Archive for Giugno, 2022

Il patto Draghi-Macron: più fondi contro la crisi

giovedì, Giugno 9th, 2022

Alessandro Barbera

Emmanuel Macron non lascia a Mario Draghi nemmeno il tempo di scendere dall’auto. Lo abbraccia con gesto plateale: di quelli che piacciono a lui, meno all’italiano. Ma è Draghi ad aver chiesto al cerimoniale di organizzare la cena all’Eliseo con l’alleato francese. Mai come in questo momento l’uno ha bisogno dell’altro. Nelle prossime due domeniche l’appena rieletto presidente si gioca la conferma della maggioranza alle Camere. Gli ultimi sondaggi dicono che il suo partito – En Marche – potrebbe non avere la maggioranza assoluta al secondo turni delle elezioni politiche. Lo insidia la santa alleanza delle sinistre capeggiata dal populista Jean-Luc Mélenchon. Due giorni dopo i ballotaggi – il 21 giugno – a fare i conti con i numeri in Parlamento sarà Draghi, quando farà le comunicazioni che precedono il Consiglio europeo. Il vertice dei Ventisette di fine giugno è – non a caso – l’argomento principale del rendez vous parigino fra i due alleati.

Draghi e Macron sanno di non avere la stessa agenda sull’Ucraina, né lo stesso atteggiamento verso Mosca. Pur di non apparire schiacciato sulle posizioni di Londra e Washington, il presidente francese si è attirato le critiche in casa e a Kiev. La campagna elettorale, il bisogno di piacere a sinistra e ad un pezzo di destra (l’ex Nicolas Sarkozy è un suo sostenitore), il tentativo (fallito) di essere il king maker di una soluzione diplomatica, hanno spinto Macron lontano da una posizione coerentemente atlantista. Durante la cena i due discutono anzitutto di questo, e di come trattare la richiesta di adesione dell’Ucraina all’Unione europea. Draghi, premier di un Paese che si affaccia sull’Adriatico, è costretto a tenere conto delle richieste di adesione arrivate prima da parte dei cinque Stati della ex Yugoslavia e dell’Albania. Macron, leader di un Paese tradizionalmente contrario alla politica di allargamento dell’Unione, fa il contrario. Al massimo è favorevole ad una “comunità politica”, un modo per allontanare la richiesta di adesione di altri Paesi.

Per entrambi i leader la priorità è un’altra: come affrontare il prezzo della crisi. Sin dal vertice straordinario dei Ventisette di Versailles, il primo dopo l’inizio della guerra, Draghi e Macron hanno sostenuto senza successo l’ipotesi di un nuovo Recovery plan. Il “Repower Eu”, il programma per finanziare l’autonomia energetica dell’Unione dalla Russia, è fatto in gran parte di fondi fin qui rimasti inutilizzati. Le probabilità di vincere le resistenze dei Paesi nordici sono molto basse, ma per i due quel che conta è far pesare l’alleanza di chi invece crede alle risposte comuni. L’alleanza fra Draghi e Macron è fatta anche di dettagli meno visibili: basti qui citare le indiscrezioni a proposito di un piano di emergenza della Banca centrale europea in caso di attacco ad uno dei Paesi della zona euro. L’aumento (quasi certo) dei tassi di interesse dopo l’estate costringono la politica a occuparsi anche di questo.

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Il dossier Falcone sulla mafia. Quella denuncia inascoltata

giovedì, Giugno 9th, 2022


Serena Sartini

Il dossier Falcone sulla mafia. Quella denuncia inascoltata

La voce ferma, decisa, con lunghe pause intervallate da tiri di sigaretta. E poi i nomi snocciolati uno dietro l’altro: Buscetta, Pippo Calò, il corto Riina. Giovanni Falcone traccia una fotografia di come si muoveva Cosa nostra a fine anni Ottanta, i suoi tentacoli, la sua attività in Sicilia. Ce l’ha con alcuni colleghi che pensano di conoscere la mafia meglio di lui, che cercano la Piovra fuori dalla Sicilia, uno dei tanti teoremi senza prove che hanno ostacolato la lotta a Cosa Nostra. E invece «epicentro della mafia – diceva nel 1989 in un audio esclusivo ritrovato dopo oltre 30 anni – è sempre la Sicilia e Palermo in particolare. Non si può far parte e gestire Cosa nostra se non hai il controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino», ammoniva il magistrato, ucciso nella strage di Capaci il 23 maggio 1992 insieme alla moglie e ai tre uomini della scorta.

Una lunga lezione che Falcone tenne per descrivere la mafia e come si muoveva. Lui che la criminalità organizzata la combatteva giorno dopo giorno; lui che aveva cominciato a smantellarne i cardini. Lui che ripeteva che «l’organizzazione di Cosa nostra è qualcosa che investe tanto a reticolo tutto il territorio che basta che solo alcuni diano gli ordini, che tutto il resto diventa un fatto automatico».

È un Falcone appassionato ed emozionato allo stesso tempo, in cui emerge la sua umanità e il suo amore per quel lavoro, quello della ricerca della verità e della giustizia. Nel trentennale dalle stragi di Capaci e Via d’Amelio, in cui persero la vita lo stesso Falcone e poi Paolo Borsellino, riemerge un audio di straordinaria attualità, diffuso in un podcast dell’agenzia askanews dal titolo «Falcone: le parole inascoltate».
Nel colloquio con i «suoi» uomini, emergono tutta la professionalità, la fermezza e la capacità investigativa del magistrato. «Su spostamenti di consigli di amministrazione della mafia dalla Sicilia altrove togliamocelo dalla testa – diceva il magistrato, che nel 1989 era giudice istruttore a Palermo -. Epicentro della mafia è sempre la Sicilia e Palermo in particolare».

Tracciava una «organizzazione a raggiera» che «produce certi risultati». Il linguaggio pacato ma allo stesso tempo deciso, con il suo accento marcatamente siciliano; lunghe pause quasi a scandire ogni singola parola. E poi le sue amate sigarette.
«Se non si comprende che questo tipo di organizzazione a raggiera produce certi risultati – ammoniva – questi risultati appaiono inspiegabili. Ecco perché mi sembra dissennato e folle, se in buona fede, peggio se in male fede, parlare di disorganizzazione delle famiglie». E proprio nel «momento in cui sta venendo fuori in tutta la sua pericolosità, la capacità di agire unitariamente di Cosa nostra, ancora continuiamo a parlare esattamente del contrario?».

Per il magistrato, simbolo della lotta alla mafia, lo spaccio di stupefacenti rappresentava solamente una minima attività di Cosa nostra. «C’è la necessità di rendersi conto che quando si parla ad esempio di traffico di stupefacenti come una delle più lucrose attività di Cosa nostra – denunciava – si è portati a ritenere che tutta Cosa nostra si occupi di traffico stupefacenti. Non è vero. Ci sono solo alcune fette importanti di membri di Cosa nostra che, collegati in diverso modo con personaggi non mafiosi o anche stranieri, gestiscono in tutto o in parte determinate linee del traffico di stupefacenti».

«Io mi ricordo che agli inizi, ora per fortuna non più – racconta – colleghi peraltro validissimi di altre parti d’Italia pensavano di venire qui ad insegnare a noi come si fanno le indagini e dirci cosa è la mafia. Colleghi che pensavano che dal piccolo trafficante o dallo spacciatore, risalendo a ritroso la catena dei passaggi sicuramente sarebbero risaliti al laboratorio di eroina… Obiezioni che mi sento dire spesso anche nei salotti di Roma…basta seguire e ci si arriva. E invece più si va avanti nelle indagini e più ci si rende conto dell’estrema complessità».
Racconta Falcone di alcune vicende che lo hanno riguardato in prima persona. Come quando è andato a interrogare Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, dopo la sua deposizione al processo della pizza Connection. «Era in particolare stato di prostrazione psichica – racconta il magistrato – e io chiesi che cosa fosse successo. Rispose che dall’oggi al domani le persone che qualche mese prima del suo esame gli stavano accanto, non gli rivolsero più la parola».

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“L’innovazione non sia contro i poveri”

giovedì, Giugno 9th, 2022

Stefano Zurlo

C’è il dogma della transizione energetica. E c’è poi la realtà dei tanti poveri disgraziati che non riescono a pagare le bollette sempre più care. «Ecco – afferma Chicco Testa, ex presidente Enel e parlamentare nel Pci-Pds fra l’87 e il ’94, un’autorità in materia – non capisco perché la sinistra non stia dalla parte dei nuovi poveri che sono in grande difficoltà davanti ai costi crescenti della luce e del gas».

Al Parlamento Ue è scontro: i socialisti vogliono il passaggio all’elettrico entro il 2035, i popolari frenano.

«La transizione era stata pensata in un contesto diverso: la guerra ha cambiato tutto, soprattutto mi pare sia venuta meno l’equità che era considerata uno dei pilastri di questa rivoluzione».

Che cosa si dovrebbe fare?

«Nessuno contesta l’avvento dell’elettrico e sul fronte del riscaldamento la pompa di calore rappresenta il futuro».

Ma il presente?

«Appunto. Dobbiamo risolvere i problemi drammatici che strozzano migliaia e migliaia di persone, dobbiamo rivedere le tabelle, in modo meno rigido e più pragmatico, dovremmo considerare a fondo le possibili conseguenze di questa svolta».

Il conflitto fra Russia e Ucraina impone un ripensamento?

«Non possiamo impiccarci alle date. Milioni di persone annaspano e noi non possiamo dire loro che devono comprare l’auto elettrica o mettere la pompa di calore. Sono investimenti importanti, ancora di più per le famiglie dal perimetro finanziario molto stretto, e potrebbero dare un altro colpo ai bilanci già precari di molte persone. Servono pazienza e buonsenso».

Insomma, un pizzico di realismo in più?

«Sì, non possiamo innamorarci di una teoria, pure virtuosa. E dobbiamo considerare le questioni sul tappeto. L’equità ma non solo».

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Pensione anticipata se l’azienda è in crisi: ecco cosa cambia

giovedì, Giugno 9th, 2022

Alessandro Ferro

Si potrà scegliere se andare in pensione prima di aver maturato il diritto se la propria azienda versa in condizioni di crisi: è un decreto che sta per approvare il Mise (Ministero dello Sviluppo Economico) che ha previsto quasi la stessa indennità che si avrebbe se si arrivasse a fine ciclo.

A chi è rivolta la misura

L’agevolazione, se così vogliamo chiamarla, non è rivolta indistintamente a tutti ma ai lavoratori delle piccole e medie imprese in crisi per i più svariati motivi (Covid, guerra, ecc.). Come fa sapere Today, i soldi a disposizione sono 150 milioni per l’anno in corso, 200 milioni per il 2023 e altri 200 milioni per il 2024. Secondo le prime stime, farebbero parte di questa categoria più di 10mila lavoratori. Anche se questa misura era stata prevista dalla precedente legge di Bilancio, era rimasta “in aria” in attesa di un decreto varato dallo Sviluppo economico che dovrebbe essere realtà nei prossimi giorni.

Quali sono le imprese

Le imprese che potranno dar questa possibilità ai loro dipendenti hanno un personale compreso tra 15 e massimo 250 e non possono fatturare una cifra maggiore a 50 milioni di euro l’anno oppure non possono avere un bilancio che superi i 43 milioni di euro. Per non sbagliare interpretazione, per azienda in crisi si intende quella che ha “una diminuzione media del fatturato nei 12 mesi antecedenti la richiesta di almeno il 30% rispetto alla media del fatturato dell’anno 2019”.

I requisiti

Non si può certo andare in pensione dieci o cinque anni prima del corso naturale degli eventi e dell’età pensionistica: la misura prevede che si può abbandonare il lavoro soltanto se mancano non più di tre anni rispetto ai requisiti che ha quel lavoravore. Per cui, si dovrà avere maturato l’età per una pensione di vecchiaia entro il 31 dicembre 2024 con 67 anni e un minimo di 20 di contributi oppure i requisiti per un pensionamento anticipato (42 anni e 10 mesi gli uomini, 41 anni e 10 mesi le donne che hanno compiuto almeno 62 anni). Chi decide di usufruire di questa misura, avrà un’indennità mensile pari al 90% la pensione lorda che avrà maturato con la fine naturale del rapporto di lavoro.

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“Può solo raccogliere le briciole…”. Parte il processo a Conte

giovedì, Giugno 9th, 2022

Andrea Indini

I numeri non mentono mai. E sono proprio i numeri a inchiodare Giuseppe Conte. Li abbiamo già pubblicati ieri sul Giornale.it. Ma è bene rinfrescarli. Domenica prossima, alle elezioni amministrative, il Movimento 5 Stelle presenterà appena 67 liste. Cinque anni fa, giusto per dare un’idea al lettore della débâcle targata Giuseppi, la presenza sul territorio era tre volte tanto: 224 in diciassette regioni. Il crollo è a dir poco verticale: 157 liste in meno, il 70% in meno. E la colpa, secondo Enrica Sabatini, autrice del libro Lady Rousseau. Cosa resta dell’utopia di Gianroberto Casaleggio? (Piemme), è tutta dell’ex avvocato del popolo che ha usato il consenso del Movimento 5 Stelle per costruirsi una carriera. Il risultato è stato appunto disastroso. Secondo i sondaggisti, il partito fondato da Beppe Grillo è prossimo al giro di boa: si avvicina pericolosamente alla soglia psicologica del 10%. Qualora alle prossime elezioni politiche dovesse andare sotto, sarebbe la pietra tombale su Conte. Sempre che non intervenga prima il tribunale di Napoli ad affossarlo coi ricorsi degli attivisti.

“Beppe Grillo definì Conte una persona senza visione politica né capacità manageriali, senza alcuna esperienza di organizzazioni né capacità di innovazione. E i risultati oggi danno ragione a questa definizione.”

Qual è stato il suo errore principale?

“Credo che il principale errore di Conte sia stato quello di voler qualcosa che tutti sapevano che non era in grado di ottenere, ossia essere il leader di una forza politica.”

È per questo che il Movimento 5 Stelle si sta eclissando?

“Il movimento si sta eclissando perché non ha alcuna visione, non è coerente e la sua proposta politica non è più unica. La banalizzazione operata da Conte ha reso il progetto politico ideato da Gianroberto Casaleggio un partitino qualunque che si presta ad essere il vassallo di altre forze politiche all’occorrenza e per convenienza.”

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L’inflazione e l’equivoco sul salario minimo

giovedì, Giugno 9th, 2022

di Alberto Mingardi

I bassi salari italiani riflettono la storia del Paese, le rigidità del sistema, la scarsa certezza del diritto. Problemi che non si risolvono con slogan ma con riforme

«Per ogni problema complesso c’è una risposta che è chiara, semplice e sbagliata», diceva H.L. Mencken. In Italia, fra il 1990 e il 2020, il salario medio (a parità di potere d’acquisto) è diminuito del 2,9 per cento. Per questo la discussione sulla nuova direttiva europea in tema di salario minimo nel nostro Paese ha avuto più eco che altrove. L’inflazione non è più materia per arcane discussioni fra
economisti. Le persone la misurano andando a fare la spesa.
La situazione internazionale alimenta l’incertezza: l’economia italiana non crescerà quanto ci aspettavamo nel 2022, probabilmente non crescerà affatto e comunque troppo poco. Nella preoccupazione, ci si aggrappa alla speranza di un aumento dei salari.

È questo l’equivoco di fondo: non sarà una soglia minima delle retribuzioni a farle crescere. Anche se il non detto, la speranza nascosta sembra essere questa quando si rincorrono nei dibattiti di politici e cittadini il rincaro dei prezzi e il salario minimo. Ma si rischia di cadere in una trappola. Innanzi a un problema, vorremmo che tutto si potesse sistemare con una singola decisione. La politica si offre con slancio di fare le sue magie. Facile che si rivelino mere illusioni.

In Europa, alcuni Paesi hanno il salario minimo, altri, come noi, i contratti collettivi nazionali validi erga omnes. I due strumenti sono alternativi. I contratti collettivi definiscono già la remunerazione del grosso della forza lavoro (oltre l’80%). In Italia abbiamo anche un salario minimo di fatto. Avendo introdotto il reddito di cittadinanza, quest’ultimo diventa una sorta di valore di riferimento. Lo stipendio offerto da un datore di lavoro non può situarsi al di sotto di quella soglia, altrimenti il lavoratore saluta e si mette in fila per il sussidio.

Negli scorsi mesi, si è scritto molto sulla contrazione dell’offerta di lavoro. Avendo affrontato la pandemia a suon di «ristori», molti Paesi, Italia inclusa, si ritrovano con una forza lavoro non più disponibile ad accettare alcuni impieghi e le rispettive retribuzioni. Gli stessi Paesi non sono propensi ad aprire le frontiere a chi quei lavori e quelle retribuzioni accetterebbe.

Il salario minimo implica una maggiore rigidità sul lato della domanda. L’effetto sul lavoro poco qualificato è prevedibile: all’aumentare del prezzo, se ne chiederebbe di meno. Altrimenti perché ragionare (come fa l’Ue) su valori ben inferiori al salario di equilibrio? E sul resto delle professioni non ci sarebbe quella sorta di «spinta al rialzo» in cui molti sembrano sperare.

Tutti tendiamo a pensare al salario come a qualcosa che il datore di lavoro decide per noi. Crediamo che se qualcun altro (lo Stato) gli ordinasse di pagarci di più, lo farebbe. Le cose non stanno proprio così. L’imprenditore remunera i fattori produttivi in modo coerente con i costi che ritiene possibile sostenere, in vista della realizzazione di un dato bene o servizio e della sua vendita a un certo prezzo. Per questo, gli operai della Ferrari se la passano meglio degli altri. Le doti (gli skill) e la produttività del lavoro influenzano la remunerazione.

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La prima intervista di Angela Merkel, da quando non è più cancelliera (e la rivelazione sui suoi tremori)

giovedì, Giugno 9th, 2022

di Elena Tebano

La prima intervista da quando non è più cancelliera non è piaciuta ai giornali tedeschi. Ecco perché

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Nella prima intervista pubblica da quando non è più cancelliera Angela Merkel ha difeso la sua politica nei confronti della Russia: «Se mi guardo indietro, quando tiro le somme, sono davvero contenta di non dovermi rimproverare di non aver fatto abbastanza per evitare un evento come quello che si è verificato» ha detto, spiegando di essersi opposta all’ammissione dell’Ucraina nella Nato, nel 2008, perché era «molto sicura» che il presidente russo Vladimir Putin non avrebbe «permesso che ciò accadesse» e perché all’epoca l’Ucraina era «dominata dagli oligarchi» e «non era un Paese internamente democratico». «Quindi non mi sembra che ora debba dire: è stato un errore, e quindi non mi scuserò nemmeno» ha concluso. E ha aggiunto che fa bene adesso la Germania a riarmarsi e a puntare sulla deterrenza militare, perché «questa è l’unica lingua che Putin capisce» (ne ha scritto sul Corriere Paolo Valentino). Le sue risposte però non sono piaciute ai giornali tedeschi, che hanno pubblicato commenti piuttosto critici e messo in luce le contraddizioni dell’ex cancelliera.

Particolarmente duro è quello del quotidiano moderato conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), che si chiede se ci ha resi «più saggi» sapere come Merkel avesse ben presente il pericolo rappresentato dalla Russia di Vladimir Putin. «Saremmo davvero più saggi — obietta la Faz —se sapessimo perché solo ora l’Occidente sta raccogliendo faticosamente i mezzi con cui l’Ucraina può opporsi a questa escalation». E si chiede perché Merkel, vista la sua consapevolezza, non abbia iniziato a parlare la «lingua» della deterrenza militare «già più di dieci anni fa, quando sapeva che Putin voleva distruggere l’Unione europea» (« È stato solo a causa del partner di coalizione della Merkel, la Spd, che non ha voluto acquistare droni armati?» domanda, con una stilettata all’attuale cancelliere Olaf Scholz).

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Ucraina Russia, news sulla guerra di oggi |Severdonetsk, ore decisive: battaglia feroce, ucraini in difficoltà

giovedì, Giugno 9th, 2022

di Lorenzo Cremonesi, Francesco Battistini, Paolo Foschi

Le notizie di giovedì 9 giugno sulla guerra, in diretta: le truppe di Mosca aumentano la pressione nella città chiave per il controllo del Donbass

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• La guerra in Ucraina è arrivata al 106esimo giorno.
• I russi controllano quasi tutta Severodonetsk e le truppe ucraine stanno valutando il ritiro, ma sono ancora alla periferia della città. «La battaglia è feroce, molto feroce» ha detto il presidente ucraino Zelensky.
• Secondo il Cremlino, Kiev ha subito pesanti perdite delle truppe in Donbass, costringendo l’Ucraina a riorganizzare la propria macchina bellica. Gli Stati Uniti ribadiscono il sostegno militare: continueremo a fornire le armi necessarie per vincere la guerra contro la Russia.
• Nessun accordo concreto sul grano, fallisce la mediazione turca. Per Mosca il grano può partire se vengono tolte le sanzioni. Il ricatto alimentare del Cremlino è uno dei grandi nodi del conflitto.
• Distrutta da raid russi una scuola a Bakhmut, ci sono vittime. Due ospedali colpiti a Severodonetsk e Rubizhne, nell’Ucraina orientale.
• Kiev ha annunciato che il gas e il carbone ucraino non saranno venduti all’estero.
• Mosca ha restituito 210 cadaveri di combattenti alla città di Mariupol.

Ore 08:20 – Il Canada vara restrizioni a industrie chimiche e petrolifere russe

Le autorità canadesi hanno annunciato il divieto di fornire una serie di servizi per le industrie chimiche e petrolifere russe. Lo ha comunicato il ministero degli Esteri canadese. Le nuove restrizioni includono il divieto di 28 tipi di servizi per il funzionamento delle industrie petrolifere, del gas e chimiche, compresa la manutenzione, la gestione, la contabilità e la pubblicità. Questi settori rappresentano circa il 50% delle entrate finanziarie del bilancio russo e, secondo il ministero degli Esteri canadese, «le misure ridurranno le opportunità per la Russia» e serviranno da deterrente nel proseguimento della guerra in Ucraina.

Ore 08:01 – John Cena, e la storia di Misha

Misha Rohozhyn ha 19 anni. Abitava con la mamma, Liana, a Mariupol. Quando i bombardamenti hanno iniziato a colpire la città — diventata uno dei simboli della resistenza ucraina, e caduta dopo oltre 80 giorni, e una devastazione pressoché totale — ha dovuto lasciare la sua casa, e il suo Paese.

Destinazione, l’Europa. O meglio: John Cena.

Perché John Cena, campione di wrestling, è un eroe di Misha. E perché la mamma del ragazzo, affetto dalla sindrome di Down, ha usato proprio questo «trucco» per convincerlo a superare le fatiche e i disagi di un viaggio durissimo.

Quello che Liana non si aspettava — al contrario di Misha: che all’avverarsi del suo sogno ha sempre creduto, a ragione — era che, una volta giunti a Huizen, in Olanda, ad attenderli ci fosse davvero John Cena.

L’atleta aveva conosciuto la storia di Misha attraverso un articolo del Wall Street Journal, dedicato alle conseguenze della guerra sulle persone con disabilità. E, grazie all’aiuto del Journal e della World Wrestling Entertainment, è riuscito a incontrare il suo fan.

Ore 07:30 – «Il Cremlino delira»: e Putin ordina l’arresto del romanziere-star

(Marco Imarisio) Se davvero lo arrestano, buttano via la chiave.

Dallo scorso 7 giugno Dmitry Glukhovsky, lo scrittore più venduto in Russia negli ultimi dieci anni, autore popolarissimo tra gli adolescenti per via di una saga post apocalittica dalla quale è stato tratto un videogame di grande successo, è inseguito da un mandato di cattura.

In base alla legge sulla censura approvata a marzo, è accusato di avere gettato discredito sull’Armata russa, reato punibile con una pena variabile tra i dieci e i quindici anni di reclusione.

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Stop alla vendita di auto diesel, benzina e gpl dal 2035: cosa ha deciso il Parlamento europeo e cosa succede ora

giovedì, Giugno 9th, 2022

di Francesca Basso, inviata a Strasburgo

Stop alla vendita di auto diesel, benzina e gpl dal 2035: cosa ha deciso il Parlamento europeo e cosa succede ora

Le auto nuove a diesel, benzina e gpl non potranno essere più vendute nell’Ue dal 2035.

Mentre i produttori della «Motor Valley» italiana, in Emilia Romagna, avranno tempo fino al 2036 per adeguarsi alle regole Ue.

Partirà da queste basi il negoziato del Parlamento Ue con il Consiglio per arrivare alle nuove regole europee che rivedono gli standard di prestazione delle emissioni di CO2 di auto e furgoni e che fanno parte del pacchetto «Fit for 55» presentato dalla Commissione, che ha l’obiettivo di portare al taglio delle emissioni nell’Ue del 55% entro il 2030 rispetto al 1990, per raggiungere la neutralità climatica al 2050. Alla vigilia del voto era stato il vicepresidente della Commissione Ue, il socialista Frans Timmermans che ha la delega al Green Deal, a difendere la proposta dell’esecutivo comunitario.
Il Parlamento Ue si è invece spaccato sulla riforma del sistema di scambio di quote di emissione (Ets) che torna in commissione Ambiente.
Il sistema Ets rappresenta una delle principali misure dell’Ue per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra nei settori industriali a maggior impatto sui cambiamenti climatici. La riforma prevede di estenderlo al carburante per il trasporto commerciale su strada e per il riscaldamento degli edifici, e la fine delle quote gratuite entro una certa data. È invece stata approvata l’estensione del sistema Ets all’aviazione. Così come l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 57% entro il 2030.
Il respingimento del testo sulla riforma del sistema Ets ha comportato la sospensione del voto sulla «carbon tax», cioè il meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera (Cbam) per combattere la concorrenza di chi produce all’estero con standard ambientali inferiori, e sul Fondo sociale per il clima che dipendono entrambi in parte dal sistema Ets. Sono stati i dettagli a far saltare le alleanze, il pacchetto «Fit for 55» ha implicazioni importanti sul tessuto industriale dei diversi Paesi Ue. Non è solo la «maggioranza Ursula», composta da popolari, socialisti e liberali, a non avere tenuto (sono i gruppi che hanno sostenuto Ursula von der Leyen al momento del suo insediamento). Ci sono state divisioni anche tra i socialisti e nel Pd e tra i gruppi che in Italia sono al governo.

Ma andiamo con ordine.

Sul dossier relativo agli standard di prestazione delle emissioni di CO2 per auto e furgoni nuovi
, l’emendamento del Ppe che puntava ad abbassare il taglio delle emissioni delle auto dal 100% al 90% dal 2035 per lasciare una finestra aperta a tecnologie alternative all’elettrico non è passato. Gli eurodeputati hanno sostenuto la proposta della Commissione di raggiungere la mobilità su strada a emissioni zero entro il 2035. Un risultato che preoccupa Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia: temono l’impatto sull’industria automobilistica italiana. Mentre per Pd e M5S si tratta di una tappa storica nella transizione verde. Tirano invece un sospiro di sollievo i produttori di auto di lusso.

La deroga per i piccoli produttori di auto (da mille a 10 mila vetture l’anno) e furgoni (da mille a 22 mila all’anno) si è allungata dal 2030 previsto dalla proposta della Commissione al 2036 contenuto nell’emendamento «salva Motor Valley», primi firmatari Massimiliano Salini (FI) e Pietro Fiocchi (FdI), ma sostenuto anche tra gli altri da Simona Bonafè e Alessandra Moretti del Pd, Silvia Sardone della Lega. Sostegno bipartisan in Alula, il M5S si è astenuto.

Il Consiglio Ue non ha ancora definito la sua posizione negoziale sulle emissioni delle auto. Gli Stati membri dovrebbero trovare l’intesa nel consiglio Ambiente del 28 giugno. A quel punto partirà il cosiddetto «trilogo» dal quale emergerà l’accordo sulle regole Ue per i nuovi standard di prestazione delle emissioni per auto e furgoni nuovi.

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Continuano le violenze degli immigrati. Ma la sinistra le nasconde ancora

martedì, Giugno 7th, 2022

Andrea Indini

Ci risiamo. Sei mesi dopo siamo punto e a capo. Stesso drammatico copione, stesse polemiche sterili. Gli abusi inflitti alle povere ragazze di ritorno da Gardaland ricordano drammaticamente le violenze dell’ultimo dell’anno in piazza Duomo a Milano. Branchi di bestie venuti dalle periferie di grandi città, come appunto Milano e Torino. Tutti di origine nordafricana, figli di immigrati, quelle famose seconde generazioni a cui la sinistra di Enrico Letta e compagni vorrebbero svendere la cittadinanza italiana a suon di ius soli. La logica del branco, appunto. Tanti maschi contro poche femmine. Le vittime scelte perché bianche, indifese, facili prede. E poi la mischia, alcuni che fanno da palo, gli altri che si fanno addosso, le mani dappertutto, gli insulti, le violenze sessuali. Poi il dopo, che è terrificante quanto il prima: la maggior parte dei giornali che raccontano fino a un certo punto, che fanno di tutto per nascondere la nazionalità delle bestie, che si mettono a discettare sul branco e non sull’integrazione impossibile, che tengono fuori dal dibattito la matrice culturale del gesto vile. Eppure, viene da dire, ci eravamo già passati.

Ci eravamo già passati all’inizio dell’anno, con i fatti di piazza Duomo a Milano, appunto. E prima ancora, stesso copione, con le orde di barbari in piazza a Colonia. Allora era il 2016 e la Germania, forse, ci sembrava troppo lontana. Lo scorso capodanno, invece, era Milano e non avrebbe dovuto sembrarci così lontano. Perché, sebbene in quei giorni molti milanesi fossero in montagna a sciare o a festeggiare chiusi in casa, quello spaccato culturale, che è andato in scena ai piedi della Madonnina e che nel Nord Africa ha un nome ben preciso (taharrush gamea che in arabo significa “aggredire e molestare le donne in strada”), era un morbo che aveva già contagiato la nostra società. Avrebbe dovuto risuonare nelle nostre teste come un campanello d’allarme. Così non è stato, almeno non per tutti. I progressisti hanno estrapolato, creato distinguo a non finire. E poi si sono arrampicati sugli specchi arrivando addirittura a dire che ci troviamo di fronte a “violenze e comportamenti figli di una cultura patriarcale della nostra società in cui un gruppo di ragazzi si sente in diritto di poter fare quello che vuole nei confronti delle ragazze” .

Non è così che avrebbero dovuto raccontarla. Quei crimini hanno un preciso humus culturale che affonda le proprie radici nelle periferie delle nostre città, sempre più simili alle banlieue parigine, sempre più quartieri dormitorio in mano a immigrati di seconda generazione. È qui, soprattutto a Milano e Torino ma non solo, che si formano i branchi ed è da qui che questi partono all’attacco. Una violenza che trova nell’islam radicale lo svilimento della donna e nel disagio sociale l’odio contro l’Occidente e il Paese che li ha accolti. Prima ancora del capodanno di Milano li avevamo visti in azione in piazza Vittorio, a Torino. Petardi, roghi di cassonetti, fumogeni, bombe carta e lanci di bottiglie. Dopo il blitz al concerto di fine anno, invece, li abbiamo visti rendere sempre meno sicure le vie del capoluogo lombardo. E, mentre veniva smentellata l’operazione “Strade sicure”, il sindaco Beppe Sala continuava a voltarsi dall’altra parte, quasi a non voler ammettere che esiste un’emergenza sicurezza.

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