Le metafore funerarie Grillo (nel tondo) le ha sempre usate per
parlare dei partiti, gli altri ovviamente. «Siete morti», «zombie che
camminano», «ectoplasmi politici», «cadavere in decomposizione» (a
proposito di un ex premier in vita, che maestro di eleganza) e altri
epiteti da repertorio horror. Stavolta a spirare davanti ai suoi occhi è
invece il M5s, e a Grillo tocca scrivere l’epitaffio sulla tomba del fu
Movimento. Sul blog in un tripudio di immagini lugubri, tra «paludi» e
«oscurità» e luci che «disinfettano», citando Steve Jobs il fondatore
dei 5s saluta la morte «come agente di cambiamento della vita», dunque
il passaggio a miglior vita del M5s, da cui Grillo aveva comunque già
astutamente preso le distanze da tempo, intuendo che sarebbe finita
malissimo. «Siamo tutti qui per andarcene – ricorda sempre in tema campo
santo -, ma possiamo scegliere di lasciare una foresta rigenerata o
pietrificata». Il paragone tra la Apple e il M5s è lievemente azzardato,
ma la questione è un’altra.
Il monumento funebre di Grillo contiene anche una precisa accusa, ed è contro Di Maio. «Qualcuno non crede più nelle regole del gioco? Che lo dica con coraggio e senza espedienti». Qui la regola del gioco è il limite dei due mandati parlamentari, l’arma utilizzata da Conte per far fuori la vecchia guardia M5s, Di Maio in testa, e portare in Parlamento truppe a lui fedeli con le politiche dell’anno prossimo (oltre ai veterani contiani «derogati» dal limite per editto del capo). Nei giorni scorsi Conte ha attaccato su questo Di Maio, definendolo «in fibrillazione per la ricandidatura». E Grillo si è schierato con lui, con un post in cui difendeva la regola dei due mandati contro i «gestori che si arroccano nel potere», perché la funzione della regola è «prevenire il rischio di sclerosi del sistema di potere, se non di una sua deriva autoritaria, che è ben maggiore del sacrificio di qualche (vero o sedicente) Grande Uomo».
La crisi legata al parziale blocco del corridoio di Kaliningrad ha convinto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a chiedere all’Europa di agire adesso con un nuovo pacchetto di sanzioni
contro Mosca. “Un’altra minaccia russa alla Lituania – ha detto
Zelensky nel suo ultimo video pubblicato la scorsa serata sul proprio
canale Telegram – un’altra ondata di pressioni
energetiche, un’altra serie di bugie da parte di funzionari russi sulla
crisi alimentare, sono tutti argomenti per concordare sul settimo
pacchetto di sanzioni”. Al momento l’Ue ha attuato, a partire
dall’inizio dell’invasione russa, sei distinti pacchetti di misure
sanzionatorie contro la federazione russa. Misure che solo in parte
hanno soddisfatto Kiev, da cui è stato spesso chiesto il blocco totale
sul fronte energetico. Per Zelensky le ultime novità politiche
dovrebbero spingere Bruxelles ad agire nuovamente. “La Russia – ha
proseguito il presidente ucraino – deve sentire un costante aumento
della pressione per la guerra e per la sua aggressiva politica
anti-europea. In tutti i negoziati sottolineo sempre che è necessario al
più presto il settimo pacchetto di sanzioni dell’Ue”.
Intanto
aumenta la tensione a livello politico dopo il parziale blocco, deciso
lunedì dal governo lituano, del corridoio che collega l’enclave russa di
Kaliningrad verso il resto del territorio della federazione. Il Cremlino ieri ha parlato, tramite il segretario del consiglio di sicurezza Nikolaj Patrushev,
di reazione importante “che colpirà duramente il popolo lituano”. Dal
canto suo l’Unione Europea è intervenuta a sostegno della Lituania,
rimarcando come Vilnius si sia limitata ad applicare le sanzioni,
bloccando merci e persone raggiunge dalle misure restrittive in campo
economico. Da Washington hanno ribadito il proprio
sostegno “blindato” alla Lituania. Sulla questione di Kaliningrad sembra
destinato a ruotare nei prossimi giorni il dibattito politico attorno
l’intero dossier ucraino.
La diretta:
Ore 10:19 | Incendio in una grande raffineria a Rostov, Mosca accusa Kiev: “Colpa di un drone ucraino”
Un
incendio dalla prima mattinata di questo mercoledì imperversa nella
raffineria di Novoshakhtinskij, nella regione di Rostov. Si tratta di
una struttura delicata, in quanto rappresenta la più grande raffineria
del sud della Russia. Una fonte delle autorità locali ha riferito
all’agenzia Tass di un “drone ucraino notato dagli operai sopra l’area
della raffineria prima dell’incendio”. Il drone si sarebbe schiantato in
una delle strutture della raffineria, da cui poi è partito l’incendio.
Ore 9:47 | Governatore Lugansk: “Sono 568 i civili dentro lo stabilimento Azot”
Sarebbero
almeno 568 le persone all’interno dell’impianto chimico Azot, a
Severodonetsk. Tra i civili presenti, 38 sarebbero bambini. Lo ha reso
noto su Ukrainska Pravda il governatore di Lugansk, Sergej Hayday. “Ora è
molto pericoloso evacuarle – ha aggiunto – quindi è più sicuro per loro
stare nei rifugi”.
Quello di Mario Draghi è un muro di gomma. Contro il quale rimbalzano
per ore il M5s e anche la Lega, decisi a strappare una risoluzione che
non faccia riferimento al decreto Ucraina, quello approvato lo scorso
marzo dalle Camere a larghissima maggioranza. A Palazzo Chigi, infatti,
non ne vogliono sapere, ben consapevoli che quel provvedimento è il
fondamento giuridico che legittima il governo anche sul fronte
dell’invio di armi a Kiev fino al prossimo 31 dicembre. Cedere sul
punto, significherebbe di fatto farsi «commissariare», con il rischio di
dover passare dal Parlamento per qualunque tipo di intervento. Per
Draghi una soluzione inaccettabile. Non solo perché il quarto decreto
interministeriale per l’invio di ulteriori armi in Ucraina è già in
cantiere (sarà pronto in due-tre settimane) o perché l’agenda
internazionale è già oggi molto fitta (Consiglio Ue a Bruxelles, G7 in
Baviera e vertice Nato a Madrid nei prossimi otto giorni). A preoccupare
il premier, infatti, c’è anche la collocazione internazionale di chi
ieri ha alzato la fronda.
Dopo la giornata di lunedì, dunque, anche la mattinata di ieri è piuttosto faticosa per Federico D’Incà e Vincenzo Amendola. Il ministro dei Rapporti con il Parlamento e il sottosegretario agli Affari europei hanno infatti il compito di portare avanti la mediazione durante le oltre undici ore di riunione fiume sul testo della risoluzione. In costante contatto con Palazzo Chigi, che non lasciato spazio a concessioni. Anzi, ieri mattina il messaggio recapitato al M5s non lasciava spazio a interpretazioni: il riferimento al decreto 14 del 2022 non è rinunciabile e sia chiaro che se il Movimento decidesse di non sostenere la risoluzione o di votarla per parti separati la cosa non sarebbe senza conseguenze. Insomma, se dovesse cambiare la maggioranza, pur non essendoci problemi di numeri, si aprirebbe comunque la strada alla crisi. Perché il governo Draghi, con tutta evidenza, non è un esecutivo politico, ma è il frutto di un accordo che ha la benedizione del Quirinale e che coinvolge quasi tutto l’arco parlamentare (a parte FdI che conta però meno di 60 parlamentari). Nessuno si illuda, insomma, di venire meno agli impegni e fare campagna elettorale sulle spalle degli altri partiti senza che questo non implichi conseguenze. E la prima Giuseppe Conte la sta già vivendo sulla sua pelle, visto che il suo tentativo di alzare l’asticella in maniera pretestuosa e per giunta su un tema così delicato come la guerra in Ucraina ha dato il là al redde rationem all’interno del M5s. Se l’ex premier ha provato a giocare la carta della fronda sulla politica estera e sull’invio di armi in Ucraina (una questione che coinvolge la collocazione geopolitica dell’Italia, visto che si tratta di decisioni prese in ambito Ue e Nato), Luigi Di Maio ha deciso di replicare dando il via alla scissione dei gruppi grillini.
Nel Distretto del fiume Po e quello dell’Appennino centrale, il Dipartimento della Protezione civile registra le situazioni più gravi causate dalla siccità per «precipitazioni al di sotto delle medie del periodo e temperature superiori alle medie stagionali». Ma è quasi tutta l’Italia a continuare a soffrire la carenza di acqua. Non piove e le temperature non accennano a calare mentre la soglia di allerta cresce.
Verso lo Stato di emergenza
Le Regioni mercoledì incontrano il capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio per definire gli interventi da mettere in campo e non si esclude un tavolo con il governo già entro la fine della settimana. La richiesta dei governatori all’esecutivo resta quella di dichiarare lo stato di emergenza nazionale che permetta così alle Regioni di prendere provvedimenti in maniera più rapida. E intanto sul territorio aumentano razionamenti e divieti, inclusi inviti a non sprecare e stop notturni. In Piemonte, la regione più colpita, sono oltre 200 i Comuni ad aver deciso limitazioni. E anche i parchi acquatici hanno paura, tanto da proporre di utilizzare l’acqua di mare per evitare razionamenti o chiusure anticipate.
I danni per l’Agricoltura
Ma è l’agricoltura a destare le maggiori preoccupazioni. In questi giorni, spiegano gli addetti del settore, si decidono i raccolti dell’anno. La Cia-Agricoltori italiani calcola che i danni complessivi potrebbero superare il miliardo di euro, solo nel bacino del Po è a rischio il 50% della produzione agricola, e se per mais e soia già si calcola un calo del 50% (già in difficoltà per la guerra in Ucraina), per altri frutti e verdure la coltivazione potrebbe non partire. In Lombardia l’Enel ha lanciato l’allarme: «L’acqua è finita – ha spiegato Giovanni Rocchi di Enel Green Power, in audizione in Regione – tutta la disponibilità è stata impiegata per coprire le necessità del comparto agricolo nei prossimi 10 giorni, è stato fatto il possibile». Il governatore lombardo Attilio Fontana assicura che «per ora» non ci saranno razionamenti dell’acqua per usi civili – «ora stiamo intervenendo per risolvere i problemi degli usi agricoli» -, ma l’assessore a Enti locali e Montagna Massimo Sertori è chiaro: «Se il raccolto dovesse andare in malora, saremmo pronti a chiedere lo stato di calamità».
Il governatore del Piemonte Alberto Cirio chiede al governo immediati sostegni all’agricoltura «le colture sono in una fase cruciale: l’acqua così come le misure straordinarie servono ora». E chiede più fondi per nuovi invasi: «Da mesi stiamo lavorando per la realizzazione di piccoli invasi in grado di poter rilasciare acqua in casi di emergenza, bisogna accelerare e destinare ingenti risorse, dal Pnrr, fino a 4 miliardi di euro, oggi sono 400 milioni». In Emilia Romagna è stato dichiarato lo stato di crisi regionale e i Comuni sono invitati ad emettere ordinanze locali per il risparmio idrico: «Non è il momento di lavare l’auto», dice l’assesssore all’Ambiente Irene Priolo. Il Po è sceso di 8 metri e
l’acqua del mare – il cosiddetto cuneo salino – continua ad avanzare
con rischi anche per l’acqua potabile. Martedì per mancanza di acqua, Enel Green Power ha dovuto spegnere temporaneamente le turbine della centrale idroelettrica di Isola Serafini di San Nazzaro, nel piacentino.
Il racconto: la spaccatura tra Conte
e Di Maio tiene banco nei corridoi di Palazzo Madama mentre si lima il
documento che finisce per tenere insieme le forze (divise) della
maggioranza
Istinto primordiale: tuffarsi nella tonnara grillina. Le sinapsi dei cronisti sfrigolano con un mucchio di pensieri malevoli. I 5 Stelle si dividono, si sfasciano. Quando? Adesso. Calma.
Inquadrare la scena, cronaca: il premier Mario Draghi, tra poco, chiederà al Senato di essere autorizzato a mandare altre armi in Ucraina; Giuseppe Conte pretenderebbe invece che ogni spedizione fosse preceduta da un passaggio parlamentare (l’ambasciatore russo Sergej Razov ha
già ringraziato, soffiando sulfureo compiacimento); Luigi Di Maio,
colpevole di essersi indignato per tanta ostilità nei confronti del
governo, è stato sottoposto a brutale processo dal tribunale contiano. Provocazione, sfida, apocalisse. «Giggino sta raccogliendo firme tra i parlamentari del Movimento». Se ne va, prima di essere espulso.
Dalla buvette di Palazzo Madama arrivano risate cimiteriali.
Circoletto intorno a Matteo Renzi, che ingoia (letteralmente, tipo fachiro) due pizzette sotto le occhiate adoranti di Francesco Bonifazi,
l’amico tesoriere sempre abbronzato come Carlo Conti. L’intervento di
Renzi in aula, poco fa, di un’altra categoria (ad alcuni può apparire
presuntuoso, egocentrico, spregiudicato: però rispetto alla media dei
senatori è legittimato a considerarsi un incrocio tra Churchill e De
Gasperi, ma forse più Churchill). Anche oggi è il più veloce di tutti: «I grillini sono finiti. Si stanno dividendo per capire chi entrerà nel prossimo Parlamento». Interviene Pier Ferdinando Casini (che pure si è esibito in un intervento pieno di saggezza): «Io invidio Renzi perché è giovane e bello» (sguardi maliziosi). Il socialista Riccardo Nencini: «Scusate, io vado».
Il botto dei 5 Stelle diffonde un certo, innegabile buon umore (avevano promesso di aprire questo luogo sacro come una scatoletta di tonno, un po’ di rancore ci sta). Portaborse: «Ragazzi, è fatta». Il ministro Federico D’Incà e il sottosegretario Enzo Amendola (gran mediatore) sono riusciti a limare anche l’ultima virgola di una risoluzione che mette d’accordo tutte le forze di governo e consente a Draghi di partecipare al prossimo Consiglio europeo. Il voto, però, sembra ormai un dettaglio. Tutti guardiamo Di Maio: eccolo laggiù, in fondo al corridoio con le pareti foderate di velluto. È livido, teso, gelido. Gira voce che avrebbe arruolato oltre 30 deputati (destinati ad aumentare dopo i ballottaggi delle comunali) e una decina di senatori, ci sono i primi nomi (Castelli, Spadafora), il gruppo si dovrebbe chiamare «Insieme per il futuro», sembra abbiano già una sede.
Giuseppe
Conte era partito lancia in resta per piegare il governo sull’Ucraina.
Ha finito con il perdere una sessantina dei suoi parlamentari, senza
peraltro ottenere nessun cambio di linea in politica estera. Il
Parlamento ha deciso che l’Italia resta impegnata, insieme e al pari
degli altri grandi Paesi europei, a difendere in ogni modo l’Ucraina,
aggredita da Putin. Ma il partito di maggioranza relativa non c’è
più: si è spaccato, scisso, ha perso il ministro degli Esteri che si è
fatto un gruppo a sé, precipitando così nelle convulsioni finali di una
crisi che durava da tempo e che era già diventata manifesta nelle urne.
Di Maio, il «capo politico» dei tempi felici quando i voti
grandinavano, è ora un nemico. La rivoluzione a cinque stelle,
cominciata nelle urne nove anni fa, si è forse conclusa ieri in
Parlamento.
Con l’aggravante che mai, durante queste
settimane, si è avuta la sensazione di un vero, sincero, nobile
dibattito di politica estera. Ma piuttosto di una guerra
intestina per procura, nella quale la sorte dell’Ucraina valeva più o
meno come la questione del terzo mandato dei parlamentari. Il pacifismo
di Conte risulta posticcio in un ex premier che ha firmato con Trump
l’impegno ad accrescere la spesa militare italiana fino al 2%.
Fa così il paio con il pacifismo di Salvini, rimesso frettolosamente nel cassetto dopo l’insuccesso alle amministrative.
Di Maio, che era già sull’uscio da tempo, ha evidentemente preferito
andarsene sulla politica estera, e non ha offerto vie di fuga
all’avversario, imprudentemente lanciatosi su una strada che non avrebbe
potuto percorrere fino in fondo perché portava alla crisi di governo.
Mentre questo esecutivo non ha alternative da qui alla fine della
legislatura.
È l’esito dello psicodramma di ieri e delle ore convulse che l’hanno preceduto. E ciò che è più paradossale è che era un esito scontato.
Non si cambia posizione nel pieno di una guerra, smentendola nemmeno
tre mesi dopo averla votata ad amplissima maggioranza in Parlamento, se
non si vuol essere un paese da operetta. Né il regime parlamentare, nel
quale l’esecutivo riceve il mandato dalle Camere e poi governa, poteva
essere sostituito con un regime assembleare, in cui non governa più
l’esecutivo ma le risoluzioni parlamentari (e Conte, che ha gestito la
pandemia a furia di Dpcm, avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque
altro).
Così, proprio mentre in
Francia le forze politiche più radicali ed estreme ottengono il miglior
risultato elettorale di sempre, in Italia conoscono una grave crisi di
prospettive e di consensi. Pandemia, guerra, inflazione, che
hanno gonfiato le vele di Mélenchon e di Marine Le Pen, sembrano invece
sgonfiare le gomme ai Cinquestelle e anche alla Lega, i due
corrispettivi cisalpini.
Con il ministro 51 deputati e 11
senatori. Ecco come il Movimento ha dimezzato i propri rappresentanti:
nel 2018 erano 333, oggi sono 165. Ma lo scouting non è finito
Dopo la scissione varata da Luigi Di Maio
, il primo partito di maggioranza a sostegno del governo Draghi diventa la Lega: 193 parlamentari (132 deputati e 61 senatori). A ruota c’è il M5S, che si ferma a quota 165,
sottraendo 51 eletti a Montecitorio e 11 a Palazzo Madama, passati con i
nuovi gruppi dei fedelissimi del ministro degli Esteri. Nella compagine draghiana ci sono poi Forza Italia (134) e il Pd (132).
L’implosione dei Cinque stelle, oggi dimezzati rispetto ai 333 seggi
conquistati con il boom del 2018, rivoluziona i rapporti di forza in
Parlamento.
Di Maio, dopo una trattativa di adesioni accelerata dal cruento scontro con Conte
, strappa al suo ex partito 62 parlamentari, che daranno vita a
«Insieme per il futuro». Ma la cifra è destinata a crescere nei prossimi
giorni. E a travalicare i confini del Parlamento, spaccando il M5S
anche nelle Regioni. In Campania, Molise e Abruzzo alcuni fedelissimi del ministro potrebbero già dar vita a gruppi autonomi.
A seguire il titolare della Farnesina ci sono anche pezzi importanti del governo, come la viceministra Laura Castelli (Economia). Poi i sottosegretari: Manlio Di Stefano (Esteri), Dalila Nesci (Sud), Anna Macina (Giustizia) e Pierpaolo Sileri (Salute). Qualcuno, come l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, non se l’è sentita e ha preferito restare tra gli stellati, ma la campagna acquisti è tutt’altro che chiusa. Lo scouting non è finito. Ci sono ex ministri che potrebbero presto riunirsi con i dimaiani. Anche perché sulla truppa M5S c’è sempre lo spettro della tagliola dei due mandati. Non a caso, tra i grillini che hanno seguito l’ex leader ci sono diversi volti storici: da Carla Ruocco (ex esponente del direttorio) all’ex tesoriere Sergio Battelli, dall’ex capogruppo alla Camera Francesco D’Uva, compresi Mattia Fantinati e Gianluca Vacca.
Di sicuro la scissione ha un
impatto importante anche a livello governativo. Per fare un confronto: i
dimaiani sono 62, contro i 45 renziani di Italia viva. Tra
i rumors si fanno già i nomi dei possibili capigruppo: Vincenzo
Spadafora per la Camera e Primo Di Nicola o Vincenzo Presutto per il
Senato. C’è chi ironizza: «I contiani dicevano che eravamo venti al massimo. Si vede che sanno contare come sanno fare politica». Lo
strappo causerà anche un danno economico non irrilevante per le casse
M5S, tra mancate restituzioni e rimborsi per la comunicazione che
finiranno nei nuovi gruppi. E anche in questo caso i dimaiani non risparmiano sarcasmo: «Si vede che il contratto di Grillo diventerà annuale».
Oggi la prima prova dell’esame di
maturità 2022: nelle tracce Nedda di Verga, La via ferrata di Pascoli,
un brano dal libro di Liliana Segre e Gherardo Colombo, ma anche il
Covid, la musica e l’iperconnessione e i suoi rischi. Rispettate le
attese della vigilia.
• Alle 8.30 di oggi, 520 mila studenti hanno cominciato il loro esame di maturità con la prima prova scritta. • Tra le tracce più attese Giovanni Pascoli e Giovanni Verga. • Intervistato ieri dal Corriere,
il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi dice: «L’esame di maturità
non è un test: serve a valutare il percorso svolto dai ragazzi in un
periodo particolarmente difficile. E infatti la media dei voti del
triennio quest’anno conta fino al 50 per cento sul voto finale. Non
serve usare il bilancino. Anche in caso di uno scivolone nello scritto,
le commissioni possono essere equilibrate: sono autonome e hanno la
responsabilità di valutare la persona» • Tutti gli aggiornamenti nello speciale Maturità 2022
Ore 09:42 –
Ore 09:40 – «Nedda» di Giovanni Verga, la prima traccia
«Era una ragazza bruna,
vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno
la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e la
fatica non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze
gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano
neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti
bianchi come l’avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti
che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi,
nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a
quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala
umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della mi –
seria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua
rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate
violentemente da sforzi penosi erano diventate grossolane, senza essere
robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi
nei terreni che si andavano dissodando, o portava dei carichi in città
per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quella
parte stimansi inferiori al compito dell’uomo. La vendemmia, la messe,
la raccolta delle olive, erano per lei delle feste, dei giorni di
baldoria, un passatempo, anziché una fatica. È vero bensì che fruttavano
appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava
13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano
grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza
muliebre. L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che
quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra
il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi
abituati ad andar nudi sulla neve e sulle rocce infuocate dal sole, a
lacerarsi sulle spine, o a indurirsi sui sassi, avrebbero potuto essere
belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse codesta creatura
umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti
che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. – Così
era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua
figlia. (…) Tre giorni dopo udì un gran cicaleccio per la strada. Si
affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di
comari Janu disteso su una scala a piuoli, pallido come un cencio
lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue.
Lungo la via dolorosa che dovette farsi prima di giungere al casolare di
lui, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole
per le febbri, era caduto da un’alta cima, e s’era concio a quel modo41.
– Il cuore te lo diceva! mormorò egli con un triste sorriso. Ella
l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui, e
tenendolo per mano. L’indomani egli morì. (…) Adesso, quando cercava del
lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole,
ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i
primi rifiuti e le prime risate ella non osò cercare più oltre, e si
chiuse nella sua casupola, come un uccelletto ferito che va a
rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla
calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste
nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per
quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza
la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di
morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta:
quando le dissero che non era un maschio pianse come avea pianto la sera
in cui avea chiuso l’uscio del casolare e s’era trovata senza la mamma,
ma non volle che la buttassero alla Ruota».
Ore 09:34 – Il Nobel Parisi dal Parlamento alla maturità
La terza traccia del testo argomentativo ha come spunto il discorso tenuto dal Nobel Giorgio Parisi alla Camera dei Deputati l’8 ottobre 2021. Eccolo: «L ’umanità deve fare delle scelte essenziali, deve contrastare con forza il cambiamento climatico. Sono decenni che la scienza ci ha avvertiti che i comportamenti umani stanno mettendo le basi per un aumento vertiginoso della temperatura del nostro pianeta. Sfortunatamente, le azioni intraprese dai governi non sono state all’altezza di questa sfida e i risultati finora sono stati assolutamente modesti. Negli ultimi anni gli effetti del cambiamenti climatico sono sotto gli occhi di tutti: le inondazioni, gli uragani, le ondate di calore e gli incendi devastanti, di cui siamo stati spettatori attoniti, sono un timidissimo assaggio di quello che avverrà nel futuro su una scala enormemente più grande. Adesso, comincia a esserci una reazione forse più risoluta ma abbiamo bisogno di misure decisamente più incisive. Dall’esperienza della COVID sappiamo che non è facile prendere misure efficaci in tempo. Spesso le misure di contenimento della pandemia sono state prese in ritardo, solo in un momento in cui non erano più rimandabili. Sappiamo tutti che «il medico pietoso fece la piaga purulenta». Voi avete il dovere di non essere medici pietosi. Il vostro compito storico è di aiutare l’umanità a passare per una strada piena di pericoli.
Questa volta Zeus non ce l’ha fatta, ed è lui a precipitare
dall’Olimpo portandosi dietro le macerie di una “macronie” ormai
asfittica. Nonostante la recente vittoria contro Marine Le Pen, è
l’attuale Presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, il grande
sconfitto delle elezioni politiche di domenica scorsa in Francia. È
contro di lui che si sono pronunciati gli elettori e le elettrici:
contro la sua arroganza e il suo modo sprezzante di porsi; contro la sua
assenza di empatia e la sua incapacità di ascoltare. È la fine di
un’avventura iniziata nel 2017, quella di un iper-presidente che, per
cinque anni, si è divertito ad aggirare i corpi intermedi, a svilire i
partiti tradizionali, e a trattare con disinvoltura l’insieme dei
francesi. Emmanuel Macron, queste elezioni, le ha prese decisamente
sottogamba. Convinto che, alla fine, la gente gli avrebbe permesso di
ottenere la maggioranza assoluta all’Assemblée Nationale, esattamente
com’era accaduto nel 2017, non ha praticamente fatto campagna
elettorale. Nessun programma, nessuna idea, niente di niente, a parte il
refrain: “moi ou le caos”. Perché i francesi avrebbero dovuto votare
per il suo partito?
Nel 2017, La République en Marche era una novità: il frutto del
tentativo di uscire dalla contrapposizione tra destra e sinistra, ma
anche la conseguenza della delusione di tanti elettori di fronte alle
promesse tradite prima da Nicolas Sarkozy, poi anche, e forse
soprattutto, dal socialista François Hollande. Dopo cinque anni di
potere incontrastato, di riforme imposte e di supponenza, però, il
popolo francese si è ribellato, trasformando le elezioni di domenica
scorsa in un vero e proprio referendum contro l’attuale Presidente.
Peccato che, ad approfittare della sconfitta dei macroniani, non sia
stata la NUPES, la nuova unione popolare ecologica e sociale, nonostante
per la prima volta dopo decenni la sinistra francese si sia presentata
unita alle elezioni. Checché ne dica Jean-Luc Mélenchon, infatti, i
risultati sono deludenti, e c’è già chi, all’interno di questo campo
largo alla francese, non vede l’ora di lasciare l’unione, ritrovandosi
all’interno della propria cerchia: socialisti, verdi e comunisti si
oppongono già alla proposta del leader della France Insoumise di formare
un unico gruppo parlamentare, lasciando a Marine Le Pen il ruolo di
Presidente del maggior partito di opposizione. La vera vincitrice di
queste elezioni, d’altronde, è proprio lei, Marine. Che trionfa
osservando la cartina della Francia colorata di blu, e che si gode la
rivincita non solo nei confronti di Macron, ma anche di suo padre, che
non era mai stato capace di portare all’Assemblée Nationale più di due o
tre deputati.
“Situation inédite”, “caos à l’italienne”, “quinquennat
ingouvernable”: sono queste le parole sulle bocche di tutti gli
opinionisti e gli editorialisti francesi. Il sistema semipresidenziale
voluto dal Général De Gaulle nel 1958 ha disabituato la Francia ai
dibattiti parlamentari, concedendo alle opposizioni un semplice ruolo di
comparsa. E anche se l’Assemblea Nazionale non è chiamata a votare la
fiducia al Governo, un Parlamento multicolore rischia di portare a una
situazione di stallo. È la prima volta che il sistema maggioritario
voluto da De Gaulle crolla sotto il peso della sofferenza sociale e
identitaria dei francesi. È la prima volta che un Presidente si trova a
dover comporre con forze molteplici e contrapposte. È la prima volta,
dopo la breve parentesi di Rocard, che il futuro capo del Governo dovrà
scendere a compromessi, cercare i voti in Aula, fare concessioni e
provare ad andare avanti per tentativi ed errori.
Voli cancellati, scioperi, tetto al numero di decolli e
atterraggi quotidiani. E ancora: mancanza di personale ai controlli e
agli imbarchi. L’estate europea nei cieli rischia di trasformarsi in un
calvario senza fine. Complice una ripresa per certi versi inattesa dalla
quale i principali operatori del Vecchio continente si sono fatti
cogliere impreparati. «C’è stato un grave problema di valutazione, da
parte delle aziende aeroportuali, ma in generale nel mondo dei
trasporti» spiegano da Fit-Cisl, anche se il sindacato confida che il
gap tra domanda e offerta di lavoro si chiuda rapidamente.
Di certo la situazione è delicata perché, come riporta Iata, il
traffico aereo si sta avvicinando rapidamente al periodo pre Covid con
l’83% di passeggeri in volo: un dato che era solo al 30% a gennaio. In
questo scenario, l’Italia riesce a fare meglio degli altri Paesi europei
grazie al ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali durante la
crisi. Un intervento che ha permesso – di fatto – di non espellere alcun
lavoratore dal ciclo produttivo dei trasporti e riducendo
progressivamente la cassa integrazione con la ripresa del mercato. In
Gran Bretagna, così come in Germania, invece, i licenziamenti hanno
tagliato ai minimi termini l’occupazione. E adesso recuperare terreno è
complicato. Il timore degli addetti ai lavori, però, è che la valanga
europea travolga anche l’Italia.
L’ITALIA Fiumicino e Malpensa, il grande assalto: «Ma i disagi sono colpa dei poli stranieri» Nel
caos generalizzato che ha travolto gli aeroporti di tutto il Vecchio
continente, si distinguono gli scali italiani – da Roma Fiumicino a
Milano Malpensa – dove i disagi sono ridotti e comunque esclusivamente
legati alla ripresa del traffico aereo e ai ritardi dei vettori in
arrivo dall’estero.
D’altra parte, come ha spiegato l’amministratore delegato di
Aeroporti di Roma, Marco Troncone, il traffico aereo è tornato vicino
all’85% del periodo pre Covid, che per lo scalo romano si traduce in
circa 110 mila passeggeri al giorno contro i 130 mila del 2019. A fare
la differenza, però, è la presenza di personale e addetti: grazie al
ricorso massiccio alla cassa integrazione, ai ristori e a gli interventi
a favore di aziende e lavoratori, le società italiane hanno ridotto al
minimo gli esuberi e oggi sono in grado di lavorare a regime – o quasi. A
rendere complessa la situazione – spiegano i sindacati – è la forte
interconnessione del mercato per la quale un qualunque ritardo o
cancellazione si ripercuote a catena sull’intera rete di trasporti.
«Negli ultimi due anni – ha spiegato Troncone – molte persone hanno
lasciato il settore e oggi non vogliono o non possono tornare e tante
società stanno combattendo con questa mancanza di personale. E la
ripresa è stata più veloce del previsto, ma noi non abbiamo mai smesso
di investire».
LA GRAN BRETAGNA (di Alessandra Rizzo) Bagagli persi, centinaia di cancellazioni e la Brexit complica le nuove assunzioni Centinaia
di voli cancellati; montagne di bagagli ammassati ; tetto al numero di
voli consentiti. I disagi negli scali londinesi sono tali che Heathrow
ha chiesto alle compagnie aeree di tagliare il 10% dei voli dai Terminal
2 e 3 nella giornata di ieri, mentre easyJet ha annunciato una
riduzione del 7% ai 160,000 voli normalmente previsti tra luglio e
settembre. Il problema globale della scarsità di personale è aggravato
nel Regno Unito dalla Brexit, che complica il reclutamento di nuovi
lavoratori. EasyJet ha dovuto respingere 8 mila domande di lavoro, pari
al 40% del totale, in quanto provenienti da cittadini Ue senza permesso
di lavoro. Secondo il Times, British Airways, easyJet e altre compagnie
stanno usando una scappatoia legale (l’affitto di velivoli da compagnie
Ue) per utilizzare equipaggi europei senza il visto. Ma non basta.
Heathrow, l’areoporto più grande d’Europa per numero di passeggeri, è da
giorni alle prese con un imbarazzante problema tecnico per il ritiro
bagagli. Ha dovuto cancellare una trentina di voli e lasciare a terra
circa 5,000 persone. Gatwick ha imposto un tetto al numero di voli
giornalieri. Tra il caos negli areoporti, gli scioperi delle ferrovie di
questi giorni e il rischio di altre azioni sindacali nelle prossime
settimane si prospetta davvero «un’estate dello scontento».
I PAESI BASSI Schiphol, lo stop nel cuore dei collegamenti e il personale di terra paralizza Bruxelles L’aeroporto
olandese di Schiphol, ad Amsterdam, taglierà il 16% dei voli in
programma per la prossima estate. Una decisione presa a causa della
mancanza di lavoratori nella scalo: dalla sicurezza all’accettazione.
Circa la metà dei vettori che rimarranno a terra saranno quelli della
compagnia franco olandese, Air France-Klm, mentre la low-cost britannica
EasyJet taglierà un «numero imprecisato di voli». Una situazione che
rischia di degenerare anche perché ieri, alcuni addetti alle pulizie
dello scalo olandese hanno scioperato per non aver ricevuto un bonus
riconosciuto a circa 15mila dipendenti dello scalo. La società, infatti,
ha riconosciuto un bonus da 5,25 euro l’ora perché non è direttamente
impiegato dall’aeroporto, ma da agenzie che lavorano per altre aziende,
come le compagnie aeree, e che quindi non sono state incluse
nell’accordo sull’aumento retributivo.