas per riempire i depositi.
Descalzi: «Aumentare i flussi dagli altri Paesi»
Ieri
sono finiti 55 milioni di metri cubi negli stoccaggi. Però bisogna
correre di più. Tocca ai 18 operatori coinvolti, tra cui Eni, Edison ed
Enel stessa che deve contribuire alla tenuta del sistema. Il prezzo al
metro cubo però è sette volte quello dell’anno passato, dunque non sono
incentivati a comprare. Nel frattempo, due centrali idroelettriche sono
chiuse a causa della siccità e lo scenario si complica.
L’intervista
«In questo momento — ha detto il ceo di Eni Claudio Descalzi intervenendo
a Repubblica delle Idee — non bisogna temere nulla, bisogna solo temere
l’inazione. Ma se dovessero tagliare adesso non saremmo pronti.
Incominceremo a essere pronti per l’inverno 2022-23. L’augurio è che si
possa mantenere ancora limitato il flusso russo. Gli stoccaggi sono al
54% (della capacità pari a 16,5 miliardi, ndr), dovremmo forzare
ulteriormente l’arrivo da altri Paesi e ci sarà probabilmente uno stato
di allerta e qualche restrizione, ma comunque abbiamo una
diversificazione che ci farà passare l’inverno».
La crisi del gas colpisce imprese e
famiglie. La siccità flagella le nostre campagne. Il Po non è mai stato
così in secca negli ultimi 70 anni. Sono le due grandi emergenze di
questa estate. Più collegate tra loro di quanto non si pensi. Ma la
prima è vissuta, nell’ansia suscitata dalla guerra in Ucraina, come un
dramma globale, la seconda ancora no. Almeno in Italia. Si aspetta la
pioggia, con un certo senso di rassegnazione. Là dove la
desertificazione impoverisce e costringe ad emigrare (profughi della
guerra climatica) il sentimento è assai diverso. In
un rapporto Ipcc, il Gruppo intergovernativo per il cambiamento
climatico dell’Onu, l’area del Mediterraneo è segnalata come quella che
ha avuto il riscaldamento più preoccupante. Il gas in realtà
abbonda, è (solo) una questione di prezzo. Secondo Bp — che una volta si
faceva chiamare British Petroleum — le riserve mondiali accertate
ammontano a 188 mila miliardi di metri cubi. L’acqua no, è via via
sempre più preziosa. Ma nel nostro vissuto quotidiano è come fosse
ancora illimitata e sostanzialmente gratuita, anche se non è così.
Tra i tanti referendum rimasti sulla carta ve n’è
uno, del 2011, sull’acqua bene pubblico e comune che ottenne il quorum
con il 54 per cento dei votanti e un sì pressoché totale. Se l’acqua è
un bene primario — e siamo tutti d’accordo — perché la gestiamo così
male e ne sprechiamo così tanta? Anche il referendum del 2016, quello
contro le trivellazioni in mare, ebbe una valanga di sì.
Non raggiunse il quorum ma gli effetti pratici non
mancarono. E sarebbe curioso sapere come voterebbero oggi quei cittadini
che si opposero di fatto alla produzione nazionale di gas. Perché se oggi estraessimo, ogni anno, 5 miliardi abbondanti di metri cubi (come nel 2017), non rischieremmo il razionamento.
L’anno scorso abbiamo superato di poco i 3 miliardi. Nel 1997 eravamo
intorno ai 20 miliardi, più o meno la quantità importata oggi
dall’Algeria che è diventata il nostro principale fornitore. La volontà
popolare, specie sulle questioni energetiche, non è sempre guidata dalla
saggezza e dalla lungimiranza.
La Snam ha appena acquistato una nave
per la rigassificazione. A regime da sola, vale 5 miliardi di metri
cubi, ovvero il 6,5 per cento del fabbisogno annuale italiano. Ma
dove metterla? Non è invisibile. Ieri a Piombino c’è stata una
manifestazione contraria. Non la vogliono. A Ravenna, altro polo
individuato dal governo, il clima sembra più favorevole. A breve
arriverà un’altra nave per la rigassificazione. Il programma Repower Eu, prevede poi che la produzione di biometano europea passi da 3,2 miliardi di metri cubi a 35 nel 2030.
L’Italia nel riutilizzare a fini energetici i rifiuti e gli scarti
agricoli, cioè nella cosiddetta economia circolare, ha enormi
potenzialità. Oggi produciamo solo 300 milioni di metri cubi di
biometano, si potrebbe arrivare a 8 miliardi nel 2030. Ma come accade
per i termovalorizzatori, gli impianti non piacciono, emettono cattivi
odori. Meglio non averli sotto casa. Ma da qualche parte bisognerà pur
costruirli o no?
La siccità mette in pericolo il 30 per cento delle produzioni agricole con inevitabili riflessi su prezzi e qualità. Sono
già centinaia i comuni, in particolare in Piemonte e in Lombardia, che
hanno chiesto di attuare forme di razionamento, non solo per la mancanza
di acqua ma anche per la scarsa pressione negli acquedotti. La
produzione di energia idroelettrica, la migliore tra le fonti
rinnovabili e soprattutto programmabile, ne ha risentito in maniera
significativa, con cali tra il 40 e il 50 per cento nei primi mesi di
quest’anno rispetto al 2021. Emerge, come strategica la necessità di una
più vasta rete di invasi, indispensabili non solo per assicurare
l’irrigazione dei campi ma anche per limitare i danni di alluvioni. La
dispersione idrica negli acquedotti è ancora intorno al 40 per cento. Il
Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dedica
all’ammodernamento del servizio idrico 3,5 miliardi. Secondo Utilitatis,
gli investimenti (49 euro per abitante) sono in crescita. Ma là dove la
gestione è in economia, cioè pubblica, in comuni con complessivi 8
milioni di abitanti, scendono a 8 euro. La media europea è 100. La
siccità è anche la conseguenza delle nostre miopie e delle nostre
incapacità. Non è solo colpa del riscaldamento climatico.
di Francesco Battistini, Lorenzo Cremonesi, Andrea Nicastro
Le notizie di domenica 19 giugno sulla guerra, in diretta.
• La guerra in Ucraina è arrivata al 116esimo giorno. • Il discorso di Putin al Forum di San Pietroburgo: finito il mondo dominato dagli Usa. • La risoluzione del Movimento 5 Stelle sull’invio di armi all’Ucraina. • Mosca: la vecchia Ucraina con i confini di prima non esiste più. • Josep Borrell: la Russia usa il grano come strumento di ricatto. • La first lady Olena Zelenska: ogni giorno muoiono due bimbi per la guerra. • Dopo avere visitato Mykolaiv, Zelensky è andato nella regione di Odessa.
Mosca ha reagito con durezza alle restrizioni imposte dalla Lituania al
traffico ferroviario di merci tra l’enclave russe di Kaliningrad e il
resto del territorio russo. «L’incipiente blocco» di Kaliningrad viola
la legge internazionale, ha scritto Konstantin Kosachev,
vice presidente del Consiglio della Federazione russa, la camera alta
del Parlamento, in un post su Telegram. «Come stato membro dell’Ue, la
Lituania sta violando una serie di atti internazionali legalmente
vincolanti», ha aggiunto, facendo riferimento all’accordo di partnership
fra Ue e Russia che vieta di interferire nelle rispettive reti di
trasporti. Figura di rilevo nella politica estera russa, Kosachev è
intervenuto dopo che sabato la Lituania ha bandito il transito
ferroviario sul suo territorio di beni soggetti alle sanzioni europee
verso la Russia, in una misura che colpisce il traffico verso l’enclave
baltica, stretta fra Polonia e Lituania. Secondo il governatore di
Kaliningrad, Anton Alikhanov, viene così colpito il 40-50% del transito
di merci, specie per quanto riguarda metalli e materiali da costruzione.
Ore 10:21 – Deputata Kiev, da Usa 1.400 sistemi antiaerei e 6.500 anticarro
Gli Stati Uniti
trasferiscono oltre 1.400 sistemi missilistici di difesa contraerea
Stinger e 6.500 sistemi anticarro portatili Javelin in Ucraina. Lo ha
fatto sapere su Twitter la leader del partito politico ucraino Golos, Kira Rudik,
dopo che il dipartimento di Stato di Washington ha annunciato 1
miliardo di dollari in armi di aiuti a Kiev in settimana. «La lista
include sistemi anti-blindato, droni Switchblade, obici, elicotteri
Mi-17, sistemi Harpoon», ha aggiunto Rudik.
Ore 10:14 – Kiev: nuovi attacchi a Severodonetsk, russi a Metolkine
L’esercito ucraino ha dichiarato che la città assediata di Severodonetsk ha
dovuto affrontare nuovamente un pesante fuoco di artiglieria e razzi
mentre le forze russe attaccavano le aree circostanti. Lo stato maggiore
dell’esercito nel suo bollettino, riporta il Guardian,
ha riconosciuto che le sue forze hanno subito una battuta d’arresto
nell’insediamento di Metolkine, appena a sud-est di Severodonetsk,
mentre continua la battaglia per la città industriale dell’Ucraina
orientale. «A seguito del fuoco di artiglieria e di un assalto, il
nemico ha ottenuto un successo parziale nel villaggio di Metolkine,
cercando di ottenere un punto d’appoggio», ha dichiarato in un post su
Facebook. Sergei Gaidai, il governatore di Luhansk nominato dagli
ucraini, in un altro post online ha parlato di «dure battaglie» a
Metolkine.
Ore 09:36 – Gb: «Morale russi basso. Diserzioni e confusione su obiettivi»
Le forze ucraine hanno
probabilmente registrato casi di diserzione nelle ultime settimane, ma è
probabile che il morale delle forze russe rimanga particolarmente
instabile. Si sono verificati casi di intere unità russe che hanno
rifiutato ordini e scontri tra ufficiali e le loro truppe. Lo riferisce l’intelligence britannica nel suo ultimo il bollettino sulla guerra
. Tra i fattori che determinano il basso morale russo, una scarsa
percezione della leadership, opportunità limitate di rotazione delle
unità, perdite molto pesanti, stress da combattimento. È probabile che
anche molti membri del personale russo di tutti i ranghi rimangano
confusi sugli obiettivi della guerra. I problemi di morale nelle truppe
russe sono probabilmente così significativi da limitare la capacità di
Mosca di raggiungere gli obiettivi operativi.
Ore 09:08 – Zelensky, non daremo via il sud a nessuno
«Non daremo via il sud a nessuno».
Così il presidente ucraino Zelensky in un video messaggio su Telegram,
al rientro dalla visita a sorpresa ieri nel sud del Paese, a Mykolaiv e
Odessa, i due centri strategici sul mar Nero, dove ha incontrato le
truppe. «Non daremo via il sud a nessuno, restituiremo tutto ciò che è
nostro e il mare sarà ucraino e sicuro», afferma Zelensky rivolgendosi
al suo popolo. Il presidente ha aggiunto di aver parlato con le truppe e
la polizia durante la visita. «Il loro umore è fiducioso e non c’è
dubbio nei loro occhi che l’Ucraina vincerà la guerra contro gli
invasori russi», ha detto.
Ore 08:37 – L’attore Usa Ben Stiller a Leopoli, incontra i profughi
L’attore americano Ben Stiller (Tutti pazzi per Mary, Ti presento i miei, Una notte al museo, Licorice pizza) è stato a Leopoli dove
è stato avvistato camminare ieri nella piazza centrale della città, a
70 chilometri dal confine con la Polonia. L’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i Rifugiati ha poi confermato la notizia su Twitter
affermando che la star hollywoodiana è arrivata al confine tra Ucraina e
Polonia come ambasciatore di Buona Volontà dell’Unhcr per incontrare i
profughi ucraini e «le famiglie le cui vite sono state dilaniate dalla
guerra e dalla violenza, per condividere storie sull’impatto umano della
guerra e per amplificare le richieste di solidarietà». Anche l’attore
ha, poi, twittato di essere arrivato in Polonia.
Ore 08:10 – Il numero uno dei banchieri
russi smentisce Putin: «Dieci anni per riprenderci dalle sanzioni». Il
Pil giù dell’8,6%
(Claudio Del Frate) Sberbank è
la principale banca russa, non propriamente una voce marginale al
Cremlino e dintorni. E proprio l’amministratore delegato di Sberbank , German Gref,
si è sentito in dovere di avvertire che occorreranno dieci anni prima
che l’economia di Mosca possa tornare sui livelli precedenti alle
sanzioni introdotte dall’Occidente. Una smentita in diretta di quanto
affermato da Vladimir Putin,
sicuro che l’«embargo» sta avendo effetti molto limitati sull’economia
del Paese, perché Gref ha parlato dalla medesima tribuna di San
Pietroburgo dove lo «zar» si era poco prima lanciato in un discorso
incendiario contro Europa e Usa.
Il ceo di Sberbank — citato da Reuters
— ha chiarito che i Paesi che hanno colpito la Russia con le sanzioni
rappresentano «il 56% delle sue esportazioni e il 51% delle sue
importazioni. La maggior parte dell’economia russa è sotto tiro», ha
proseguito. «Di conseguenza e se non facciamo nulla potrebbe essere necessario circa un decennio per riportare l’economia ai livelli del 2021»,
ha affermato, chiedendo una riforma strutturale dell’economia russa.
Stessi concetti che il 18 aprile scorso aveva già tracciato Elvira
Nabiullina, a capo della Banca centrale russa, secondo la quale le
restrizioni stanno colpendo duramente imprese e famiglie russe.
I dubbi, tra retroscenisti e malpensanti, rimangono sullo sfondo.
Qual è la posta dell'”accordo”, se di accordo si può parlare? Che
contropartita politica ha già spuntato, Flavio Tosi, per assicurare il suo appoggio a Federico Sboarina
al ballottaggio che deciderà il prossimo sindaco di Verona? E che cosa
uscirà dal “confronto con Fi” – con tutta probabilità esteso, a questo
punto, a FdI e Lega – annunciato dall’ex sindaco (ex) leghista?
A una settimana dalla riapertura delle urne, Tosi ha mosso la sua
pedina sullo scacchiere di quella che, per il centrodestra, era e resta
la partita più complicata di questa tornata elettorale: Verona. “Al
ballottaggio voterò Sboarina”, ha detto ieri Tosi in un’intervista a
RaiNews24. Un passo avanti per la coalizione (FdI, Lega e Fi) che, al
primo turno, si è presentata divisa, con i partiti di Meloni e Salvini
che hanno sostenuto Sboarina, e Forza Italia che ha preferito Tosi.
Un’apertura importante, ma subordinata ad alcune condizioni. La prima
è interna, e riguarda cioè il partito – Forza Italia – a cui Tosi ha aderito
quattro giorni fa. “Ci confronteremo”, ha spiegato lui. Facendo intuire
che il confronto andrà al di là di un’interlocuzione con Sboarina e
vedrà in campo i leader dei tre partiti.
Flavio Tosi aderisce a Forza Italia: “La Lega è ormai sovranista e populista”
Una, Giorgia Meloni, che tre giorni fa era stata
accusata da Lega e FI di “essere incapace di unire”, si è già espressa:
“Federico Sboarina a Verona e Valerio Donato a Catanzaro potranno
contare sul sostegno dell’intero centrodestra, al di là delle formule
tecniche di una condivisione che rimane sostanziale. In particolare a
Verona, seppur in assenza di un apparentamento tecnico, FdI si fa
garante da subito della piena condivisione del progetto con Flavio Tosi,
per dare al capoluogo scaligero un programma e una squadra di
centrodestra vincenti”. Insomma: sostegno anche senza apparentamento.
E qui sta la seconda condizione dettata da Tosi. Il già due volte
sindaco, intenzionato ad alzare la posta, è stato chiaro: “Accetteremo
solo l’apparentamento ufficiale, l’unico previsto dalla normativa sui
ballottaggi, alla luce del sole. Apparentamento che farebbe eleggere in
consiglio i nostri uomini e le nostre donne di centrodestra più votati e
più votate”. Tradotto: niente accordi sottobanco. Tosi chiede di
formalizzare l’accordo, e solo se questo avverrà farà confluire i suoi
voti a Sboarina: il pacchetto, sulla carta, è il 23,9% ottenuto al primo
turno. Una spinta che ovviamente aiuterebbe Sboarina nel tentativo di
rimontare i sette punti sul candidato del centrosinistra Damiano Tommasiarrivato primo (33% e 40%).
Ieri in serata, tuttavia, le parole della leader di FdI hanno
scatenato la reazionedi Tosi, che ha replicato: “Leggo con meraviglia la
nota di Meloni, che interpreta a suo modo una mia dichiarazione,
alludendo ad un accordo raggiunto con FdI a Verona in vista del
ballottaggio. Accordo che non c’è proprio a causa delle scelte di
Sboarina, il quale dimostra finora di non avere a cuore l’unità, né
tantomeno la vittoria del centrodestra”.
Ha senso dare all’Ucraina, come ha raccomandato di fare la
Commissione europea, lo status di Paese candidato all’adesione all’Ue?
Se lo chiedete a un diplomatico dirà che ha poco senso, le procedure
sono complicate, l’Ucraina è ancora lontana dal rispetto dello stato di
diritto e non si possono fare sconti a Kiev a scapito dei Paesi dei
Balcani (fra cui Serbia e Albania) che sono in coda da tempo. E quindi:
facciamo pure un gesto simbolico, ma passeranno anni prima di accogliere
Kiev nella famiglia europea.
Se lo chiedete invece a un esperto di geopolitica pura e dura, risponderà che all’Italia conviene solo fino a un certo punto o per niente: il baricentro dell’Ue si sposterà verso Est, penalizzando l’Europa mediterranea. E ciò si aggiunge allo scivolamento “baltico” della Nato, con il possibile ingresso di Finlandia e Svezia: il fianco Sud dell’Europa resta più scoperto di prima.
Tuttavia Mario Draghi, sponsor primario di questa
apertura all’Ucraina fra i grandi Paesi europei, non è né un diplomatico
né un geopolitico. È un europeista ispirato e pragmatico, che ha colto
un punto essenziale: se mancherà anche questo appuntamento con la Storia
– come gestire il ritorno della guerra nel proprio continente – l’Ue
finirà per disgregarsi.
Una forzatura politica è quindi necessaria: aprire all’Ucraina una prospettiva europea significa riconoscere che l’Ue deve ormai pensarsi e agire come una potenza internazionale e non solo economico-commerciale. E una potenza, per immatura che sia, deve potere prendere decisioni rapide: la politica estera è fatta di valori e interessi, di salti di qualità e non solo di procedure formali.
La cosa è più chiara se guardiamo al contesto strategico: il
conflitto nelle “terre di sangue” (definizione di Timothy Snyder),
contese da secoli fra Russia e Polonia, ricadrà comunque sulle spalle
dell’Europa. Con tutti i costi che già vediamo ma anche con le
responsabilità che ne derivano.
Vladimir Putin, nel suo velleitario discorso al Forum di San Pietroburgo, ha detto che Mosca considera ormai l’Europa una “colonia” degli Stati Uniti, destinata a una crisi terminale dopo avere perso la sovranità e deciso sanzioni che fanno il solletico alla Russia (allora perché preoccuparsene?) e colpiscono invece la propria popolazione. Dalla prospettiva di Mosca, la guerra in Ucraina è parte del confronto con un Occidente che Putin contava di potere dividere.
La brutale aggressione del 24 febbraio ha prodotto semmai il risultato opposto. Ma l’idea è ancora questa: il capo del Cremlino spera che la “fatica per la guerra” – una guerra che sarà lunga, si legge nelle righe del discorso di San Pietroburgo – e l’uso dell’arma del gas dividano i governi occidentali prima di fiaccare la Russia. In modo ancora più diretto, il vicepresidente del Comitato affari internazionali della Duma, Nikonov, ha detto che l’Ucraina non “vivrà abbastanza” per vedere il proprio ingresso in Europa.
Sulla sovranità dell’Ucraina, quindi, si giocano gli equilibri
continentali. È del resto chiaro – dopo le proteste di Piazza Maidan nel
2014 per la mancata ratifica dell’accordo di associazione fra Kiev e
Bruxelles, seguite dalla prima fase del conflitto nel Donbass – che il
rapporto fra Ucraina e Ue preoccupa Mosca quanto o più di un ingresso
dell’Ucraina nella Nato, che non è mai stato realistico.
Il timore vero è quello di un contagio democratico, che indebolisca
il regime autoritario russo. Si può aggiungere che Mosca non ha mai
capito – negando qualunque legittimità a una identità nazionale ucraina
distinta dalla Russia – le pulsioni pro-europee di una popolazione
ritenuta non solo parte della propria sfera di influenza ma a tutti gli
effetti “cosa propria”.
«Non potevo fare altrimenti», dice Luigi Di Maio. «Sono il ministro
degli Esteri di un Paese che sta affrontando una situazione
delicatissima. Non posso andare all’estero a spiegare posizioni ambigue
sulla guerra. Questa non è una vicenda personale, è un tema nazionale, è
una preoccupazione fortissima che non riguarda solo me. Quello che
stanno facendo è molto pericoloso».
È il primo pomeriggio di ieri quando al capo della Farnesina
arrivano i segnali di quel che sta per accadere. Il Movimento 5 stelle
di cui è parte fin dall’inizio, che ha rappresentato come vicepresidente
della Camera prima, come capo politico poi, fino a portarlo all’oltre
33 per cento delle ultime elezioni politiche, vuole metterlo fuori.
Non potranno farlo subito per ragioni procedurali, dovranno capire
cosa pensa davvero di tutta questa storia Beppe Grillo, ma Giuseppe
Conte e i suoi vicepresidenti hanno deciso di fare una dichiarazione che
non lasci spazio a dubbi: Di Maio non parla più a nome del Movimento.
È la fine di un’epoca, l’ennesimo strappo senza precedenti dopo il
distacco dalla Casaleggio Associati e quello dal fondatore cui è rimasto
il ruolo di Garante (e di “comunicatore” a 300mila euro l’anno). Il
ministro degli Esteri continua a dire a tutti coloro che riescono a
parlarci che non aveva scelta: «Avete visto come la Russia è pronta a
saltare sulle nostre divisioni? Non capiscono che non ce lo possiamo
permettere? ». Giura che al suo destino personale nemmeno ha pensato. È
rimasto in silenzio in tutti questi mesi – dopo aver posto il problema
della débâcle nella partita per il Colle – e non ha rilasciato nessuna
dichiarazione sulla politica interna per non essere considerato un
sabotatore. Ma adesso intende mettere la sua forza politica di fronte al
dovere della chiarezza: «Siamo o no nella Nato? Agiamo o no in totale
coordinamento con l’Unione europea? L’Italia intende ergersi a difesa
dell’Ucraina o della Russia? ». Sono domande imprescindibili in questo
momento storico e secondo Di Maio servono risposte meno ambigue di
quelle date fin qui. Parla di «operazione verità», perché non ci si può
più nascondere dietro a pensieri arzigogolati che seguono l’ultimo
sondaggio e il consenso perduto: «Non possiamo mettere in discussione la
nostra collocazione internazionale – ha detto più volte in questi
giorni – è prima di tutto una questione di sicurezza del Paese». Quando
ha visto la bozza di risoluzione preparata dai senatori per il 21
giugno, il capo della Farnesina ha avvisato: «È impraticabile». Adesso è
accusato di averla fatta circolare lui, ieri, in modo da mandare a
monte la difficile mediazione che stava tentando il Partito democratico
per disinnescarla. Il punto però non sono più le reciproche tattiche e
narrazioni. Il punto è che da qui non si torna indietro. Che ogni
composizione del dualismo interno appare ormai impraticabile. E anche se
i vertici M5S dicono che mai chiederanno al ministro degli Esteri di
dimettersi, neanche se la scomunica diventasse presto un’espulsione, è
chiaro che una mossa del genere non può non creare una fibrillazione nel
governo. Dando ragione a chi pensa che Conte non veda affatto con
dispiacere l’idea di un appoggio esterno che consenta a Draghi di andare
avanti e al Movimento di fare una campagna elettorale con le mani più
libere. Dei ministri, Stefano Patuanelli lo seguirebbe facilmente,
probabilmente farebbe più fatica a convincere Fabiana Dadone e Federico
D’Incà, ma è un’opzione che nessuno si sente più di escludere.
Manca il gas: per l’autunno il governo studia già i possibili
razionamenti elettrici. Manca il grano: 50 milioni di umani rischiano la
carestia, mentre i prezzi medi dei beni alimentari mordono già ora sui
bilanci delle famiglie per 554 euro in più all’anno. Manca l’acqua: il
Po agonizza col 72 per cento della sua portata bruciato dalla siccità,
mentre dal Piemonte alla Puglia centinaia di comuni tagliano
l’erogazione notturna nelle case di milioni di famiglie e il 52 per
cento delle aziende agricole è a un passo dalla chiusura. Mancano i
semiconduttori: le grandi filiere produttive globali, dalle automobili
agli elettrodomestici, hanno smesso di girare, mentre in Cina sono fermi
1 milione di container pieni e il loro singolo costo medio di
spedizione da Shanghai a Los Angeles è passato da 3.500 a 20.000
dollari.
Una settimana fa un esperto del settore mi spiegava che i tempi di
consegna di una macchina di media cilindrata, per chi se la può
permettere, oscillano tra i 9 e gli 11 mesi, mentre la benzina e il
diesel sfondano il tetto dei 2 euro al litro. Cinque giorni fa, a Roma,
la bolletta della luce arrivata a casa di mia madre, vedova e
pensionata, è lievitata da 85 a 298 euro. Tre giorni fa, a Gazoldo degli
Ippoliti, Emma e Antonio Marcegaglia mi raccontavano che la bolletta
energetica del loro gruppo siderurgico, 7,7 miliardi di fatturato annuo,
è passata in due mesi da 105 a 450 milioni. La guerra ci sta togliendo
il “caldo abbraccio” della modernità. L’impatto è traumatico. E non è
solo economico, è psichico. Esistenziale, sociale, culturale. Mi torna
in mente “Sabato”, splendido romanzo di Ian McEwan uscito nel 2005, che
racconta il mondo sconvolto dall’attacco alle Torri Gemelle.
E la tormentata vigilia della sporca invasione dell’Iraq, decisa da
Bush e Blair in base alle prove false sulle “armi di distruzione di
massa” di Saddam Hussein. Un’atroce fake news fabbricata da Cia e MI6,
ma questo lo avremmo scoperto solo dopo il massacro di 151 mila civili
iracheni, anche grazie ai Wikileaks di quel Julian Assange che la Gran
Bretagna ha appena estradato negli Stati Uniti. Tutto torna, in questo
gioco di specchi che la Storia si sta divertendo a costruire intorno a
noi, scomponendo e sovrapponendo facce e fatti del passato e del
presente.
Il protagonista del romanzo di McEwan è Henry Perowne, noto e
stimato neurochirurgo londinese. Vita agiata, certezze borghesi, ma
paura che tutto possa svanire da un momento all’altro. Capitano
imprevisti, in un weekend che si profilava solido e rassicurante come
tutti gli altri e invece non lo sarà. Henry studia la sindrome di
Huntington, che è una grave malattia degenerativa del cervello ma è
anche la nota teoria dello “scontro di civiltà”. All’alba di questo
“sabato” in cui tutto sta per cambiare, il neurochirurgo si alza dal
letto e si ritrova davanti alla finestra, appagato dal suo corpo tonico e
curato, “in piena forma e in completa libertà”. Cerca di liberarsi
dall’angoscia sottile che lo insidia, di fronte ai tempi “sconcertanti e
terribili” che sta vivendo, insieme a qualche miliardo di suoi simili. E
mentre è sotto la doccia, come fa ogni mattina da decenni, nel gesto
più naturale e ormai quasi inconsapevole del suo quotidiano, immagina
per un attimo un altro futuro, orribile ma possibile, in cui vecchi
cenciosi e infreddoliti racconteranno ai loro figli ignari intorno a un
fuoco di “un tempo in cui si stava nudi in pieno inverno, sotto getti di
acqua calda e pulita, con in mano pezzi di sapone profumato…”.
Siamo a questo, dunque? All’inizio della fine di tutte le certezze
morali e materiali che l’Occidente ha saputo pensare, realizzare e
ordinare sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e sulle rovine dei
due totalitarismi del Novecento? Può darsi che sia ancora presto per
dirlo. Ma quello che stiamo scoprendo sulla nostra pelle è comunque la
sorprendente fragilità delle nostre “conquiste”. Quelle più grandi: la
democrazia e l’autodeterminazione dei popoli, il liberalismo e il
multilateralismo, i diritti e l’habeas corpus. E quelle più minute: i
consumi individuali e i servizi collettivi, il pane e le rose, l’acqua
calda e l’aria condizionata. Il Manifesto geo-politico, imperiale e
neo-sovietico russo l’ha riassunto Putin in persona, al Forum economico
internazionale di San Pietroburgo: l’Occidente è in crisi, l’ordine
mondiale unipolare creato dall’America non c’è più, l’Unione europea ha
perso la sua sovranità, la Russia vincerà resistendo alle sanzioni e
l’Ucraina sarà russa perché come Stato non esiste e non è mai esistita.
Nonostante gli sforzi, l’Azione Parallela d’Europa non cambia il corso
degli eventi. Il treno notturno che ha portato a Kiev Draghi, Macron e
Scholz è stato un Orient Express ricco di riferimenti simbolici ma
povero di contenuti politici, come ha scritto giustamente Lucia
Annunziata. L’apertura delle porte di Bruxelles all’Ucraina sarà una
procedura lunga, con esiti tutti da verificare al Consiglio dei 27 che
giovedì e venerdì prossimi si dovranno esprimere all’unanimità. Nel
frattempo, il Cremlino tratta l’Europa come un non-interlocutore, come
ha sottolineato Anna Zafesova: “Fosse per loro – dice lo Zar –
produrremo solo petrolio, gas, corda e selleria”. Viceversa, per Putin è
più importante avere “l’indipendenza e la sovranità che il packaging”.
Recise le radici comuni eurasiatiche, per Mosca conta di più “espandere
le nostre relazioni con tutti gli altri interessati”, a partire da Cina e
India, cioè “la stragrande maggioranza della popolazione mondiale”.
Cacciarlo subito. Questo, più di ogni altra cosa, vorrebbe
fare Giuseppe Conte con Luigi Di Maio. Vorrebbe, eppure non può.
Condannarlo all’esilio, però, è possibile. E a questo si sta preparando
il Consiglio nazionale grillino, che si dovrebbe riunire oggi per
mettere nero su bianco l’isolamento del ministro degli Esteri: «La sua
posizione non coincide più con quella dei Cinque stelle». Epurarlo già
oggi provocherebbe una slavina. Conte sa bene che si scivolerebbe verso
una crisi di governo che ha giurato fino a ieri di non volere. E sa
altrettanto bene che un’eventuale espulsione di Di Maio non eviterebbe
la spaccatura dei gruppi parlamentari che si profila all’orizzonte,
martedì, quando Mario Draghi si recherà in Parlamento e la maggioranza
di governo dovrà votare la risoluzione intorno a cui si sta consumando
lo scontro sulla guerra in Ucraina. Riacceso ieri dopo la pubblicazione
del testo di una vecchia risoluzione a cui stavano lavorando i senatori
grillini, superata da tempo, nella quale si chiedeva senza troppi giri
di parole di imporre al governo uno stop all’invio di armi a Kiev.
Troppo lunghe le procedure per un divorzio e troppo rischiose, perché
se il tribunale di Napoli intervenisse nelle prossime settimane contro i
vertici pentastellati, potrebbe provocare l’annullamento
dell’espulsione e mettere Conte di fronte all’incubo di dover pagare
anche delle penali.
Meglio un atto di sfiducia, durissimo e mosso a nome del partito, in
modo da trasformare il duello personale tra il leader e il ministro
degli Esteri in una guerra tra Di Maio e l’intero Movimento.
La battaglia a colpi di dichiarazioni violente, d’altronde, non può
andare avanti all’infinito. L’ex premier – viene spiegato dai suoi
fedelissimi – si rifiuta di accettare un logoramento quotidiano della
sua leadership e della linea ufficiale del partito. «Ci sta infangando,
non possiamo più aspettare», ha ripetuto ai suoi più volte, ieri, dopo
aver scoperto la pubblicazione sulla stampa del vecchio documento. Il
sospetto di Conte, fortissimo, è che quella bozza di risoluzione sia
stata data in pasto ai media proprio dagli uomini di Di Maio. A farlo
davvero imbestialire è stata però una frase, in particolare, usata dal
titolare della Farnesina per commentare quel testo: «Se ci disallineiamo
dalla Nato mettiamo a rischio la sicurezza dell’Italia». Il leader M5S è
andato su tutte le furie: un ministro degli Esteri che strumentalizza
una vecchia bozza per dire che il suo stesso partito mette a rischio la
sicurezza nazionale – è stato il ragionamento – crea un allarme
internazionale e getta sul Movimento di cui fa parte una luce infamante.
Mentre si discute se togliere l’obbligo di isolamento dei positivi al
Covid, in Italia si registra un aumento di incidenza con 310 contagi
ogni centomila abitanti e un aumento dell’Rt a 0,83. Scende intanto il
tasso di occupazione delle terapie intensive (al 1,9%) ma sale quello di
occupazione delle aree mediche (al 6,7%). Sei le Regioni e province
autonome a rischio alto, secondo i dati dell’Iss e ministero della
Salute.
E mentre gli esperti si chiedono se sia l’inizio di un aumento stabile di casi, simile a quanto avvenuto in nazioni vicine, soprattutto legato alla presenza di Omicron BA.4 e BA.5, il bollettino della Protezione Civile e del ministero della Salute certificano 35.427 nuovi contagi da Coronavirus e altri 41 morti. Nelle ultime 24 ore sono stati processati 185.819 tamponi, tra molecolari e antigenici, con un tasso di positività al 19,1%. I ricoverati con sintomi sono 320, 17 in più, mentre le terapie intensive occupate sono 191 (una in meno). In questa situazione, con la mascherina consigliata in vari ambiti ma obbligatoria solamente in ospedale, Rsa, mezzi di trasporto tranne gli aerei, il dibattito si concentra sulla possibilità di dire addio all’isolamento dei positivi al Covid. Ricordiamo che si tratta di una separazione delle persone risultate positive infette e contagiose dalle altre, per prevenire la diffusione dell’infezione e la contaminazione degli ambienti, mentre per quarantena si intende la restrizione dei movimenti e la separazione di persone, che non sono ammalate ma che potrebbero essere state esposte ad un agente infettivo o ad una malattia contagiosa. «L’ideale sarebbe aspettare una discesa consolidata della curva dei casi; al momento ancora siamo in una fase incerta. Se cambiano le condizioni si potrà valutare magari sfruttando il caldo estivo, i positivi però dovranno uscire con mascherina», afferma un possibilista Massimo Ciccozzi, responsabile dell’Unità di Statistica medica ed Epidemiologia al Campus Bio-Medico di Roma. Dubbiosa è la posizione di Franco Locatelli, presidente del Css, per il quale «se circolano liberamente soggetti infetti poi è ovvio che possono contribuire significativamente alla curva dei contagi. Il governo farà le valutazioni e prenderà poi le decisioni che ritiene più opportune». Più nette e contrarie sono le dichiarazioni degli altri esperti a cominciare da Fabrizio Pregliasco, docente di Igiene dell’Università Statale di Milano: «Il trend mostra come ci sia un incremento ormai da 3 settimane.
Insieme a Irvin e poi a Kiev! In ordine di Pil si sono recati da pellegrini in Ucraina: Germania-Scholz, Francia-Macron, (più Italia-Draghi Romania-Ioannis, per rappresentare i Paesi non-fondatori). Un viaggio simbolico. Molto simbolico. Forse persino troppo. Di solito questo tipo di messaggi, sovranamente spirituali, sono propri dei Papi di ieri e di quello di oggi. Visitano le città distrutte, chiedono in ginocchio che tacciano le armi, benedicono le vittime con ampi gesti che spandono un istante di pace e di speranza. Esempi? Pio XII nella Roma bombardata dagli alleati a San Lorenzo (tremila morti, 11mila feriti, 10mila case distrutte); a Giovanni Paolo II bastò minacciare per lettera Breznev di mettere piede in Polonia se avesse osato invaderla (1980) quindi andando a Sarajevo (1997, a rischio attentato); o come ha fatto Francesco a Baghdad, a Bangui e a Beirut.
La potenza dei segni però, se a esserne interpreti sono capi di Stato
e di Governo, dev’essere accompagnata da scelte politiche, da accordi
terra terra, più soluzioni e meno foto opportunity ad uso dell’opinione
pubblica interna. Ehi abbiamo avuto un problema qui, ci aiutate a
risolverlo? Noi siamo su un’astronave in avaria, crepiamo qui in Donbass,
muoiono anche gli invasori, e andrà sempre peggio, capite il problema,
voi di Houston? Houston che fa? Resta a Houston anche se provano a
immergersi nella tragedia, ma proprio non ce la fanno, benedicono,
elogiano, questo sì. Se ci passate il parallelo con la missione Apollo
13, sono impotenti quei tre + uno. Di sicuro capiscono, ma non vogliono o
non possono esercitare un minimo atto, fissare una mossa coraggiosa da
cui aspettarsi un pezzettino di salvezza.
UNDICI ORE SUL TRENO I tre capi europei stavano partendo per rientrare ciascuno nella sua capitale, e al momento dei saluti c’è stato il buffetto napoleonico sulla guancia di Zelensky e sulla sua speranza di essere dichiarato europeo, con la carta da bollo, sui due piedi. Scrive Le Figaro: «A conclusione di uno storico incontro, EmmanuelMacron ha affermato: “L’Ucraina non è morta, e non sono morte né la sua gloria né la sua libertà”». La splendida retorica è perfetta per spiegare l’essenza di quanto accaduto ieri. Non mettiamo in dubbio il dramma interiore dei tre leader, specie del nostro MarioDraghi. Ma le pagine internet dei siti di tutta Europa dicono la verità su quale fosse la missione non dichiarata di costoro. Fisicamente sono andati laggiù, ma il messaggio era diretta al proprio fronte interno. L’Ucraina è sparita, è rimasta come un risaputo rumore di fondo. L’enfasi sulle undici ore di treno, quasi Scholz, Macron e Draghi fossero in balià delle onde su un barcone, a rischio di missile russo; soprattutto le artistiche immagini, “casualmente carpite” con tecnica fascinosa nei vagoni tristanzuoli delle ferrovie ucraine dei tre tenori in abbigliamento casual, i loro volti sorridenti e distesi, le notazioni dei cronisti sul loro essere diversamente eleganti (il tedesco fuori moda, con la maglietta nera dalle maniche corte, nota opportunamente La Repubblica: ah questi crucchi, si fanno sempre riconoscere). Ma accidenti, state viaggiando nel Paese dove ci sono mille morti al giorno. Il sangue zampilla e innaffia fosse appena scavate, che già ne occorrono altre, e poi i corpi sono lasciati lì a marcire. Avete qualcosa di scritto, un impegno dirimente da sottoscrivere insieme a Zelensky Un patto?