Archive for Settembre, 2022

Funerali della regina Elisabetta, le proteste di Mosca: «Immorale che la Russia sia stata esclusa»

domenica, Settembre 18th, 2022

di Enrica Roddolo

Con Biden e molti capi di stato già arrivati nella capitale britannica, da Mosca sale il disappunto per l’esclusione della Russia dall’evento del secolo, un grande vertice globale di dimensioni senza precedenti

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DALLA NOSTRA INVIATA
Londra Mentre il presidente Usa Joe Biden con la First Lady Jill, atterrava a Stanstead , Londra nella notte per il funerale di stato della regina domani, con molti Royals e capi di stato già arrivati nella capitale britannica, da Mosca sale il disappunto per l’esclusione della Russia dall’evento del secolo. Un grande vertice globale di dimensioni senza precedenti.

La portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, citata dalla Bbc, ha condannato la scelta britannica di non invitare a Londra alla cerimonia il presidente russo Vladimir Putin. Cerimonia alla quale è attesa invece la First Lady ucraina Olena Zelenska.

Mosca condanna il «tentativo britannico di utilizzare la tragedia nazionale che ha toccato il cuore di milioni di persone in tutto il mondo, per scopi geopolitici per regolare i conti con il nostro Paese, è profondamente immorale».

Non ci saranno domani dunque Putin, Lukashenko (Bielorussia), Myanmar, il siriano Assad e i presidenti afghano e iraniano. Un invito è arrivato invece per una rappresentanza Nordcoreana ai funerali.

Neppure Donald Trump: ragioni di spazio, ogni Paese ha l’invito per Capo di stato e un accompagnatore, spesso la First Lady o personalità di primo piano). Ma è stato esteso un invito a Trump per il Queen’s memorial service di Washington.

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Il premier vola negli Usa: darà rassicurazioni all’Onu sull’ambiguità di Lega e FdI

domenica, Settembre 18th, 2022

ALESSANDRO BARBERA

ROMA. Non è ancora l’ultimo viaggio di Stato, ma quello che inizia domani a New York resterà il più lungo dell’esperienza da premier. Per sottolineare l’intaccata fedeltà di Mario Draghi all’Alleanza atlantica e al rapporto con gli americani, potrebbe bastare l’agenda dei quattro giorni di New York. Il discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’incontro con i giovani di «Youth4Climate», la cena per ricevere il «World Statesman Award», un’agenda privata di cui per ora non si sa nulla. Poi ci sono le coincidenze: la visita di Draghi coincide con l’ultima settimana di campagna elettorale. Dopo le dimissioni l’ex banchiere centrale aveva deciso di rinunciare alla trasferta, e di svolgere un intervento a distanza. Poi i piani sono cambiati, e anche questo non è un dettaglio irrilevante.

La cabala dell’agenda Onu (complicata dai funerali della Regina a Londra) ha voluto che Draghi parli all’Onu martedì all’ora di cena, quando in Italia sarà notte fonda, qualche ora dopo Emmanuel Macron e preceduto da Olaf Scholz. Il discorso del premier promette di costituire l’eredità di politica estera del governo che verrà. Non ci saranno gli accenti polemici della conferenza stampa di giovedì, ma Draghi sarà fermo nel ribadire la linea avuta fin qui, nonostante i distinguo dei due partiti che l’hanno sostenuto fino all’inizio della campagna elettorale, Lega e Cinque Stelle. Dirà che i fatti stanno dando ragione alla fermezza verso Mosca, dell’efficacia delle sanzioni, e dell’invio delle armi a Kiev. E ancora l’importanza dell’accordo sul grano ucraino, essenziale per scongiurare la crisi alimentare. Sarà un discorso in cui, fra le righe, Draghi cercherà di rassicurare sulle intenzioni della nuova maggioranza, nonostante il voto a dir poco ambiguo di Lega e Fratelli d’Italia in Europa a sostegno dell’Ungheria di Orban.

Nell’emiciclo del Palazzo di vetro ad ascoltarlo ci saranno i ministri degli Esteri di Mosca e Pechino, Sergej Lavrov e Wang Yi. Poche ore dopo, giovedì, si riunirà il Consiglio di sicurezza per discutere della crisi ucraina, e per la prima volta dall’inizio della guerra il russo e il cinese si incontreranno faccia a faccia con il segretario di Stato americano Antony Blinken e il ministro degli Esteri di Kiev Dmytro Kuleba.

Draghi ha passato gran parte della giornata di ieri nella casa di Città della Pieve per limare la prima bozza del discorso preparato dallo staff. Gli attacchi dei partiti per i toni poco diplomatici dell’ultimo incontro coi giornalisti non lo preoccupano. Se c’è un aspetto dell’esperienza a Palazzo Chigi su cui non ha il dubbio di errori, è sulla politica estera. A suo avviso lo dimostrano i fatti sul campo, la riconquista ucraina di alcune delle zone occupate dall’esercito russo, le ultime novità diplomatiche. Il premier è rimasto colpito dall’incontro di questa settimana a Samarcanda di Putin con i due (fin qui) alleati più influenti, Cina e India. Un vertice che ha svelato la debolezza diplomatica dello Zar. Né Xi, né il premier indiano Modi hanno prestato il fianco alla strategia aggressiva di Mosca verso l’ex repubblica sovietica. Dal sostegno «senza limiti» dello scorso febbraio, Modi è passato alla richiesta di fermare le armi: «Non è tempo di guerra». Pechino e Delhi confermano di essere mossi da puro opportunismo: erano e saranno due acquirenti a buon mercato del gas e del petrolio che l’Occidente non acquista più.

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Le strane idee dei “patrioti” sulle democrazie occidentali

domenica, Settembre 18th, 2022

MASSIMO GIANNINI

Sale una marea nera, nel Vecchio Continente. E non è petrolio. Sono le destre, che crescono ovunque. Rompono gli argini in Svezia, ed è il crollo di un mito politico: i “Moderati” conservatori di Ulf Kristersson, insieme ai “Democratici” neo-nazisti soft di Jimmie Akesson, trionfano nella culla della socialdemocrazia e del modello scandinavo, del progressismo di Olof Palme e del capitalismo pasciuto come “pecora da tosare e non ammazzare”, dei diritti civili e della parità di genere, del Workfare e del multiculturalismo. Siamo davvero alla Finis Europae, che tra una settimana esatta potrebbe essere suggellata da un’altra svolta epocale: se i sondaggi non sbagliano, l’Italia sarà il primo Stato membro e fondatore dell’Unione governato da un partito che discende per via diretta dalla destra post-fascista.

Cadono tutti i tabù, nel cuore d’Europa che sanguina per i bombardamenti russi, per i civili ucraini torturati e massacrati, per le fosse comuni di Bucha e di Izyum. Mentre si dispiega il disegno imperiale e criminale del nuovo Zar di Mosca, un kombinat di invasione militare, battaglia energetica e offensiva ibrida, nella Ue si aprono faglie scivolose. Già martoriate dalla crisi globale del 2008, dalla pandemia del 2020 e ora dalla sporca guerra del 2022, le democrazie liberali rischiano lo svuotamento dall’interno, proprio nel momento in cui si fa più duro l’attacco dall’esterno. Putin è in affanno, sorpreso dall’inefficienza della sua logora macchina bellica, dalla tenacia del contrattacco di Zelensky, dalla forza di fuoco prestata dalle difese anglo-americane, dal gelido abbraccio indo-cinese di Samarcanda.

Ma non rinuncia al suo folle progetto eurasiatico, che ha radici nella Grande Madre Russia e linfa vitale nell’odio contro l’Occidente. È la summa dottrinaria di Ivan Il’in (che sognava la «verticale del potere» e la «dittatura democratica, quella della qualità, della responsabilità, del servizio»). Di Danil Danilevskij (che teorizzava «la lotta contro l’Ovest, l’unico mezzo salutare sia per guarire la nostra cultura russa sia per far progredire la simpatia panslava»). Dello stesso Aleksandr Dugin (che considera «la democrazia globale regno dell’Anticristo»).

A questo livello della sfida, e a sette giorni dalle elezioni, servono assai poco i report dell’Intelligence americana che spara nel mucchio, rilanciando un generico allarme sui finanziamenti russi ai partiti europei, senza lo straccio di una sigla o una prova, di un nome o un indizio. Rischiano di produrre l’effetto opposto: un’invasione di campo uguale e contraria a quella dei russi, e dunque una polarizzazione ulteriore del voto italiano. Semmai fa più effetto l’affondo di Draghi, che guardando al passato denuncia i «pupazzi prezzolati» dal Cremlino, ma parlando del presente punta il dito contro «quello che ama i russi alla follia, vuol togliere le sanzioni e parla tutti i giorni di nascosto con Mosca». Se Salvini ha orecchie per intendere, intenda. E colpisce ancora più nel segno il consiglio non richiesto che il premier uscente consegna a chi entrerà a Palazzo Chigi dopo di lui, parlando della condanna del Parlamento di Strasburgo contro l’Ungheria, accusata di non essere più una democrazia, e del voto contrario di Fratelli d’Italia e Lega: «Noi abbiamo una certa visione dell’Europa, difendiamo lo stato di diritto, siamo alleati di Germania e Francia, ma mi chiedo, uno come se li sceglie i partner?». Se Meloni ha uno specchio per guardarsi, si guardi.

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Corrado Augias: “Nel mondo nuovo che sta nascendo non c’è cultura che nutra la politica”

domenica, Settembre 18th, 2022

Annalisa Cuzzocrea

Viviamo un tempo nuovo senza neanche rendercene conto. Un secolo in cui tutto è cambiato, rispetto al precedente, ma in cui siamo talmente dentro da non percepirlo. «È questo – dice Corrado Augias – scrivilo, è così». Bisogna avere lo sguardo lungo, puntato sul futuro, ma la capacità di ricordare il passato vissuto e quello studiato, per leggere la realtà. E così, cominciamo a parlare de La fine di Roma. Trionfo del cristianesimo, morte dell’Impero, appena uscito per Einaudi, ma finiamo per riflettere su destra, sinistra, Meloni, Salvini, Orbán.

Come mai un libro su eventi così lontani ci parla tanto di oggi?

«Sono affascinato da quel periodo che è durato secoli e in cui il mondo ha cambiato cavalli e prospettiva. In cui una cultura poderosa dal punto di vista economico, militare, strategico, giuridico, di civiltà è stata sostituita quasi integralmente da un’altra. Proprio oggi, nel 2022, stiamo attraversando una fase analoga. È finita l’epoca che faticosamente stanno studiando i ragazzini delle scuole medie. Ne è cominciata un’altra, con nuovi strumenti di conoscenza e di comunicazione».

Un nuovo mondo? Così come lo è stato il mondo cristiano dopo quello classico?

«Sappiamo che la storia non si ripete mai uguale, ma alcuni meccanismi della storia si possono ripetere. La mia idea è questa e spiega perché la politica e i personaggi che la incarnano siano così modesti: non c’è nessuna cultura che nutra la politica. I partiti si occupano ormai dello stato di fatto: abbassiamo le tasse, diamo un bonus, facciamo l’autostrada. Cose anche onorevoli, ma puri effetti. Nessun politico ti dice più le cause, nessuno ti spiega: guardate che questo sta succedendo perché».

Come in questa desolante campagna elettorale.

«Guarda la scuola, un cardine della vita democratica. In Italia più che altrove abbiamo un tremendo bisogno di scuola. Bisogna sollevare il livello di acculturazione del Paese. E invece perdiamo tempo a parlare del numero dei bidelli, della mascherina. Non ci chiediamo mai: ma quello che insegniamo a scuola va ancora bene? O dovremmo cambiarlo?».

Da cosa deriva questo respiro corto delle idee e delle proposte politiche? Dalla fine delle ideologie, dei vecchi quadri di riferimento?

«È una delle ragioni, ma non sono finite solo le ideologie, è finita anche la religione. Nel libro parlo di quali siano stati per secoli i grandi interrogativi che le religioni si ponevano, i problemi lancinanti, puramente astratti e che oggi nessuno si pone. Tutto questo è finito. C’è una rivoluzione in corso».

Quella digitale?

«Avere in tasca dieci centimetri quadrati di plastica e terre nobili che ti permettono di comunicare all’istante con tutto il mondo non è una cosa che viene gratis. Che non cambia tutto. Vuoi che in questa situazione di trapasso ci sia uno che scrive La ricchezza delle nazioni o Il Capitale? Quei grandi testi che hanno dato alimento per decenni alla pratica politica? Non c’è nessuno che lo fa, nessuno sa cosa dovrebbe scrivere».

Forse perché non ci rendiamo conto di essere dentro questo cambio d’epoca. Non abbiamo la capacità di guardare abbastanza avanti, o abbastanza indietro.

«Chi invece è cresciuto in un altro mondo, come me, la vede come una cosa magnifica, prodigiosa e pericolosissima. Quando andavo al liceo parlavamo della guerra di Troia dividendoci tra chi stava con Achille e chi con Ettore. I ragazzini di oggi non lo fanno più. È un segno che quella cultura sta svanendo, che siamo dentro a una frattura profonda».

È un mondo peggiore?

«Non possiamo dirlo, sarà molto diverso».

È un mondo che, col suo respiro corto, fa crescere i populismi, le loro risposte semplici e inattuabili, il consenso per il consenso?

«La campagna elettorale fatta dicendo che Giorgia Meloni può rappresentare un ritorno al fascismo e in questo senso un pericolo è sbagliata. Non c’è un ritorno al fascismo. C’è forse qualcosa di peggiore. Ci può essere una limitazione della libertà senza ideologia. Il fascismo aveva una rozza ideologia. Ho riletto in un bel libro di David Bidussa tutti i discorsi di Mussolini ed è impressionante come avesse cercato di prendere di qua e di là, da Sorel a Marx alla Psicologia delle folle di Le Bon. Ha sentito il bisogno di costruire una ideologia».

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Al nuovo governo la congiuntura peggiore di sempre

sabato, Settembre 17th, 2022

Marcello Zacché

Al centrodestra, il favorito di questo turno elettorale, la ruota della fortuna economica sta riservando brutte sorprese. Chi entrerà a Palazzo Chigi alla fine di quest’anno dovrà gestire l’ennesima recessione del nuovo secolo. Christine Lagarde, la presidente della Bce, l’ha ieri definita «un rischio che dobbiamo correre» sulla strada della «stabilità dei prezzi». Già, perché dopo una dozzina d’anni senza inflazione, il prossimo governo se la troverà a due cifre, come si dice in gergo finanziario. E si troverà i tassi d’interesse, quelli che manovra per l’appunto la Bce, ai massimi da 20 anni.
Recessione e inflazione contemporaneamente non capitavano più da decenni alla roulette dei governi italiani. E non c’è una combinazione peggiore di questa per il Paese industrializzato più indebitato al mondo. Tanto che le agenzie di rating internazionali, quelle che indicano ai mercati finanziari i buoni e i cattivi, hanno iniziato ad accendere i loro fari sul caso Italia. Aprendo le porte dell’anticamera di quell’«emergenza spread» che conosciamo ormai tutti bene.
Così, dopo l’allarme arrivato già giovedì scorso, l’agenzia Fitch ha specificato due o tre questioni che promettono di agitare a lungo i sonni della prossima maggioranza di governo. «L’incertezza politica così come lo shock energetico – scrive l’agenzia Usa – potrebbero avere un impatto negativo sulla crescita e le finanze pubbliche, mettendo sotto pressione il rating». Al livello attuale di «BBB» l’Italia è a un passo dalla categoria «junk», che creerebbe grossi guai ai nostri Btp. Tanto che Fitch – consapevole del vantaggio del centrodestra, entra pure nel merito dei provvedimenti: «Non necessariamente una coalizione di centrodestra andrà in rotta di collisione con la Ue». Tuttavia «i governi futuri dovranno mirare a surplus primari più alti». Il che limiterà gli spazi di manovra su flat tax e pensioni. Al contrario – dice Fitch – se i tassi sui titoli italiani resteranno attorno al 4% «saranno necessari sforzi di consolidamento fiscale da parte del prossimo governo per ridurre il rapporto deficit/Pil». Altrimenti il debito tornerebbe a salire in traiettoria oltre i livelli pandemici, verso il 157% del Pil nel 2031.
Un riferimento, quello al consolidamento, chiarito bene quando Fitch parla dello scudo anti spread, cioè gli interventi che la Bce effettua sul mercato acquistando Btp per limitarne il calo delle quotazioni: l’agenzia ritiene che «per ora l’Italia soddisfi la maggior parte dei requisiti di ammissibilità» al programma della Bce (tpi), «ma la domanda è se continuerà a soddisfarli in futuro». Per questo, continua Fitch, «sarà molto importante la prima legge di bilancio del prossimo governo: fornirà un’indicazione della futura direzione della politica e se questa si adatta ai criteri di ammissibilità Tpi». Per i quali c’è una condizione per ben precisa: per il prossimo premier «progettare una politica fiscale ampiamente in linea con le raccomandazioni specifiche per Paese stabilite dalla Commissione europea». In altri termini, una strada che più stretta non si può, molto poco compatibile con politiche fiscali espansive. Sulla stessa china anche il report scritto ieri da dall’altra agenzia di rating Dbrs Morningstar, che critica tutte le proposte che peggiorerebbero il bilancio dello Stato, sia di destra, sia di sinistra.

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Italia fragile e miraggio Pnrr. A rischio oltre 7mila comuni (e i fondi Ue non basteranno)

sabato, Settembre 17th, 2022

Francesco Giubilei

La tragedia che si è abbattuta sulle Marche nella notte di giovedì sera è solo l’ultima catastrofe ambientale in ordine di tempo che ha colpito il nostro Paese. In ogni occasione in cui si verifica un dramma di tale entità, si ripete un copione tristemente noto in cui si invoca una maggiore cura del territorio e una prevenzione del dissesto idrogeologico. Passata la fase emergenziale, tutto torna come prima fino alla tragedia successiva in una spirale che si ripete ormai da decenni. A differenza del passato, in questa occasione ci sono due nuovi elementi nel dibattito politico e mediatico: il cambiamento climatico e le risorse del Pnrr.

Secono il rapporto Ispra sul Dissesto idrogeologico, il 93,9% dei comuni italiani (7.423) è a rischio frane, alluvioni o erosione costiera. Ben 1,3 milioni di abitanti vive in zone a rischio frane (2,2% della popolazione) e 6,8 milioni (11,5% degli italiani) in territori esposti a possibili alluvioni. Si tratta di un pericolo che interessa persone, edifici, aggregati strutturali, imprese e beni culturali. Nonostante l’Italia, a causa delle sue caratteristiche meteo-climatiche, topografiche, morfologiche e geologiche sia un paese particolarmente esposto a questi fenomeni, gli investimenti in prevenzione sono del tutto insufficienti. Negli ultimi decenni è poi avvenuto un duplice fenomeno che, se da un lato ha portato a un’eccessiva antropizzazione di alcuni territori, dall’altro lato lo spopolamento delle aree appenniniche ha fatto sì che vi fosse una minore cura e investimenti ridotti in zone ritenute (a torto) secondarie. Il problema riguarda però tutto il territorio nazionale senza eccezioni e i dati sono preoccupanti; oltre a frane e alluvioni, 841 chilometri di litorali sono in erosione (pari al 17,9% delle coste basse italiane).

Da più parti sono invocate le risorse del Recovery Fund come soluzione al problema del dissesto idrogeologico sostenendo che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza destina 70 miliardi alla tutela dell’ambiente. In realtà, se si analizza nello specifico il piano italiano nella parte dedicata all’ambiente, è diviso in quattro voci: agricoltura sostenibile ed economica circolare, energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile, efficienza energetica e riqualificazione degli edifici, tutela del territorio e della risorsa idrica.

Perciò, a fronte dei circa 70 miliardi complessivi per i temi ambientali, solo 8,49 miliardi sono destinati al dissesto idrogeologico. Considerando che in Italia ci sono 7.904 comuni e, supponendo che ad ogni comune spetti la stessa cifra (cosa che ovviamente non sarà così), si tratta di circa 1 milione di euro a comune, un importo del tutto insufficiente per pensare di coprire gli investimenti necessari per fronteggiare il dissesto idrogeologico. Anche supponendo che tutte le risorse del Pnrr stanziate per questa voce siano investite correttamente, senza sprechi e ritardi, i fondi non sarebbero comunque sufficienti. Perciò lo Stato dovrebbe o mettere in campo altri investimenti oppure ridiscutere con l’Ue la percentuale di risorse dedicate al contrasto del dissesto idrogeologico nel Pnrr.

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Incubo crac per l’energia: 70 società italiane a rischio per i prezzi fuori controllo

sabato, Settembre 17th, 2022

Giuliano Balestreri, Fabrizio Goria

I tormenti del settore europeo dell’energia agitano l’animo di banche, cancellerie, imprese e famiglie. I margini di garanzia, o margin call, che le società energetiche, le utility, dovranno pagare entro la fine del mese sono troppo elevati. Secondo i calcoli di Refinitiv, primaria società di intelligence economica, sono oltre 1.500 miliardi di dollari. Soldi che fino a un anno non erano necessari per proteggere i finanziamenti dati alle aziende del comparto. Ma che ora lo sono, a causa della volatilità del mercato. Secondo l’agenzia di rating Fitch “la situazione è estrema”. I governi di Germania, Finlandia e Svezia hanno messo in campo interventi ad hoc. La Commissione Ue studia misure analoghe. Ma il tempo è il problema immediato. A cui fa seguito il secondo, ovvero le possibili nazionalizzazioni. Solo in Italia, 70 società sono a rischio crac, come spiegato da Utilitalia, l’associazione che racchiude il segmento. La fine del mercato libero dell’energia, con un salto indietro di 20 anni, è un rischio concreto.

La finanza
Le società energetiche europee stanno affrontando richieste di margini per un totale di 1,5 trilioni di dollari nel mercato dei derivati e molte avrebbero bisogno di un sostegno politico per coprirle tra oscillazioni selvagge e prezzi alle stelle del gas e dell’elettricità, ha detto a Bloomberg un dirigente della major norvegese dell’energia Equinor. Secondo Helge Haugane, vicepresidente senior di Equinor per il gas e l’elettricità, la stima di 1,5 trilioni di dollari è persino “conservativa”. A tremare sono anche le società finanziarie, che hanno esposizione nei confronti delle utility del segmento. Interpellata da La Stampa, la società di compensazione dei derivati europea Eurex conferma che c’è una “pressione con pochi precedenti” – l’indice del rischio di liquidità è salito del 138% nel secondo trimestre del 2022 su base annua – e che “anche con i prezzi attuali c’è un significativo problema di margini di garanzia per il prossimo anno termico”. E dato che l’anno termico inizia il primo ottobre, le domande si moltiplicano. Quanti operatori dovranno essere salvati? Ci potranno essere delle situazioni di insolvenza? Per ora, la Commissione europea conferma di monitorare con attenzione la situazione, così come la Banca centrale europea (Bce). L’istituzione di Christine Lagarde ha chiesto alle banche dell’eurozona di fornire “al più presto” l’esposizione sul segmento delle utility. Entro l’inizio della prossima settimana, dovranno comunicarlo. Lagarde ha ribadito la sua presenza: “Siamo pronti a fornire liquidità alle banche, non alle utility dell’energia”. Una frase che lascia aperta la porta a possibili situazioni di stress, come fallimenti o richieste di aumenti di capitale. Che potrebbero essere significative anche qualora il prezzo calasse. “È la volatilità a incidere sui margini richiesti, non il valore assoluto del contratto”, confermano dalla Bce.

Le aziende
Dalla Germania all’Austria i nodi stanno emergendo. Prima Uniper, poi Wien Energie, infine la Verband kommunaler Unternehmen (Vku), l’associazione delle municipalizzate tedesche, hanno lanciato l’allarme. E in Francia, l’Eliseo entro fine settembre farà l’offerta definitiva per Edf (Électricité de France). La nazionalizzazione è la via. “Il rischio è quello dell’insolvenza”, ha spiegato. Perché – ha detto il direttore Ingbert Liebing – i prezzi dell’energia, e i margini domandati dagli istituti di credito, sono schizzati. C’è evidenza, anche in Italia, che i grandi gruppi bancari stanno domandando più garanzie per i finanziamenti. Non solo. Dolomiti Energia, uno dei maggiori provider del Nord-Est, che opera fra Trento, Milano e Torino, ha iniziato a rescindere i contratti a prezzo fisso. “Siamo stati costretti, visto che gli aumenti sono nell’ordine del 400%”, fa notare Marco Merler, amministratore delegato del gruppo. Situazioni analoghe sono presenti in tutta Italia. Le coperture finanziarie richieste con questi prezzi esorbitanti sono salite a livelli proibitivi per le medio-piccole, fa notare Utilitalia. A lanciare l’allarme per prime sono le utilities di Catania e di Voghera (Pavia), controllate da enti locali. “Compriamo il gas dagli shipper – spiega Marco Azzali, direttore operativo Asm vendita e servizi — e forniamo energia elettrica, gas e teleriscaldamento a circa 40 mila clienti, tra aziende (Pmi) e soprattutto famiglie (il 40% in maggior tutela). Ma quest’anno rischiamo di non avere gas da vendere. I prezzi sono decuplicati rispetto a gennaio 2021. Il nostro fornitore principale era Engie, ex Gas de France.

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Siamo la Taiwan del Mediterraneo, sulle nostre coste la sfida Usa-Russia

sabato, Settembre 17th, 2022

Lucio Caracciolo

«Le lacrime dei nostri sovrani hanno il gusto salato del mare che vollero ignorare». Il motto attribuito al cardinale di Richelieu (1585-1642) traversa i secoli. Non potremmo trovarne di più pertinente per l’Italia d’oggi. Battuta dai venti della Guerra Grande la nostra poco sovrana repubblica stenta a coglierne la posta strategica: dominio delle onde. Del mare di casa, Mediterraneo per la cartografia corrente, Medioceano in geopolitica perché connette Atlantico e Indiano, già a fuoco nel Mar Nero investito dall’assalto russo all’Ucraina. E dei Mari Cinesi, cuore del Medioceano estremo-orientale, epicentro dello scontro tra Washington e Pechino sulle rotte dell’Indo-Pacifico.

Il centro di quel mare è Taiwan, del nostro l’Italia. Rispettate le proporzioni, la sfida scalena fra Stati Uniti, Cina e Russia si deciderà sul controllo dello Stretto di Taiwan e di quello di Sicilia. Perni delle rotte oceaniche che legano Cina e America via Eurafrica. Oggi. Domani forse attraverso la rotta artica, ovvero russa, per la cui liberazione dai ghiacci si prega ogni giorno al Cremlino con spreco d’incenso. Cerimonia che confidiamo si ripeta nei nostrani “palazzi del potere” a intenzioni invertite. Giacché la fusione del pack artico comporterebbe declassamento del Medioceano di casa, riportato all’originario calibro mediterraneo, frontiera aperta fra Europa, Africa e Asia. Placche geopolitiche in avvicinamento. Non vorremmo un giorno risvegliarci attraccati a Caoslandia.

Dal 24 febbraio l’Italia ha un nemico autodichiarato. Per la Federazione Russa siamo “Paese ostile”. Scrutato con rancore, dopo che da quando esistiamo come Stato unitario e sotto qualsiasi regime o governo abbiamo stabilito con la Russia – zarista, rossa o post-sovietica – relazioni davvero speciali in ogni campo, fino a dipendere dal suo gas. Il filo della russofilia italiana non s’è mai spezzato, nemmeno quando ci avventurammo alla conquista dell’Unione Sovietica al fianco di Hitler. Su quella catastrofe costruimmo anzi il mito “italiani brava gente”. Battezzato dall’omonimo film di Giuseppe De Santis, coproduzione italo-sovietica (Galatea-Mosfil’m) del 1964. Colonna sonora “Italiano Karascio” interpretata da Giancarlo Guardabassi e Teddy Reno su musica di Armando Trovajoli. Con variazioni tattiche nel titolo della pellicola: sul mercato alleato virava nel tecnico-allusivo “Attack and Retreat”, mentre per i compagni/nemici valeva l’anodino “Loro andavano a Oriente” (“Oni šli na Vostok”), dove il movimento monodirezionale dei nostri alpini era bravamente smilitarizzato.

Ancora oggi ai russi riesce difficile odiarci con l’intensità che merita uno hostis. L’attività militar-spionistica congrua all’”operazione militare speciale” è punteggiata da messaggi sotterranei all’insegna del «dài parliamoci noi che ci capiamo», cui i nostri apparati di norma oppongono prudente silenzio. Per una volta italiani e russi sono d’accordo nel vietarsi la parola “guerra”. Loro perché la fanno ma preferiscono non dichiararla per non eccitare proteste domestiche. Noi perché non possiamo dirlo nemmeno quando la facciamo – estremo il caso dell’attacco alla Jugoslavia – causa tabù psico-cultural-costituzionale.

Resta che in guerra siamo. Posto che con questo termine non si descrive più solo l’uso della forza da parte di eserciti contrapposti ma la sequenza di operazioni ambigue, palesi e segrete, “cinetiche” ed economiche che investe tutte le dimensioni del conflitto. Le attività non convenzionali come convenzione. Rovesciamento identificato nel gergo mediatico quale “dottrina Gerasimov”, onore al capo di Stato maggiore della Difesa russo, cui ironia della storia aveva imposto la responsabilità di gestire il conflitto ucraino, quanto di più simile alle classiche guerre di posizione sia possibile con le tecnologie correnti. Forse anche per questo la sua performance è risultata tanto scadente da indurre Putin a esautorarlo di fatto dopo pochi giorni. Né si sa dove vaghi la sua ombra, di cui si segnalano rapsodiche apparizioni.

Ammesso e difficilmente concesso che noi si sia “brava gente”, questa leggenda è assurta a maschera della molto più concreta tendenza italiana all’irresponsabilità. Fondata sul rifiuto della realtà. Chi non si rende conto dell’ambiente in cui vive ne diventa vittima quando l’atmosfera si surriscalda. Nel contesto bellico in espansione, visto dal mare il Belpaese è boccone grosso, gustoso, disponibile.

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I fantasmi della destra

sabato, Settembre 17th, 2022

Francesco Olivo

Al penultimo miglio i fantasmi si fanno più pressanti. La destra crede di essere a un passo dal governo, i sondaggi riservati danno adito a sogni di gloria, calcoli alla mano tutto torna, i sogni però devono convivere con gli incubi, i soliti incubi: vincere, ma non governare. Le manovre centriste sembrano più complicate rispetto al passato, eppure la convinzione è che ci sia solo un modo per sventarle: stravincere. «È la sindrome di un passato che non passa mai», dice Giorgio Mulè di Forza Italia, sottosegretario alla Difesa, che cita un vecchio striscione degli anni ’50 sulle strade del Giro dedicato a Bartali: “Gino se non vinci, non perdi, ma se vinci stravinci”, «ecco, dobbiamo fare come Bartali, è l’unico antidoto alle pozioni magiche».

Le dichiarazioni di Silvio Berlusconi dopo il voto a Strasburgo sullo stato di diritto in Ungheria hanno fatto molta impressione tra i Fratelli d’Italia e in parte nella Lega, il Cavaliere avrebbe potuto smarcarsi, sottolineando la fedeltà europeista del suo partito, ma è andato oltre: «Se i nostri alleati dovessero andare in direzioni diverse noi non staremmo nel governo», ha detto giovedì intervistato dal Tg3. L’allarme è scattato subito: «Silvio si sta sfilando prima ancora che il governo nasca?». Alcuni sondaggi, prima del blackout imposto dalla legge, immaginavano che Lega e FdI potessero ottenere la maggioranza assoluta anche senza i berlusconiani. Per Mulè però, «Forza Italia sarà il perno della credibilità del prossimo governo». Poi, è lo stesso Berlusconi a smentire queste ricostruzioni: «Tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto perché il governo di unità nazionale ha lavorato bene. Ma questo è il passato». Il presente Berlusconi se lo immagina diverso: «La maggioranza sarà ampiamente autosufficiente, e noi saremo coerenti con il mandato ricevuto dai cittadini. Adesso è tempo di tornare ad una sana alternanza fra due schieramenti, è tempo che siano finalmente gli italiani a scegliere da chi vogliono essere governati». Il messaggio per gli alleati è che è lui non si sfilerà, gli scenari di larghe intese, infatti, vengono considerati «manovre di palazzo costituzionalmente lecite ma che scoraggiano i cittadini dalla partecipazione al voto». La sfida semmai è di pesare dentro il nuovo governo: «Saremo una parte essenziale della nuova maggioranza che guiderà il Paese, saremo numericamente e politicamente determinanti, saremo i soli in grado di condizionare, anzi di determinare, le politiche dell’esecutivo di centrodestra».

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Bollette, il terzo scudo

sabato, Settembre 17th, 2022

Luca Monticelli

ROMA. L’ultimo atto del governo Draghi è il terzo decreto aiuti a sostegno di famiglie e imprese: un provvedimento di 14 miliardi di euro che, spiega il ministro dell’Economia Daniele Franco, sommati a quelli dei mesi scorsi diventano 66. Il responsabile del Tesoro snocciola una cifra dopo l’altra: «Per l’energia abbiamo dedicato complessivamente 33 miliardi, e con i dieci di oggi diventano 43». Nonostante gli interventi messi in campo, il deficit «resta al 5,6%, così come indicato nel Def», assicura. Un risultato che consente al premier Mario Draghi una stoccata ai partiti: «Abbiamo risposto alla domanda di scostamento di bilancio da 30 miliardi senza fare indebitamento. A meno che non si voglia chiedere uno scostamento ogni mese…».

Franco lancia un messaggio al prossimo governo: «Se vi sarà un tasso adeguato di Pil, penso che la politica economica possa restare positiva, di sostegno alla crescita». Il ministro dell’Economia auspica un nuovo provvedimento sulle bollette, sia per le imprese che per le famiglie, con la legge di bilancio: «Confidiamo che l’andamento delle entrate, trainate dalla crescita e dall’inflazione, renderà possibile un intervento analogo».

Ieri giornata di forte discesa per il prezzo del gas: la Borsa di Amsterdam ha chiuso a 187 euro al megawattora, in calo del 12%. E il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, presente alla conferenza stampa dopo l’approvazione del decreto, si mostra ottimista: «Gli stoccaggi sono all’86,7%, l’obiettivo era il 90% a fine ottobre e siamo in anticipo. Ho firmato una lettera a Snam per andare oltre, se riuscissimo ad arrivare al 92-93% avremmo maggior flessibilità nei momenti di massimo assorbimento invernale». Di fatto, sottolinea, «non c’è alcun razionamento del gas, e a fine mese abbiamo ottime chance di ottenere il price cap a livello europeo».

Quanto al tema dei rigassificatori, il decreto Aiuti ter contiene «autorizzazioni indifferibili» per gli impianti considerati strategici. «Per quello di Piombino troveremo sicuramente un accordo», aggiunge Cingolani. Draghi lo considera «essenziale, ora possiamo garantire tempi rapidi e certi».

Il Consiglio dei ministri ha approvato anche due decreti legislativi di attuazione della legge sulla concorrenza. Quello che prevede la mappatura delle concessioni, tra cui quelle balneari – una sorta di banca dati per verificare le modalità di assegnamento dei beni demaniali – ha scatenato l’ira della Lega che ha votato contro: «È stata una forzatura inaccettabile», è il commento del partito guidato da Matteo Salvini. Draghi ha risposto duramente alle critiche del Carroccio che preferiva rimandare la questione al prossimo governo: «Bisogna trovare delle risposte ai bisogni dei cittadini quando sono pronte, questo governo è stato creato per fare, non per “stare”. Secondo il ragionamento che fa la Lega avremmo combinato molto poco, sarebbe stato un fallimento».

Bonus. L’una tantum a novembre estesa ai lavoratori autonomi
Arriva un bonus una tantum di 150 euro per chi percepisce redditi inferiori a 20 mila euro lordi. La platea interessata riguarda 22 milioni di persone: dipendenti, pensionati e autonomi.
I dipendenti, esclusi i lavoratori domestici, riceveranno il contributo nel cedolino di novembre, se la loro retribuzione sarà inferiore ai 1.538 euro.
La misura decisa dal governo ricalca il bonus da 200 euro varato con il decreto Aiuti bis, solo che allora il sostegno aveva raggiunto i redditi fino a 35 mila euro. Stavolta si è cercato di concentrare le risorse per le famiglie bisognose, così da ottenere un effetto più robusto per chi è maggiormente colpito dai rincari delle bollette.
Anche l’Inps corrisponderà il bonus ai pensionati nel mese di novembre. Beneficeranno dei 150 euro pure i lavoratori precari, le maestranze dello spettacolo, gli stagionali e i percettori del reddito di cittadinanza. È saltata dal decreto, invece, la norma che estendeva il bonus sociale di luce e gas dai 12 mila euro attuali di reddito Isee fino a 15 mila euro

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