Archive for Settembre, 2022

Stipendi pubblici, Draghi stoppa il blitz: nessun aumento a generali e manager

mercoledì, Settembre 14th, 2022

ALESSANDRO BARBERA

ROMA. Accade spesso alla fine di governi e legislature. Chiamiamoli regolamenti di conti o – meno maliziosamente – i nodi che vengono al pettine. Fatto è che ieri, fra Palazzo Chigi, Tesoro e le alte burocrazie si respirava una tensione mai vista nell’anno e mezzo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Due le ragioni, entrambe rilevanti per le sorti della campagna elettorale. La prima: la norma sugli extraprofitti delle aziende energetiche. Dopo la decisione di molti di ricorrere per la presunta incostituzionalità, i tecnici hanno discusso a lungo come riformularla. Nei piani di Draghi quella tassa avrebbe dovuto garantire almeno nove miliardi con i quali finanziare i tre decreti contro il caro energia. Nella migliore delle ipotesi gli incassi si fermeranno a tre miliardi e mezzo. Ebbene, nonostante questo il governo ha deciso di non rivedere le regole, né di inasprirle. Un funzionario sotto la garanzia dell’anonimato spiega il perché della scelta: «Molte grandi aziende pubbliche hanno sentito la pressione del governo, e deciso di pagare il dovuto. Ciò ha provocato forti ribassi in Borsa in una fase già tesa sui mercati».

Di qui la decisione di introdurre nel decreto Aiuti ter (dovrebbe essere approvato venerdì) solo un ritocco: della norma verrà modificata la parte a rischi ricorsi, perché fin qui ha colpito anche profitti non coerenti con gli aumenti del gas. «Se poi la nuova maggioranza vorrà cambiare le cose è libero di farlo». La questione che ha irritato Draghi è dover lasciare Palazzo Chigi con l’eredità di un flop: ad oggi lo Stato ha ottenuto poco più di un miliardo di euro. L’ultima strada per aumentare quel gettito resta quella europea, e la soluzione (se mai approvata dai capi di Stato) di introdurre una tassa a livello comunitario.

Le versioni sui responsabili del pasticcio sono molte. Sulla base delle voci raccolte, gli indiziati sono due: il dipartimento delle Finanze guidato da Fabrizia Lapecorella e gli uffici del sottosegretario Roberto Garofoli. Sia come sia, per avere quanto necessario al nuovo decreto (garantirà gli sconti sull’energia fino a dicembre) il Tesoro sta raschiando il barile: ancora ieri nessuno era in grado di scommettere se il decreto varrà i tredici miliardi fin qui ipotizzati.

L’altra ragione di scontro dentro i palazzi è un emendamento al decreto Aiuti bis (occhio alle differenze) che sta per essere votato in via definitiva in Parlamento. Proposta da Forza Italia e votato in Commissione all’unanimità da tutti i partiti, la norma permetterebbe ai vertici militari, di polizia, carabinieri e ministeri di derogare al tetto – introdotto ormai da qualche anno – che impedisce indennità superiori a quella del presidente della Repubblica, pari a 240mila euro l’anno.

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“Ma è soltanto la punta dell’iceberg”. C’è una rete di think tank e società di comodo in Europa: così i russi fanno entrare i soldi

mercoledì, Settembre 14th, 2022

Jacopo Iacoboni

Secondo un cablo del Dipartimento di Stato firmato da Anthony Blinken, che cita documenti di intelligence americana appena declassificati per volontà precisa di Joe Biden – e il cui contenuto è stato riferito, per ora solo nelle grandi linee, a un gruppo di giornalisti internazionali da parte di un alto ufficiale dell’amministrazione Usa in carica – dal 2014 in avanti la Russia ha trasferito più di 300 milioni di dollari a partiti politici, funzionari e politici stranieri in più di due dozzine di Paesi nel mondo. Non sono stati per ora resi noti i Paesi e i politici stranieri coinvolti da questa gigantesca operazione d’influenza. Gigantesca perché, stando a fonti occidentali consultate da La Stampa, i 300 milioni sono solo quelli di cui si ha la certezza documentale, ossia qualche tipo di riscontro tangibile già individuato. «Ma pensiamo sia solo la punta dell’iceberg», dicono gli americani.

L’operazione coperta russa avrebbe riguardato, secondo quanto risulta a La Stampa, di sicuro le recenti elezioni in Bosnia, Montenegro e Albania. Ma anche think tank e società di comodo che hanno fatto da front per i russi in Europa. E imprese statali in America centrale, Asia, Medio Oriente e Nord Africa. Una minaccia ibrida per lo più esercitata attraverso propagandisti infiltrati nelle tv e nei think tank dei Paesi europei, e corruzione ambientale.

La grande domanda adesso è: qualcuno in Italia ha preso questi soldi? «Gli Stati Uniti forniranno ai Paesi coinvolti le informazioni classificate riguardo quei politici che risultano essere stati finanziati», spiegano fonti americane. Se ci fossero informazioni riguardanti l’Italia, i primi avvisati sarebbero il Dipartimento per le informazioni e la sicurezza, e ovviamente il premier in persona.

Enrico Letta ieri sera ha chiesto una convocazione immediata del Copasir, e che il governo dia tutte le informazioni che ha (non si pensa solo a partiti e politici, ripetiamolo, ma anche a think tank e riviste, due tradizionali strumenti di interposizione usati dai servizi russi per far entrare soldi in Italia). Guido Crosetto, l’uomo che segue molti dossier sulla sicurezza nazionale per Giorgia Meloni, commenta la notizia di finanziamenti milionari dalla Russia: «Non mi stupisce perché c’era una tradizione antica da parte loro. Però vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento». Salvini chiede «si facciano i nomi», e giura «mai chiesto o ricevuto soldi da Mosca».

Negli ultimi anni molte sono state le polemiche per rapporti o trattative pericolose – politiche e non solo – di mondi politici italiani con i russi. Infinite le riviste e i siti, soprattutto populiste e sovraniste, che hanno svolto propaganda pro Cremlino. Un consigliere di Salvini trattò all’hotel Metropol una rivendita di gas con elargizione di presunti finanziamenti alla Lega (69 milioni) da parte del giro dell’oligarca Konstantin Malofeev, vicenda sulla quale è ancora aperta una difficile indagine della Procura di Milano (la Lega nega che la cosa sia mai andata in porto) con ipotesi di corruzione internazionale. La Lega firmò un accordo politico con l’emissario di Putin, Sergey Zeleznyak, che comprendeva anche «scambi di informazioni». Lo stesso accordo politico, negli stessi due mesi, fu trattato dal M5S con Alessandro Di Battista, i 5 Stelle solo alla fine non lo firmarono, dopo che il caso era stato rivelato da La Stampa. Per due volte dopo il 2014 delegazioni parlamentari 5 Stelle andarono in Crimea a sostenere la posizione annessionista filorussa, contro l’Ucraina. Grillo era ospite privilegiato a RT, oggi bannata in Europa. Il leader M5S Giuseppe Conte fu al centro di forti polemiche nel marzo 2020, per aver concesso una sfilata di mezzi militari e intelligence e generali russi in Italia, che i russi presentavano come «missione di aiuti».

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In democrazia tutti hanno il diritto di cambiare idea

mercoledì, Settembre 14th, 2022

di Ernesto Galli della Loggia

Una possibilità che viene riconosciuta agli elettori allo stesso modo va riconosciuta ai candidati che si sottopongono al loro giudizio. E non è trasformismo

Sono almeno tre — Fratelli d’Italia, Azione e 5 Stelle — le forze politiche protagoniste della campagna elettorale, o i loro leader, cui sono rimproverate scelte compiute o cose dette e fatte nel rispettivo passato talora recente o recentissimo. Passato rispetto al quale oggi i loro esponenti mostrano più o meno esplicitamente di aver preso le distanze venendo perciò accusati d’incoerenza.

Che valore bisogna attribuire a una simile accusa? Davvero è auspicabile che chi si dedica alla politica mantenga sempre le stesse idee? Davvero è degno di rispetto solo chi di uomini, fatti e valori mantiene per così tanto tempo sempre la medesima opinione senza mai cambiarla, e quindi senza mai cambiare le proprie scelte, facendosi guidare sempre dagli stessi criteri di giudizio? Sono domande che nella vita pubblica italiana — dominata dal trasformismo per un verso ma per un altro dall’ambiguo moralismo di molte «questioni morali» — si ripropongono puntualmente. Uno sguardo al passato può aiutare a chiarirsi le idee.

Chi ha una certa età e forse qualcosa di più forse ricorda le fotografie che un settimanale di destra molto diffuso negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, Il Borghese , pubblicava in ogni suo numero. Erano perlopiù foto destinate a screditare gli esponenti politici della neonata Repubblica, in particolare democristiani e «socialcomunisti» (come allora si diceva).

Le foto riproducevano a questo fine le immagini risalenti a due tre decenni prima di molti di loro abbigliati nelle varie fogge e divise in uso nel regime fascista. Insomma gli antifascisti attuali ieri erano stati fascisti: quindi dei veri voltagabbana! Dopo un paio di decenni l’argomento cominciò ad essere trattato con ben altra serietà dagli storici. Venne così pienamente alla luce come un gran numero di intellettuali importanti dell’Italia repubblicana contemporanea — scrittori, professori universitari, giornalisti, artisti, uomini di spettacolo — molti anni prima fossero stati fascisti e spesso fascisti appassionati e convinti. Ma anche stavolta, passato un primo momento di sorpresa, nessuno sollevò un particolare scandalo.

Forse perché si era consapevoli che in un regime totalitario (e oltre tutto di un totalitarismo alquanto particolare come quello fascista) molti ingegni, specie giovani, non potessero che respirare quell’atmosfera e accettare la realtà del momento? Sì, certamente anche per questo. Ma soprattutto, io credo, per la convinzione che nei giudizi politici sia inevitabile e frequente l’errore, e sacrosanta perciò la possibilità di ricredersi. Che quando si tratta di politica — lo scenario dove tutto può cambiare con la maggiore rapidità e nella maniera più imprevedibile — mutare giudizio non è una colpa, ma spesso una necessaria presa d’atto della realtà e magari anche una prova d’intelligenza.

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Gli Usa: dai russi 300 milioni per interferire in 24 Paesi

mercoledì, Settembre 14th, 2022

di Giuseppe Sarcina

Il documento inviato dal dipartimento di Stato chiede agli ambasciatori di sollevare il problema nelle varie Nazioni. L’Italia non è stata contattata

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON Il governo russo ha speso, o meglio, investito almeno 300 milioni di dollari dal 2014 in avanti per cercare di «influenzare» i politici di almeno 24 Paesi. È il messaggio inviato lunedì 12 settembre dal segretario di Stato Antony Blinken alle ambasciate e ai consolati Usa con sede soprattutto in Europa, ma anche in Africa e nel Sud-Est asiatico. Non ci sono i nomi, però, né dei Paesi interessati, né dei partiti o di singoli dirigenti politici che avrebbero beneficiato dei finanziamenti «coperti» distribuiti dal Cremlino.

La notizia riapre la polemica sulle manovre pianificate da Mosca per condizionare le dinamiche politiche e sociali in altri Stati, specie quelli schierati con l’Alleanza atlantica. E chiaramente la mossa americana cade in un momento delicato per l’Italia, in piena campagna elettorale.

Il documento firmato da Blinken è stato concepito come un atto interno alla diplomazia americana. Anche se il segretario di Stato invita gli ambasciatori a «sollevare il problema» con le autorità dei Paesi che li ospitano. Il governo guidato da Mario Draghi fa sapere di non essere stato contattato.

Le informazioni provengono da un nuovo rapporto dei servizi segreti Usa e si inseriscono in un filone di indagine iniziato almeno 7-8 anni fa. In un primo tempo gli analisti americani hanno ricostruito le manovre del Cremlino per disturbare la campagna presidenziale del 2016 negli Stati Uniti. I democratici accusarono Donald Trump di aver cospirato con Putin per danneggiare Hillary Clinton.

L’inchiesta venne affidata al super procuratore Robert Mueller che il 22 marzo 2019 consegnò un mastodontico rapporto, sostanzialmente con due conclusioni. Primo: il Cremlino aveva cercato di favorire Trump. Secondo: non c’erano prove di una collusione tra l’allora candidato repubblicano e il vertice russo.

In parallelo si mosse anche la commissione Affari esteri del Senato americano. Era il 2017, i repubblicani, allora in maggioranza, si rifiutarono di partecipare alle indagini. I democratici, comunque, completarono un dossier, un «minority report», datato 10 gennaio 2018. Titolo: «L’assalto asimmetrico di Putin alla democrazia in Russia e in Europa, implicazioni per la sicurezza Usa».

Il testo dedica largo spazio ai tentativi di destabilizzazione o di condizionamento nei Paesi baltici, in Ucraina, Georgia, Montenegro, Serbia, Bulgaria ed Ungheria. Ci sono anche tre pagine dedicate all’Italia. I parlamentari puntano l’attenzione sulle «posizioni anti-establishment» e favorevoli alla Russia del Movimento 5 Stelle. Ma osservano che «non ci sono prove di finanziamenti corrisposti al Movimento 5 Stelle da fonti legate al Cremlino».

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Ucraina, l’intelligence Usa dietro la riscossa. Ma il Pentagono ora è cauto (e valuta la reazione di Putin)

mercoledì, Settembre 14th, 2022

di Giuseppe Sarcina

Gli Stati Uniti intendono proseguire con gli aiuti

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON — La guerra non è finita. Vladimir Putin non è ancora sconfitto.

II governo di Joe Biden segue gli ultimi sviluppi del conflitto in Ucraina, alternando ottimismo e prudenza. Il New York Times rivela che la controffensiva di Kiev sia il risultato di una stretta collaborazione tra il Pentagono, l’intelligence britannica e i generali di Volodymyr Zelensky.

Il team, coordinato dal consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan e da Andriy Yermak, uno dei collaboratori più stretti del leader ucraino, avrebbe esaminato le opzioni strategiche in piena estate, puntando alla fine sul fianco est del Paese, liberando Kharkiv e Izyum.

La notizia conferma uno schema ormai consolidato da mesi. Biden, pur rifiutando di inviare militari in Ucraina, ha messo a disposizione dell’esercito di Zelensky non solo armi sempre più sofisticate, le informazioni dei servizi segreti e il lavoro degli addestratori, ma anche una sponda politico-militare al massimo livello.

Oltre al contributo di Sullivan, gli ucraini hanno potuto contare sulla sponda del capo di Stato maggiore, il generale Mark Milley. In questi giorni l’amministrazione Usa cerca di mantenere una posizione defilata, attribuendo all’esercito ucraino il merito della clamorosa rimonta. L’altro ieri il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha parlato di «progressi significativi», assicurando la continuità della fornitura di armi agli ucraini. Da questa specie di gabinetto di guerra sono esclusi i grandi Paesi dell’Unione Europea. Anzi ieri il ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha polemizzato aspramente con la Germania perché non consegna i carri armati promessi: «Non c’è un singolo argomento razionale che giustifichi questa scelta — ha detto Kuleba —. Che cosa spaventa Berlino e non Kiev?».


Zelensky sta prendendo sul serio l’ipotesi di riconquistare tutti i territori occupati dai russi, compresa la parte del Donbass e la Crimea persi nel 2014. È uno scenario che raccoglie consensi bipartisan nel Congresso americano. La controffensiva di questi giorni ha suscitato reazioni entusiaste tra democratici e repubblicani.

Dal Pentagono, invece, filtra cautela . Nelle ultime ore, molti commentatori e anche ex diplomatici hanno ricordato la storiella raccontata dallo stesso Putin in un’autobiografia pubblicata nel 2000. Il leader russo si ritrovò davanti un topolino chiuso in un angolo, senza vie di fughe. Il roditore, disperato, gli balzò addosso. Putin adesso sarebbe nella stessa posizione e potrebbe tentare una mossa estrema, per esempio usare gli ordigni nucleari tattici per invertire la deriva militare sul campo o almeno riconquistare una posizione di forza da cui negoziare. Attenzione: si sta parlando di bombe con un raggio d’azione limitato, intorno al chilometro e mezzo. Ma comunque con un potenziale devastante.

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Superbonus e cessione del credito, ok aula Senato. Ora via libera al dl Aiuti: dallo smart working al docente esperto, ecco cosa prevede il testo punto per punto

martedì, Settembre 13th, 2022

Si sblocca il decreto Aiuti bis. Con 211 voti favorevoli e un astenuto, l’aula del Senato ha detto sì all’emendamento al decreto Aiuti bis che modifica le norme del superbonus. E il pacchetto da 17 miliardi potrà andare avanti. 
Si scioglie, dunque, il nodo diventato cavallo di battaglia dei 5 stelle, con i capigruppo in commissione Bilancio e Finanze del Senato – Gianmauro Dell’Olio e Emiliano Fenu – che hanno alzato le barricate per far sì che la norma non venisse cancellata. «Sul Superbonus, come avevo anticipato ieri, abbiamo individuato una soluzione che ritengo possa trovare il consenso del Parlamento», ha confermato il viceministro dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli, entrando al Senato. «Serve – ha aggiunto – a garantire cittadini ed imprese, e soprattutto a far camminare una misura che abbiamo fortemente voluto e costruito, con l’obiettivo di garantire, in questi anni post Covid la ripresa del settore edile e la crescita del Pil. Un obiettivo che è stato ampiamente raggiunto». Così dopo che il decreto si era impantanato a palazzo Madama per il rifiuto di M5s e Cal di ritirare gli emendamenti depositati e dopo i timori del Governo per la possibile perdita di 17 miliardi di risorse, oggi la strada sembra in discesa circa l’approvazione del testo che dovrà poi passare al vaglio di Montecitorio. Nella proposta formulata dal governo è stata tolta la responsabilità in solido per le imprese tranne che nei casi di dolo e per i soggetti suscettibili di sanzioni antimafia. Come chiesto dal M5s nel provvedimento non ci saranno oneri a carico dello Stato.
Ecco il testo. Viene introdotto l’articolo 33 bis (Semplificazioni in materia di cessione dei crediti ai sensi dell’articolo 121 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77). Con esso si specifica che «in presenza di concorso nella violazione» ma solo se «con dolo o colpa grave” non si può accedere al beneficio. Si tratta di disposizioni che «si applicano esclusivamente ai crediti per i quali sono stati acquisiti, nel rispetto delle previsioni di legge, i visti di conformità, le asseverazioni e le attestazioni». 
Tra i punti anche la proroga del lavoro da casa. «Prorogato fino al 31 dicembre lo smart working per i fragili e per i genitori di figli con meno di 14 anni». Ad annunciarlo su Twitter il ministro del lavoro Andrea Orlando, facendo riferimento all’emendamento al dl aiuti bis con la proroga all’esame del Senato. «In diverse occasioni, negli scorsi mesi, avevo proposto la proroga e mi ero impegnato affinché fosse approvata: promessa mantenuta», aggiunge.
Si fa in discesa, a questo punto, la strada al Dl Aiuti, con i 17 miliardi già previsti e destinati a imprese e famiglie. Il decreto Aiuti bis approvato dal Cdm a inizio del mese scorso e andato in Gazzetta il 9 agosto dovrà essere ora convertito in legge. In pancia al governo c’è già un terzo pacchetto di aiuti, da 12-13 miliardi di cui 6,2 già formalizzati grazie ai migliori conti pubblici.
Tra i punti in questione c’è anche il welfare aziendale. Si tratta di evetuali contributi da parte delle aziende per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. Tali aiuti che sono del tipo “fringe benefit” rientreranno nelle regole del welfare aziendale. Anche queste voci saranno quindi tra quelle che non concorrono alla formazione del reddito, fino al limite innalzato di nuovo a 516 euro anche per il 2022.
Bonus energia alle imprese
Alle imprese a forte consumo di energia elettrica il Governo riconosce un contributo straordinario a parziale compensazione dei maggiori oneri sostenuti, sotto forma di credito di imposta, pari al 25% delle spese sostenute per la componente energetica acquistata ed effettivamente utilizzata nel terzo trimestre 2022, per cui si stima una spesa di 3,4 miliardi di euro. Il credito d’imposta può essere riconosciuto anche in relazione alla spesa per l’energia elettrica prodotta dalle imprese nel primo periodo dell’anno e dalle stesse auto consumata nel terzo trimestre 2022. Per maggiori informazioni su come funziona il bonus energia per le imprese, vi consigliamo di leggere questo articolo. Previsto nel testo anche un credito di imposta per l’acquisto di carburanti per l’esercizio dell’attività agricola e della pesca. Tale credito era stato già riconosciuto alle imprese agricole per il primo trimestre 2022 e a quelle della pesca per il 1° e 2° trimestre 2022, ora arriva anche per 3° e 4° trimestre.

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La Norvegia “vincitrice” della guerra del gas chiude al tetto ai prezzi

martedì, Settembre 13th, 2022

Andrea Muratore

La Norvegia è “scettica” sulla possibilità di un tetto al prezzo del gas importato dall’Unione Europea: Oslo sostiene che la misura non risolverebbe i problemi di approvvigionamento dell’Europa, come ha ricordato il premier Jonas Gahr Støre in una nota diramata dopo un colloquio telefonico con la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. “Siamo d’accordo sull’avere un dialogo ancora più stretto con l’Unione Europea in futuro sulle diverse proposte che sono sul tavolo”, ha comunicato il governo di Oslo. “Stiamo affrontando le discussioni con una mentalità aperta, ma siamo scettici riguardo a un prezzo massimo per il gas”, ha spiegato Støre, alla guida dello Stato divenuto il primo fornitore di oro blu per l’Europa dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina.

Le vendite di petrolio e gas della Norvegia all’Europa hanno raggiunto livelli record l’anno scorso, prima di aumentare ulteriormente quest’anno dopo la svolta geopolitica del 24 febbraio. La Norvegia si è fatta avanti dopo la rottura tra Europa e Russia e il crollo delle forniture per aiutare a gestire i cali degli approvvigionamenti e, non solo metaforicamente mantenere accese le luci in Europa, massimizzando la produzione di gas. La Norvegia prevede di aumentare da 113,2 a 117 miliardi metri cubi le esportazioni annue. Per quanto riguarda l’Unione Europea, Rystad Energy ha stimato che prima della guerra in Ucraina, la nazione scandinava copriva solo il 20% della domanda di gas del blocco dei Ventisette a fronte del 40% della Russia. Dopo aver aumentato la produzione, si prevede che quest’anno consegnerà quasi 90 miliardi di metri cubi di gas all’Ue, o quasi il 25% della domanda complessiva,  diventandone primo fornitore. Questo dato è infatti superiore al 20% residuo della Russia. Per la Gran Bretagna, le importazioni di gas norvegesi potrebbero passare dal 41% della domanda totale nel 2021 a quasi il 50% nel 2022.

Tutto questo ha ovviamente prodotto per Oslo profitti notevoli. Il governo norvegese ha previsto a maggio che le sue entrate da petrolio e gas si sarebbero già avvicinate ai 100 miliardi di euro quest’anno. In un paese di 5,4 milioni di persone significa l’equivalente di 18mila euro a persona. I prezzi del gas sono raddoppiati da allora e ora vengono scambiati a più di dieci volte il livello medio del decennio precedente. Nel solo mese di agosto la Norvegia ha venduto, praticamente esclusivamente a Unione Europea e Regno Unito, gas per 13,26 miliardi di euro. La Norvegia ha chiaramente un significativo margine di manovra fiscale rispetto al passato: i ricavi da petrolio e gas sono stati inferiori a 30 miliardi di euro l’anno scorso.

Alcuni dirigenti del settore petrolifero e del gas al di fuori della Norvegia, a tal proposito, hanno sostenuto che la ricca nazione scandinava dovrebbe fare di più per aiutare l’Europa in vista di un inverno difficile in cui molti paesi potrebbero affrontare sia la recessione che i prezzi record dell’energia”, ha sottolineato il Financial Times. A oggi, è come se la Norvegia stesse vendendo petrolio a 400 euro al barile invece che ai tipici 100, e molti attori chiedono a Oslo un calmiere ai prezzi capace di portare ulterormente fuori mercato il gas russo. Støre ha detto in passato a più riprese che la responsabilità di qualsiasi accordo e su necessari calmieri ai prezzi ricade su società come Equinor, il gruppo petrolifero norvegese controllato dallo Stato, che gestiscono i giacimenti petroliferi e di gas della Norvegia e che “devono essere responsabili di stringere accordi a breve e lungo termine con i loro clienti in Europa”. Dalla Lituania all’Olanda, dalla Danimarca alla Polonia, molte nazioni che non possono più contare sulle forniture russe guardano con attenzione a Equinor e sulla Norvegia hanno fatto pressioni in direzione di un trattamento di favoro.

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“La Lega al Viminale? Le cose che funzionano vanno confermate. Sosteniamo le sanzioni ma l’Europa adesso aiuti famiglie e imprese”

martedì, Settembre 13th, 2022

Augusto Minzolini

Matteo Salvini sfoggia l’espressione annoiata di chi ha di fronte interlocutori che non vogliono o fanno finta di non capire. Mentre le sorti della guerra in Ucraina mutano e l’esercito di Kiev avanza, il segretario della Lega ripete che, nei fatti, ha sempre sostenuto le sanzioni alla Russia e le sosterrà anche in futuro. Poi ci sono le parole e il dubbio che facciano più male a noi che non a Mosca. Ma, appunto, sono parole. Invece, in cambio dei «fatti», cioè del sostegno alle sanzioni, Salvini pretende altri «fatti», e cioè che l’Europa dimostri solidarietà anche verso di noi, aiutando le aziende e le famiglie italiane alle prese con la crisi energetica come ha fatto con il Covid. Che Bruxelles non faccia le smorfie di fronte ad uno scostamento di bilancio di 30 miliardi per aiutare gli italiani a pagare le bollette, necessari oggi e non domani. E, in proposito, afferma: «Non capisco perché Giorgia tentenni». Stesso discorso sugli aiuti militari: la Lega non farà mai mancare il suo appoggio, ma, come ci dice, la strada maestra per arrivare alla pace resta la diplomazia. E sul nome per il ministero dell’Interno nel prossimo governo qualora vincesse il centrodestra, c’è la candidatura della Lega: le cose che hanno funzionato vanno confermate.

Segretario, le sorti della guerra stanno cambiando in favore dell’Ucraina. So che lei ha una posizione diversa, ma forse le sanzioni e l’invio di armi sono servite in questo senso, o no?

«La Lega ha sempre votato sia le sanzioni che gli aiuti all’Ucraina, anche militari. Quindi non ho mai espresso una posizione diversa. Ho sempre e solo detto, e lo ribadisco, che la guerra terminerà grazie alla diplomazia. A proposito delle sanzioni economiche, la questione è un’altra: la denuncia lanciata da Fondo monetario, Economist ed altre autorevoli istituzioni dimostra che la Russia si è arricchita avendone enorme surplus commerciale, i Paesi europei ne sono stati molto danneggiati. Non vorrei che i sanzionatori soffrissero più dei sanzionati. Si vogliono continuare? Bene. Ma allora l’Europa offra sostegno alle famiglie e alle imprese italiane come successo per la crisi Covid. Per questo vanno prorogati fino al 31 dicembre 2023 gli aiuti di Stato».

Detto questo, il dramma delle bollette prevede un intervento immediato in favore di imprese e cittadini. Lei continua a credere che la strada migliore sia quella di trovare i soldi, magari con uno scostamento di bilancio? Sia Berlusconi, sia la Meloni preferirebbero altri modi

«Importante è trovare una soluzione. Sono convinto che sia necessario mettere sul tavolo 30 miliardi oggi, per evitare di spenderne tre volte tanto domani per fronteggiare cassa integrazione, disoccupazione e drammatico impoverimento del Paese. Non lo dico solo io, lo ha affermato per esempio anche il presidente di Nomisma energia, senza dimenticare la Cgia di Mestre. Lo stanno facendo tutti i principali Paesi europei. Il Regno Unito ha stanziato 150 miliardi di sterline».

Gli italiani già hanno paura per il futuro, non crede che sarebbe necessario un intervento energico, di buonsenso ed equo per evitare che con le cartelle esattoriali siano terrorizzati anche dal passato? Dopo due anni di pandemia e una guerra forse sarebbe il caso dare un segnale di tranquillità…

«Sfonda una porta aperta: abbiamo calcolato che nei prossimi tre mesi saranno inviate quasi 7 milioni di cartelle esattoriali. Una follia, soprattutto se accompagnata dal drammatico aumento delle bollette e dall’inasprimento delle multe come avete raccontato voi de il Giornale. La pace fiscale non è un premio per i furbi, ma un supporto concreto per chi, a causa della crisi Covid – e ora del caro energia -, non riesce a pagare. Si tratta di somme che lo Stato non incasserebbe mai, con la pace fiscale sosteniamo le imprese e garantiamo gettito allo Stato. Gli evasori vanno sempre puniti, le imprese oneste vanno sempre aiutate. È buonsenso».

I sondaggi descrivono una Lega lontana dall’onda lunga del 34,3% del 2019. Che cosa è successo in questi tre anni per giustificare una tale erosione di consensi?

«Mi lasci dire che i sondaggi che mi interessano di più sono quelli che faccio ogni giorno in mezzo alla gente, e le risposte sono molto positive. Anche nel 2019 alcuni sondaggi ci davano sotto il 30%: sono certo ci saranno delle sorprese. Detto questo, sapevo che raccogliendo l’appello del Presidente Mattarella per un governo di unità nazionale avremmo rischiato di perdere consensi. Ho messo gli interessi dell’Italia prima di quelli della Lega: senza di noi, Pd e 5Stelle non solo avrebbero gestito i miliardi del Pnrr condizionando la vita dei nostri figli e dei nostri nipoti, ma avrebbero messo la patrimoniale sulla casa, approvato la cannabis libera, la cittadinanza facile per gli immigrati e il Ddl Zan. Ora mi auguro che il Pd e i 5Stelle vengano mandati a casa dagli italiani una volta per tutte. Stare all’opposizione sarebbe stato più facile».

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Scuola, Rachele Furfaro: “Sistema classista e senza visione, ma lo Stato non ha fatto nulla”

martedì, Settembre 13th, 2022

Annalisa Cuzzocrea

«Il tempo sospeso della pandemia poteva essere un’occasione per ripensare l’educazione dei bambini e dei ragazzi. E invece lo Stato, il ministero, il governo, cos’hanno fatto? Niente».

Rachele Furfaro è una donna coraggiosa. Nel 1985 si è inventata, nel cuore ferito di Napoli, le Scuole dalla parte dei bambini. Un modo diverso di fare classe e di fare comunità. Aperto, avvolgente, contaminato da arte, musica, letteratura, aria, mare. E quel progetto ha saputo farlo crescere creando Foqus, sempre dentro ai Quartieri Spagnoli, nel complesso di Montecalvario che li domina dall’alto e che si raggiunge salendo i vicoli stretti che sanno di cinema e calcio, miseria e nobiltà.

Lì ci sono alcune classi della scuola, ma anche start up, laboratori, un centro per malati psichici, una biblioteca, un chiostro magnifico dove Furfaro presenterà stasera il libro che ha voluto dedicare a quest’esperienza, ma soprattutto alla scuola. A quel che è e a quel che potrebbe, anzi, dovrebbe essere.

Coraggiosa anche per il titolo che ha voluto dare al libro uscito il 31 agosto per Feltrinelli. “La buona scuola”. Che non c’entra nulla con la riforma di Matteo Renzi, ma con le pratiche che lei e altri maestri di strada applicano su e giù per l’Italia con l’intento non solo di premiare i migliori – ossessione ormai diffusa – ma di tenere dentro un percorso di formazione bambini e ragazzi che fuori da scuola trovano solo violenza, spaccio, malavita. E infatti, il sottotitolo spiega: “Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza”.

Durante il Covid l’apprendimento è diminuito, la dispersione scolastica è aumentata, com’è possibile che nel frattempo nessuno abbia pensato a come rimediare?
«Il problema è che non c’è una visione. Stiamo tornando in classe nelle stesse condizioni e con le stesse regole che ci sono state negli ultimi decenni, nonostante la pandemia abbia scoperchiato e spesso aggravato debolezze e criticità che la scuola si porta dietro da anni di incuria e di disinvestimento. Mica potremo ancora pensare che teniamo 5 ore al giorno i ragazzi incollati al banco?».

Come ogni anno, anche questo si apre con decine di migliaia di cattedre vuote, con orari ridotti, senza alcuna continuità didattica. Bisogna cominciare da lì?
«Il punto non è solo che questi insegnanti ci siano o non ci siano, ma è: chi sono? Come stanno? È la categoria peggio pagata in Europa e questo di certo non attira i migliori, quindi va bene aumentare gli stipendi come qualcuno in questa campagna elettorale ha proposto, ma se il riferimento deve essere europeo a essere adeguato, insieme gli stipendi, è il profilo professionale dell’insegnante».

Non si fa abbastanza?
«Sa per cosa è stata prevista la formazione in servizio dei 650 mila docenti? Per il digitale. L’unica priorità che si riesca a concepire. Eppure durante tutto il periodo della dad abbiamo visto che gli unici insegnanti capaci di tenere agganciate le proprie classi sono quelli abituati alle pratiche di formazione attiva, di didattica cooperativa. Non bisogna preoccuparsi solo di inserire i precari, negli anni della “buona scuola” sono entrati 100 mila insegnanti e molti senza un’adeguata formazione. Dobbiamo avere il coraggio di dire che questo non ha migliorato, ma peggiorato le condizioni della scuola».

I fondi del Pnrr dovevano andare a coprire – attraverso buona formazione – alcune aree di fragilità sociale che erano state identificate. Che fine ha fatto quel progetto?
«Svanito. I soldi sono stati distribuiti a pioggia e non impiegati in modo efficace come chiedeva la commissione europea. È la solita vecchia pratica che avvantaggia sempre chi ha di più, chi ha avuto la fortuna di nascere dalla parte giusta della società».

Davvero pensa che la scuola italiana – un servizio universale – sia classista. Com’è possibile?
«Perché subisce le pressioni delle famiglie più influenti e crea scuole di élite e scuole dove manca tutto. Nascere allo Zen piuttosto che nel cuore della Palermo bene implica una differenza per tutta la vita. Nella ricchissima Milano se vai al Manzoni hai una formazione, se vai in un altro liceo ne hai un’altra. Capita nella stessa scuola di avere sezioni d’eccellenza e classi ghetto».

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Guerra Russia-Ucraina: chi sta vincendo?

martedì, Settembre 13th, 2022

Francesca Sforza

Il sistema di Putin scricchiola dalle fondamenta, e il problema è capire dove finiranno tutti i pezzi nel caso in cui vada giù in modo ineluttabile, e chi ne sarà maggiormente colpito. Al momento il fronte più esposto è quello sul terreno, dove lo sbando delle forze russe mostra la fragilità di un’organizzazione militare caratterizzata da penuria, corruzione (spesso alla radice della penuria) e da un sistema di comunicazioni interne completamente saltato. Del resto, quando si affronta una campagna militare sulla base di informazioni raccolte per compiacere il comandante in capo, la catena di errori possibili è difficile da spezzare: chi si assumerà infatti il compito di individuare l’anello debole, mettendo in pericolo innanzitutto la propria incolumità e rischiando oltretutto di non trovare alcun sostegno?

A questo si aggiunge un’oggettiva debolezza sul campo, figlia non soltanto della cieca sudditanza dei generali al Cremlino, ma anche di un sistema di forniture arrivate all’Ucraina dagli Stati Uniti che hanno cambiato, da giugno, il corso della guerra. La decisione di Biden di inviare a Kiev sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità ha infatti permesso agli ucraini di prendere di mira i depositi di munizioni e i posti di comando russi, così come i missili anti-radar ad alta velocità hanno potuto colpire i radar di difesa aerea russi, i droni e gli aerei equipaggiati sono stati più liberi di dare manforte all’offensiva di terra, e l’aviazione russa veniva messa sotto scacco dai cannoni antiaerei Ghepard forniti dai tedeschi.

Il sostegno occidentale non sarebbe stato così efficace se la leadership ucraina non fosse stata così determinata e unita (anche gli afghani furono dotati di mezzi altrettanto potenti, ma il loro governo era troppo corrotto e impopolare per usarli nel modo giusto) e tuttavia questo aspetto dà alla propaganda russa un argomento forte per sostenere che la guerra non è più contro l’Ucraina ma contro tutto l’Occidente.

Può essere sufficiente per indurre Putin a imporre la mobilitazione generale dei riservisti, e passare così dallo scenario «operazione speciale» a quello più esplicito di «guerra»? Al momento non ci sono molti elementi a favore di questa ipotesi, non solo per i rischi connessi a un crollo dei consensi fra la popolazione – già in corso per la verità, in conseguenza degli effetti delle sanzioni – ma anche per la linea comunicativa adottata dal Cremlino, che di fronte alla controffensiva ucraina ha parlato di ritirata «ordinata e composta» e di «ridislocazione» delle truppe da Balakliya e Izyum «per accrescere gli sforzi in direzione di Donetsk».

Allo stesso tempo, si segnala ieri la proposta di un gruppo di deputati della Duma di «rendere possibile la mobilitazione ai cittadini con tre o più figli a carico, se ne hanno voglia». Gli autori dell’iniziativa hanno sostenuto che oggi questa categoria di cittadini non può essere chiamata al servizio militare, a prescindere dalla sua volontà, e che per questo si vuole offrire loro questa possibilità «visto che molti vorrebbero farlo». Che sia un modo per sondare l’umore della popolazione in attesa di mosse successive?

C’è infine il rischio del precipizio nucleare, non sollevato nei comunicati ufficiali del Cremlino in questi giorni, ma percepito da chiunque abbia seguito l’andamento della guerra: una Russia con le spalle al muro e con una leadership isolata nelle sue ossessioni di potenza non potrebbe decidersi a innalzare il livello dello scontro esponendo tutti a rischi incalcolabili? Il presidente francese Macron è l’unico ad aver agito in linea con quest’allarme – e con le convinzioni da lui stesso espresse nel recente passato al proposito – e ad aver cercato un contatto nei giorni scorsi con Putin per riaprire i canali di comunicazione, ma il suo gesto non è riuscito a mobilitare altri leader – ciascuno in questo momento preso dalla gestione di situazioni interne. La conseguenza è un evidente esiliarsi della diplomazia europea dalla scena negoziale.

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