Archive for Settembre, 2022

Rosy Bindi: “Il congresso è accanimento terapeutico, i dem vadano verso lo scioglimento”

venerdì, Settembre 30th, 2022

Francesca Schianchi

ROMA. «La sconfitta del centrosinistra ci accomuna tutti e viene dal lontano». Parte da questo assunto l’appello diffuso ieri da venti personalità del mondo cattolico, ex Pd, intellettuali considerati vicini al M5S, da Domenico De Masi a Tomaso Montanari. Un invito ad aprire «un nuovo cantiere», spiega una delle promotrici, la ex presidente del Pd Rosy Bindi, che ricostruisca la sinistra.

Per trasformare in opportunità, dite voi, una sconfitta comune che viene da lontano. Da dove, secondo lei?

«Non c’è stata condivisione di un progetto politico che unisse ai valori del nostro campo la cultura di governo. E che sapesse interpretare l’esigenza di un radicale cambiamento che la situazione impone».

Detta più semplicemente?

«Vede, da una parte il Pd ha preferito rimanere al governo anche in momenti in cui sarebbe stato meglio andare a votare…».

Per «malinteso senso di responsabilità quando non per brama di potere», scrivete.

«Io penso più spesso per senso di responsabilità. Ma questa scelta l’ha consegnato a un’afasia: così facendo, il Pd non si è mai dedicato a se stesso. Prendiamo la scalata renziana: mai è stata elaborata. C’è una classe dirigente che mi sono chiesta spesso perché stia insieme».

Poi ci sono i Cinque stelle, che si autodefiniscono il vero punto di riferimento dei progressisti…

«Questo potrebbe essere un rischio. Io sono contenta se sono approdati al campo progressista, e spero non sia solo una mossa tattica. Ma nessuno può vantarne il monopolio».

Quindi la proposta qual è?

«Essere tutti pronti a mettersi a disposizione, fino allo scioglimento dell’esistente, per costruire un campo progressista coinvolgendo quelle realtà sociali che già interpretano il cambiamento e non trovano rappresentanza politica».

Sta pensando allo scioglimento del Pd?

«Sì. E ci risparmi la resa dei conti interna, perché la ritualità del congresso è ormai accanimento terapeutico».

Già ci sono nomi in campo.

«Ci evitino questo spettacolo».

Voi scrivete che è stato un errore andare divisi. Ma di chi è l’errore?

«Quando Letta divenne segretario, mi permisi di dargli un consiglio: il Pd sostenga con lealtà il governo Draghi, ma non si dica al Paese che questo è il nostro governo».

L’esatto contrario di quel che ha fatto Letta.

«Il Pd non doveva identificarsi con l’agenda Draghi, ammesso che sia mai esistita, perché si trattava di un governo di larghe intese. Bisognava garantire lealtà, sì, ma guardando al futuro. Come sulla guerra: non doveva esserci nessun dubbio da che parte stare, ma come starci forse sì, per esempio rivendicando l’autonomia dell’Europa nell’Alleanza atlantica. Se ti appiattisci sul governo Draghi, è naturale che non puoi fare alleanze con chi lo fa cadere».

Mi pare dia la responsabilità al Pd.

«Errori ne sono stati fatti un po’ da tutti, ma forse il partito principale ha qualche responsabilità in più… Dopodiché è vero anche che Conte e il M5S non erano portati a fare un accordo, perché troppo interessati alle sorti del proprio partito».

E il rapporto con Calenda?

«Nel nostro appello, Calenda non è un interlocutore. Anche se spero che tutti capiscano l’importanza di una opposizione unitaria: la maggioranza esiste anche nei Paesi non democratici, l’opposizione solo in democrazia».

Dà un giudizio severo del segretario Letta, o sbaglio?

«In realtà sono più severa con i suoi predecessori. Ho apprezzato lo stile con cui non ha abbandonato il campo, con un fax come Martinazzoli o a male parole come Zingaretti. Ma non apprezzo l’idea che sia sufficiente accompagnare il Pd a un congresso ordinario».

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La crisi energetica terrorizza le Borse europee I titoli perdono 163 miliardi di capitalizzazione

venerdì, Settembre 30th, 2022

Gian Maria De Francesco

Seduta molto negativa per le Borse europee quella di ieri. Sono stati persi 163,5 miliardi di euro di capitalizzazione, con l’indice paneuropeo Stoxx 600 che ha terminato la seduta in calo dell’1,67%, a 382 punti, ai minimi dal novembre 2020. Lo stesso punto di minimo raggiunto da Piazza Affari, peggiore del Vecchio Continente, che ha ceduto il 2,4% a 20.452 punti. Male Londra, ancora alle prese con le difficoltà dei titoli di Stato, ha perso l’1,77%, Francoforte l’1,7% entrambe ai minimi dell’ultimo anno, Parigi l’1,53% e Madrid l’1,9 per cento.

I mercati hanno risentito del balzo oltre le attese dell’inflazione tedesca, salita a settembre al 10,9%, e dai timori di recessione globale accesi dalla stretta monetaria avviata dalle banche centrali. La tempesta è stata accentuata dalle crescenti tensioni geopolitiche, acuitesi dopo il blocco del gasdotto Nord Stream e la prevista annessione alla Russia dei territori occupati in Ucraina. La debolezza di Wall Street ha peggiorato ulteriormente il quadro: a ridosso della chiusura il Dow Jones cedeva il 2,14% e il Nasdaq il 3,68 per cento.

A Milano solo due titoli hanno concluso la seduta in territorio positivo: Leonardo, che ha guadagnato lo 0,96%, ed Eni, che è salita dello 0,15%. Peggior titolo è invece risultato StM che ha continuato a pagare la decisione di Apple di non aumentare la produzione di iPhone 14 e ha lasciato sul terreno il 5,40. Anche l’automotive è stato pesantemente colpito dalle vendite: Stellantis ha perso il 4,77% e Pirelli il 4,44%. Male le banche: Unicredit ha finito in calo del 2,71%, Intesa Sanpaolo del 3,57% e Bper del 2,84%. A picco Banca Mps (-13,54%) alle prese con una complessa ricapitalizzazione da 2,5 miliardi. L’andamento particolarmente negativo pare più legato alle prospettive di un’inversione del ciclo macroeconomico che alle tensioni sullo spread. Ieri il differenziale di rendimento tra i Btp decennali e i Bund tedeschi di pari durata è rimasto sui valori della vigilia a 246 punti con il titolo italiano che adesso rende il 4,66 per cento.

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Stop alle auto inquinanti: cosa succede dal 1° ottobre

venerdì, Settembre 30th, 2022

Alessandro Ferro

Da domani, sabato primo ottobre, inizierà una mini rivoluzione nel traffico milanese con lo stop alle auto più inquinanti nell’Area B, in pratica gran parte del territorio del capoluogo. Come spiega il sito del Comune, è “una zona a traffico limitato con divieto di accesso e circolazione per i veicoli più inquinanti e per quelli con lunghezza superiore ai 12 metri che trasportano merci”.

Chi non potrà circolare

Questa zona, quindi, sarà interdetta ai veicoli Euro 2 benzina e Euro 4 e 5 diesel anche in presenza di Fap (filtro antiparticolato). Non potranno più circolare nemmeno i mezzi di trasporto pubblico Euro 4 diesel senza Fap oppure con Fap se le emissioni di particolato superano la soglia di 0,01 g/Kwh o se il filtro è stato installato dopo il 31 dicembre 2018. Il Comune ricorda che l’Area B è attiva da lunedì a venerdì dalle 7.30 alle 19.30 festivi esclusi. L’Aci ha fatto una stima dei numeri: saranno circa 107mila le auto che non potranno più circolare all’interno dell’area B ma superano 300mila se si considera tutto l’hinterland.

Cos’è Move-in

Come ci siamo occupati sul Giornale.it, ci sarà la possibilità di avere alcune deroghe per i cittadini che percorreranno soltanto pochi km all’interno dell’Area B. Il progetto Move-in farà sì che potranno circolare anche le auto Euro 2 a benzina e le Euro 5 diesel ottenendo una “deroga chilometrica” basata sul reale uso del veicolo in attesa di sostituire il mezzo con uno più ecologico. Il progetto è già iniziato il primo ottobre 2019, esattamente tre anni fa. Come ha spiegato Fleetmagazine, per far in modo che vengano rispettate le regole, dentro l’auto sarà installata una sorta di scatola nera (black-box), che rileverà in maniera automatica i reali km percorsi all’interno della Ztl. Inoltre, si potranno sfruttare 50 accessi fino al 30 settembre del prossimo anno indipendentemente dai chilometri che si percorrono.

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L'”equazione Meloni” per la quadra immediata. Così Fdi cerca l’intesa sul governo con gli alleati

venerdì, Settembre 30th, 2022

Pasquale Napolitano

Giorgia Meloni, da premier in pectore, è in cerca della formula magica per definire la squadra di governo del centrodestra: «l’equazione Meloni» per incastrare tutte le caselle e isolare le variabili impazzite. Meloni vuole un decollo senza perturbazioni. Nel puzzle vanno combinate tutte caselle senza errori: le richieste degli alleati, l’alto profilo dei futuri ministri, la mano del Quirinale sui dicasteri chiave, lo spazio rivendicato dai piccoli partiti in maggioranza, la transizione dolce con l’era Draghi e infine un gruppo dirigente da accontentare, quello di Fdi che la accompagna dal 2012. Primo nodo da sciogliere: il numero dei ministri. Il governo uscente ne ha 24. Si valuta una riduzione a 18 con uno schema: 4 Fi, 4 Lega, 6 Fdi e 4 tecnici. Nella quota Fdi dovrebbe rientrare, come già accaduto per la divisione dei collegi uninominali, la casella da assegnare ai centristi. In pole c’è Maurizio Lupi per la delega dei Rapporti con il Parlamento. La variabile alleati è quella da isolare e sminare. Che Fratelli d’Italia abbia surclassato nel voto Forza Italia e Lega è un dato. Che senza i senatori di Fi (18) o della Lega (29) non ci sia maggioranza a Palazzo Madama è un altro dato. La ricerca dell’equilibrio è una strada obbligata. Antonio Tajani vuole la Farnesina, uno dei ministeri su cui il Quirinale dirà l’ultima parola. Il leader di Forza Italia punta anche alla poltrona di vicepremier: due richieste che, se esaudite, creerebbero un sbilanciamento verso Forza Italia. Meloni darebbe l’ok per Tajani al ministero degli Esteri ma direbbe no al ruolo di vicepremier. Il nome dell’ex presidente del Parlamento non avrebbe difficoltà a superare l’esame da parte del Colle. L’altra casella, da inserire nello schema condiviso con il Capo dello Stato Sergio Mattarella, è il ministero della Difesa. L’equazione Meloni prevede due combinazioni: il trasloco di Tajani dalla Farnesina alla Difesa o il ritorno di Ignazio La Russa, altro nome che incasserebbe il placet del Quirinale e che liberebbe la guida del Senato per l’opposizione: si fa il nome di Pier Ferdinando Casini. Nel puzzle meloniano, se Tajani passa alla Difesa, alla Farnesina andrebbe Elisabetta Belloni, capo dei Servizi Segreti. Con Forza Italia è aperto anche il discorso sul ministero della Salute: gli azzurri propongono Andrea Mandelli. La scelta dovrà ricadere su un profilo autorevolissimo, top secret, slegato dalla politica. Una scelta che punta a rimarcare la forte discontinuità rispetto alla gestione Speranza. Il Mef è l’altra casella sottratta alla trattativa tra i partiti. Qui il nome, per l’incastro perfetto nella triangolazione Mattarella-Draghi-Meloni, è Fabio Panetta, ex direttore generale di Bankitalia, oggi nel board della Bce. In alternativa Domenico Siniscalco, già ministro nel secondo e terzo governo Berlusconi. Maurizio Leo, l’uomo del dossier fisco in Fdi, dovrebbe andare a ricoprire l’incarico di sottosegretario o viceministro al Mef.

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La scure di Meloni per non alzare le tasse: tagliare reddito di cittadinanza e Superbonus

venerdì, Settembre 30th, 2022

ALESSANDRO BARBERA

ROMA. Nella vulgata della politica qualcuno ci leggerà la sconfessione dei pilastri di quello che fu il governo gialloverde. La malizia aiuta fino a un certo punto. Da qualche parte i soldi dovranno arrivare, e pur di non mettere nuove tasse il partito di Giorgia Meloni sta ragionando sulle grandi voci del bilancio statale sulle quali si può risparmiare: bonus edilizi e reddito di cittadinanza. Che la futura premier abbia in animo di ridurre gli aiuti generosamente distribuiti a circa due milioni e mezzo di italiani è cosa nota. Fonti concordanti aggiungono il secondo tassello. Fra il 2020 e il 2021 i sussidi per tutti i tipi di ristrutturazione sono costati 25 miliardi di euro. Ad essi occorre aggiungere i venti e più miliardi spesi per il superbonus del 110 per cento. Mario Draghi l’ha più volte criticato, per le troppe frodi e la sostanziale iniquità: non tenendo conto del valore degli immobili e della difficoltà di applicarlo nei condomini, è diventato un affare soprattutto per la classe medio-alta e i possessori di seconde case. Ma era e rimane la misura bandiera del Movimento Cinque Stelle, che di quel governo è stato l’azionista di maggioranza finché non ha deciso di mandarlo a casa. Ora i Cinque Stelle sono all’opposizione, e Meloni ha lo spazio politico per intervenire. Il fatto che il governo non ci sia ancora non tragga in inganno: il tempo per scrivere la legge di bilancio del 2023 è pochissimo. Le valutazioni sono iniziate prima del voto e rimbalzate fino a Palazzo Chigi, dove ieri è stata approvata la nota di aggiornamento dei conti pubblici. La neutralità di Draghi sulle scelte del nuovo governo è testimoniata dall’ultima delle 26 pagine del documento. La tabella «quadro programmatico» è in bianco: quelli sono i numeri che dovrà scrivere la nuova maggioranza dopo aver concordato la linea di politica economica.

Molto dipenderà da chi verrà fatto sedere nella poltrona più difficile che c’è: quella del ministro del Tesoro. Dai palazzi giunge voce che il pressing su Fabio Panetta si è fatto asfissiante. C’è chi pronostica una chiamata di Sergio Mattarella che farebbe piazza pulita di dubbi e ambizioni. I dubbi sono di chi si chiede con chi sostituirlo nel comitato direttivo della Banca centrale europea: c’è chi ha suggerito il ministro uscente (e come lui funzionario in distacco dalla Banca d’Italia) Daniele Franco. Le ambizioni sono quelle di Panetta: è noto per essere il successore in pectore di Ignazio Visco a via Nazionale nel 2023. «La solidità del governo si potrà giudicare soprattutto dalla presenza o meno di Panetta», dice sotto la garanzia dell’anonimato un frequentatore di lunga data di Palazzo Chigi.

Sia come sia, il nuovo ministro del Tesoro avrà davanti a sé un lavoro difficilissimo: tassi in crescita, inflazione vicina al dieci per cento, una possibile recessione nel 2023. Nella nota di aggiornamento dei conti Draghi ha lasciato al governo un margine di spesa di quasi dieci miliardi di euro, e la previsione di una crescita nel 2023 dello 0,6 per cento. Negli uffici studi delle banche d’affari ieri c’era chi giudicava la stima troppo generosa. Due delle principali agenzie di rating prevedono ben altro: Standard and Poor’s una contrazione dello 0,1 per cento, Fitch dello 0,7. Dallo staff di Palazzo Chigi la vedono diversamente partendo da due constatazioni. La prima: il governo Draghi ha sempre fatto previsioni più caute di quanto accaduto a consuntivo. La seconda: la stima è lievemente più bassa di quella del Fondo monetario internazionale (+0,7 per cento), solitamente fra i previsori più affidabili.

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Il cambio di passo dell’intelligence ucraina: il rischio che Putin usi il nucleare tattico è “molto alto”. Mentre a Lyman c’è un altro collasso dell’esercito di Mosca

venerdì, Settembre 30th, 2022

Jacopo Iacoboni

L’accerchiamento dell’esercito russo nella zona di Lyman è testimonianto nella mappa che pubblichiamo, tratta da un canale telegram pro Russia, Rybar Telegram  

Adesso l’intelligence ucraina considera “molto alto” il rischio che la Russia possa utilizzare armi tattiche nucleari contro l’Ucraina, qualcosa cento volte più potente dei missili usati finora dalla Russia contro l’Ucraina

Lo dichiara Vadym Skibitsky, vice capo dell’intelligence ucraina, e capo del direttorato di intelligence della Difesa. «Probabilmente – è il ragonamento fatto da Skibitsky con il Guardian e con altri interlocutori – prenderanno di mira luoghi lungo i fronti con molto personale [dell’esercito] e attrezzature, centri di comando chiave e infrastrutture critiche. Per fermarli abbiamo bisogno non solo di più sistemi antiaerei, ma anche di sistemi antirazzo». Ha anche spiegato che «tutto dipenderà da come si svilupperà la situazione sul campo di battaglia».

La strategia ucraina sta cambiando, su questo punto. Se all’inizio l’idea prevalente era non contribuire ad accreditare la minaccia agitata anche da Vladimir PUtin, via via che l’esercito russo è andato incontro alle disfatte di Kharkhiv e  al pesante arretramento nel Donbas. 

Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’anno scorso la Russia aveva in tutto 6255 testate nucleari – da verificare però il livello di avanzamentodella componentistica, che in buona parte è ritenuta obsoleta – , mentre gli Stati Uniti ne avevano 5500. La dottrina militare russa aveva sempre affermato che l’uso di armi nucleari tattiche è accettato se l’esistenza della Federazione Russa è minacciata. E da questo punto di vista, come spiegano fonti d’intelligence ucraine, l’annessione illegale dei territori del sud e dell’est rappresenta «un game changer», cioè apre alla possibilità realistica di uno scenario che si aggrava. L’intelligence alleata è nelle condizioni di individuare movimenti sul terreno, e preparazione a un lancio nucleare tattico, per il quale occorrerebbero circa dieci giorni (almeno) di lavoro sul campo. E potrebbe lavorare per bloccarlo. Ma il rischio che Putin adesso lo tenti, secondo Kiev, è «molto alto».

Si arriva a questo scenario per l’effetto devastante delle sanzioni, il fallimento della mobilitazione, e la grave difficoltà sul campo di battaglia, con i russi che rischiano l’accerchiamento e il collasso a Lyman. Sula mobilitazione, Skibitsky spiega che «non si tratta più solo delle regioni periferiche e di alcuni villaggi. La mobilitazione riguarda una parte significativa della popolazione anche nelle città principali, e nei territori annessi i russi tenteranno di reclutare, come hanno già fatto nel Donbas orientale occupato nel 2014». Il che aumenterà tensioni a forza dell’attrito.

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Draghi-Meloni, strategia condivisa: “Sull’energia serve un fondo di solidarietà Ue”

venerdì, Settembre 30th, 2022

Alessandro Barbera

La telefonata è partita dal cellulare di Mario Draghi, destinataria Giorgia Meloni. Il senso della conversazione lo si può riassumere così: «Finché occuperò questa poltrona difenderò le ragioni dell’Italia e della linea tenuta sin qui in Europa». La decisione tedesca di un maxi-piano di aiuti nazionali contro il caro energia non ha sorpreso granché il premier uscente. Che fosse difficile convincere Berlino a una linea condivisa contro Mosca, Draghi l’aveva chiaro da mesi. L’uscita di scena dell’ex banchiere centrale ha dato a Olaf Scholz l’opportunità di smarcarsi dalla tenaglia stretta dall’asse dei Paesi mediterranei e soprattutto dalla pressione dell’intesa tra Roma e la Francia di Emmanuel Macron, a favore di una soluzione europea alla crisi del gas russo. La strategia si fondava su due pilastri: un tetto al prezzo del metano importato dalla Russia e un fondo di solidarietà europeo per affrontare le conseguenze del taglio delle forniture. Ma l’atavica paura della cancelleria tedesca di vedersi per questo azzerare l’energia dalla Russia sta avendo la meglio. La Germania non ha facile accesso a fonti di approvvigionamento alternative come l’Italia, ma può permettersi di spendere tutto quel che è necessario per affrontare l’emergenza. L’Italia no.

L’ironia della Storia ha voluto che Giorgia Meloni, una volta fervente antieuropeista, sia ora costretta ad abbracciare la strategia comune che Draghi ha imposto nell’anno e mezzo a Palazzo Chigi. La dichiarazione diffusa ieri sera dalla leader di Fratelli d’Italia non lascia spazio a dubbi: «Di fronte alla crisi epocale della crisi energetica serve una risposta immediata a tutela di imprese e famiglie. Nessuno Stato membro può offrire soluzioni efficaci e a lungo termine in assenza di una strategia comune, neppure quelli che appaiono meno vulnerabili sul piano finanziario. Per questo l’auspicio è che nel Consiglio europeo sull’energia di domani (oggi per chi legge, ndr) prevalgano buon senso e tempestività. Su questo tema di vitale importanza per l’Italia confido nella compattezza di tutte le forze politiche». Palazzo Chigi ci ha tenuto a precisare che la dichiarazione non sia stata concordata con Draghi, ma poco cambia. La sostanza è che i due sono perfettamente allineati.

Ieri sera, mentre le agenzie davano conto della telefonata, Roberto Cingolani era in volo verso Bruxelles, dove oggi avrà la riunione con gli altri ventisei colleghi europei. Poco prima di partire aveva avuto una lunga telefonata con Draghi. «Ora più che mai occorre tu spinga a favore di un tetto al prezzo del gas russo. E allo stesso tempo è importante difendere l’ipotesi di un fondo di solidarietà sul modello dei prestiti Sure». Draghi avrebbe voluto discuterne oggi al vertice dei nove Paesi mediterranei dell’Unione ad Alicante. Il tampone positivo al Covid del padrone di casa – il premier spagnolo Pedro Sanchez – ha fatto saltare i piani. Draghi ci proverà ancora al vertice di Praga della prossima settimana. All’appuntamento successivo – il 20 ottobre – potrebbe essere già l’ora di Giorgia Meloni.

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La sinistra al bivio decisivo

venerdì, Settembre 30th, 2022

di Angelo Panebianco

Il Pd deve scegliere se puntare ad allearsi con i 5 Stelle o con quello che possiamo forse definire il nuovo «Partito repubblicano», ossia con Calenda e Renzi

Tanto ciò che fanno un governo e la sua maggioranza quanto ciò che accade all’opposizione decidono il futuro di una democrazia. Nei primi tempi, ragionevolmente, sul governo che formerà Giorgia Meloni non ci sarà molto da dire. Per cominciare a esprimere giudizi su un nuovo esecutivo occorre almeno aspettare che abbia completato il rodaggio. Un primo bilancio, se scevro da pregiudizi, non si può fare se non dopo alcuni mesi . Tanto più in una fase così difficile come l’attuale. Si potrà solo commentare inizialmente la composizione del futuro governo, la scelta delle varie personalità che occuperanno i ministeri, eccetera. Ma con la cautela che è sempre necessaria in questi casi.

L’interrogativo principale riguarda i comportamenti che adotterà Matteo Salvini. In queste elezioni è stato sconfitto, al pari di Enrico Letta, ma è uno sconfitto, come egli stesso ha tenuto a precisare , che siede con i vincitori. Salvini è, nel suo partito, statutariamente protetto, ed è difficile per i tanti leghisti che vorrebbero sostituirlo riuscire presto nell’impresa. Per conseguenza, l’ipotesi più plausibile è che egli, cercando la massima visibilità possibile, voglia rendere faticosa la navigazione del futuro governo. Pare che abbia già cominciato. È normalmente ciò che fanno i leader in difficoltà. Facciamo un esempio. È probabile che la nuova presidente del Consiglio voglia cercare di instaurare un modus vivendi con Bruxelles, Parigi e Berlino che sono rapporti essenziali per l’Italia. In tal caso le difficoltà e l’imbarazzo sarebbero notevoli se dai fedelissimi di Salvini partissero continue bordate contro l’Europa, contro Bruxelles, contro Francia e Germania.

Ma il futuro di una democrazia non dipende solo da ciò che farà il governo. Dipende anche da come andrà a riorganizzarsi, dopo la sconfitta, l’opposizione, componente altrettanto essenziale del governo nel gioco democratico.

Con la serietà e lo stile che lo caratterizzano Enrico Letta, preso atto della sconfitta, traghetterà il partito fino al congresso e si metterà da parte. Non è esagerato definire drammatiche le scelte che ha di fronte a sé il Pd. Da quelle scelte dipenderà il futuro dell’opposizione e quindi, anche, in larga parte, quello della democrazia italiana. Si dice che il Pd non abbia una identità. Ma il suo problema è che ne ha troppe. Per questo Letta ha dovuto fare l’equilibrista fra le opposte fazioni, con le loro diverse visioni del mondo. Per questo è stata trasmessa agli elettori un’immagine confusa e insipida.

Per orientarci, e per rispettare le convenzioni, usiamo i termini che definiscono la tradizionale, storica, divisione della sinistra, quella fra massimalisti e riformisti. Anche se con adattamenti ai tempi, quella divisione esiste tuttora, entro e a ridosso del Pd. Sceglierà quel partito di diventare ciò che non è mai stato sul serio, ossia un autentico partito riformista? In tal caso, la strada è tracciata: netta chiusura verso i 5 Stelle e incontro con quello che possiamo forse definire il nuovo «Partito repubblicano», ossia con Calenda e Renzi. Oppure, come propone la sua (forte) componente massimalista, sceglierà l’alleanza con i 5 Stelle, la nuova Lega Sud? Per dirla con Renzi, opterà per il jobs act o per il reddito di cittadinanza? Il riformismo o l’assistenzialismo di stampo peronista? Con tutte le differenze del caso, il Pd ricorda il Partito socialista di Pietro Nenni all’epoca del Fronte Popolare. La scelta di allearsi con il partito antisistema di allora, il Partito comunista, venne pagata cara dai socialisti. E costrinse i riformisti ad andarsene (con la scissione di Palazzo Barberini del 1947 e la nascita del Partito socialdemocratico). C’è da scommettere che, in caso di alleanza o convergenza, sarebbero i 5 Stelle alla fine, checché ne pensino i massimalisti del Pd, a fagocitare il loro partito.

L’apertura ai 5 Stelle, quale che sia il prezzo che il Pd pagherebbe nel medio-lungo termine, è in un certo senso la scelta più facile e forse persino più ovvia. In questo modo il Pd non lascerebbe a Conte e ai suoi il monopolio dell’opposizione urlata, più vociante, contro il governo. E inoltre, darebbe soddisfazione a quella parte, a occhio molto ampia, del Pd che si sente affine ai 5 Stelle, che non ha vere ragioni di contrasto con loro.

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Rincari per le bollette della luce del 59 per cento: ecco le nuove tariffe dell’Arera

venerdì, Settembre 30th, 2022

di Fausta Chiesa

Rincari per le bollette della luce del 59 per cento: ecco le nuove tariffe dell'Arera

È del 59% per cento l’aumento delle bollette della luce relative al quarto trimestre dell’anno per i clienti in maggior tutela, che non sono quindi passati al mercato tutelato. Ad annunciare le nuove tariffe è stata l’Arera, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente presieduta da Stefano Besseghini, che il 28 settembre aveva preannunciato «una variazione estremamente rilevante», mentre la mattina di oggi 29 settembre a dire che erano in arrivo «prezzi mai visti prima» è stato il direttore della Divisione Energia di Arera, Massimo Ricci, nel corso dell’Italian Energy Summit a Milano: «Indipendente dalla percentuale di aumento è una percentuale che si applica su prezzi già molto alti e quindi si arriva a prezzi mai visti prima. I prezzi del prossimo trimestre purtroppo ci ricorderanno che viviamo ancora in una fase emergenziale».

Arera: «Evitato il raddoppio»

In termini di effetti finali, per la bolletta elettrica la spesa per la famiglia-tipo nel 2022 (primo gennaio 2022 – 31 dicembre 2022) sarà di circa 1.322 euro, rispetto ai 632 euro circa del 2021, ha calcolato l’Autorità. Dunque, la bolletta è raddoppiata in un anno, ma sarebbe potuto andare anche peggio. «Con un intervento straordinario, ritenuto necessario per le condizioni di eccezionale gravità della situazione — si legge nella nota relativa al quarto trimestre — l’Arera limita l’aumento dei prezzi dell’energia elettrica per le famiglie ancora in tutela e, pur rimanendo su livelli molto alti, evita il raddoppio. I prezzi all’ingrosso del gas, giunti a livelli abnormi negli ultimi mesi a causa del perdurare della guerra in Ucraina, dei timori sulla sicurezza dei gasdotti e delle tensioni finanziarie, avrebbero portato a un incremento del 100% circa, nonostante l’intervento del governo con il decreto Aiuti bis. L’Autorità, per limitare ulteriormente gli aumenti dei prezzi su famiglie e imprese, ha deciso di posticipare eccezionalmente il necessario recupero della differenza tra i prezzi preventivati per lo scorso trimestre e i costi reali che si sono verificati, caratterizzati da aumenti straordinariamente elevati. L’intervento eccezionale dell’Autorità per il quarto trimestre del 2022, che si somma agli interventi del governo, pur non essendo in grado di limitare gli aumenti ha ridotto al +59% l’aumento del prezzo di riferimento dell’energia elettrica».

Gas, aggiornamento a fine ottobre

Le tariffe del gas per chi è in maggior tutela (7,3 milioni di utenti) non sono state aggiornate perché il sistema da questo mese di ottobre cambia. L’aggiornamento delle tariffe diventerà quindi da quest’autunno mensile e sarà ex post e non più ex ante come avvenuto finora. Le bollette potranno essere mensili, ma questo dipende dalla decisione degli operatori energetici.

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Gas e Ue, la reazione del governo: solidarietà a rischio per i tre errori di Berlino e il «bullismo» olandese

venerdì, Settembre 30th, 2022

di Francesco Verderami

«La Germania sbaglia. La soluzione resta il tetto al prezzo del gas». Draghi conosce bene i tedeschi per averli frequentati. Da marzo insisteva perché l’Unione applicasse il price cap e — nonostante gli sforzi — con il passare del tempo ha intuito che sarebbe stato arduo raggiungere l’obiettivo. La prova l’ha avuta ieri, con lo «scudo» da 200 miliardi deciso da Berlino per proteggere famiglie e imprese dal rincaro delle bollette, e che giudica un «triplice grave errore»: mina la solidarietà europea, distorce il mercato e farà esplodere il debito tedesco senza risolvere il problema. Fin d’ora gli è chiaro che al vertice di Praga — l’ultimo al quale parteciperà da premier — si aprirà un conflitto. «Anche perché — spiega un rappresentante dell’esecutivo — i capi di Stato e di governo non sono d’accordo su nulla».

«Palesi violazioni»

Già la riunione odierna dei ministri dell’Energia sarà incandescente, se è vero che ieri il rappresentante italiano Cingolani è rimasto esterrefatto dalla decisione di Scholz. E con alcuni colleghi ha parlato di «palesi violazioni» da parte della Germania ma anche della Commissione, dato che la presidente (tedesca) von der Leyen si è permessa di ignorare la lettera con cui 15 Paesi chiedevano venisse presentata una proposta formale sul tetto al prezzo del gas. Una scelta vissuta come un atto di bullismo, perpetrato con la collaborazione degli olandesi e deciso dopo aver fatto di tutto per frenare sul price cap. Ecco a cosa alludeva ieri mattina un funzionario di Bruxelles, quando aveva ammesso che «diversi Paesi membri stanno diventando sempre più nervosi». La tensione è così alta che fonti diplomatiche definiscono la mossa dei tedeschi «unilaterale e anti solidale». E quelli che si configurano come aiuti di Stato — sui quali la Ue è chiamata a vigilare — potrebbero produrre delle conseguenze: perché, venendo meno la solidarietà europea, l’Italia potrebbe decidere a sua volta di non condividere la riserve di gas stoccate e chiudere il rubinetto. Mettendo in difficoltà Berlino.

Nuovi interventi

Ma in questa fase è Roma a essere sotto pressione, proprio nel momento della transizione tra il governo Draghi e il futuro governo Meloni. Il colloquio tra il premier e il suo successore in pectore è stato preceduto da contatti tra i rispettivi sherpa. Ai dirigenti di FdI è stato ribadito che palazzo Chigi non intende agire con nuovi interventi dopo l’ultimo decreto Aiuti. E che dunque non procederà con uno scostamento di bilancio. Toccherà farlo al nuovo governo, se lo riterrà opportuno. Anche perché la possibilità che in Europa si possa approvare un Fondo per l’Energia va oltre l’orizzonte temporale dell’emergenza.Le parti hanno convenuto sul rischio incombente — oltre che per le famiglie — per le imprese italiane, che dovrebbero affrontare un mercato drogato, impossibilitate a competere con le aziende tedesche, dovendo pagare l’energia a costi nettamente superiori. «In questo modo salta il nostro sistema produttivo», ha commentato allarmato uno dei consiglieri di Meloni. Un timore che si ritrova nell’appello di Draghi all’Europa perché si evitino «pericolose e ingiustificate distorsioni nel mercato interno».

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