Archive for Giugno, 2022

Mosca, Salvini non arretra: “Spero di vedere Lavrov”

venerdì, Giugno 3rd, 2022

Paolo Bracalini

Salvini ha consultato i vertici dei servizi di sicurezza dopo le notizie pubblicate dal Domani secondo cui i nostri 007 avrebbero monitorato attentamente i contatti e gli incontri tra il segretario della Lega e l’ambasciata russa in Italia. «Ho sentito i vertici dei servizi di sicurezza e smentiscono qualsiasi approfondimento, indagine, inchiesta. Fortunatamente – spiega Salvini – siamo in un Paese libero e per la pace, a testa alta, incontro tutti». Il capo della Lega non indietreggia di un millimetro, malgrado l’attacco ricevuto da più fronti (anche interni al suo partito) sull’opportunità di una missione a Mosca mentre l’Italia è in prima linea negli aiuti a Kiev contro Putin. Un piano che gli è stato sconsigliato di intraprendere anche dai più fidati consiglieri della Lega, ma che Salvini continua a ritenere una buona idea, al punto da non aver ancora scartato un incontro con il ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov. «Dovevo incontrarlo. Non l’ho sentito. Sarebbe stata un’occasione e spero che sia un’occasione» racconta il segretario della Lega. Insomma, «i contatti continuano» e «se devo chiedere il cessate il fuoco, lo devo chiedere alla Russia che ha iniziato il conflitto. L’ho fatto e lo rifarò con trasparenza senza chiedere nulla in cambio perché questo è l’interesse nazionale italiano». «Io – insiste Salvini – ho il diritto dovere di incontrare tutti e spero che anche altri capi di partito lo stiano facendo». Poi l’affondo contro chi si è scagliato contro di lui: «Mi spiace che ci sia gente che parla a vanvera senza muovere un dito. Spero che il governo abbia a cuore la pace, il cessate il fuoco la riapertura del dialogo», «e spero che altri colleghi di altri partiti che pontificano facciano almeno una parte di quello che sto facendo io». Il riferimento è al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che secondo il leghista finora è riuscito solo a elaborare uno «pseudo piano di pace che è durato un quarto d’ora». Altrettanto polemica la replica di Di Maio, che nelle critiche di Salvini vede i titoli di testa di un film già visto: «Ricordate quando fece cadere il governo Conte? Iniziò tutto così, criticando i vari ministri fino a staccare la spina. Spero di non rivedere un Papeete 2 la vendetta», conclude il ministro degli Esteri.


Riguardo a un eventuale interessamento del Copasir sulle sue attività, Salvini aggiunge: «Sono sconcertato da ipotesi di inchieste, Copasir, chiarimenti. Come se non fosse diritto di un parlamentare italiano lavorare per la pace con chiunque possa portare la pace».

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Il triangolo dell’oro nero. L’altra partita della Russia

venerdì, Giugno 3rd, 2022

Lorenzo Vita

Il petrolio russo è al centro della scena mondiale. Dopo il sesto pacchetto di sanzioni contro Mosca, sanzioni non certo severe ma comunque incisive, l’oro nero è tornato a essere uno dei nodi strategici dei rapporti tra Russia e Occidente.

Ma il petrolio, forse più del gas, non riguarda solo la guerra diplomatica che si gioca tra il Cremlino e le cancellerie d’Europa e Oltreoceano. Per Mosca, infatti, la questione petrolifera ha una portata che passa anche per i rapporti con gli Stati del Medio Oriente, e in particolare con le monarchie del Golfo. Un mondo ben diverso da quello rappresentato dal blocco euro-atlantico, ma che dal punto di vista economico e strategico identifica un’area decisiva per gli equilibri internazionali. A livello energetico, a livello finanziario, ma anche a livello strategico.

Non è un caso che il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov si sia recato nei Paesi arabi del Golf Persico mentre in Ucraina infuriano ancora le armi. Un tour che, tra le altre cose, è giunta proprio in concomitanza con l’annuncio delle sanzioni dell’Europa al petrolio importato via mare dalla Russia.

Il capo della diplomazia russa è giunto a Riad, capitale dell’Arabia Saudita, incassando una vittoria diplomatica particolarmente rilevante. Sì, il Golfo ufficialmente non può che condannare l’aggressione. I Paesi facenti parte del Consiglio di cooperazione del Golfo hanno espresso una “posizione unitaria” sulla guerra in Ucraina e sul suo “impatto negativo”. E il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, ha ricordato che anche dopo la videoconferenza con il ministro ucraino, Dmitro Kuleba, i capi delle diplomazie del Golfo hanno puntato i riflettori sulla “sicurezza alimentare nei Paesi colpiti e nel mondo”. Ma il Consiglio di cooperazione del Golfo ha soprattutto ufficializzato che, almeno per il momento, non imporrà sanzioni contro Mosca. E, come riportato da Al Arabya, lo stesso Lavrov ha espresso la gratitudine del governo russo verso questi Paesi per “la posizione equilibrata che assumono nei confronti di questo problema nei forum internazionali, rifiutando di aderire alle sanzioni occidentali illegittime e unilaterali che sono state introdotte contro la Russia”.

La presa di posizione non è certo secondaria. Come ricordato da Rosalba Castelletti su Repubblica, il Wall Street Journal aveva addirittura paventato, nei giorni scorsi, “una possibile esclusione di Mosca dal sistema delle quote del consesso allargato dei produttori del petrolio”, e cioè l’Opec+. L’ipotesi del quotidiano Usa appariva più che altro un auspicio, perché avrebbe significato una produzione maggiore da parte dei produttori arabi in modo da poter colmare il vuoto lasciato da un eventuale embargo alla Russia. Ma quello che aspettava o suggeriva il mesa americano, non è arrivato. Non una novità: il blocco dei Paesi del Golfo, ma anche la stessa Opec+, è sempre stato molto restio ad accettare un sistema sanzionatorio di stampo occidentale e soprattutto legato a direttive politiche non rientrassero nei canoni della maggior parte degli Stati produttori di petrolio. E in questo, Vladimir Putin si è certo sentito rassicurato.

Una rassicurazione che nasce non solo dalla tradizione politica dell’Opec e dei Paesi del Golfo, ma anche dai rapporti che in questi anni hanno intrecciato Russia e monarchie dell’area. Rapporti che passano dalla guerra in Siria a quella libica, dai problemi del Sahel fino agli equilibri appunto del petrolio e in particolare del suo prezzo. Le relazioni tra questi governi sono estremamente complesse e articolate, al punto che oggi è difficile trovare delle questioni puramente bilaterali e omogenee. E questo comporta che la sinergia che da Occidente ci si aspetta da parte del Medio Oriente, qui non possa trovare accoglienza per una serie di fattori umani, culturali, economici e strategici che non possono essere scissi.

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Toghe e informazione, il bavaglio non esiste

venerdì, Giugno 3rd, 2022

Armando Spataro

Il corretto rapporto tra giustizia e informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri su cui si fonda la credibilità dell’amministrare giustizia, mentre la comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura. Infatti il Csm ha più volte emanato linee guida per gli uffici giudiziari «ai fini di una corretta comunicazione istituzionale», anche se quelle determinate in passato da vari magistrati non sono certo le uniche criticità che ormai si manifestano sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione. L’approvazione del decreto legislativo n.188/2021 ha determinato commenti negativi. Alcuni, a partire da Paolo Colonnello su La Stampa, hanno parlato di un inaccettabile bavaglio che si vorrebbe imporre al dovere-diritto di informazione su vicende e procedimenti penali.

Non si può ovviamente accettare alcuna forma di censura sulla diffusione di notizie di pubblico interesse per i cittadini, ma non condivido tali critiche le quali, innanzitutto, non considerano che, al di là di marginali aspetti critici, la normativa è imposta da una precisa direttiva europea. È innanzitutto corretto che sia vietato per le autorità pubbliche (quindi non solo la magistratura) indicare pubblicamente come colpevoli indagati o imputati non definitivamente condannati, così come correggere la propalazione di notizie inesatte. Ma l’allarme – bavaglio riguarda soprattutto il divieto di conferenze stampa (salvo eccezioni motivate) in favore della prassi di comunicati. Condivido totalmente questa previsione poiché conferenze stampa teatrali e comunicati stampa per proclami hanno inquinato l’immagine della giustizia e alimentato la creazione di magistrati-icone, non a caso tra i primi a lamentarsi della scelta legislativa. Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i “racconti” a voce. Vanno evitati però anche eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni. Sono pure condivisibili le disposizioni riguardanti la tecnica di redazione degli atti giudiziari destinati a diventare pubblici, quali decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, decreti penali e sentenze, che coerentemente non possono essere motivati in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti tra i quali non rientra la loro amplificazione mediatica. I protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia non sono però solo i magistrati e la polizia giudiziaria ma anche gli avvocati, i politici ed i giornalisti. È virtuoso il protagonismo di magistrati ed avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità, ma non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano. Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che – maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati – diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di Giustizia e della sentenza cui è finalizzato.

Quanto al comportamento di alcuni politici, con incarichi governativi o meno, non si può tacere su quanti sono ben attenti a sfruttare le modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto, specie a proposito di procedimenti che vedono indagati o imputati coloro che per comunue appartenenza partitica o per parentela e amicizia, sono a loro vicine. Il brand utilizzato continua ad essere sempre eguale: si tratta di processi frutto dell’orientamento politico dei magistrati che non rispettano la legge! I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria, la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili, mentre dovrebbero valere quelle del giornalismo d’inchiesta senza cedimenti alle logiche del captare attenzione e scatenare interesse sulla base di informazioni inesatte o superficiali. Condivido, comunque, la necessità di disciplinare legislativamente l’accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti. Ma è giusto anche che le conferenze stampa siano limitate ai fatti di pubblico interesse e che sia il procuratore a deciderlo: si potrebbe mai operare una simile scelta d’intesa con organismi rappresentativi del giornalismo? Se tutto avviene correttamente e nello spirito della legge, i giornalisti non vedranno mai depotenziato il loro ruolo ed il diritto di selezionare le notizie di interesse: le indagini non nascono per tale fine, bensì per accertare i responsabili dei reati consumati e toccherà ai giornalisti ricercare le notizie correttamente, attraverso le fonti possibili .

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Russia-Ucraina, i 100 giorni di guerra che hanno cambiato il mondo

venerdì, Giugno 3rd, 2022

DOMENICO QUIRICO

Cento giorni: abbiamo vissuto prima del 24 febbraio sopra un vecchio fondo di illusioni e di leggende consolanti, l’Europa della pace, la legge delle armi relegata ai conflitti dei più poveri, fanatici e ignoranti, la luccicante concorrenza dei consumi delle nazioni… Esse hanno impregnato i nostri spiriti, ci hanno foggiati e hanno una grossa parte di responsabilità negli eventi crudeli che l’attacco di Putin all’Ucraina ha fatto svolgere davanti a noi. Quello che era prima è stato falciato dalle raffiche delle mitragliatrici e si è decomposto nei crateri dei missili. Non ha più corpo né credito se non in qualche fossile dell’ottimismo a ogni costo che pensa che, per miracolo, come è andato in pezzi un mattino il mondo possa tornare a quell’ordine, precario quanto precario ora lo sappiano!, che invece è definitivamente perduto.

Cento giorni ed è già difficile ricordare cosa facevamo quel 23 febbraio, il giorno prima. E dire che era appena da qualche settimana che tutto di nuovo pareva facile, la vita favorevole piena di imprese rischiose e riuscite! La pandemia si stava trasformando in ricordo, qualche obbligo residuo, le mascherine! Aveva ancora diritto a una polemica, si parlava, che bella parola, di ripartenza. E invece, di nuovo, è il tempo delle idee tetre.

Perfino il primo mese di guerra oggi ci appare come spaesato, impalpabile, non riusciamo a ritrovarne il ritmo. Era il tempo in cui i russi, illudendosi pare della guerra lampo, si erano ingolfati nella breccia verso Kiev. Gli eroici ucraini, incredibilmente, ci davano dentro, resistevano. Fu il tempo dei fotogrammi, ripetuti milioni di volte fino a dare una visione di perennità, dei carri armati impantanati nel terreno grasso d’Ucraina, delle colonne, di 60 chilometri! Che saltavano in aria sotto i colpi geniali, si diceva, dei droni fai da te. Donne e bambini nelle strade confezionavano inutili bottiglie molotov, non servivano militarmente a niente ma ci ricordavano che quando qualcuno è aggredito allora si diventa eroi: così, normalmente, con l’impegno che si mette a far bene il lavoro o a compilare il compito in classe.

È vero. Le città come Kiev sotto i colpi di missili che sembravano gettati a casaccio, con schianti di rovina, erano come ammassate in un angolo fosco della nostra attenzione: sciupate, tarlate, annerite dagli incendi. E alle frontiere si ammassava la migrazione delle donne e dei bambini, portandosi dietro la memoria degli ordigni che passavano col rumore di una urlata, con un soffio di aspirazione nello spazio, e avevano l’aria di sospetto e di incerto destino di tutti gli emigranti: piccoli, silenziosi, denti stretti e cappotti abbottonati. Il destino. Guardarli dava forza e gioia alla nostra pietà, l’accoglienza, parola sempre così aspra e piena di sottintesi, allora ci usciva di bocca svelta, sonora. Ecco l’Europa: incontri e sedimenti di civiltà, amicizie che rimontano i secoli, popoli affacciati su questa vecchia terra che spettegolano l’un l’altro. Ucraini venite! Siete nostri fratelli, noi siamo con le vittime. Quasi sempre. Eppure tra noi e loro, in fondo ai treni e agli autobus che l’avevano portati via, c’era una distanza enorme, un abisso, tutti i mille chilometri che erano stati percorsi e i giorni che sarebbero venuti. Loro erano stati là, noi no.

Avevamo forse scoperto il modo perfetto per essere in guerra e non esserci, sentirci eroici senza andare al di la del confine della Nato diventato di colpo la frontiera tra il bene e il male putiniano, dai contorni un po’ mongoli, un po’ staliniani. Era il tempo in cui mandavamo agli ucraini aiuti militari difensivi, solo per «resistere». E ci si affannava a precisare che quella era la guerra contro Putin e non contro i russi, anche loro vittime del dispotismo. Si descriveva l’ex spione con cui convivevamo benissimo da venti anni come un enigma che aveva una caverna al posto del cuore, da cui uscivano progetti crudeli, insondabili.

Zelensky, il presidente un po’ oligarca un po’ attore, spuntava sugli schermi, assertivo, implacabile, sembrava che ci guardasse negli occhi ricordandoci che dovevano essere eroi, ci ingiungeva di scendere in guerra per non essere le prossime vittime. Correvano brividi: ma noi non eravamo in guerra, aiutavamo semplicemente la pace. E qualcuno che non aveva mai visto un carro armato se non al cinema e credeva di sapere che cosa è la guerra ci tranquillizzava spiegando che un anticarro portatile è una arma difensiva, uccide ma non impegna.

Oggi, dopo appena cento giorni, siamo all’invio di missili e di obici che fanno vibrare lo spazio. Ma neanche questi basteranno tra qualche giorno e settimana. Perché è la guerra che detta le sue regole quando pianta gli artigli in un luogo e inizia a alzare, golosa, inesorabile, la posta.

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Maurizio Landini: “Tassiamo le rendite finanziarie per aumentare le buste paga”

venerdì, Giugno 3rd, 2022

Marco Zatterin

«Serve un contributo di solidarietà straordinario una tantum mirato ad aumentare i salari». Non una patrimoniale, precisa rapido Maurizio Landini. Bensì un sistema di interventi che faccia pagare più tasse a chi guadagna di più e viceversa. Aiuterebbe anche un aumento delle imposte sulle rendite finanziarie, argomenta il segretario della Cgil, come un’ulteriore stretta sugli extraprofitti energetici che vada al 50 per cento e oltre. Se fosse il caso, non bisognerebbe avere paura dello scostamento di bilancio. L’inflazione, la guerra e il rischio di una recessione minacciano la tenuta sociale del Paese, avverte: «Non c’è stata ancora convocazione, ma siamo pronti al dialogo su redditi e fisco». Per dire al governo che la delega fiscale non va. E a Confindustria che deve pagare di più chi lavora perché «il bancomat di chi lavora e paga le tasse tutti i mesi va considerato chiuso».

L’inchiesta sui salari: tutti gli approfondimenti

Europa e governi riconoscono che bisogna alzare i salari. Una buona settimana, per lei.
«Era ora. Con la Uil abbiamo fatto uno sciopero generale in dicembre proprio per questo. Abbiamo detto chiaramente che c’era e c’è una emergenza sociale e democratica che va affrontata con l’aumento di salari e pensioni, e una lotta alla precarietà nel lavoro e nella vita. Ora che tutti riconoscono il problema è tempo di agire».

Come?
«Il primo passo sono i contratti nazionali che vanno rinnovati subito. Gli aumenti devono però essere collegati all’indice dei prezzi complessivo, che è al 6,9 per cento, e non a quello depurato dell’energia, che si trova al 2,5. Altrimenti, il risultato è che si riducono i salari».

E il secondo?
«È una adeguata riforma del fisco. I dati dimostrano che il provvedimento di dicembre è sbagliato. Questo, perché la media reale dei salari è di 29 mila euro, mentre i due terzi dei lavoratori stanno sotto ai 25 mila e oggi ciò significa non arrivare alla fine del mese. Bisogna far pagare meno tasse ai salari e pensioni più bassi. L’inflazione deriva dalle conseguenza della guerra: rincari di energia e materie prime. Alla tempesta del Covid si è aggiunta la guerra. Col raddoppio delle bollette e la corsa dei prezzi, la tenuta sociale e democratica del Paese è minacciata».

Su gli stipendi, giù le imposte. A chi il conto?
«Le rendita finanziarie e gli utili sono tassati la metà rispetto a lavoratori e pensionati, cioè quelli che la ricchezza la producono davvero. Chi ha di più deve contribuire di più».

Pensa a una patrimoniale?
«No. Penso ad un modello fiscale in cui tutti pagano in base a quello che percepiscono. L’85% dei lavoratori dipendenti e pensionati vive al di sotto dei 30 mila euro annui. Non possiamo dimenticarli. Dobbiamo aumentare strutturalmente i salari e ridurre la precarietà».

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Biden accorcia il tiro dei missili: così si indebolisce la risposta di Kiev

venerdì, Giugno 3rd, 2022

Lucia Annunziata

Qual è la differenza fra 40 miglia e 190 miglia? Dipende da dove guardate a questa differenza. Se siete in viaggio, in questo lungo ponte italiano, si tratta di 64 chilometri invece di 305, diciamo dunque che da Roma (uso la città dove abito perché mi ci muovo meglio) è la differenza tra andare al mare sul litorale, e andare a Bologna (376 chilometri). Se siete a Washington, i Generali che stanno consigliando il Presidente Americano vi diranno che è la differenza fra una provocazione ai Russi, e il giusto diritto alla difesa di Zelensky e del suo popolo. Se siete nel Donbass non perdete tempo a rispondere alla domanda e correte verso un rifugio: la differenza fra quelle miglia per molti di voi sarà la distanza fra vivere e morire.

La politica internazionale e la Guerra (mondiale?) scatenata da Putin in Ucraina ha raggiunto infine questo livello: il calcolo dei chilometri come misura di quello che si può fare e non fare; il calcolo dei chilometri per giustificare la legittimità o meno di un’arma letale – e della Resistenza.

A questo nonsense si riduce l’illustrazione delle recenti decisioni di Joe Biden. Una settimana fa annunciò di aver deciso di inviare in Ucraina una potente arma a medio-lungo raggio: il Army Tactical Missile System, capace di lanciare missili guidati a 190 miglia. Per poi cambiare opinione e fare un’altra offerta: inviare il sistema High Mobility Artillery Rocket System (Himars), che si tratta sempre di missili ma di breve gittata, cioè solo 40 miglia.

Differenza tutta politica che non è sfuggita a chi guarda alle armi di mestiere. Ci si sono messi infatti ben tre giornalisti di rango del New York Times a scrivere un articolo, pubblicato il primo giugno, in cui raccontano le ragioni di questa “oscillazione” di Biden. «La decisione è stata presa sulla base di valutazioni dell’Intelligence», scrive il quotidiano che in questa guerra ha assunto il lead del sostegno al Presidente Biden. «Nel corso di tutto il conflitto, le agenzie di intelligence hanno dato alla Casa Bianca analisi su come avrebbe reagito Putin ai vari invii di armi. Tutto il Governo ha valutato la saggezza della decisione di inviare all’Ucraina la più nuova artiglieria di missili di precisione capaci di colpire obiettivi a più di 40 miglia di distanza». L’articolo apre a questo punto una parentesi per precisare : «(rappresentanti del governo hanno invece escluso un altro sistema, il Army Tactical Missile System a missili guidati, che può volare quasi 190 miglia – per paura che potrebbe essere usato per colpire obiettivi in profondità dentro la Russia)».

La decisione, continua il New York Times, ha a che fare con le parole della responsabile della intelligence Usa, Avril Haines, che nel rapporto alla Commissione Forze Armate del Senato (vedi La Stampa del 13 maggio) aveva sostenuto: «Appoggiamo l’Ucraina, ma non vogliamo arrivare alla Terza Guerra Mondiale». Questo è dunque il processo di cui parliamo: Biden ha scelto un’arma difensiva, invece che offensiva. E ha mantenuto il suo impegno, sottolinea il giornale newyorchese.

In altre parole, traducendo questo passaggio nel nostro corrente dibattito nazionale, il Presidente si è smarcato dall’uso aggressivo della propria forza, come molti critici degli Stati Uniti gli hanno finora rimproverato. Scopriremo forse che Washington ha ascoltato queste voci italiane? I molti professori ed esperti di casa nostra dovrebbero essere contenti. Lo saranno?

Viceversa, possono essere contenti gli ucraini e i sostenitori della loro battaglia? Se si guarda alle attuali sorti della occupazione russa, la tattica della conquista dell’intero Sud da parte dell’esercito di Mosca è profondamente cambiata. Dopo il fallimento dell’offensiva nel Nord, i Russi si sono concentrati sulla conquista delle aree considerate territorio russo nel Sud. Attaccando una per una ogni città sul percorso, con bombardamenti a fondo dell’intero abitato. Tattica usuale per la Russia, e particolarmente efficace in un’area così circoscritta, e indifesa.

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Valori, alibi e interessi dell’Europa

venerdì, Giugno 3rd, 2022

di Ernesto Galli della Loggia

Orbán ha condizionato le decisioni dell’Unione ma ha anche offerto un comodo alibi a molti altri governi dell’Unione, a cominciare da quello tedesco , che hanno manifestato la loro scarsa volontà di opporsi fino in fondo all’aggressione russa all’Ucraina

Per l’ennesima volta l’Unione europea ha mostrato in questi giorni la sua congenita difficoltà, solo dopo estenuanti trattative superata, di prendere le decisioni che contano. Ancora una volta si è dimostrato quale trappola senza via d’uscita sia la regola capestro dell’unanimità che essa si è data, e che ha permesso per giorni al governo di un Paese come l’Ungheria di neppure dieci milioni di abitanti (più o meno il 2-3 per cento della popolazione dell’intera Unione), di bloccare la decisione circa l’embargo sulle importazioni di petrolio dalla Russia. E perfino, sembra incredibile, d’impedire che l’Unione prendesse qualche misura sanzionatoria contro Kirill, il «chierichetto di Putin» come lo ha definito il Papa.

Ma non nascondiamoci dietro un dito. Con il suo no ostinato Orbán — il quale forse ne è perfettamente consapevole — ha offerto un comodo alibi a molti altri governi dell’Unione, a cominciare da quello tedesco, che in queste settimane non hanno mancato di manifestare in mille modi la loro scarsa, scarsissima, volontà di opporsi fino in fondo all’aggressione russa all’Ucraina. Che non ne vogliono sapere (naturalmente cercando di non farlo vedere troppo) di percorrere fino in fondo la via delle sanzioni contro Mosca.

Sono stati davvero pochi finora i governanti del continente che sull’argomento hanno adoperato le parole chiare, dure, senza possibilità di equivoci, che ha adoperato il presidente Draghi.

Il fatto è che la guerra è un’infallibile cartina al tornasole. In un modo o nell’altro essa infatti, mettendo in gioco gli interessi primari, gli interessi vitali di una collettività, comunque quelli che essa considera tali, fa emergere la sua realtà profonda. È allora dunque che si vede di che cosa essa è fatta, quali sono i suoi tratti costitutivi e i suoi principi, quali stati d’animo governino i suoi cittadini. Per avere un’idea di come stiano realmente le cose non è necessario che si arrivi alla prova ultima del combattimento. Bastano le reazioni che suscita il semplice «discorso» della guerra, il semplice sentore di un’ostilità aspra e potenzialmente ultimativa. Basta quindi, come in questo caso, vedere come stanno reagendo tutte le opinioni pubbliche dei maggiori Paesi europei all’eventualità che resistere alla prepotenza russa comporti un periodo di difficoltà economiche magari gravi, di privazioni. Più o meno esplicitamente ma in maggioranza con un netto rifiuto: in un regime democratico i governi, come è ovvio, non fanno poi che adeguarsi.

Sia chiaro: non si tratta di sottovalutare i pericoli che ci stanno di fronte o tanto meno di augurarsi l’esplosione di chissà quali furori bellicisti. Guai se in circostanze come le attuali non si badasse alla cautela nelle parole e alla ponderatezza dei propositi. Ma il punto non è questo. È che nell’atmosfera oggi dominante nell’ Europa continentale non si respira prudenza e avvedutezza ma dell’altro. Si respira voglia di non avere fastidi, di girare la testa dall’altra parte, si sente solo il desiderio di non essere chiamati a scelte importanti e Dio non voglia onerose. E si avverte prepotente ciò che ne consegue: l’intenzione di restare fuori dall’arena dove si decidono le sorti del mondo. Quella non è più roba per noi.

E forse le cose stanno proprio così. La grande storia non è più roba per noi, neppure nell’unica parte che oggi ci è possibile, quella di comprimari anche se non proprio di ultima fila. Sulle spalle dell’Europa — di quella continentale beninteso, per la Gran Bretagna il discorso è del tutto diverso — pesa il passato di errori e di sconfitte del Novecento che ha cancellato tutto quanto veniva prima e che pure qualche punto all’attivo ci aveva fatto guadagnare. Nel quinquennio terribile dal 1940 al ’45 il fascismo, il nazismo, il dispotismo più vario (tutta roba nata in Europa) e poi la resa e il collaborazionismo dovunque, la complicità con il razzismo dappertutto e infine la salvezza ma arrivata d’oltremare, non solo hanno avuto nell’immediato l’effetto di cancellare virtualmente ogni antica potenza dell’Europa, ma, quel che più conta, hanno spezzato per sempre il suo orgoglio e l’immagine di sé che essa aveva. È come se il ’45 avesse inghiottito secoli di storia del continente. Da quella data l’Europa non ha più un passato, non sa più che cosa è, che cosa ci sta a fare nel mondo.

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Ucraina Russia, news sulla guerra di oggi | Kiev, 31.000 soldati russi uccisi. Mosca:40 navi da guerra nel pacifico

venerdì, Giugno 3rd, 2022

di Francesco Battistini, Marta Serafini

Le notizie di venerdì 3 giugno sulla guerra, in diretta. Stoltenberg dopo l’incontro con Biden: prepararsi a una lunga guerra di usura. Avanza ancora l’esercito russo a Est. A Kiev riaperte 50 ambasciate

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(Epa)

• La guerra in Ucraina è arrivata al 100esimo giorno (qui le foto simbolo dei primi 100 giorni).
• Le truppe russe continuano ad avanzare nell’est. Zelensky denuncia: «Mosca occupa il 20% del nostro territorio».
• Secondo l’intelligence Usa il presidente russo Vladimir Putin avrebbe un cancro in fase avanzata e a marzo sarebbe scampato a un tentativo di omicidio.
• Via libera al sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue contro la Russia. Il patriarca Kirill è stato tolto dalla lista nera dalle persone soggette alle sanzioni.
• Il presidente ucraino ringrazia Biden e gli Stati Uniti per la fornitura dei moderni lanciarazzi Himars
• Mattarella: l’aggressione russa mina coesistenza pacifica.
• Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg dopo l’incontro con Biden: «L’Occidente si deve preparare a una lunga guerra di usura».

Ore 09:55 – Mosca, pronti a dialogo su tutti i temi ma sia rispettoso

La Russia è pronta a «condurre un dialogo su tutte le questioni, ma deve essere rispettoso, e deve tenere conto della sovranità e delle preoccupazioni della Federazione Russa». Lo ha detto il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev , in un’intervista esclusiva ad Al Jazeera, riportata dall’agenzia russa Interfax.

Ore 09:18 – Kiev, 31.000 soldati russi uccisi in 100 giorni di guerra

Sono circa 30.950 i soldati russi uccisi in Ucraina nei primi 100 giorni dell’invasione russa: lo riporta l’esercito di Kiev su Twitter .

Nel suo aggiornamento sulle perdite subite finora da Mosca, l’esercito ucraino indica che si registrano anche 210 caccia, 175 elicotteri e 535 droni abbattuti. Inoltre le forze di Kiev affermano di aver distrutto 1.367 carri armati russi, 675 pezzi di artiglieria, 3.366 veicoli blindati per il trasporto delle truppe, 121 missili da crociera e 13 navi.

Ore 08:54 – Russia: esercitazione militare nel Pacifico con 40 navi guerra

Sono iniziate le esercitazioni militari della flotta russa del Pacifico, che coinvolgono più di 40 navi da guerra e navi di supporto, oltre a 20 aerei ed elicotteri. Lo ha annunciato il ministero della Difesa russo , secondo quanto riporta la Tass.

La flotta militare russa nel Pacifico ha iniziato una esercitazione che coinvolge oltre 40 navi da guerra e 20 aerei da combattimento e elicotteri. Lo riporta l’agenzia Tass citando fonti della Difesa russa.

Il dicastero della Difesa precisa che la nave «Maresciallo Krylov» e la fregata «Maresciallo Shaposhnikov» prendono parte all’esercitazione, insieme a grandi navi e corvette anti-sottomarino, piccole navi anti-sottomarino, dragamine, navi missilistiche e navi ausiliarie. L’esercitazione si svolgerà fino al 10 giugno, in conformità con il programma di addestramento 2022 della flotta del Pacifico, spiega infine il ministero.

Ore 08:40 – Intelligence britannica: Mosca vince del Donbass ma il piano originale è fallito

La Russia registra un «successo tattico» nel Donbass, ma se la sua performance in Ucraina viene misurata rispetto al piano originale dell’invasione «nessuno degli obiettivi strategici è stato raggiunto»: lo scrive l’intelligence britannica nel suo aggiornamento quotidiano sulla situazione nel Paese.

Il rapporto, pubblicato dal ministero della Difesa su Twitter, sottolinea inoltre che per ottenere qualsiasi tipo di successo strategico ci vorrà probabilmente ancora molto tempo e serviranno enormi investimenti in uomini ed equipaggiamenti.

Ore 08:33 – E se tornasse Trump? L’ex presidente e i piani per la rivincita nel 2024

(Federico Rampini) «Per la legge sul finanziamento della campagna elettorale non sono autorizzato a dire se mi ricandido nel 2024. Dirò solo questo: molti americani saranno contenti».

Così Donald Trump ha risposto alla domanda sulla sua rivincita, in una recente intervista televisiva al giornalista inglese Piers Morgan. Con Joe Biden che fatica a raggiungere il 40% di consensi nei sondaggi e il partito repubblicano favorito per la riconquista della maggioranza parlamentare alle elezioni di novembre, un ritorno di Trump alla Casa Bianca non è un’ipotesi remota. L’armata dei suoi elettori – pur perdendo contro Biden lui ne conquistò 11 milioni in più dal 2016 al 2020 – ha nostalgia di lui. Rimpiangono il boom economico durante la sua presidenza (pre-Covid, certo). Considerano sacrosante le scelte che fece per penalizzare la Cina con i dazi e per limitare l’immigrazione, tant’è che Biden finora non ha cambiato in modo sostanziale queste due politiche.

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Ore 08:33 – Hillary Clinton: Putin ha fede messianica in se stesso

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Putin «ha un cancro in fase avanzata, curato ad aprile»: il report dell’intelligence Usa

venerdì, Giugno 3rd, 2022

di Giuseppe Sarcina

La rivelazione sulla malattia di Putin contenuta in report classificato di cui dà notizia Newsweek: secondo le fonti la presa dello zar sul potere non sarebbe più assoluta, e le manovre intorno a lui sarebbero intense. Il presidente russo «scampato a un tentativo di omicidio a marzo»

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON — Vladimir Putin «è gravemente malato». Tanto che «nel mese di aprile è stato sottoposto a un trattamento medico per una forma di cancro avanzato».

Newsweek rilancia le voci sulle condizioni di salute del presidente russo. Il settimanale americano cita tre «personalità» che avrebbero letto un rapporto riservato dei servizi segreti americani.

Nel dettaglio gli informatori di Newsweek sono: un funzionario della Direzione nazionale dell’Intelligence (Dni), la struttura che coordina le 17 agenzie dei servizi segreti; un componente dell’intelligence del Pentagono e, infine, un ex ufficiale dell’Aviazione militare.

Secondo queste fonti «la presa di Putin sul governo non è più assoluta. Le manovre all’interno del Cremlino non sono mai state così intense negli ultimi vent’ anni; tutti hanno la sensazione che la fine sia vicina».

Il report confermerebbe anche che Putin sarebbe sfuggito a un tentativo di assassinio in marzo.

La presunta malattia di Putin, 69 anni, tiene banco da mesi soprattutto sui social.

Si inseguono voci, indiscrezioni: «Ha il cancro»; «no, ha il Parkinson». Alcune rivelazioni si sono spinte fino al surreale. Giusto per citarne una: il Cremlino avrebbe un piano per sostituire Putin con un sosia in alcuni eventi pubblici.


Tuttavia i servizi segreti Usa stanno monitorando ormai da mesi le apparizioni di Putin, cercando di individuare i sintomi di una possibile patologia: il tremolio di una mano o di un piede, il gonfiore sospetto del viso.

L’agente della Dni, interpellato da Newsweek , osserva: «Quello che sappiamo è che questo è un iceberg, sebbene sia avvolto nella nebbia». È la stessa sensazione che il consigliere per la Sicurezza, Jake Sullivan, ha condiviso più volte con i reporter: l’intelligence americana ha una «visibilità limitata» su ciò che accade a Mosca. Anche il direttore della Cia, William Burns, ha avvertito il Congresso, in un paio di audizioni: attenzione perché abbiamo poche informazioni sugli equilibri all’interno della «nomenklatura» russa.

Putin si è isolato ancora di piu; ha ridotto drasticamente gli incontri con i capi di Stato stranieri. Di conseguenza anche il lavoro degli 007 americani è diventato più complesso. Inoltre l’esperienza, avverte questa volta, l’ex ufficiale dell’Air Force, consiglia prudenza: «Dobbiamo ricordarci delle lezioni del passato. I servizi segreti erano sicuri che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa e che Osama bin Laden fosse stato colpito da una grave disfunzione renale. Due errori di valutazione».

Ma se Putin fosse davvero gravemente malato, ci sarebbero meno rischi di un conflitto nucleare, perché un leader debole potrebbe avere più problemi a far passare una decisione così devastante.

In ogni caso, è la conclusione del report, il governo americano non dovrebbe fermarsi ad aspettare «la morte di Putin» e dovrebbe anche preoccuparsi di che cosa potrebbe accadere in caso di un pericoloso vuoto di potere al vertice della Russia.

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Ue, la rabbia delle capitali contro l’Ungheria: “Orbán ci sta ricattando, sulle sanzioni andiamo avanti da soli”

giovedì, Giugno 2nd, 2022

dal nostro corrispondente Claudio Tito

BRUXELLES – “Adesso basta. O fa retromarcia oppure questo è il momento di approvare le sanzioni a 26 e tirare fuori l’Ungheria”. Quando la riunione del Coreper – il comitato dei 27 ambasciatori a Bruxelles – è finita, quasi tutti i Rappresentanti permanenti hanno iniziato a minacciare quello che fino a ieri sembrava impossibile: approvare il sesto pacchetto di sanzioni senza Orban. Introdurre di fatto il principio del voto a maggioranza e praticare una sorta di “super-cooperazione rafforzata”. Isolare il premier magiaro e spingerlo sull’orlo dell’espulsione. Francia, Italia, Germania e Spagna i Paesi più duri. E i più decisi. Perché dietro l’ennesimo “no” di Budapest, non c’è più la giustificazione di perdere i rifornimenti energetici. Non sono più in gioco l’embargo al petrolio russo e gli interessi economici del Paese. Ma si tratta di un cedimento alla Russia e un ricatto alla Commissione europeo. L’irritazione ieri sera era dunque palpabile. Del resto, questo nuovo stop alle sanzioni contro la Russia sono davvero una figuraccia per l’Unione europea. E per i suoi leader che solo 24 ore prima avevano stretto un accordo nella sede più solenne: quella del Consiglio europeo. Uno schiaffo all’unità del Vecchio Continente. Un’altra pillola che paralizza l’Unione. E una sponda al Cremlino. “La pazienza adesso è finita”, è stato quindi il messaggio che l’inquilino dell’Eliseo, Emmanuel Macron, ha trasmesso al suo ambasciatore a Bruxelles. Dello stesso tenore i segnali trasmessi da Roma e Berlino. La presidenza di turno francese proverà a ricucire il rapporto nella notte e stamattina. In giornata infatti il Coreper dovrebbe essere nuovamente convocato per stendere l’intesa raggiunta l’altro ieri dai capi di Stato e di Governo. Ma tutto sembra ormai sfibrato. Ad un tocco dallo strappo definitivo. Anche perché il sospetto di tutti gli altri 26 è che adesso Orban stia provocando la rottura e che voglia ricattare i vertici di Bruxelles. Non è un negoziato, ma una scelta politica. La difesa del Patriarca di Mosca Kirill è quasi una confessione. Il capo della Chiesa Ortodossa russa è notoriamente vicinissimo al Cremlino. I rapporti con Putin sono stretti e finanziariamente intensi. Basti pensare che Papa Francesco ha scelto di non incontrarlo proprio per questo motivo. Non vuole legittimarlo. Far dipendere allora il sesto pacchetto di sanzioni dalla cancellazione del suo nome dalla “lista nera” europea, viene considerato soltanto un messaggio esplicito alla presidenza russa. Un modo per far sapere che nell’Ue esiste una “quinta colonna” di Putin.
Non solo. La rabbia del “blocco eurosolidale” è determinata da un altro sospetto: che Budapest stia bloccando le misure per ottenere dalla Commissione il via libera ai soldi del Pnrr. Ieri il disco verde è stato acceso per la Polonia che ha accolto le richieste di Bruxelles sul cosiddetto Stato di diritto. E in particolare sulla magistratura rispetto alla quale Varsavia si è impegnata ad approvare una riforma che ne garantisca l’indipendenza. Per Budapest, al contrario, i 7 miliardi a sua disposizione restano nel freezer. Nessuna assicurazione è arrivata, ad esempio, sui diritti Lgbt.

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