Archive for Settembre, 2022

Napoli, netturbini con la laurea: 26mila in coda per 500 posti da operatore ecologico

martedì, Settembre 13th, 2022

Antonio Piedimonte

NAPOLI. Tutti in coda per un posto da spazzino. La Napoli in perenne ricerca di lavoro ieri si è ritrovata dinanzi all’ingresso della Mostra d’Oltremare per provare a vincere il concorso e lavorare come operatore ecologico nell’«Asia», la più grande azienda di servizi di igiene ambientale del Sud. Cinquecento i posti a disposizione, 26.114 i candidati; non è un record ma ci manca poco. Oltre mille partecipanti – per l’esattezza 1.232 – hanno una laurea, 10.445 un diploma di scuola media superiore, il resto, dunque la maggior parte, possiede la sola licenza media.

Nel lungo percorso transennato c’è di tutto, dal giovanotto in bermuda e maglietta volutamente sgualcita alla signora con un attillato vestito leopardato, dagli over 35 accompagnati da mammà alle donne in stato di gravidanza, sino ai non pochi signori con i capelli grigi o persino bianchi. I candidati che superano i 50 anni sfiorano quota tremila.

Sono tutti in attesa di entrare, hanno una busta gialla con gli effetti personali (borse e zaini sono stati trattenuti come da prassi) e appaiono piuttosto tesi. Il pensiero è rivolto ai cinquanta quesiti a risposta multipla, e al fatto che ci sono cinquanta minuti per rispondere ad almeno trenta quiz sorteggiati fra oltre cinquemila domande di cultura generale, nozioni di igiene ambientale, gestione rifiuti e altro.

Il tema delle risposte si riverbera anche dall’altra parte delle transenne, lì dove sta uscendo chi ha già fatto l’esame. «Io proprio non ho capito il criterio, tante domande per andare a scopare le strade?», dice Luisa. Che poi aggiunge ironica: «Se non so chi ha vinto il festival di Sanremo o non ho visto i film sui pirati non sono idonea al lavoro di spazzino?». Il riferimento è a due quiz che chiedono l’anno in cui i Maneskin hanno vinto la celebre gara canora e il nome del capitano della saga dei Pirati dei Caraibi, una polemica già riecheggiata.

Tra chi aspetta di entrare, invece, c’è Daniele Aterrano, neolaureato in lingua cinese, uno dei pochi disposti a parlare: «Sì, lo so, con il mio titolo di studio le aspettative sarebbero diverse, che dire?, la situazione la conosciamo tutti. Io provo a fare tutte le cose che posso fare, poi vediamo. Tanti amici mi dicono “sali” (al Nord, ndr), però trasferirsi non è una cosa così semplice, e lo stesso vale per la Cina, dove per giunta hanno ancora problemi con il Covid». Ha qualche desiderio nel cassetto? «Vorrei usare la mia laurea e lavorare con le aziende». Sorride al taccuino della Stampa anche Angela, che sembra una ragazzina ma ha trentotto anni e la fede al dito. «Ho una laurea in Scienze sociali ma sono ancora una precaria. Che dovevo fare? Ho una famiglia, i tempi sono quelli che sono, il lavoro è lavoro. Se mi pigliano sarò una netturbina con la laurea».

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La sconfitta della propaganda

martedì, Settembre 13th, 2022

Nathalie Tocci

Le guerre sono imprevedibili. Lo sarà anche la guerra russo-ucraina, combattuta tanto militarmente in Ucraina quanto economicamente, energeticamente, ciberneticamente, così come nell’ampio spazio della (dis)informazione. Nessuno ha la sfera di cristallo. Eppure nel settimo mese di guerra è bene fare il punto su quali sono le narrazioni volutamente promosse o ingenuamente echeggiate e tuttavia rivelatesi false. È importante farlo per anticipare le nuove false teorie in agguato sullo sfondo della liberazione dei territori ucraini.

La prima narrazione rivelatasi oscenamente falsa è quella di una guerra che non sarebbe mai dovuta scoppiare. La mobilitazione di 200mila truppe ai confini dell’Ucraina era finalizzata a mere esercitazioni, ed era doveroso tenersi alla larga, perché la Russia, sebbene non avesse intenzione di aggredire, poteva essere provocata.

Quando l’invasione è iniziata, quella narrazione è scivolata in una seconda: la Russia ha invaso alla luce dell’imminente allargamento della Nato. L’Alleanza Atlantica si sta espandendo, ma questa non è stata la causa, semmai la conseguenza della guerra, con l’allargamento non all’Ucraina ma alla Svezia e alla Finlandia. Questa seconda teoria non applaudiva l’invasione di uno Stato sovrano, ma la considerava l’inevitabile conclusione degli errori commessi dall’Occidente. E, proseguiva, è inutile piangere sul latte versato. A danni fatti, meglio lasciare l’Ucraina alle sue sorti. Davide non sarebbe stato in grado di sconfiggere Golia, ed armarlo di fionde avrebbe solo reso la morte del piccolo più sanguinolenta: contrari dunque all’invio di armi. Anzi, a ben vedere, visto che gli ucraini sono pseudo-russi, e che lo Stato ucraino – corrotto e in mano ai nazisti – è eterodiretto da Washington, sarebbe stato forse un bene per i civili venire liberati da Mosca.

Le cose sono andate diversamente. Fallito il “blitzkrieg” russo, inizia a farsi largo una terza narrazione. La Russia riorienta le sue forze a est e sud, avanzando lentamente ma costantemente. Nonostante l’invio di armi a Kyiv, le forze armate ucraine non possono contrastare la potenza di fuoco di Mosca. E quindi è inutile appoggiare testardamente l’Ucraina ed è anche dannoso. Le sanzioni non danneggiano l’economia russa ma la rafforzano, masochisticamente portando i prezzi dell’energia alle stelle.

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Giorgia a due facce sulla Ue

martedì, Settembre 13th, 2022

Francesco Olivo, Marco Bresolin

ROMA-BRUXELLES. Tra Bruxelles e Roma c’è una domanda che circola in queste ore: «È finita la pacchia» è una frase da comizio o un programma di governo? Giorgia Meloni ha mandato un messaggio all’Europa. L’occasione era una manifestazione elettorale in piazza Duomo a Milano, ma c’è una questione centrale che questa campagna elettorale non ha ancora chiarito fino in fondo: la collocazione italiana all’interno dell’Ue.

Meloni, non solo sull’Europa, ha alternato posizioni moderate a richiami al sovranismo. Da una parte si rassicura: «Rispetteremo i trattati», dall’altra si rispolvera l’identità: «L’Italia si farà rispettare». Il doppio registro è stato portato avanti in questi anni anche all’interno del Parlamento europeo: i Conservatori, di cui Meloni è presidente, inglobano partiti estremisti come Vox, ma negli ultimi tempi sono entrati negli ingranaggi comunitari, hanno votato la presidente del parlamento Roberta Metsola, facendo eleggere un vicepresidente. L’operazione è stata portata avanti da Raffaele Fitto, (co-presidente del gruppo), il cui ruolo è stato chiave per far saltare il progetto di fusione con i sovranisti di Identità e democrazia, il gruppo di cui fanno parte Matteo Salvini, Marine Le Pen e i tedeschi di Afd.

Giovanbattista Fazzolari, responsabile del programma di FdI la spiega così: «Il nostro obiettivo è tornare a un rapporto paritetico con Francia e Germania, e non subalterno come è stato negli ultimi dieci anni». Nei discorsi di Meloni torna spesso il tema delle relazioni con Parigi e Berlino. La presidente di FdI, la settimana scorsa a Firenze, si è spinta ad alludere a interferenze dell’Eliseo sulla vita politica italiana. Criticando il No di Enrico Letta al semipresidenzialismo alla francese, Meloni ha detto «eppure i francesi non vi sembravano autoritari quando vi aiutavano a rimanere al governo anche quando perdevate le elezioni».

L’idea che circola all’interno del partito è che il Pd abbia volutamente trascurato la difesa dell’interesse nazionale, in cambio di protezione politica da parte di «nazioni amiche della sinistra» (sempre Meloni). In tanti citano le legioni d’onore, le onorificenze che l’ambasciata di Piazza Farnese ha assegnato a «politici del Pd», in cambio, è la tesi, di favori al governo di Parigi. Il riferimento è ad alcune partite strategiche sugli asset nazionali che avrebbero danneggiato il nostro Paese. Meloni lo ha ripetuto ieri nel dibattito con Enrico Letta, ospitato dal Corriere della Sera: «Serve un riequilibrio rispetto all’asse franco-tedesco». E queste tesi vengono ascoltate con attenzione anche nei palazzi comunitari. Parlando con gli interlocutori che seguono l’evolversi della campagna elettorale emergono due preoccupazioni: un diverso equilibrio al tavolo dei governi Ue, con un’Italia più lontana da Parigi e più vicina a Budapest e un atteggiamento ostile nei confronti dell’attuale Commissione europea.

Al civico 175 di rue de la Loi, dove i funzionari del Consiglio discutono con i diplomatici delle varie delegazioni, diverse fonti esprimono il timore per quello che potrebbe essere uno degli effetti più significativi di questo cambiamento: la rottura dei rapporti tra Roma e Parigi, con il ritorno di una situazione simile a quella del 2018. «L’Italia e la Francia – ragiona un diplomatico di un Paese terzo – hanno grandi convergenze d’interesse, specialmente per quanto riguarda i dossier economici. Tra poco più di un mese entrerà nel vivo il dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità, inoltre l’Italia e altri Stati del Sud Europa potrebbero avere bisogno di nuovi strumenti di debito comune per affrontare il caro-energia. Per superare le resistenze di Germania e Paesi Bassi, il sostegno di Emmanuel Macron è fondamentale. Davvero Meloni pensa di poter vincere questa partita giocando da sola?».

Nei giorni scorsi, un’autorevole fonte del Parlamento Ue evidenziava poi un altro aspetto. «Oggi il Consiglio europeo è un consesso di leader azzoppati. Parlano di grandi riforme, ma hanno tutti enormi problemi a casa loro. Il leader più forte è Viktor Orban, l’unico che ha davanti a sé un orizzonte di cinque anni durante i quali potrà fare sostanzialmente ciò che gli pare. Ma al momento è isolato perché Polonia e Repubblica Ceca gli hanno voltato le spalle in seguito alle sue posizioni sulla guerra in Ucraina. Cosa succede però se inizia a trovare alleati?». Lo scenario è infatti in evoluzione. Il peso del conflitto ucraino potrebbe presto ridimensionarsi nell’agenda Ue e resta da capire quanto tempo ci vorrà per far ricicatrizzare le ferite nel gruppo Visegrad. L’arrivo di Meloni a Palazzo Chigi, inoltre, potrebbe fornirgli una sponda.

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Putin furioso sulla «manica d’incapaci» per la controffensiva ucraina: scompiglio al Cremlino (che pensa all’escalation)

martedì, Settembre 13th, 2022

di Paolo Valentino

Qualche politico locale parla apertamente di dimissioni dello zar

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Vladimir Putin

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO – Vladimir Putin è furioso. «Siete una manica di incapaci», avrebbe detto venerdì in una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza ai «siloviki», i capi degli apparati militari e d’intelligence, che lo ascoltavano come scolaretti in silenzio. Lo rivelano attraverso canali Telegram, fonti con accesso diretto ad alcuni membri del massimo organismo strategico russo.

La controffensiva delle forze ucraine nella regione di Kharkiv, che perfino un politologo di provata fede putiniana come Sergeij Markov definisce «una pesante sconfitta militare per la Russia», ha fatto collidere i due mondi paralleli, nei quali lo Zar ha articolato il racconto della guerra sin dal 24 febbraio: la realtà del più grave conflitto armato in Europa negli ultimi 70 anni e la finzione di un Paese dove la vita continua a scorrere tranquilla. «La sconfitta non era un’opzione nell’universo di Putin. Ora è successo», dice Tatiana Stanovaya, direttrice del centro di analisi politiche R.Politik, secondo cui il Cremlino «non era preparato a far fronte al nuovo scenario».

Paradossalmente, il contraccolpo sta avendo conseguenze più a Mosca che fra le truppe al fronte. Secondo Markov, che va preso col beneficio del dubbio perché tradizionalmente vicino ai militari, lo «scompiglio» non sarebbe sul terreno, dove «i comandanti sono riusciti a sottrarre l’esercito all’accerchiamento», quanto nella direzione del Paese: «Questo serio insuccesso significa che bisogna rinunciare alla vecchia strategia e trovarne una nuova. La direzione militare al momento non ha nulla da dire, ma è del tutto evidente che bisognerà lanciare un’escalation delle azioni di guerra. Non si può combattere come si è fatto finora».

Putin al momento tergiversa. Nella riunione del Consiglio di Sicurezza, sbollita l’ira, egli avrebbe chiesto un ritorno alla strategia di guerra iniziale, quella di bombardare a tappeto infrastrutture critiche ucraine con l’obiettivo di provocare il caos e minare l’appoggio fin qui forte della popolazione alla linea della resistenza a oltranza proclamata dal governo. L’attacco del fine settimana alla centrale elettrica di Kharkiv, che per lunghe ore ha lasciato al buio l’intera regione, sarebbe figlio di questa indicazione.

Ma in generale, secondo le fonti, c’è incertezza sul da farsi. Anche un fedelissimo e falco come Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di Sicurezza, avrebbe espresso dubbi sull’idea del presidente, facendo notare che l’esercito ucraino ora dispone grazie agli occidentali di «armi eccellenti», che potrebbero addirittura consentirgli di colpire obiettivi in territorio russo. Fra questi, ci potrebbe essere il ponte di Kerch, che collega la Crimea alla Russia, diventato il simbolo dell’annessione della penisola.

Un altro timore, privo di riscontri ma evocato nell’incontro a porte chiuse, è che gli ucraini sarebbero riusciti a infiltrare decine di gruppi di ricognizione e sabotaggio dentro i confini della Federazione. Anche Markov considera «molto alta» la probabilità che l’esercito di Kiev riesca a occupare parti sia pure piccole di territorio russo. «Sarebbe per loro un colossale successo, soprattutto dal punto di vista psicologico e propagandistico. Non è detto che accadrà, anche perché ci sono degli svantaggi», dice senza spiegare quali.

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L’effetto Kiev sulla campagna elettorale

martedì, Settembre 13th, 2022

di Antonio Polito

Da Conte a Salvini, chi ha cambiato posizione dopo la formidabile controffensiva dell’Ucraina contro la Russia (e perché quell’avanzata elimina un argomento decisivo del filo putinismo). La rubrica di Antonio Polito

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Conte I (alla festa del Fatto): «Voteremo contro l’invio di nuove armi all’Ucraina, l’Italia non può sopportare un nuovo sforzo bellico, siamo in recessione».

Conte II (poche ore dopo, al Resto del Carlino): «I progressi delle forze ucraine sono un’ottima notizia e dimostrano che Kiev, grazie all’afflusso di armi dall’Europa e dagli Stati Uniti, è in grado di respingere l’invasore russo. Per questo abbiamo acconsentito agli aiuti».

Conte III (in tv su Rai3): si dice orgoglioso di aver mandato armi all’Ucraina, perché «non ci si può difendere con le mani nude da una tale aggressione», e si augura «la riconquista di tutti i territori occupati dai russi».

La formidabile controffensiva di Kiev non sta scompigliando le linee russe solo sul campo di battaglia. Non sappiamo ancora se cambierà le sorti della guerra, ma l’«effetto Kharkiv» ha già cambiato la nostra campagna elettorale.


Ieri sul carro ucraino è saltato anche Salvini, che con il no alle armi e il «nì» alle sanzioni aveva costruito finora una posizione ben diversa da quella di Giorgia Meloni. Ieri invece ha assicurato che «il governo di centrodestra proseguirà l’aiuto militare all’Ucraina».

Non è soltanto un fenomeno di voltagabbanismo, che aiuta a giudicare l’affidabilità in politica internazionale di alcune delle forze politiche in lizza. È che l’avanzata di Kiev sta eliminando un argomento decisivo, finora abbondantemente usato dagli strateghi «de noantri». E cioè che la resistenza ucraina è inutile e dannosa perché destinata all’insuccesso, visto che Putin «può sventrare l’Ucraina come e quando vuole».

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Famiglia, Europa, riforme: scintille tra Meloni e Letta

martedì, Settembre 13th, 2022

di Paola Di Caro

Il segretario pd: mettete a rischio la nostra credibilità a Bruxelles. La presidente di FdI: riequilibrare l’asse nella Ue tra Parigi e Berlino

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Un’ora e mezza di botta e risposta — con regole ferree, due minuti e mezzo ciascuno per le domande uguali per entrambi, un minuto e mezzo per quelle calibrate su ciascuno, tre possibilità di replica a richiesta — e alla fine dal lungo faccia a faccia tra Giorgia Meloni ed Enrico Letta emergono due visioni d’Italia, profondamente diverse, contrapposte, ma non ostili: «Siamo a un bivio, come fu con la Brexit», sintetizza il segretario del Pd, aggiungendo in pieno accordo con l’avversaria che comunque ci si può battere anche mantenendo fair play e, sottolinea la leader di Fratelli d’Italia, continuando a parlarsi dal giorno dopo il voto, come «si fa nelle democrazie mature».

Dalla guerra in Ucraina al rapporto con l’Europa, dal Pnrr alle politiche fiscali e del lavoro, dal caro bollette allo scostamento di bilancio, dall’immigrazione ai diritti civili (con uno dei momenti più animati proprio sulla famiglia e sulle adozioni omogenitoriali), dalle alleanze alle riforme, intervistati dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana Meloni e Letta hanno illustrato le rispettive posizioni e contrastato quelle dell’avversario su tutto, nell’unico confronto tra i front runner delle due principali coalizioni che segnerà questa bollente campagna elettorale.

Guerra in Ucraina: in entrambe le coalizioni ci sono forti critiche al sostegno militare a Kiev e dubbi sulle sanzioni.

Letta: «Il 24 febbraio, quando quella mattina ci siamo svegliati, la nostra decisione è stata immediata: una manifestazione davanti all’ambasciata russa. Le misure stanno funzionando: anche se hanno ripercussioni sulla nostra economia, le sanzioni sono però l’unico modo con cui abbiamo la possibilità di fermare la Russia oggi. Noi siamo tenacemente a favore della resistenza ucraina».

Meloni: «Fin dall’inizio non abbiamo mostrato alcuna titubanza. E non c’è dubbio che le cose resterebbero così anche con un governo di centrodestra. Ma l’Italia deve stare a testa alta in Europa e nella Nato».

Come si tutelano gli interessi nazionali in Europa?

Meloni: «La nostra posizione è il principio di sussidarietà. Vogliamo un’Europa in cui anche l’Italia possa difendere i propri interessi. Va riequilibrato l’asse nella Ue tra Parigi e Berlino. Ad esempio, le sanzioni impattano più su alcuni Paesi che su altri e noi chiediamo un fondo di compensazione per aiutare le nazioni più esposte».

Letta: «Il motivo per cui l’Europa non funziona è perché i conservatori e alcuni Paesi non vogliono che si decida a maggioranza. Bisogna togliere il diritto di veto che piace ad esempio a Ungheria e Polonia e spesso viene utilizzato contro l’Italia. Si sono opposti al Next Generation Eu che ha poi portato al Pnrr. Non vogliamo un’Italia che mette veti, ma un’Italia che conta. E le posizioni di Salvini e Berlusconi di vicinanza a Putin sono un problema: si mette a rischio la nostra credibilità a Bruxelles».

Meloni: «Letta non ha posto le stesse obiezioni a SI e Verdi: nel nostro programma ci sono scritte parole molto chiare, quelle contano».

Letta: «Con SI e Verdi abbiamo un accordo elettorale per difendere la Costituzione, ma non governeremo insieme».

Pnrr: quanto ci si può spingere nella revisione? C’è il rischio che salti tutto?

Letta: «Se rinegoziamo i fondi europei del Pnrr il messaggio è che siamo inaffidabili e io sono contro questa idea di un’Italia inaffidabile. Fratelli d’Italia non è mai stata a favore, nei passaggi formali, del Next Generation Eu».

Meloni: «Anche il Portogallo ha chiesto la revisione, e Gentiloni ha detto “benissimo”. Non eravamo contro Next Generation ma contro il Mes. E se ci siamo astenuti è perché ci è stato consegnato in Parlamento il testo solo un’ora prima del voto. I soldi del Pnrr sono, per una parte, presi a debito. Quando abbiamo chiesto a che tasso di interesse fossero concessi Gentiloni non ce l’ha detto».

Caro bollette, che misure prendere?

Meloni: «Si può partite dal disaccoppiamento del costo del gas e di quello dell’energia. Lo scostamento di bilancio è solo l’extrema ratio».

Letta: «D’acccordo sul disaccoppiamento ma serve anche entrare in una fase di prezzi amministrati: quando il mercato non funziona e arriva il meteorite bisogna intervenire».

I partiti stanno facendo tante promesse elettorali, che costano decine di miliardi. C’è il rischio di una crisi ulteriore del debito?

Letta: «Noi abbiamo fatto un’unica proposta di riduzione fiscale, delle tasse sul lavoro per avere a fine anno una quattordicesima».

Meloni: «I nostri programmi sono fattibili: proponiamo un taglio delle tasse con una flat tax incrementale. Favorevoli al taglio del cuneo fiscale. Non ci sono condoni nel nostro programma».

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Generazione Z e astensionismo: chi sono e perché possono cambiare i sondaggi elettorali

lunedì, Settembre 12th, 2022

di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Le urne del 25 settembre attendono 4,7 milioni di nuovi giovani elettori, e i leader politici si sono finalmente resi conto che conquistarli è una delle poche chance che hanno per tentare di modificare risultati elettorali già scritti. E ci stanno provando in tutti i modi, anche i più goffi. Ma per capire i sentimenti di delusione, e perfino di rabbia, di una generazione che non si sente rappresentata da una politica troppo lontana dai loro bisogni occorre guardare l’andamento dell’astensione tra i 18-34enni a partire dalle ultime elezioni della Prima Repubblica fino alle Politiche del 2018.

Quanto vale l’astensione

Il contesto generale in cui si inserisce l’astensione giovanile è trascinato anche dal graduale allontanamento dalla politica dei loro padri, madri e nonni. Il 5 aprile 1992 votano 41 milioni di italiani su 47 milioni di aventi diritto: vuol dire che non vota il 13%, pari a 6 milioni di cittadini. Alle ultime Politiche del 4 marzo 2018 gli astenuti raddoppiano: 12,5 milioni di italiani non si presentano ai seggi, ovvero il 27% dei 46,5 milioni di aventi diritto.

Vediamo però come si comportano le varie fasce d’età con i dati delle indagini campionarie dell’Italian National Election Studies (Itanes) elaborati per Dataroom dai ricercatori Luca Carrieri (UnitelmaSapienza) e Davide Angelucci (Luiss Guido Carli). Nel 1992 l’astensione dei 18-34enni è al 9% contro il 10% dei 35-54enni e il 20% degli over 55: sono i tempi in cui i giovanissimi sono i più consapevoli dell’importanza di votare. Una predisposizione che negli anni successivi si ribalta: nel 2018 non va alle urne il 38% dei 18-34enni, contro il 31% dei 35-54enni e il 25% degli over 55.

Il confronto fra giovani e over 55

Nelle 8 elezioni politiche prese in considerazione, in 5 elezioni sono gli over 55 che non votano in percentuale maggiore: nel 1992 (20%), 1994 (20%), 2001 (25%), 2006 (23%), 2013 (32%). In 3 elezioni invece la percentuale più alta è proprio la fascia di età 18-34: 1996 (18%), 2008 (27%), 2018 (38%). L’analisi di questi dati ci porta a due considerazioni. La prima: in 26 anni la fascia di età più giovane passa da quella che vota di più, a quella che vota di meno. La seconda: la disaffezione alle urne non esplode all’improvviso, ma cresce in modo sistematico e inesorabile. Infatti, dal 9% del 1992 l’astensione sale al 14% il 27 marzo 1994, passa al 18% il 21 aprile 1996, al 19% il 13 maggio 200, al 21% il 9 aprile 2006, cresce al 27% il 13 aprile 2008, al 28% il 24 febbraio 2013, ed esplode al 38% nel 2018. Come ha reagito la politica a questo progressivo allontanamento? Mettendoli nel generico calderone dei disaffezionati, senza mai interrogarsi sulla necessità di parlare a coloro che rappresentano il futuro del Paese, dandogli delle prospettive. Forse anche il loro peso demografico è la loro condanna: i 18-34enni sono 10,3 milioni, mentre i 35-54 enni sono 16,6 milioni, e gli over 55 22,7 milioni.

Il caso dei Millennials

Proviamo ad andare ancora più a fondo per vedere cosa succede se, invece di considerare solo le fasce d’età, esaminiamo i dati per generazioni, cioè in base agli anni di nascita. I Silent sono i nati tra il 1928-1945; i Boomers tra il 1946-1964; gli Xers tra il 1965-1979; e infine i Millennials. Il termine, coniato da Strauss e Howe nel loro libro «Generations», definisce Millennials i nati dal 1982 al 1996 poiché ritengono che i giovani che diventano maggiorenni nel 2000 appartengono a una generazione in netto contrasto con quella precedente e quella successiva per l’utilizzo dei media, e per come sono stati influenzati dallo sviluppo tecnologico e digitale. Per comodità e chiarezza sui termini il Pew Research Center ha poi riclassificato la data di nascita dei Millennials a partire dal 1980. Ebbene, i Millennials esordiscono al voto in Italia nel 2001 con un’astensione al 23% contro il 14% degli Xers nel 1994 e da allora, in 4 elezioni su 5, sono quelli che votano meno, fino al 40% del 2018. L’astensionismo appare, allora, anche una questione generazionale che caratterizza soprattutto i Millennials. Ma all’interno di questa generazione chi sono quelli che non votano?

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Landini: “Colpire gli extraprofitti. Una mensilità in più a lavoratori e pensionati”

lunedì, Settembre 12th, 2022

Raffaele Marmo

Roma – Lavoratori, pensionati e famiglie in ginocchio e imprese a rischio chiusura per l’emergenza gas e prezzi non possono attendere il nuovo governo. Maurizio Landini lo scandisce senza mezzi termini. E, di fronte alla dicotomia di una crescita esponenziale degli extra-profitti in certi settori e di un contestuale impoverimento di sempre più larghe fasce della popolazione, il leader della Cgil incalza: “In una situazione di emergenza come quella attuale, quando hai metà del Paese che non arriva a fine mese e hai tante imprese che riducono la produzione, è indegno che chi abbia fatto extra-profitti faccia resistenza per non metterli a disposizione. Serve, al contrario, che queste risorse vengano recuperate rapidamente e utilizzate per un provvedimento immediato”.


Serve un provvedimento di questo governo, dunque?
“Sì di questo governo, che mi pare abbia dentro il 90 per cento dei partiti. Anche perché il decreto Aiuti di luglio, non ancora approvato dal Parlamento, è già superato e si sta discutendo di un altro decreto”.

Che cosa occorre fare subito?
“Occorre una manovra per i prossimi mesi che, oltre a prorogare e aumentare le misure in atto (innalzando l’Isee per il bonus sociale sull’elettricità e il gas), preveda almeno una mensilità in più per lavoratori e pensionati. Ma abbiamo anche milioni di persone che hanno 10-11 mila euro lordi l’anno e che non ce la facevano prima, figuriamoci ora: serve un segnale straordinario anche su questo fronte”.


C’ è bisogno anche di una nuova forma di Cassa Covid?
“Sì, serve una forma di cassa integrazione come è stata per il Covid, ma con integrazione, da parte dello Stato e delle imprese, dell’indennità erosa dal caro-prezzi, perché la cassa protegge dal licenziamento però non tutela il reddito”.

Ipotizza anche un nuovo blocco dei licenziamenti?
“Non escludo nulla. Penso sia interesse di tutti in questo momento proteggere tutti i posti di lavoro e le imprese, a partire dall’utilizzo degli ammortizzatori sociali”.

Non bastano certo i 12-13 miliardi ipotizzati. Il governo, però, non vuole scostamenti di bilancio. Come se ne esce?
“Quella sullo scostamento rischia di essere una discussione finta, da campagna elettorale: rimane un problema da affrontare nel rapporto con l’Europa in sede di legge di Bilancio. Ma nell’immediato è un falso problema, che nasconde la volontà di non mettere mano agli extra-profitti. E, invece, si tratta di andare a prendere i soldi dove sono stati fatti oltre l’ordinario: è un punto di giustizia sociale”.

L’intervento fatto fino a oggi non ha prodotto granché.
“È inaccettabile. Non parliamo di utili ordinari, ma di extra-profitti, frutto di speculazione e dell’impennata dei prezzi, e in tutta Europa si è aperta la discussione per intervenire. Qui sono stati tassati solo al 25 per cento: c’ è il 75 per cento di quegli extra-profitti che sono lì. C’ è un’operazione immediata da fare”.

L’autunno si preannuncia caldo anche sul fronte della legge di Bilancio.
“Siamo mobilitati per l’emergenza, ma anche per il futuro. Non a caso il 14 a Bologna ci sarà una grande assemblea di 5 mila delegate e delegati nella quale chiederemo di essere ascoltati da tutto il Paese, anche attraverso iniziative nei luoghi di lavoro e nei territori”.

All’orizzonte, si profila, però, la flat tax.
“Noi siamo per la progressività del fisco (chi più ha, più contribuisca), mentre la flat tax premia i redditi alti. L’altra priorità è la lotta all’evasione: questo permette di riduzione la tassazione sui redditi più bassi da lavoro e da pensione, perché non è accettabile che paghino di più delle rendite finanziare”.

Lotta alla precarietà e salario minimo sono altre due vostre richieste forti.

“Facciamo i conti con politiche sul lavoro di governi di destra e di sinistra che consideriamo sbagliate, perché hanno aumentato la precarietà. Dunque, occorre modificare radicalmente il cosiddetto Jobs Act, eliminando forme di lavoro precario, tornando alle“causali puntuali” per i contratti a termine, introducendo un contratto unico di inserimento al lavoro fondato sulla formazione e che punti alla stabilità. Mentre pensiamo a un provvedimento legislativo che affronti insieme salario minimo e rappresentanza, estendendo così a tutti i lavoratori di un settore il trattamento complessivo assicurato dai contratti firmati dalle parti comparativamente più rappresentative”.

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Mondiali di pallavolo 2022, impresa Italia: siamo campioni del mondo dopo 24 anni

lunedì, Settembre 12th, 2022
epa10178949 Italy's players celebrate winning the FIVB Volleyball Men's World Championship final match between Poland and Italy at the Spodek Arena in Katowice, southern Poland, 11 September 2022.  EPA/Lukasz Gagulski POLAND OUT

Volley, azzurri campioni del mondo: esplode la gioia

Katowice (Polonia), 11 settembre 2022 – Dopo 24 anni l’ Italia torna sul tetto del mondo e lo fa battendo la Polonia campione in carica per 3-1 ( 22-25; 25-21; 25-18; 25-20): il tutto dopo una partita fantastica nella quale l’unica sbavatura, nel primo set, è stata ricca di rimpianti per un break di+4 sciupato. Rimpianti destinati a spegnersi nella festa azzurra che chiude i Mondiali di pallavolo 2022: un anno dopo il trionfo negli Europei firmato da una Nazionale giovane e con ancora ampi margini di crescita.

Primo set

Il primo break è dell’ Italia grazie a una pipe di Michieletto: Romanò parte forte con la parallela, ma lo stesso fa la Polonia con il mani fuori. Arriva così il pareggio dei padroni di casa, che però sbagliano parecchio in battuta: Anzani alza il muro e Lavia mette giù una diagonale che vale l’ 11-11. La Polonia fa male con i primi tempi ma l’ Italia trova 3 punti di fila che tuttavia non servono a spezzare l’equilibrio: Lavia firna il+2 con un ace e Romanò protegge il break dopo una gran diagonale di Kurek. Gli azzurri salgono a+4 grazie a un ace di Michieletto ma i padroni di casa tornano incredibilmente sotto e poi passano addirittura in vantaggio guadagnando 2 set point: il primo, con un muro, scrive un 22-25 carico di rimpianti per l’ Italia.

Secondo tempo

La Polonia cavalca l’entusiasmo e apre con un 3-0: Lavia in diagonale e con un ace resta un fattore per gli azzurri, che pareggiano 7-7 con un muro di Michieletto. Giannelli con un ace scrive il 10-10 ma i padroni di casa restano implacabili con i primi tempi: Anzani alza 2 muri su Kurek, ma la Polonia trova 3 punti di fila prontamente rimontati dagli azzurri. Il set torna a giocarsi punto a punto anche grazie a un altro ace di Giannelli: Lavia riporta avanti l’ Italia, che guadagna 3 set point, con il primo che va giù con un muro di Anzani per il 25-21.

Terzo tempo

La Polonia trova il break del 4-2 con un ace e un muro, ma Romanò e Giannelli rispondono presente. Non basta, perché i padroni di casa volano a+3 almeno fino ai turni in battuta di Michieletto e Anzani: il set attraversa una lunga fase di equilibrio fino al break trovato proprio da Michieletto. Lavia lo protegge con una grande pipe e Russo firma il+3 con un primo tempo: un muro di Anzani significa+4 per l’ Italia, che trova anche il+5 con Lavia. Giannelli butta giù il+6 e Russo il+7: Michieletto guadagna 7 set point e il secondo grazie ad Anzani vale il 25-18.

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Scuola al via tra le proteste. “Mancano gli insegnanti, i concorsi sono fatti male”

lunedì, Settembre 12th, 2022

Serena Riformato

Nelle intenzioni del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi dovrà essere l’anno scolastico del “ritorno alla normalità”. Da oggi – e nei giorni successivi in base ai calendari regionali – oltre 7 milioni di studenti torneranno sui banchi, per la prima volta dal 2020 senza l’obbligo di mascherina e senza didattica a distanza. La prima campanella suonerà stamattina in Abruzzo, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e nella Provincia di Trento, il 13 settembre in Campania, il 14 settembre in Calabria, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Umbria. Dal 15 toccherà a Emilia Romagna, Lazio e Toscana. Il 19 settembre, per ultime, Sicilia e Valle d’Aosta.

Mentre gli istituti scolastici cercano di lasciarsi alle spalle le anomalie di due anni e mezzo di pandemia, secondo i sindacati rimane irrisolto un problema strutturale sempreverde: le cattedre vuote, inevitabilmente coperte in maniera discontinua dai precari e stimate per i prossimi mesi fra le 150 e le 200 mila. Così, se Bianchi garantisce l’avvio di «un anno scolastico in cui non mancano i docenti», da Flc Cgil il segretario nazionale Alessandro Rapezzi parla di «mistificazione» perché «gli insegnanti saranno perlopiù supplenti e non ci saranno nemmeno tutti», alla partenza delle lezioni.

Secondo la segretaria nazionale di Cisl Scuola, Ivana Barbacci, il «dato più preoccupante è che non sia stato possibile completare le 94 mila assunzioni a tempo indeterminato autorizzate per il 2022-2023 dal ministero dell’Economia». Il ministero di viale Trastevere ha immesso in ruolo solo 50.415 docenti (a cui vanno aggiunti 9.021 Ata e 317 dirigenti scolastici), quindi altri 40 mila incarichi andranno comunque assegnati ai supplenti. I sindacati puntano il dito contro i concorsi «fatti male» dai quali si è ottenuto un numero di candidati idonei inferiore ai posti a disposizione.

Il presidente dell’Associazione nazionale presidi Antonello Giannelli vede invece una «patologia che affligge il sistema da anni» e non permette di rispondere al reale fabbisogno degli istituti: «Il ministro Bianchi si è impegnato per risolvere il problema – sostiene Giannelli – ma non cambierà davvero qualcosa finché non si darà alle scuole, tramite gli organi collegiali già presenti, la facoltà di assumere direttamente gli insegnanti».

Gli studenti, intanto, reclamano l’attenzione della politica. Con un flash mob davanti al ministero ieri sera e questa mattina all’entrata di cinquanta scuole, la Rete degli studenti Medi e l’Unione degli Universitari annunciano la pubblicazione, nei prossimi giorni, di un manifesto di cento proposte da contrapporre a una «campagna elettorale in cui si parla di Peppa Pig anziché di temi ben più importanti come il diritto allo studio e il benessere psichico», spiega Tommaso Biancuzzi di Rete degli studenti medi. «In testa alla nostra “contro-agenda” c’è anche la gratuità dei libri di testo – aggiunge Biancuzzi –, studiare è sempre di più un lusso».

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