Archive for Settembre, 2022

Governo, incontro Meloni-Salvini: «Nessun veto» (ma resta lo scoglio Viminale)

giovedì, Settembre 29th, 2022

di Paola Di Caro

Un’ora di faccia a faccia tra i due alleati non scioglie i nodi. La leader: «Ottimista io? Sempre. E sono arrivata fin qui». E avrà presto un confronto anche con Berlusconi

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Alla fine di un’altra giornata di lavoro a testa bassa — tra incontri, telefonate, vertici ristrettissimi e studio dei dossier economici che le fanno tremare le vene ai polsi — Giorgia Meloni esce dal suo studio alla Camera e concede un’unica battuta ai cronisti: «Ottimista io? Sempre. Sono arrivata fin qui…».

E però la leader di Fratelli d’Italia sa che avrà una bella montagna da scalare. Quella della formazione del governo, un puzzle complicato soprattutto perché al momento non è ancora sciolto il grande nodo del ruolo che Matteo Salvini dovrà (e vuole) avere nell’esecutivo. Non è bastato l’incontro ieri tra la stessa Meloni e il leader leghista — un’ora di faccia a faccia nell’ufficio della premier in pectore — per superare quello che appare uno scoglio pericoloso. Perché il segretario del Carroccio, che già prima dell’incontro aveva ribadito quanto ci tenga al Viminale — «Ci vuole qualcuno che torni a difendere e proteggere confini, leggi, forze dell’ordine e sicurezza in Italia. Qualche idea ce l’abbiamo» — non ha fatto certo marcia indietro nel colloquio, pur sapendo che la Meloni è molto fredda al riguardo.

La nota finale in realtà è conciliante: «Il colloquio si è svolto in un clima di grande collaborazione e unità di intenti» e «entrambi i leader hanno ribadito il grande senso di responsabilità» che la vittoria alle elezioni comporta. Non si fa cenno a trattative sulla compagine di governo, ma in serata fonti ufficiali di FdI hanno comunicato che «non si è parlato né oggi e né in questi giorni di nomi, incarichi, attribuzioni di deleghe né separazioni di ministeri e sono prive di fondamento retroscena di stampa su presunti veti, così come le notizie già smentite da Palazzo Chigi su un “patto” Meloni-Draghi». Smentite che erano arrivate già in mattinata, su «virgolettati» a lei attribuiti molto duri nei confronti dell’alleato.

Però, a fronte del «nessun veto» che anche nell’incontro Meloni avrebbe assicurato a Salvini, pur spiegando che serve tempo per arrivare a un accordo complessivo che tenga conto della necessità di formare un governo «autorevole e competente», resta nell’aria la tensione. Sia in FI che in FdI si racconta di «messaggi» recapitati dagli sherpa leghisti agli omologhi dei due partiti con tono piuttosto minaccioso: se Salvini non avrà il Viminale , il partito potrebbe limitarsi all’appoggio esterno.

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La terza vita di Conte da legale a deputato. I 5s sono la Lega Sud

mercoledì, Settembre 28th, 2022

Francesco Boezi

Giuseppe Conte ha una nuova vita politica, la terza in un ordine temporale ristretto. Dopo l’«avvocato del popolo», anche nelle vesti di premier sovranista, e il «punto di riferimento fortissimo dei progressisti» come leader del governo giallorosso, lo vedremo nel ruolo di parlamentare e capo grillino. Un occhio sarà giocoforza rivolto agli schemi: considerando la situazione venutasi a creare al Nazareno, prende piede una possibile e rinnovata alleanza con la formazione che non sarà più guidata da Enrico Letta. Tanto Conte ha abituato ai cambi repentini. Il trait d’union è il populismo liquido: il mezzo ideologico attraverso cui Giuseppi continua la navigazione su acque molto diverse tra loro. Lo strumento che gli ha consentito di poter essere equiparato tanto al trumpismo quanto ad una vaga idea di socialismo assistenzialista di ritorno. L’ex presidente del Consiglio avrebbe potuto tentare l’elezione in altre circostanze durante la scorsa legislatura, per esempio nel giro valevole per le suppletive romane nel collegio di Primavalle. Ai tempi ha preferito non rischiare, aspettando un’occasione con delle certezze in più. La vittoria in capitale non era affatto scontata, come la sconfitta di Virginia Raggi ha dimostrato. Comunque sia, il colpo, nonostante il calo di consensi personali rispetto a quelli registrati dai sondaggi quando sedeva al vertici di due esecutivi, è riuscito. Certo, il Movimento 5 Stelle non ha più nessuna caratteristica delle origini: ora come ora assomiglia ad una sorta di Lega Sud. E del partito che voleva ribaltare le logiche della politica tradizionale, con l’apertura della scatoletta di tonno e il resto del sussidiario antisistemico, è rimasto soltanto un velato ricordo. Oggi il vertice pentastellato non può che cantare vittoria. La conferenza stampa di ieri è stata aperta con l’espressione «grande successo». Subito dopo, l’avvocato originario di Volturara Appula ha bocciato la narrativa tagliata sul «partito del Sud». Sono i dati, però, ad aver assecondato l’impostazione politologica. Dopo il riconoscimento della vittoria del centrodestra e gli auguri a Giorgia Meloni, l’ex capo dell’esecutivo ha iniziato a indossare gli abiti di capo dell’opposizione preoccupato per l’avvenire: «Noi siamo pronti a difendere i nostri valori, non faremo nessuno sconto, siamo consapevoli che c’è stata una rimonta per la nostra forza politica, ma non festeggiamo, guardiamo con preoccupazione al futuro», ha detto. La staffilata più decisa è stata riservata a Letta, ricordando la sconfitta al segretario dem e invitandolo a non cercare «capri espiatori». Il messaggio nascosto emerge subito: l’unità del centrosinistra dipenderà per gran parte dai rapporti politici che Conte avrà con la prossima segreteria Pd. Il capo grillino lo ha palesato: «Non ci sarà nessun dialogo con questo gruppo dirigente – ha spiegato -, però vorrei chiarire che il problema non è una questione personale ma di punti politici, non è questione di gruppo dirigente, ma di agenda, che Pd verrà fuori, con quale prospettiva».

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La sfida energetica per il nuovo governo. Ma i nostri stoccaggi sono pieni al 90%. “L’inverno è al sicuro senza il gas russo”

mercoledì, Settembre 28th, 2022

Francesco Giubilei

Il nuovo governo non si è ancora insediato che già si affacciano all’orizzonte i primi grandi temi da affrontare a cominciare dalla crisi energetica. L’incidente dei gasdotti Nord Stream 1 e 2, interessa direttamente anche l’Italia e incide sul prezzo del gas con il rischio di nuovi consistenti aumenti. Come sottolineato da Federconsumatori, «piove sul bagnato. Non bastavano i già notevoli aumenti registrati sulla bolletta del gas, ora a peggiorare la situazione contribuisce il presunto sabotaggio al gasdotto Nord Stream».

Si tratta di un evento imprevisto in una giornata in cui è stato annunciato che gli stoccaggi italiani di gas sfiorano la soglia del 90%. Secondo il presidente di Nomisma Energia Davide Tabarelli, il riempimento degli stoccaggi è una buona notizia che però «non ci permette di essere completamente tranquilli per l’inverno. Se ci saranno molti giorni freddi e il consumo aumenterà, a fine febbraio o inizio marzo potremmo essere costretti a razionare il gas». Come spiega Tabarelli: «Nella stagione fredda, il consumo giornaliero può arrivare a 400 milioni di metri cubi al giorno. Di questi, metà viene da gasdotti e rigassificatori, l’altra metà dalle scorte. Un quarto della domanda veniva coperta dalla Russia, che però adesso ha ridotto a un terzo la fornitura. Di conseguenza, questo inverno dalla rete ci verrà meno gas. Nei giorni più freddi, dovremo consumare più scorte. E se ci saranno molti giorni freddi, arriveremo a fine inverno con le scorte ridotte. Per non rimanere a secco, potremmo dover razionare».

Più favorevole il parere di Bloomberg per cui «l’Italia ha scorte sufficienti di gas per superare l’inverno anche nel caso in cui venisse a mancare completamente il gas russo» grazie alle forniture provenienti dal Nord Africa anche se, aggiunge l’agenzia statunitense, «dovrà espandere la propria capacità di rigassificazione affinché possa stare tranquilla anche i prossimi inverni».

Proprio il tema del rigassificatore di Piombino è uno dei primi nodi e il nuovo governo dovrà definire una strategia energetica nazionale. Per i prossimi anni, con il raddoppio delle esportazioni algerine verso l’Italia nel 2024 a 18 miliardi di metri cubi all’anno e l’incremento delle importazioni di Gnl dall’Egitto, il fabbisogno energetico italiano dovrebbe stabilizzarsi ma rimangono da risolvere i problemi nel breve termine.

Oltre al caro bollette (accentuato nei prossimi mesi), se si vuole prorogare l’impianto degli aiuti messi in campo dal governo Draghi (il bonus per le famiglie, gli sgravi per le imprese, l’abbattimento degli oneri di sistema), occorrerà prevedere una serie di spese e la manovra economica si presenta come una vera e propria corsa contro il tempo. Nel prossimo trimestre infatti le bollette elettriche potrebbero aumentare di circa il 60% secondo Nomina energia, un incremento che potrebbe addirittura toccare il 100% senza interventi dell’esecutivo.

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Bornholm, il pivot baltico della Nato al centro del caso Nord Stream

mercoledì, Settembre 28th, 2022

Andrea Muratore

La vicenda del guasto di Nord Stream porta al centro della scena Bornholm, un’isola da meno di 600 chilometri quadrati di dimensione (pari a meno di tre volte l’Isola d’Elba) e circa 40mila abitanti che si trova all’imbocco del Mar Baltico. Sottoposta alla sovranità danese, e dunque all’interno del perimetro della Nato, Bornholm fu strategica già ai tempi della Seconda guerra mondiale, quando i tedeschi che occupavano la Danimarca la utilizzarono per interdire ai sovietici il Baltico e oggi gioca un ruolo fondamentale nell’interdire a Mosca la possibilità di fuoriuscire dal “lago” atlantico che il Baltico è diventato negli ultimi anni.

Le accuse di Polonia e Ucraina a Mosca su presunte manovre “terroristiche” contro i gasdotti baltici volte a giocare artificialmente sui prezzi del gas e i dubbi Nato e Ue sulla possibilità di un sabotaggio danno l’idea della liquidità della situazione e dell’importanza della partita scatenata proprio dal rilevamento da parte danese di anomale fuoriuscite di gas proprio attorno a Bornholm nella sera del 26 settembre.

Bornholm è la piccola ma non indifferente spina nel fianco che la Russia teme maggiormente nel Baltico. Il pivot atlantico che con l’ingresso della Svezia nella Nato potrà aggiungersi a Gotland e Aland per consolidare un perimetro insulare di difese e una zona d’interdizione aerea e marittima. Oggi, il Mar Baltico è generalmente considerato come uno specchio d’acqua conteso, con la Russia che ha una flotta di dimensioni moderate che opera dalle sue basi a Kaliningrad e nel Golfo di Finlandia e che con la costruzione di un asse Bornholm-Aland-Gotland e lo schieramento massiccio potrebbe subire una prima forma di contrapposizione in attesa che un numero significativo di navi moderne progettate per le condizioni litoranee vegnano aggiunte agli assetti Nato, compresa la flotta svedese di sottomarini moderni

Anche gli Stati Uniti sono interessati a presidiare la “porta” del Baltico puntando a far sì che la cooperazione, come ha ricordato War on the Rocks, lo consolidi come “lago” atlantico: in primavera il premier danese Mette Frederiksen ha detto che un futuro accordo tra Copenhagen e gli Usa potrebbe portare i soldati americani di stanza sull’isola danese del Mar Baltico. Tutto questo nel quadro di un’interoperatività capace di condurre le truppe Usa a far base nei porti danesi o in una delle tre basi aeree militari del paese.

Con lo scoppio della guerra russo-ucraina Bornholm è diventata sempre più importante per il fronte Nord della Nato. E proprio mentre la guerra a Est infuriava a Bornholm il 24 maggio scorso i membri della Guardia Nazionale dell’Esercito del Colorado hanno collaborato con le controparti danesi in servizio attivo, i membri del servizio dell’aeronautica statunitense e i partner internazionali per condurre un raid aereo-terrestre simulato durante un’esercitazione di infiltrazione rapida dei sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità M142. Un progetto pensato da tempo e caduto in concomitanza con l’aumento delle forniture Nato di armamenti missilistici a medio raggio all’Ucraina.

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Temi caldi Governo, Meloni pensa ai ministri: Giorgetti fuori (per ora), Tajani in corsa per la Difesa. L’ipotesi di due vicepremier

mercoledì, Settembre 28th, 2022

di Tommaso Labate

Il toto ministri del probabile governo Meloni: Giorgetti per ora depennato, compariva nella lista di FdI, ma non in quella leghista. L’idea: Rixi alle Infrastrutture e Centinaio alle politiche agricole

ROMA — Nella lista dei desideri sul prossimo governo compilata lunedì mattina nel quartier generale leghista di via Bellerio, a Milano, quando la dimensione del tracollo elettorale del Carroccio era già nota, il nome di Matteo Salvini c’era ancora. Non c’era il nome di Giancarlo Giorgetti, per esempio, ma quello del segretario federale sì. Qualche ora dopo, a oltre cinquecento chilometri di distanza, quando nell’hotel romano trasformato da Fratelli d’Italia in una specie di quartier generale post elettorale i colonnelli hanno iniziato insieme a Giorgia Meloni a buttar giù un loro elenco di possibili ministri, ecco, il nome di Salvini non compariva. Ma compariva, in quota ovviamente Lega, il nome dell’avversario interno del «Capitano», Giancarlo Giorgetti.

Basta questo piccolo incrocio di informazioni riservate, che viaggiano tra gli ufficiali di collegamento nella triangolazione Fratelli d’Italia-Lega-Forza Italia, per capire quanto spinosa può diventare la questione della composizione del governo se non gestita per tempo, con cura e col massimo della prudenza possibile. E qualche piccolo passo in avanti dev’essere stato fatto se ieri pomeriggio, nell’ultima versione della «bozza» di governo a guida Meloni, il nome di Salvini comunque non è comparso; ma in compenso, cosa che avrà fatto piacere ai fedelissimi del segretario, è scomparso quello di Giorgetti, non si sa se provvisoriamente o per sempre.

E quindi eccolo, il puzzle che lentamente prende forma, la bozza di progetto di quello che presto potrebbe diventare il governo Meloni I, con l’ipotesi, che si sta facendo strada, di due vicepremier, uno leghista, l’altro azzurro. Nei rapporti con FI si tiene conto del fatto che Silvio Berlusconi non ha ancora digerito «l’affronto» — il diretto interessato lo chiama proprio così — del governo Draghi, quando la selezione della delegazione azzurra era passata sopra la sua testa senza che potesse mettervi mano. E si è posto rimedio. Nelle prime indicazioni arrivate da Arcore, ci sono i nomi di Antonio Tajani, Anna Maria Bernini, Andrea Mandelli, in campo per un dicastero «pesantissimo» e altri due di primissimo piano. L’ex presidente del Parlamento Ue è in corsa per diventare il prossimo ministro della Difesa, la capogruppo al Senato uscente è in pole position per il ministero dell’Istruzione mentre a Mandelli, ex vicepresidente della Camera rimasto fuori dal Parlamento, potrebbe toccare il cambio della guardia con Roberto Speranza al ministero della Salute.

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I due grandi malati, Pd e Lega: i Dem crollati rispetto al 2008, il Carroccio perde 3,2 milioni di voti dal 2018

mercoledì, Settembre 28th, 2022

Nicolò Guelfi

Due avversari storici e due visioni del mondo diverse, un unico percorso che porta al declino. Lega e Partito Democratico negli ultimi anni sono stati i due principali punti di riferimento dell’elettorato di destra e di sinistra in Italia e, nonostante le differenze specifiche, le ultime elezioni ne hanno sancito il fallimento progettuale e politico.

Due avversari storici e due visioni del mondo diverse, un unico percorso che porta al declino. Lega e Partito Democratico negli ultimi anni sono stati i due principali punti di riferimento dell’elettorato di destra e di sinistra in Italia e, nonostante le differenze specifiche, le ultime elezioni ne hanno sancito il fallimento progettuale e politico.

Un po’ di storia
La Lega, (nata come Lega Lombarda e poi Lega Nord) ha una lunga storia. Affonda le sue radici già nella Prima Repubblica e per tutta la sua prima fase è stata legata a doppio filo a Umberto Bossi, che fonda il movimento alla fine degli anni ‘80. Antisistema, prima autonomista e poi federalista, la Lega tenta il primo assalto alla politica nazionale come Lega Lombarda nell’87, fermandosi però allo 0,48% ma ottenendo i suoi primi due seggi al Parlamento: Umberto Bossi fu eletto al Senato (diventando da allora il Senatùr) mentre alla Camera subentrò Giuseppe Leoni. Le battaglie di Bossi sono incentrate sull’identità Padana, sull’autonomia regionale e sulla lotta contro il governo centrale di Roma (definita da lui «ladrona»).

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Nel 1992, sull’onda dello scandalo di Tangentopoli, La Lega (divenuta Nord) supera l’8% sia alla Camera che al Senato, ottenendo 80 parlamentari complessivi, dopodiché nel ‘94 si allea alla neonata Forza Italia di Silvio Berlusconi, ma i rapporti sono tutt’altro che rosei. Sei mesi dopo la scissione operata dal leader del Carroccio porta alla caduta del governo. La Lega, nel corso del ventennio berlusconiano, resta un partito di minoranza particolarmente radicato nelle regioni del nord-est (Veneto, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia).

Il cambio di passo avviene molto dopo: nel dicembre 2013 Matteo Salvini (iscritto al partito dal 1990 quando aveva 17 anni) viene eletto segretario federale del partito, subentrando a Bossi, ormai anziano, malato e travolto da vari scandali.

Salvini recupera alcuni temi cari al partito, ma opera una transizione importante: trasforma il partito da locale e federalista a nazionale e personale, cambiando il nome in “Lega per Salvini Premier”. L’operazione è un successo, la Lega passa dal 4% alle elezioni del 2013 al risultato più alto della sua storia: 17% nel 2018, divenendo il terzo partito più votato in Italia, dietro Pd e Movimento 5 Stelle e il più votato della coalizione di centrodestra, spodestando di fatto la leadership di Berlusconi.

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Salvini accentra su di sé l’attenzione e le cariche, diventa ministro dell’Interno del governo Conte I e la sua parabola raggiunge il picco. Un anno dopo, nell’estate del 2019, esce dal governo invocando i «pieni poteri» con l’intento di andare a nuove elezioni. Tentativo che non riesce: i 5 Stelle si alleano con il Pd e nasce il governo Conte II, con una maggioranza parlamentare ancora superiore ma con molte polemiche.

Alle elezioni di domenica 25 settembre (le meno partecipate della storia della Repubblica) il Carroccio ha ricevuto un’amara sorpresa: si ferma all’8,9%, quasi dimezzando il numero degli elettori della precedente tornata (un’emorragia da 3,2 milioni di voti), superato a destra da Fratelli d’Italia, forse più radicale ma sicuramente più coerente.

Se le ragioni dell’ascesa del partito sono ascrivibili al suo segretario, anche il declino non trova altri imputati. Matteo Salvini aveva maturato un ampio consenso all’opposizione durante la XVII legislatura e durante la sua esperienza da ministro, ma dopo lo “strappo del Papeete” non è più riuscito a ripetere il miracolo.

Il partito è stato investiti da numerosi scandali, uno dei quali ha colpito anche Luca Morisi, capo della comunicazione social del politico (tanto potente da essere soprannominata “la Bestia”), indagato per possesso di stupefacenti. Il partito è stato riconosciuto colpevole della sottrazione illecita di ben 49 milioni di euro di soldi pubblici e lo stesso Salvini è stato indagato per sequestro di persona a causa delle leggi contro l’immigrazione da lui applicate.

Anche la gestione delle recenti crisi non ha convinto l’elettorato: la pandemia, la guerra in Ucraina e la crisi energetica sono tutti temi in cui Salvini è inciampato più volte, cambiando spesso posizione. In più, la storica alleanza stipulata tra la Lega e Vladimir Putin non ha certo aiutato, come si è visto durante la visita del segretario in Polonia.

Ucraina, a Salvini regalata maglietta di Putin dal sindaco polacco di Przemysl che si rifiuta di incontrarlo

Nella conferenza stampa post elettorale, Salvini ha attribuito il crollo dei voti al fatto di aver fatto parte del governo Draghi, ma questo non basta: è stato annunciato il nuovo congresso federale della Lega dopo 5 anni, e la riconferma alla segreteria non è affatto scontata.

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Le eurocrazie che ora temono la nuova Italia

mercoledì, Settembre 28th, 2022

Lucio Caracciolo

Il problema dell’Italia è che vale molto più di quanto conti. In tempo di guerra questo sbilancio fa tutta la differenza. Perché è l’ora della verità. Le narrazioni lasciano il fumo che trovano. Contano i rapporti di forza basati sui duri fatti, sulla capacità di interpretarli e di comunicarli strategicamente. Misto di hard e soft power, con le brevi pause e le accelerazioni brusche delle montagne russe. Sul mercato delle relazioni fra Stati, lo iato fra soggetti e oggetti, fra potenze e impotenze, continuerà ad allargarsi fino alla prossima pace, che non pare così prossima. Il nostro paese, che per quasi otto decenni ha goduto dei formidabili vantaggi della sovranità limitata nel contesto euroatlantico, è molto meno attrezzato di altri ad affrontare l’emergenza.

Oggi sia il protettore di ultima istanza (America) sia i soci del sistema europeo – allestimento da bel tempo che si sfarina quando comincia a piovere forte – hanno priorità diverse dall’Italia. Si occupano della stretta tutela dei propri immediati interessi, meno del sistema internazionale di riferimento. Ognuno protegge sé stesso, usa per quanto può risorse altrui a fini propri. Non per ostile disposizione d’animo. Pura necessità. Oggi il Belpaese è preda troppo attraente per non suscitare appetiti in amici e nemici che scrutano le “eccellenze” – tradotto: gli oggetti di valore che ornano il nostro open space – e studiano come appropriarsene. O impedire che lo facciano i rivali. Se compariamo l’invidiabile patrimonio materiale e immateriale di noi italiani con le istituzioni che dovrebbero amministrarlo otteniamo la misura del rischio che stiamo correndo. La drammatica carenza di Stato è sopportabile e perfino virabile in vantaggi particolari nelle fasi di bonaccia, insopportabile e pericolosa durante la tempesta. Si può restare incuranti del debito fuori controllo, dunque della dipendenza dai mercati finanziari – strutture geopolitiche, non banalmente economiche – e dell’impossibilità di difenderci in caso di aggressione per mancanza di mezzi e di volontà? Parrebbe di sì. L’uragano ci coglie in assorta contemplazione del nostro ombelico. Esercizio dominante nella campagna elettorale, che da noi comincia dopo le elezioni e non finisce col voto. Quando i nostri rappresentanti alzano lo sguardo oltre confine è per spendere le sentenze di autorevoli media europei o americani – non informatissimi sull’Italia – sul mercato politico nostrano. Spesso producendo acrobatici autogol.

Il tema del momento è se il governo di centrodestra ci rende più deboli in ambito comunitario e atlantico. Temiamo di sì mentre speriamo di no (qualcuno spera di sì, forse perché domiciliato altrove). Dopo 67 governi repubblicani dovremmo aver colto che il nostro destino è largamente indipendente da chi siede a Palazzo Chigi e dall’esecutivo che presiede. E che il glorioso vincolo esterno, non concesso fosse un’idea geniale, nel mondo del ciascun per sé nessun per tutti è contraddizione in termini. La funzione essenziale del governo di uno Stato che non funziona in un sistema geoeconomico e geopolitico in fibrillazione è di vendere al meglio l’immagine del paese presso le opinioni pubbliche e i decisori esteri che contano. Per proteggere il residuo capitale di fiducia di cui possiamo ancora godere, se possibile allargandone i margini, con l’interessata complicità delle superiori potenze o di quel che ne resta. Contiamo sull’interesse altrui a partecipare alla seduta d’illusionismo. Fin quando esiste.

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Le province rosse che hanno punito la nomenklatura

mercoledì, Settembre 28th, 2022

Concita De Gregorio

Il figlio del portuale, il nipote del fattore hanno votato “Giorgia”, la chiamano per nome. Il padre, il nonno si sono spaccati la schiena tutta la vita, entrambi in cooperative di lavoratori, in mare e nei campi. Il primo a Livorno, dove il Pci è nato. Il secondo fra Modena e Reggio nell’Emilia, in un borgo dove il 25 aprile è per tradizione una festa più grande e più bella di quella del Patrono. Famiglie comuniste senza bisogno di chiedere perché: è chiaro, perché. È nelle cose, nelle mani, è così. Il nipote del fattore ha 26 anni e si è laureato, è andato a vivere in città, in campagna non ci vuole tornare. Lavoretti saltuari, una stanza in una casa condivisa. «Non ci voglio litigare, con mio nonno, perciò non mi metta in difficoltà. Io lo capisco, lo rispetto. Però non sono sicuro che lui capisca me, d’altra parte non lo pretendo. Ho votato Pd da quando voto.

Ma sempre meno volentieri, l’ultima volta per esempio alle regionali non ci sono andato. Ho pensato: protesto così. Ma non basta. Non andare a votare non basta. Non capiscono. Allora ora vediamo se capiscono. Magari adesso capiscono». La dorsale appenninica, la famosa linea Maginot da cui la destra non passa, non può passare, ha ceduto. Toscana e Emilia sono diventate la Caporetto del Pd in una sconfitta dalle proporzioni inemendabili, umilianti, e c’è anche questo da dire: è stata una punizione.

Non solo, non sempre ma anche: il voltafaccia delle provincie rosse ha il sapore di un castigo, come quando i genitori dicono ai figli questa volta ti tolgo la playstation, la seconda stai senza telefono, la terza ti mando in collegio. Ecco, questo: te ne vai da casa, e vediamo.

Se ne sono andati da casa, i figli e i nipoti dei Padri Fondatori. Livorno, la città del comunismo anarchico, fatto di menefreghismo e solidarietà, di fratellanza e di vento. Pisa, nelle cui università si è formata la classe dirigente del Pci del Novecento, Mussi e D’Alema che giocavano a biliardino, la scuola di Storia Moderna di Furio Diaz. Grosseto, la Maremma. Prato, l’industria. Massa, Arezzo Lucca. Centomila voti persi a Rimini e Piacenza. Una disfatta a Modena, Ravenna, Rimini, Forlì. Non è più nemmeno una questione di mappe e di numeri, è un crollo simbolico che non si spiega fino in fondo se non si attinge al lessico familiare, appunto: lì dove il Partito era famiglia. Delusione amarissima e rimprovero estremo, offesa della fiducia incondizionata, incredulità, esasperazione, reazione. Non capivano, ora vediamo se capiscono.

Ma cosa. Cosa non hanno capito? Beh, che non sarebbe stato per sempre. Che il consenso si coltiva e si guadagna, non è una dote: non è vero, non è più vero che i “tuoi” elettori sono disposti a votare anche una mucca, se metti in lista una mucca. Con tutto il rispetto per animali e umani: è per non fare esempi che potrebbero offendere qualcuno e risparmiare ingiustamente qualcun altro. Che togliere dalle liste le persone popolari e amate dai concittadini per mandare da fuori un “candidato blindato” che deve essere eletto – per ragioni di potere, di corrente: anche basta, davvero, come dicono i ragazzi. Anche no. Perché così tutte le Giuditta Pini (ecco, ho fatto un esempio) sacrificate in base a un incomprensibile manuale Cencelli restituiscono l’idea che lavorare sul campo non serve, la passione non serve, i risultati sono inutili. L’unica cosa che conta è assicurare un posto a gente che “deve” essere eletta. E deve perché? In nome di cosa? Rinnegare l’identità in favore del compromesso, pur di restare al potere e salvare qualche seggio, ti può riservare la sorpresa amara di farti perdere l’uno e l’altro: l’identità, il potere. La scelta difatti questa volta non era fra perdere bene o vincere male. Era come perdere. Se farlo riconquistando la tua natura, le ragioni dell’appartenenza a una comunità, o perdendone ancora con opache manovre a beneficio di uno zero virgola in più, che poi non è venuto.

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Meloni non cede su Salvini: “Non lo voglio, è vicino a Putin”

mercoledì, Settembre 28th, 2022

Ilario Lombardo, Francesco Olivo

Un governo di pacificazione. È questo il piano di Giorgia Meloni. Chiudere i conti con l’opposizione, con i sospetti dei partner internazionali, ma anche con gli alleati. Cercare una via di mediazione per iniziare una nuova stagione di dialogo, che liberi i rapporti dalle scorie del passato e serva a «costruire una nuova Italia». Le prime mosse della premier in pectore vanno in questa direzione: dall’idea di concedere all’opposizione la presidenza di uno dei due rami del Parlamento, alle rassicurazioni da inviare all’estero sulla collocazione geopolitica del Paese. Il nodo, lo è da mesi d’altronde, resta il ruolo da assegnare a Matteo Salvini, un macigno che è pesato sin dai primi giorni della campagna elettorale nella quale il leader leghista ha imposto la sua candidatura al Viminale. Ma i falchi filoatlantici di Fratelli d’Italia stanno facendo una pressione opposta, chiedendo a Meloni di lasciare fuori dall’esecutivo l’ex ministro dell’Interno. La presenza di Salvini, secondo questa tesi, sarebbe troppo ingombrante a causa dei suoi rapporti con la Russia e con il partito di Putin, che non si sono interrotti nemmeno dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. «Come ci si può presentare a Washington con un ministro di peso che voleva farsi comprare dall’ambasciata russa i voli per Mosca?» si chiede uno dei dirigenti che ha mandato un messaggio chiaro a Meloni: «Deve restare fuori». La leader di FdI conosce i rischi di imbarcare il suo alleato nell’esecutivo, ma difficilmente troverà argomenti per lasciare fuori il leader di un partito con cento parlamentari. Le voci ostili sono arrivate anche a Milano e non è un caso che il Consiglio federale della Lega, riunito in via Bellerio, che pure ha messo in discussione l’operato di Salvini, ne abbia blindato aspirazioni: «Per il segretario serve un ministero di primo piano». L’obiettivo resta il Viminale, ma in ogni caso «Matteo deve stare al governo», ripete il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari.

Ieri sono partite le trattative, Antonio Tajani arriva in via della Scrofa nel primo pomeriggio, la sede di Fratelli d’Italia ospita il primo incontro tra alleati dopo la vittoria, non è un vertice, la Lega è impegnata nelle stesse ore con un consiglio federale delicatissimo. Non c’è tempo per i convenevoli, si va subito al sodo, il governo si sta formando, l’ex presidente del parlamento europeo ha una serie di richieste da mettere sul tavolo. La prima è quella di avere pari dignità rispetto alla Lega, ovvero lo stesso numero di ministeri. La seconda coglie più di sorpresa Meloni: l’ipotesi di nominare due vicepremier che la possano affiancare. Uno, sempre nello schema che si è configurato ieri, sarebbe Salvini e l’altro lo stesso Tajani. Tenere i leader della maggioranza a Palazzo Chigi avrebbe dei vantaggi, ovvero saldare il destino del governo a quello dei partiti, ma anche moltissimi rischi, come già visto nell’esperienza del governo gialloverde. La prima partita, in ordine cronologico, da risolvere è quella della presidenza delle Camere. Meloni è intenzionata a concederne una all’opposizione, con l’obiettivo di mandare un messaggio di pacificazione dopo una campagna elettorale molto dura. L’idea è stata apprezzata dal Pd, ma non è piaciuta a Lega e Forza Italia, intenzionate a occupare le poltrone della seconda e terza carica dello Stato. In pista per Palazzo Madama ci sarebbe il leghista Roberto Calderoli, attuale vicepresidente, e per Montecitorio un forzista che potrebbe essere lo stesso Tajani.

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FdI sfonda tra operai, insegnanti e commercianti. M5S primo tra i giovani e il Pd regge tra i laureati

mercoledì, Settembre 28th, 2022

di Claudio Bozza

L’identikit degli elettori: il partito di Meloni supera i dem tra i più ricchi ma vince anche tra i meno abbienti. Pagnoncelli: «Il reddito di cittadinanza traino chiave al Sud e tra i 18-34 anni»

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«Queste elezioni, ancora più delle precedenti, hanno evidenziato come siano venuti meno i tradizionali gruppi di riferimento di ciascun partito». Nando Pagnoncelli, numero uno di Ipsos, ha sotto gli occhi una dettagliata fotografia con l’identikit degli elettori di ciascuna forza politica. E il primo dato sottolineato dal sondaggista è come Fratelli d’Italia, conquistando quasi 6 milioni di consensi in più rispetto al 2018, «sia diventato il partito più votato dagli operai (34,6%). A ruota, tra le tute blu, ci sono poi il M5S (16,4%) e la Lega (13,4%), mentre solo al quarto posto c’è il Pd, che sarebbe l’erede storico della sinistra».

Tra i disoccupati la forza più votata è il Movimento, che pur avendo perso quasi 6,5 milioni di voti rispetto alle precedenti Politiche ha conquistato un buon 15,6% grazie alla martellante campagna del leader Giuseppe Conte, che negli ultimi 15 giorni ha fatto 25 tappe al Sud, concentrandosi sul sostegno con reddito di cittadinanza e salario minimo.

Analizzando il crollo della Lega (circa 3,2 milioni persi) , il dato più interessante che emerge è il drastico ridimensionamento dei voti raccolti tra commercianti e artigiani (solo il 4,7%), finora zoccolo duro del Carroccio. Un capitale enorme, quest’ultimo, passato quasi in blocco a Meloni, che incassa appunto il favore più alto tra i commercianti: 30,2%.

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L’identikit degli elettori: tutti i dati

FdI è il partito più votato da chi ha redditi medi e bassi, ma anche dal ceto più ricco (23,4%): «Fino a poche settimane fa questo primato era del Pd — osserva Pagnoncelli —, poi c’è stato l’effetto novità di Meloni a fare da traino. Si tratta dell’effetto più rilevante degli ultimi anni, da Renzi a Salvini passando per Di Maio, che ha innescato grandi exploit e crolli abbastanza rapidi. Meloni, in questa rilevazione, è avanti in tutti i segmenti sociali», anche in quello degli imprenditori e manager. Sul fronte socioculturale sorprende poi un’altra novità: FdI è la forza più votata da impiegati e insegnanti, da sempre roccaforte dem (quota scesa al 21%).

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