Archive for Settembre, 2022

Meloni-Conte, flirt sulle riforme

lunedì, Settembre 12th, 2022

Ilario Lombardo

ROMA. Sono passati 25 anni dalla Bicamerale di Massimo D’Alema e i partiti ci riprovano. Riformare la Costituzione e cambiare l’assetto istituzionale dell’Italia è il grande tabù che ora prova a infrangere Giorgia Meloni, lanciata verso la probabile vittoria alle urne del 25 settembre. Non ci sono accordi, né “patti della crostata”, come quello siglato da D’Alema e Silvio Berlusconi nel lontano 1997, ma segnali lanciati da lontano, piccoli indizi nascosti sotto il diluvio di dichiarazioni giornaliere. Altro non ci potrebbe essere al momento, perché suonerebbe come un assist all’avversario.

Da Fratelli d’Italia hanno notato un atteggiamento poco oppositivo da parte di Giuseppe Conte. E in effetti, andando a sondare dentro il M5S, la percezione dei meloniani trova un certo riscontro. Conte considera la prossima come una potenziale «legislatura costituente». Convinto che, se il Movimento farà un risultato sopra le attese, e avrà una discreta pattuglia di uomini in Parlamento, potrà giocare un ruolo in asse con Meloni, scalzando il Pd che al momento si è detto contrario a convergere su una Bicamerale. Non si parla di inciuci, né di governare assieme. Non ci pensano né l’avvocato, né la presidente di Fdi. Si tratta di un flirt, concentrato sulle riforme, che offrirebbe una sponda a Meloni per dimostrare che erano reali i suoi propositi di non cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza.

Fratelli d’Italia ha proposto luogo e obiettivo: una commissione parlamentare da mettere al lavoro per rendere il sistema politico e istituzionale più stabile. Meloni punta al presidenzialismo, che in realtà sarebbe il semi-presidenzialismo alla francese, quello introdotto da Charles De Gaulle con la Quinta Repubblica. Il segretario del Pd Enrico Letta ha detto di no, nonostante fosse stato proprio il suo partito in passato a formulare la stessa proposta. Conte, invece, si è mantenuto più cauto nelle reazioni. D’altronde, come ricordano diversi deputati del M5S, meno di un anno fa, nel dicembre 2021, proprio ad Atreju, la festa di Fdi animata da Meloni, a domanda diretta l’ex premier non bocciò il presidenzialismo. Disse semplicemente che il momento non permetteva sfide «tanto ambiziose» né di aprire «una fase costituente», e che dunque era meglio limitarsi a lavorare su obiettivi più facili come la sfiducia costruttiva, da sempre un pallino del leader del Movimento (per disinnescare i veti dei piccoli partiti, in sostanza, si dovrebbe proporre una maggioranza alternativa al momento della sfiducia).

Con cinque anni di legislatura nuova di zecca davanti, ora, di tempo e di spazio ce ne sarebbe. Per questo Conte non vuole precludersi nessuna interlocuzione. Ancora quattro giorni fa, la sua risposta sul presidenzialismo non era di chiusura: «Ma da Fdi parlano per suggestioni, senza un modello chiaro – precisava –. Qualsiasi sistema necessita di pesi e contrappesi». Non è il «no» netto di Letta. Una risposta che ha lasciato stupiti i vertici di Fdi.

Giovambattista Fazzolari, senatore e uomo di fiducia di Meloni non crede che dopo il voto, quando le ragioni elettorali svaniranno, il segretario del Pd si siederà al tavolo delle riforme: «Trovo incomprensibile l’atteggiamento di Letta – risponde – Dopo averci accusato di voler cambiare la Costituzione da soli, il centrodestra propone la bicamerale, così da condividere un percorso comune e portare il coinvolgimento al massimo livello, e il Pd che fa? Respinge il dialogo. È la solita arroganza della sinistra. Sarà un caso ma tutte le riforme costituzionali sono state fatte da loro. Magari credono di avere un diritto di natura».

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La guerra rimossa dai partiti in gara

lunedì, Settembre 12th, 2022

Alessandro de Angelis

La contorsione verbale più spettacolare è dell’avvocato del popolo: «L’Italia non è in grado di sopportare un nuovo sforzo bellico, perché siamo in recessione». Così Giuseppe Conte di fronte platea amica della festa del Fatto, dopo il blitz al festival “no war-no base” a Colato. Realizzato poi che la resistenza ucraina funziona perché nei cannoni non ci sono fiori, si corregge un po’: «Sono orgoglioso – due ore dopo a In mezz’ora in più – del sostegno all’Ucraina». Insomma, gli ucraini riconquistano spazi di libertà grazie a cannoni senza fiori (evviva!) ma «no escalation, la linea non cambia». Dicono che funziona, anche se non si capisce cosa significhi.

Morale: i fatti, con la loro testa dura (diceva il compagno Lenin), raccontano di una disfatta russa nel Donbass proprio nei giorni Putin ne aveva annunciato la conquista (15 settembre). Ma neanche questo riesce a scalfire una discussione, tutta italiana, che pare separata dal mondo: “autarchica”, il cui epicentro è tutto nazionale e tiene fuori la guerra, sia come analisi della situazione sul campo, sia come scossa in termini di emergenza energetica, migratoria, alimentare. E infatti aiuta la Meloni che è autarchica per definizione.

La contorsione verbale di Conte disvela quanta ipocrisia c’è stata e c’è nel variegato mondo del pacifismo nostrano. Qualche tempo fa si teorizzò addirittura il “dovere della resa” degli ucraini per non allungare una inevitabile agonia davanti all’invincibile armata di Putin. I pifferai magici di allora, nelle piazze e nei teatri, oggi invece tacciono, peraltro dopo aver preferito le vacanze all’organizzazione di un partito per far pesare in Parlamento tesi che, si diceva, intercettavano il consenso della maggioranza degli italiani. Però la rimozione riguarda anche, paradossalmente, chi nei fatti con la testa dura potrebbe trovare un assist per rivendicare la giustezza delle proprie convinzioni: un popolo che riconquista spazi di libertà non è un buon motivo per dare agli italiani, angosciati dai sacrifici, quantomeno il senso di una missione alta che li giustifichi?

In questo caso, nella prudenza, pesa la paura dell’impopolarità dei costi da sopportare (e ci risiamo con gli occhiali domestici), in un paese che vota col portafoglio. Soprattutto perché è sempre più vuoto. E le soluzioni sempre più complicate col povero Draghi stretto, dopo essere stato tirato giù, tra richieste di scostamento e logoramento sul decreto Aiuti. Diciamo le cose come stanno: la riconquista ucraina del Donbass rafforza Giorgia Meloni, che sulla collocazione atlantica ha posto in essere un lavorio politico non banale (vedi la visita di Urso a Kiev e in Polonia).

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Berlusconi l’illusionista

lunedì, Settembre 12th, 2022

Massimiliano Panarari

Abracadabra, a me gli occhi! Si sta celebrando, per l’ennesima volta, la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi, l’«Illusionista Supremo». A schermi unificati, compreso il «dolce stil novissimo» di TikTok(Tak), come lo ha ribattezzato l’ultraottuagenario fondatore del primo partito personale italiano. Piattaforma nella quale il dominus nazionale della «neotelevisione» postmoderna si è infilato sulla scorta del motto «bene o male, purché se ne parli», puntando al rimbalzo comunicativo sui media mainstream. “Missione compiuta” da questo punto di vista, mentre non si può dire altrettanto dei contenuti programmatici e dello stile comunicativo, che paiono arrivare per direttissima da un’altra era. Praticamente quella del suo trionfale debutto elettorale, quasi che il tempo sia stato congelato. D’altronde, una delle parole che possiamo oggi più agevolmente associare al berlusconismo è quella di consuetudine, un pezzo del paesaggio e dell’arredamento (della vita pubblica). Se in queste ore di lutto i sudditi di sua maestà britannica realizzano che Elisabetta II è stata la Regina per antonomasia, e per molti decenni del Novecento una figura sempre presente (in senso letterale), noi italiani abbiamo, invece, il Cavaliere, al punto che per certe generazioni risulta impossibile immaginarsi una politica “deberlusconizzata”.

E, dunque, sui social il Berlusconi degli anni Venti del Duemila si propone con una propaganda marcatamente vintage, come se fosse appena uscito dalla macchina del tempo. Non essendo comunque il solo, ma ritrovandosi in abbondante compagnia, dal momento che – verosimilmente anche a causa della repentinità con cui siamo stati gettati in pasto al clima della competizione elettorale – molti partiti sembrano avere attinto in maniera massiccia ai propri temi e annunci «sempreverdi». E hanno così finito per scodellare altrettanti “grandi classici” del loro repertorio, che si rivelano anacronistici e stridenti al cospetto del contesto politico-economico emergenziale in cui ci troviamo immersi.

Peraltro, come documentato su queste pagine, il 96% delle promesse dei leader nella campagna odierna risulta privo delle relative coperture di bilancio. Pura prestidigitazione, in un Paese dove la tentazione di affidarsi con aspettative salvifiche all’uomo (o la donna) forte si rivela inesauribile. E dove il «pensiero magico», che prescinde dai numeri – i quali, poi, da ostinati disturbatori del manovratore arrivano sempre a presentare il conto (specie economico) –, è stato sparso a piene mani dai vari populismi. Di cui, il berlusconismo, non per nulla, è stato l’incubatore e la start-up. Pertanto, il presidente di Forza Italia estrae dal suo cilindro di prestigiatore della politica quella che spera essere una gallina dalle uova d’oro (elettorali). Ovvero, la ricetta dei mille euro (almeno…) di stipendio mensile per «i giovani» (verosimilmente le stesse generiche fasce anagrafiche a cui su TikTok si rivolge con l’ineffabile tono di voce infantile del baby talk). E, dunque, riecco l’«uomo col sole in tasca», in abbinata – ci si aspetterebbe – con un (gigantesco) tesoretto. Il quale, però, non c’è. Prima gli “impegni” e le promesse ai pensionati, ora alle generazioni più giovani, e una posizione fattasi più titubante rispetto all’abolizione del “reddito di cittadinanza” grillino. Siamo, appunto, di fronte all’iperottimistico libro dei sogni degli esordi, ma nel quadro di una finanza pubblica che non può minimamente permettersi di realizzarlo.

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La scommessa di Letta sul Sud: partita aperta in decine di seggi

lunedì, Settembre 12th, 2022

di Monica Guerzoni

Il patto con De Luca, Emiliano e il sindaco Decaro. L’idea della videoconferenza per motivare i candidati

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La rimonta impossibile può diventare possibile. Enrico Letta ci crede. E perché ci credano anche gli italiani, bisogna prima di tutto convincere i candidati del Pd. Oggi alle 9:30 si accenderanno le telecamere del Nazareno e il segretario apparirà in videoconferenza in tandem con Mauro Berruto, responsabile Sport della segreteria dem, già commissario tecnico della nazionale di pallavolo italiana e aspirante deputato. È a lui che l’ex presidente del Consiglio ha affidato il compito di spronare la squadra a gettare il cuore oltre l’ostacolo nell’ultimo set. Tutte le mattine dopo il caffè, il leader e il «mental coach» del Pd si collegheranno con i 600 candidati e candidate: temi politici di giornata, discorso motivazionale e via, tutti sul territorio a spiegare a quel 42% di indecisi — in aumento anziché in calo — che la destra non ha ancora vinto e che la remuntada non è un miraggio.

Letta riparte da Taranto. Sfida Giuseppe Conte in casa e spera di ribaltare i pronostici nell’ultimo miglio. Cinque i punti della strategia. Il primo è il Sud. Gli analisti del Nazareno hanno studiato la risalita del M5S e hanno visto che l’avvocato di Volturara Appula «recupera solo nel Mezzogiorno» e, stando agli studi che il segretario dem ha in tasca, non ruba voti al Pd ma a Salvini e Berlusconi, . Il che renderebbe Letta, Speranza, Fratoianni e compagni «competitivi non solo a Napoli ma in quasi tutti i collegi pugliesi» e in altri dei 60 collegi in bilico. Un effetto a sorpresa che, dirà oggi il leader ai dirigenti, «vale anche in Sardegna, Sicilia, Campania, Calabria e Basilicata». Così si spiegano la concentrazione di tappe al Sud e la scelta di lanciare la «Carta di Taranto», mossa resa possibile dall’impegno di Enzo De Luca, Michele Emiliano e Antonio Decaro: tre nomi che, fanno notare al Nazareno, «non erano scontati». La vittoria nel 2020 dei governatori di Puglia e Campania è un altro elemento di cauto ottimismo, perché entrambi stando ai sondaggi di allora avevano perso e poi «hanno vinto alla grande». Gli studiosi di cose politiche, ricordano nello staff di Letta, sbagliarono anche nel 2013 con Pier Luigi Bersani, che non diventò premier a dispetto delle previsioni.

Il secondo punto di quella che i lettiani chiamano «operazione rimonta» è il lavoro per i giovani, cuore del programma economico e sociale del Pd: oggi il leader vedrà la Cna, domani Confartigianato e ogni prossima tappa sarà preceduta da incontri con artigiani, imprenditori e sindacati. Il terzo è il «fattore Draghi», altro tasto su cui il leader del centrosinistra spingerà molto negli ultimi dodici giorni: «La campagna della destra ha scatenato il caos, la gente ha capito che se vincono loro non ci sarà più Draghi e la colpa è di Conte, Salvini e Berlusconi che hanno fatto cadere il governo».

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La riconquista si allarga, i soldati ucraini arrivano al confine russo

lunedì, Settembre 12th, 2022

di Viviana Mazza

Presa gran parte della regione di Kharkiv. La nuova linea del fronte lungo il fiume Oskol. I russi colpiscono la seconda centrale termica del Paese. Zelensky: «Il freddo, la fame e il buio non ci fermeranno»

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DALLA NOSTRA INVIATA
KIEV – Era stato il comandante delle forze armate Valerii Zaluzhnyi ad annunciare in mattinata che, dall’inizio di settembre al giorno numero 200 della guerra in Ucraina, la controffensiva nel Nord Est aveva conquistato 3.000 chilometri quadrati di territorio e le truppe di Kiev si trovavano a 50 chilometri dal confine con la Russia. In serata nuovi chilometri erano stati macinati: la controffensiva ha strappato a Mosca gran parte della regione di Kharkiv , arrivando a piantare a la bandiera ucraina al valico di frontiera di Hoptivka. In una lunga fila di auto sono fuggiti in Russia anche migliaia di civili: non necessariamente tutti filorussi, ma persone che hanno paura di morire sotto le bombe.

Non è noto il numero dei prigionieri di guerra russi, ma i video indicano che potrebbero essere centinaia. Il processo di «filtraggio» prevede anche l’arresto di civili sospettati di essere collaboratori dei russi. Il più importante è il capo della polizia di Balaklyia, mentre non è noto dove si trovi il sindaco filorusso di Izyum, città cruciale che secondo fonti militari sarebbe stata alla fine riconquistata.

Il nuovo fronte

La nuova linea del fronte si trova lungo il fiume Oskol, nella parte orientale della regione di Kharkiv. Il fiume taglia Kupyansk e divide i quartieri riconquistati dalla zona industriale periferica ancora in mano russa. Ma la situazione è in continuo cambiamento e la linea del fronte cambierà di nuovo. La controffensiva potrebbe puntare ora verso la regione di Luhansk, in due direzioni: nel nord verso Svatove-Starobilsk, su un terreno piatto e più aperto, e nel sud verso Lysychansk-Sieverodonetsk, una zona più urbana e industriale. Lysychansk è stata l’ultima citta di Luhansk a finire sotto controllo russo a luglio, dopo settimane di combattimenti durissimi. Come dalla regione di Kharkiv, giungono anche da Luhansk notizie di movimenti di soldati russi verso Est, in particolare dalle città di Svatove e Starobilsk: Kiev le interpreta come ulteriori ritirate. Quanto al Donetsk, il capo dell’auto-proclamata repubblica, Denis Pushilin, ha ammesso che la situazione nel Nord della regione è «piuttosto dura»: si riferiva alla città di Lyman, non lontano da Sloviansk, che è sotto controllo ucraino. Fonti russe sostengono che i soldati di Kiev stiano rimuovendo le mine nei pressi di Vuhlehirsk, in preparazione di un attacco nel Donetsk.

Più ridotte le notizie dal Sud: secondo le forze armate ucraine, i russi avrebbero lasciato alcune posizioni nella regione di Kherson e alcuni villaggi sarebbero stati riconquistati negli ultimi giorni, incluso Oleksandrivka, la località dove era diretto il giornalista italiano Mattia Sorbi.

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Sanzioni e sconfitte, la solitudine di Putin criticato da Kadyrov: «Cambi strategia»

lunedì, Settembre 12th, 2022

di Francesco Battistini

Il leader ceceno arrabbiato per la ritirata. Lavrov: non rifiutiamo i negoziati. E Macron chiama lo zar: «Via le armi dalla centrale di Zaporizhzhia»

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Quando Mc Donald’s ha abbandonato la Russia, in giugno, il logo dei nuovi fast food autarchici — due bastoncini e un cerchio, a stilizzare patatine&hamburger — doveva far capire che nulla cambiava. Ma siccome le sanzioni colpiscono duro, e le patate non arrivano più, anche le chips son diventante un bene di lusso : come i salumi e il cotone, i guanti chirurgici e la carta igienica . E lo sport? «Ci faremo le olimpiadi in casa», disse sprezzante un portavoce del Cremlino, quando il Cio escluse Mosca. Ma ora lo scontento degli atleti è forte: «Dobbiamo pensare a qualcosa — ammette preoccupato lo stesso portavoce — i nostri sportivi stanno avendo grossi problemi…». Perfino i fuochi d’artificio: sabato, Mosca s’è illuminata di botti per il Giorno della Città e Vladimir Putin ha inaugurato una ruota panoramica. Ma un analista politico suo amico, Sergey Markov, gliel’ha detto chiaro: «Le autorità non dovrebbero festeggiare, mentre il popolo è in lutto». E il leader di Giusta Russia, Sergey Mironov, altro fedelissimo, ha ammesso che «i fuochi vanno rinviati al giorno della vittoria sui nazisti: un giorno che è ancora lontano».

Operazione Fallimentare Speciale. La sorprendente ritirata da Kharkiv non è ancora una vittoria ucraina — un quinto del Paese resta in mano a Putin —, ma Kiev sta dimostrando di saper vincere anche in campo aperto, non solo con manovre d’astuzia. Ed era dalla Seconda guerra mondiale che non si vedeva una disfatta così rapida d’interi reparti russi. «Ci sono stati errori — riconosce Ramzan Kadyrov, il capo ceceno — e se non si cambia strategia, andrò io a spiegarlo ai vertici di Mosca: è una situazione infernale». Un inferno che smuove anche il tetragono ministro degli Esteri, Sergey Lavrov: «Noi non rifiutiamo i negoziati — dice — ma chi rifiuta deve capire che più ritarda questo processo, più difficile sarà negoziare». Pure il presidente francese Emmanuel Macron getta l’amo, proponendo in una telefonata a Putin di «ritirare le armi pesanti dalla centrale di Zaporizhzhia».

Lo Zar tace. Duecento giorni di guerra han fatto 5.718 morti, per non dire degli 8.199 feriti e dei 7 milioni di profughi, ma nulla si sa delle perdite militari, soprattutto di quelle russe. Al suo ventesimo conflitto in trent’anni, il Cremlino s’accorge forse d’avere scambiato l’Ucraina per la Siria o la Cecenia: «Pagherà un prezzo molto alto per questo fallimento — prevede Bill Burns, direttore della Cia», non solo è stata smascherata la debolezza dell’esercito: ci saranno danni economici per generazioni». «Putin ha sbagliato i calcoli», dice il cancelliere tedesco Olaf Scholz: se l’Ue via via rinuncerà al gas russo entro il 2027, riconosce uno studio del ministero dell’Economia russo, non basteranno le pipeline verso Cina e India a rimpiazzare le vendite.

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L’anno del Sultano

domenica, Settembre 11th, 2022

Lorenzo Vita

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Recep Tayyip Erdogan non è solo il presidente della Turchia, ma un uomo che in questi mesi (ma potremmo dire anni) ha saputo ritagliarsi un ruolo sempre più centrale nelle dinamiche internazionali. La guerra in Ucraina, con il sultano a farsi addirittura garante dello sblocco della partita del grano attraverso il Bosforo, è solo l’ultima immagine. Forse quella più eloquente e possibilmente più ricercata dal leader turco, desideroso di mostrarsi al mondo come interprete di chi vuole la pace e la risoluzione di crisi potenzialmente esplosive per alcune regioni del mondo. Ma se questa è l’ultima fotografia, quella dell’Erdogan mediatore, esistono una serie di altre immagini non meno importanti che rendono di fatto impossibile, oggi, parlare della politica mediterranea, mediorientale, nordafricana e di fatto anche europea senza dover fare riferimento alla figura del presidente turco. E questo è accaduto anche mutando più o meno radicalmente strategie, obiettivi, alleanze e tattiche semplicemente a seconda delle opportunità che si sono venute a creare nel corso del suo lungo periodo alla guida di Ankara.

Le mosse in Siria e Libia

Scorrendo i più recenti focolai di guerra, tensione e crisi che hanno coinvolto l’Europa (e in particolare i suoi confini), è facile notare come tutti quanti abbiano un comune denominatore nella capacità del “sultano” di inserirsi nelle partite massimizzando i propri profitti. Lo abbiamo visto in Siria, dove Erdogan, da amico di Bashar al Assad, all’inizio della guerra ha deciso di puntare tutto sui ribelli per penetrare all’interno del tessuto statale siriano e soprattutto infliggere un duro colpo alle organizzazioni curde nel nord del Paese. Poi Ankara ha di nuovo cambiato atteggiamento, costruendo insieme alla Russia e all’Iran quella piattaforma di Astana che serve a regolare il conflitto e che è composta da due potenze che hanno apertamente appoggiato Assad facendo sì che mantenesse il potere. Tutto questo senza che la Turchia sia mai uscita dall’Alleanza Atlantica e anzi riuscendo a capitalizzare il flusso di migranti partiti dalla Siria (e non solo) per bloccarli nel proprio Paese, cercare di inserirli nel tessuto sociale e lavorativo, ma anche per chiedere all’Europa diversi miliardi di euro in cambio della garanzia di non lasciare che queste ondate di profughi di riversassero dall’altro parte dell’Egeo.

La partita libica è stata un’altra finestra di opportunità sfruttata dal presidente turco anche grazie agli errori dell’Europa e in parte anche dell’Italia, specialmente negli anni di Fayez al Sarraj alla guida di Tripoli. Anche in quest’occasione, la Turchia si è contraddistinta per il supporto nei confronti di una fazione strappando alleanze e accordi che oggi rendono Ankara il vero centro di potere della parte occidentale della Libia. La facilità del leader dell’Akp di sfruttare altri conflitti si è vista più di recente anche in una guerra spesso dimenticata dai media internazionali ma fondamentale dal punto di vista regionale: quella del Nagorno Karabakh, che vede contrapposti Armenia e Azerbaigian. In quest’occasione, Erdogan, sfruttando anche i legami etnici, storici e culturali con gli azerbagiani, si è subito attivato per il supporto militare di Baku ridisegnando i destini del conflitto in favore di quella parte.

Questi tre esempi, che rappresentano una sorta di cintura di fuoco intorno al Vecchio Continente, sono solo quelli più eloquenti e che hanno contraddistinto in modo sensibile (e anche più violento) l’importanza della nuova Turchia nel nostro quadrante di riferimento. Ma altre mosse, non meno importanti sotto il profilo diplomatico e strategico, hanno fatto capire in modo estremamente rilevante la capacità del Sultano di infiltrarsi nelle reti della politica regionale e mondiale per “passare all’incasso”. Lo ha fatto con la Grecia e con Cipro, nell’eterna sfida per il controllo dell’Egeo e dei mari che uniscono l’isola occupata a nord dai turchi fino a Creta. La contesa su quei fondali e sulla spartizione delle zone economiche esclusive ha portato a un continuo afflusso di navi da ricerca turche e militari in tutti gli specchi d’acqua imponendo una tensione che ha anche lo scopo di ristabilire le linee di delimitazione nelle acque del Mediterraneo in base alla mappa di “Mavi Vatan”, la dottrina marittima ideata dall’ammiraglio Cem Gurdeniz.

La partita con Israele

Una svolta a cui va aggiunto il più recente (e altrettanto importante) riavvicinamento con Israele dopo anni di forti tensioni legate soprattutto alla vicinanza di Erdogan con Hamas. Il presidente turco, in un recente colloquio telefonico con l’omologo israeliano Isaac Herzog, ha detto che “Ankara è disposta a favorire la cooperazione e il dialogo sulla base del rispetto delle sensibilità reciproche. La nomina degli ambasciatori è un passo importante verso lo sviluppo positivo delle relazioni”. Un riallineamento che arriva nelle stesse ore in cui l’agenzia Anadolu ha riportato le parole Erdogan sul fatto che i contatti con l’Egitto (altro Paese con forti dispute con la Turchia) “continuano a livello ministeriale” e che “gli egiziani sono nostri fratelli”. Segnali da non sottovalutare e che confermano la volontà del Sultano di riprendersi la scena anche nel Levante a seguito della nascita di un blocco anti-turco che sarebbe stato (e ancora sarebbe) decisamente deleterio per gli interessi strategici turchi, sia per quanto riguarda il gas sia per altre questioni di natura diplomatica e di sicurezza. A questo proposito, e a conferma del dinamismo turco in tutte le aree del mondo più vicine ai sogni di gloria del Sultano, non va dimenticato il meccanismo di soft power e diplomazia con cui Ankara ha saputo ritagliarsi un sempre maggiore spazio anche in Africa. Una politica che ha permesso a Erdogan di sfruttare prima la sua vicinanza con la Somalia, per poi risalire il Sahel, l’Africa centrale e occidentale e ricongiungersi fino al suo avamposto libico.

Grazie a questa politica di espansione della propria rete di partnership e presenza militare, il presidente turco è riuscito a capitalizzare anche un evidente peso politico anche nel consesso atlantico, se non in quello europeo. La testimonianza di tutto questo si è avuta più di recente anche con la minaccia del veto turco all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato. Una mossa che se da un lato ha confermato le difficoltà del sistema occidentale nei rapporti con Ankara, dall’altro lato ha anche ribadito l’impossibilità di molti leader atlantici (e dello stesso segretario generale) di bloccare sul nascere le ambizioni del Sultano dovendo in qualche modo scendere a compromessi. Compromessi che in questo caso sono evidentemente a favore del partner turco, in un meccanismo di do ut des che ricorda quanto già fatto con la crisi migratoria dalla Siria.

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Csm, correnti nel panico. È l’ora delle toghe libere

domenica, Settembre 11th, 2022

Luca Fazzo

Il panico che la fine di un’epoca sta seminando nelle file della magistratura organizzata è tale che saltano anche le regole elementari del vivere civile e del rispetto reciproco. Così va a finire che Maria Luisa Savoia, giudice milanese di prestigio indiscusso, esponente della corrente di Area, colpevole di volersi candidare al Consiglio superiore della magistratura senza la benedizione della sua corrente, venga accusata di trasformismo sulle chat interne in modo inurbano: «A te la Gelmini ti fa un baffo» (ma il termine è assai più greve ndr)».

Così i vertici delle correnti spesso si sono trovati spiazzati dalla rivolta delle basi. Eclatante il caso di Milano dove Area, la corrente di sinistra che da anni è egemone nel capoluogo lombardo, si è spaccata , con gli iscritti che rifiutavano le decisioni dei capi. La candidatura autonoma della Savoia, quella che le ha meritato il paragone (ingiurioso, almeno nelle intenzioni) con Maristella Gelmini nasce così, e così pure quella del pm Roberto Fontana, altra figura storica di Md Venerdì scorso è arrivato al nord a incontrare la «base» Mario Palazzi, il pm romano che è il candidato di punta della sinistra. Ma non ha trovato una buona accoglienza, molti la considerano una candidatura obbligata perchè quattro anni fa Palazzi fu costretto a cedere il posto a un altro big, Giuseppe Cascini, poi emerso anche lui nei messaggini di Palamara. «Io votare Palazzi? Non ci penso nemmeno», diceva a margine della riunione un militante solitamente taciturno. E anche questo dà il segno dell’aria che tira.

Nella riforma Cartabia ci sono algoritmi surreali a base di recupero di resti e robe simili per cui in queste settimane le correnti studiano giorno e notte come indirizzare i voti, dove conviene vincere, dove è meglio perdere. Insieme ai correntoni, in gara ci sono i «piccoli»: gli ex davighiani, gli antisistema di Articoli 101, c’è persino un «listino Ferri», che si richiama al parlamentare di Azione (e magistrato in aspettativa) Cosimo Ferri. Il problema è che mentre nell’era ante-Palamara i voti correntizi erano governati più militarmente che nella Dc di Antonio Gava, oggi il magistrato-massa, stanco e sfiduciato, vota chi gli pare. Se c’è una corrente in grado di indirizzare con precisione buona parte dei suoi voti è Magistratura Indipendente, cioè la destra.

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La vendetta di Conte contro il Pd: “Sulle spese militari hanno la coda di paglia”

domenica, Settembre 11th, 2022

Federico Capurso

Appena fuori Pisa, le colline toscane iniziano a salire e a scendere dolcemente. Giuseppe Conte le attraversa come un aratro. Fa tappa a Livorno, passa da Coltano, sale a Viareggio, poi via verso Firenze. Feudi rossi, un tempo. Oggi, terre di conquista. E di sfida, anche simbolica, al Pd. Il rischio è di essere accolto come un corpo estraneo, ma Conte riceve applausi, sorrisi, poche e timide contestazioni. Capisce che la porta del feudo è aperta. Può alzare il tiro contro quelli che un tempo erano i padroni di casa: «A livello locale, in futuro, ci penseremo bene non una, ma tante volte, prima di stringere un’alleanza con il Pd. E soprattutto, mai con questi vertici». Non mette il partito nel mirino, con i suoi valori e le sue idee, ma il segretario Enrico Letta e i dirigenti Dem che hanno deciso di estirpare i Cinque stelle dal loro campo. Una distinzione utile ad attrarre i voti dei delusi di sinistra. Poi, dietro le strategie comunicative e i calcoli elettorali, c’è anche il cuore, la ferita ancora aperta per quello strappo e il sapore della rivalsa che adesso, per la prima volta, sembra essere piacevole, dolce. Come quello della vendetta. «Io valuto i comportamenti di questa dirigenza nei nostri confronti – dice l’ex premier -, i suoi errori politici, il cinismo, l’opportunismo, le incongruenze e le false accuse che stanno riversando su di noi». Non era mai stato così duro.

Ogni passo, tra queste colline, è stato studiato per accarezzare le anime di sinistra indecise, distanti dalla linea di partito di Letta. C’è la spinta pacifista, che parte dalla visita a Coltano, dove il vicepresidente M5S Riccardo Ricciardi, che è di casa, fa strada al leader. «Grazie a un’iniziativa di Ricciardi e del Movimento, qui non è stata costruita una nuova base militare», ricorda Conte. Poi parlando con La Stampa torna sui 12,5 miliardi di euro, spalmati in sedici anni e già stanziati, che la prossima settimana arriveranno in commissione alla Camera per la programmazione degli investimenti militari. I Cinque stelle vorrebbero bloccarli. Il Pd protesta, «la loro è demagogia». Conte ribatte: «Il Pd fa circolare una pappardella sulle armi, ma non dovete credergli. Vogliono approvare questi decreti in fretta, nell’ultimo giorno utile, ma che siamo nati scemi? Non trovano il tempo di sbloccare la cessione dei crediti sul superbonus, per salvare 40mila imprese, ma trovano tempo per questo?». Per il leader M5S è «una decisione che deve prendere il prossimo governo politico. E si deve dare il tempo di analizzare i dossier. Mi attaccano? Sulle spese militari il Pd ha la coda di paglia».

Piombino è poco distante. Conte ha rimandato ancora la possibilità di far visita al porto dove il governo vorrebbe costruire un rigassificatore. Tutti i maggiori partiti sono d’accordo con palazzo Chigi, Pd compreso. Non i Cinque stelle. «Ma non siamo il partito dei no – puntualizza Conte -. Noi vogliamo i rigassificatori galleggianti temporanei, ma non a Piombino, dove ci sono altre esigenze». E se il governo promette di dare in cambio delle bonifiche per alcuni siti industriali ormai dismessi, l’ex premier evoca la truffa e ribadisce la sua contrarietà: «Quelle bonifiche erano dovute, a prescindere dal rigassificatore. Queste scelte vanno fatte dialogando con le comunità locali, non possono essere calate dall’alto». Nessun veto, invece, sul decreto Aiuti bis: «Lo approviamo martedì».

La strategia sembra funzionare. Almeno così dicono i sondaggi. «Sono buoni», assicura Conte. «Anzi, di più», e mima un razzo ormai in orbita. A Livorno ne ha avuto la prova. Scende nel cuore della prima città rossa, visita il mercato centrale, e l’accoglienza è calorosa. Si ferma al banco Mare blu, dalla signora Nicoletta, livornese doc, che prova a offrirgli del pesce crudo. Conte deve rifiutare. Ricorda ancora l’intossicazione alimentare che lo costrinse ad andare in ospedale tre giorni prima della caduta del governo Draghi, ma stringe mani, sorride, si informa sui rincari delle bollette. «Non è stato fischiato», sottolinea Nicoletta, e «in questa città, dove la si pensa da sempre in un certo modo, vuol dire qualcosa. Lo abbiamo accettato». Al banco a fianco, i ragazzi della pescheria Rosi non sono d’accordo: «Qui di rosso è rimasto ben poco. Però è vero che la Meloni è stata contestata. Lui lo stanno trattando bene». Il nome della leader di Fratelli d’Italia riecheggia spesso. In tanti temono che possa essere lei a dilagare. Tanti altri lo sperano. Come Francesco Ficarra, livornese di destra, sempre meno raro: «Lei è coerente. Conte invece è quello dei decreti sicurezza, prima a destra e poi a sinistra». Lo dice anche a Conte, non appena lo incrocia al mercato.

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Ecco perché la Germania può fare a meno del gas russo e perché questa è una buona notizia per l’Italia

domenica, Settembre 11th, 2022

SILVIA STELLACCI

«La Germania può superare l’inverno senza il gas russo, l’attuale allarmismo è fuori luogo». Parole rassicuranti quelle del professor Moritz Schularick, che insieme al professore Moritz Kuhn coordina il Cluster of Excellence ECONtribute delle Università di Bonn e Colonia. Il loro ultimo lavoro, pubblicato come «ECONtribute Policy Brief», sostiene che lo stato tedesco, con le adeguate misure politico-economiche, nei prossimi mesi potrebbe cavarsela anche senza i rifornimenti dalla Russia.

Una conclusione positiva anche per l’Italia, perché le indicazioni contenute nello studio, traslate nel contesto italiano, potrebbero rappresentare una via d’uscita dalle preoccupazioni legate alle forniture di gas. Nello specifico, i ricercatori indicano come prima soluzione al problema una riduzione della domanda, che in Germania dovrebbe ridursi del 25% per far fronte allo stop delle importazioni russe.

«La valutazione della strategia del governo tedesco di non imporre un aggiustamento precoce della domanda e di continuare a importare gas dalla Russia nonostante la guerra di aggressione all’Ucraina è ambivalente», si legge nello studio. «Sebbene da aprile a luglio siano stati stoccati ben 100 TWh di gas, senza le forniture russe, la necessità di un adeguamento della domanda rimane sostanziale, pari al 25% fino alla fine del prossimo periodo di riscaldamento (aprile 2023)». I ricercatori ipotizzano che le strutture di stoccaggio del gas della Germania dovrebbero essere sempre piene al 20% per fornire un cuscinetto e affrontare un inverno freddo o per ulteriori interruzioni delle forniture. Per raggiungere questo scopo è fondamentale una riduzione della domanda di gas, anche nel caso in cui entrassero in funzione nuovi terminali di gas liquido, come previsto, o venissero implementate le importazioni da altri paesi.

È quindi vero che la Germania può superare l’inverno senza forniture russe, ma è altresì vero che sarà necessario uno sforzo collettivo ed economico. «L’invasione russa dell’Ucraina ha reso la Germania permanentemente più povera. I giorni dell’energia a basso costo sono finiti e sono necessari sforzi collettivi per rendere l’economia a prova di crisi. La riduzione del consumo di gas è fattibile, ma ha un costo economico», conclude lo studio. «In questo senso, i costi rimangono sostanziali, ma gestibili con adeguate misure di politica economica. Non c’è alcuna minaccia di povertà di massa o di rivolte popolari in caso di interruzione delle importazioni di gas russo. L’economia dovrà affrontare perdite di produzione di produzione di un’entità che la Germania ha già gestito in passato quando si è trovata a fronteggiare shock economici».

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