Archive for Settembre, 2022

Meloni, un governo che sia inattaccabile e lo scambio con Zelensky: «Contate su di noi»

mercoledì, Settembre 28th, 2022

di Paola Di Caro

Spinta per un esecutivo che faccia «bella figura in Italia e fuori». L’incontro con Tajani e il messaggio Twitter al presidente ucraino

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In pubblico Giorgia Meloni sceglie di mantenere il silenzio. Si lavora e si tace, il suo mantra imposto anche ai fedelissimi. Unica eccezione alla regola, la risposta agli endorsement ricevuti negli ultimi giorni. Ultimo, quello caloroso del presidente ucraino Zelensky, che si congratula per la vittoria, ringrazia per il «sostegno» e dice di contare su una «proficua collaborazione». La replica su Twitter è un’assicurazione: «Sai che puoi contare sul nostro leale sostegno alla causa della libertà del popolo ucraino». Ma Meloni ringrazia anche chi le ha mandato caldi messaggi di buon lavoro, come il premier polacco Morawiecki, quello ceco Petr Fiala e la britannica Liz Truss: «Pronti a collaborare».

Niente scontri inutili e conti in ordine

Grande attenzione ai rapporti internazionali insomma, e anche per questo nei tanti colloqui di ieri Meloni è stata chiara: «Voglio un governo con personalità anche politiche di alto profilo, inattaccabile, che mi faccia fare bella figura in Italia e all’estero. Che non mi crei problemi e non provochi censure e inutili scontri polemici di cui non abbiamo alcun bisogno». Anche perché la situazione è talmente difficile che non ci si può permettere «passi falsi», e tantomeno provvedimenti fuori linea rispetto allo stato dei conti pubblici. I soldi a disposizione «sono pochi» e presentarsi come primo atto del governo con una manovra che richieda uno scostamento di bilancio, se non come «extrema ratio», sarebbe «visto male all’estero». Parole pronunciate più volte nella prima giornata dopo il voto passata prima alla Camera poi alla sede del partito. Qui, da sola, ha fatto e ricevuto molte telefonate. Di chi magari chiedeva lumi o offriva disponibilità, mentre lei ha continuato a sondare possibili candidati e a tenere i rapporti informali con Palazzo Chigi in vista del passaggio di consegne.

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Ucraina Russia, news sulla guerra di oggi |Nord Stream, il ministro dell’economia tedesco: gasdotti sotto attacco

martedì, Settembre 27th, 2022

di Francesco Battistini e Redazione Online

Le notizie di martedì 27 settembre, in diretta. Sotto indagine il forte calo di pressione segnalato ieri sulle due linee: un incidente è ritenuto «altamente improbabile»

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• La guerra in Ucraina è arrivata al 216esimo giorno. Migliaia di uomini in età da combattimento continuano a fuggire dal Paese per sfuggire al reclutamento
Le repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk hanno definito «validi» i referendum in corso anche nelle regioni di Kherson e Zaporizhzhia per l’annessione alla Russia. I risultati non sono ancora noti. Gli Usa: «Il mondo non riconoscerà mai l’esito dei referendum».
Cos’è la mobilitazione parziale ordinata da Putin in Russia e perché è una dichiarazione di guerra.
• Vladimir Putin concede la cittadinanza russa a Edward Snowden.
• Viktor Orbán vuole un referendum sulle sanzioni contro Mosca.

Ore 08:00 – Intelligence britannica: l’annuncio dell’annessione sarà probabilmente venerdì

Il presidente russo Vladimir Putin si rivolgerà a entrambe le Camere del parlamento russo venerdì 30 settembre e potrebbe utilizzare il suo discorso per annunciare formalmente l’annessione dei territori occupati dell’Ucraina alla Russia: lo riferisce il ministero della Difesa britannico, riportando informazioni della sua intelligence militare, nel suo bollettino quotidiano sul conflitto. «Esiste una possibilità realistica che Putin utilizzi il suo discorso per annunciare formalmente l’adesione delle regioni occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa. I referendum attualmente in corso all’interno di questi territori dovrebbero concludersi il 27 settembre».

Ore 06:36 – Forze armate Kiev, tensione in centrale Zaporizhzhya

«La situazione nella centrale nucleare di Zaporizhzhya è tesa. I dipendenti non vogliono collaborare con i russi e cercano di lasciare i territori temporaneamente occupati dalle forze armate di Mosca. La parte occupata della regione di Kherson è completamente chiusa in ingresso e in uscita». Lo scrive su Facebook lo Stato Maggiore Generale delle Forze Armate dell’Ucraina nel consueto messaggio delle 6 sulla situazione militare.

Ore 06:31 – Esercito Kiev distrugge chiatta militare russa a Kherson

L’esercito ucraino ha distrutto una chiatta militare russa e 3 sistemi missilistici Pantsir. Le forze armate ucraine hanno distrutto una chiatta vicino a Kherson mentre le truppe russe tentavano di stabilire un ponte tra le rive del fiume Dnipro. Lo ha riferito il comando operativo meridionale dell’Ucraina come riportato dal Kiev Indipendent.

Ore 06:06 – Nord Stream, perdita gas: per il ministro dell’economia tedesco «i gasdotti sono stati attaccati»

Il «forte calo di pressione» annunciato ieri dall’operatore di Nord Stream, una «emergenza immediatamente segnalata alle autorità di Germania, Danimarca, Svezia, Finlandia e Russia, mentre è in corso un’indagine», sarebbe stato causato da un attacco ai gasdotti 1 e 2. A sostenerlo è il ministro dell’economia tedesco, secondo il quale «un incidente è altamente improbabile»: per Berlino entrambe le linee «sono state attaccate».

Il Nord Stream è un gasdotto che, attraverso il Mar Baltico, trasporta direttamente il gas proveniente dalla Russia in Europa occidentale, passando per la Germania.

Ore 05:13 – Missili su Zaporizhzhia, danni alle infrastrutture

Il nemico ha attaccato Zaporizhzhia. I razzi erano mirati alle infrastrutture, che sono state colpite. Informazioni su eventuali vittime e sui danni sono in corso di chiarimento». Lo scrive su Telegram il capo dell’amministrazione militare regionale di Zaporizhzhia, Oleksandr Starukh. L’allarme per attacco aereo è scattato verso le 5 ora locale (le 4 in Italia) e subito dopo — come riportato sui social — in città si sono sentite numerose esplosioni.

Ore 05:13 – Cremlino: nessuna decisione su chiusura confini russi

Il Cremlino ha affermato ieri che non è stata presa alcuna decisione sulla chiusura dei confini russi mentre migliaia di persone fanno la fila per lasciare il Paese dall’annuncio della mobilitazione parziale. Le decisione sulla eventuale chiusura dei confini della Russia deve ancora essere presa, ha detto il Cremlino. La mobilitazione parziale del presidente russo Vladimir Putin ha visto centinaia di tentativi di fuga dalla Russia, e sta spingendo verso un divieto per gli uomini in età militare di attraversare il confine.

Ore 05:39 – Cremlino: nessuna decisione su chiusura confini russi

Un uomo ha aperto il fuoco ieri in un centro di reclutamento dell’esercito russo, ferendo gravemente un ufficiale che lavorava lì, mentre il Cremlino ha ammesso «errori» nel mobilitare centinaia di migliaia di riservisti per combattere in Ucraina. Dall’annuncio di una mobilitazione parziale la scorsa settimana, sono stati denunciati molti casi di persone anziane, malati o studenti richiamati, mentre le autorità avevano assicurato che erano esenti. La sparatoria è avvenuta in una stazione di polizia militare a Oust-Ilimsk, una remota cittadina nella regione siberiana di Irkutsk. Il governo russo è accusato di cercare di mobilitarsi in via prioritaria nelle aree povere e isolate. Il comitato investigativo russo ha affermato che il sospetto, un residente di 25 anni, è stato arrestato. La vittima è ricoverata in gravissime condizioni. «I medici stanno combattendo per la sua vita», ha affermato il governatore della regione di Irkutsk Igor Kobzev..

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Meloni a un bivio, il primo banco di prova sarà il ministro dell’Economia

martedì, Settembre 27th, 2022

di Aldo Cazzullo

Da quale strada sceglierà Giorgia Meloni dipendono la nostra (precaria) salute economica e il nostro futuro nell’Europa turbata dalla guerra che infuria sulle sue frontiere orientali

Sono quasi trent’anni che l’Europa si indigna, e sono quasi trent’anni che la destra più o meno populista è in maggioranza nelle urne (con l’effimera eccezione dei 24 mila voti in più di Prodi nel 2006), e quando è unita vince. Segno che l’indignazione non serve. Un po’ di preoccupazione, tuttavia, è legittima. Ora Giorgia Meloni è davanti a un bivio. Tra l’istinto e la ragione. Tra sovranisti ed europeisti. Tra protezionisti e liberali.

Da una parte, la strada che conduce alle sue alleanze tradizionali: Viktor Orban a Budapest, Jarosław Kaczyński a Varsavia, Marine Le Pen a Parigi, Santiago Abascal a Madrid. Dall’altra, la strada che conduce a chi governa davvero l’Europa: Ursula von der Leyen a Bruxelles, Christine Lagarde a Francoforte, Olaf Scholz a Berlino, Emmanuel Macron a Parigi (a Madrid governa invece il socialista Pedro Sanchez; che se dovesse perdere le elezioni l’anno prossimo cederebbe il posto non ad Abascal, ma al leader del partito popolare Alberto Núñez Feijóo).

Da quale strada sceglierà Giorgia Meloni dipendono la nostra (precaria) salute economica e il nostro futuro nell’Europa turbata dalla guerra che infuria sulle sue frontiere orientali. I sovranisti non sono un monolito. Il governo ungherese è il miglior amico di Putin; quello polacco è il miglior amico di Zelensky. Orban straparla di difesa della “razza bianca”; Abascal teorizza l’iberosfera, invita i venezuelani a venire in Spagna, candida i cubani anticastristi. Quanto a Marine Le Pen, tecnicamente in Europa fa parte del gruppo di Salvini e non di quello della Meloni. Tuttavia, non prendiamoci in giro: le radici e il cuore della prima donna presidente del Consiglio sono da quella parte.

Poi però c’è la realtà. C’è un Paese che veleggia verso i tremila miliardi di euro di debito pubblico, e non è fallito perché quel debito è di fatto garantito dai tedeschi, è posseduto per almeno il 10% dai francesi, è finanziato dalla Banca centrale europea, è alleggerito dal debito comune varato dalla Commissione di Bruxelles. Questo ovviamente non può e non deve piacerci. Però è l’amaro destino di chi ha tutti i record negativi d’Europa, di chi fa meno figli e ha meno abitanti al lavoro, di chi ha più evasori e più giovani che il lavoro non lo cercano, di chi non riesce a spendere soldi pubblici in cantieri, progetti, infrastrutture ma solo in sussidi. Un Paese così va profondamente cambiato.

Tutti ci auguriamo che la Meloni riesca dove centrodestra, centrosinistra, grillini hanno fallito. Tuttavia, c’è una sola cosa che un Paese così deve assolutamente evitare: rompere con l’Europa. Su molti temi, ma innanzitutto sull’Ucraina, sulla politica energetica, sulla tenuta dei conti pubblici. In campagna elettorale, a parte le sbandate degli ultimi giorni per Orban e Abascal, la Meloni ha dato assicurazioni su questi tre punti. Vedremo se ora sarà coerente. La scelta del ministro dell’Economia, da concordare con Sergio Mattarella, sarà il primo banco di prova.

È vero che Fratelli d’Italia ha raccolto un voto di protesta, antisistema. Ma ha anche raccolto il voto dei moderati che – come disse al Corriere Fedele Confalonieri alla vigilia della caduta di Draghi – hanno visto nella Meloni la leader in grado di riportare dopo undici anni il centrodestra a Palazzo Chigi . Dall’altra parte, anche l’Europa commetterebbe un grave errore a trattare l’Italia dall’alto in basso. Il passato dimostra che le interferenze non aiutano, semmai rafforzano lo spirito antieuropeo. L’ammonimento della von der Leyen alla vigilia del voto – “abbiamo gli strumenti…” -, e il rimbrotto della prima ministra francese Elizabeth Borne all’indomani – “vigileremo…” -, come se l’Italia fosse un Paese da tenere sotto tutela, rischiano di essere controproducenti. Anche Scholz e Macron hanno i sovranisti in casa. Spingere la Meloni in quella direzione non conviene neppure a loro. Al contrario, Berlino e Parigi hanno tutto l’interesse a costruire con il nuovo governo italiano un rapporto rispettoso e produttivo. Un segnale in questa direzione ieri Macron l’ha dato, ribadendo che, com’è ovvio, la Francia rispetta l’esito del voto italiano.

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Meloni già al lavoro sulla legge di Bilancio. E vuole accelerare sulla squadra di governo

martedì, Settembre 27th, 2022

Adalberto Signore

È un day after piuttosto inusuale quello di Giorgia Meloni. Che non solo si guarda bene dal festeggiare, ma sceglie addirittura di eclissarsi. C’è la stanchezza, certo, perché alla fine, spiega Ignazio La Russa, «è stata sveglia fino alle sette» di ieri mattina. Ma pure la volontà di calibrare ogni passo, nella consapevolezza che gli occhi dell’Europa e dei mercati sono tutti puntati su di lei. Così, quella che ogni probabilità sarà la prima premier donna della storia italiana, decide di passare l’intera giornata a casa. Si concede solo una breve fuga sulla sua Mini per andare a prendere la figlia Ginevra. Ma il cappuccio della felpa tirato su e gli occhiali scuri sono la testimonianza tangibile di quanto voglia restare lontano dai riflettori. D’altra parte, parlare nel giorno in cui tutti i leader fanno il bilancio di vittorie e sconfitte, non avrebbe granché senso. Anzi, l’unico rischio sarebbe quello di dover rispondere alle inevitabili domande sul crollo di Matteo Salvini. Così, finisce che all’hotel Parco dei Principi sono Francesco Lollobrigida, Luca Ciriani e Giovanni Donzelli a presentarsi in conferenza stampa.

Meloni, invece, resta nella sua casa a Roma sud, non lontana dall’Eur. Dove a più riprese arrivano piante e composizioni floreali, evidentemente il pensiero di chi festeggia con lei la vittoria elettorale. Per il resto non si vede nessuno, se non qualche residente incuriosito. Nessuna riunione politica, insomma. Almeno di persona. Perché poi è evidente che la leader di Fratelli d’Italia ha iniziato già da ieri a lavorare sulle prossime mosse. Non tanto la squadra di governo, per la quale i rumors restano gli stessi degli ultimi giorni, visto che ancora ieri sera tardi i partiti erano tutti alle prese con il conteggio dei resti e l’ormai celebre effetto flipper, a cercare di capire eletti e non. Quanto la tempistica di insediamento del nuovo governo, su cui Meloni vuole dare un segnale. D’altra parte, incombe la legge di bilancio, da presentare alle Camere al più presto per scongiurare l’esercizio provvisorio. Un dossier sui cui la leader di Fdi sta già lavorando, con l’obiettivo di mantenere una continuità con il governo guidato da Mario Draghi. «Giorgia è già con la testa sull’aggiornamento della Nadef e sulla legge di Bilancio», spiega il capogruppo al Senato Ciriani. Bisognerà «lavorare a quattro mani con il ministro dell’Economia Daniele Franco», aggiunge Guido Crosetto. Mentre il capogruppo alla Camera Lollobrigida ribadisce che lo scostamento di bilancio «è l’ultima istanza». Insomma, una linea sostanzialmente draghiana. Non a caso, pare che ieri i due – Draghi e Meloni – si siano sentiti. E chissà che la premier in pectore non abbia chiesto all’ex banchiere di aiutarla a convincere Fabio Panetta a prendere il posto di Franco al Mef. La sua presenza, è evidente, garantirebbe l’Italia rispetto a Bruxelles e ai mercati. Anche se su questo scenario pesa il rischio che, lasciando il board della Bce, il posto di Panetta non venga poi assegnato ad un altro italiano. Quel che è certo, comunque, è che la nomina del prossimo ministro dell’Economia andrà condivisa con il Quirinale e sarà ad appannaggio di un tecnico. Gli altri dicasteri sotto osservazione sono ovviamente Esteri e Interno. E sul secondo ci sarà da capire quali saranno i desiderata della Lega.

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La Cina nel mirino degli Usa: il THAAD “punta” Pechino

martedì, Settembre 27th, 2022

Federico Giuliani

Guam rappresenta il cuore della strategia Usa per il controllo dell’Indo-Pacifico. La piccola isola di 549 chilometri quadrati, grande all’incirca come l’isola d’Elba, la più meridionale delle Isole delle Marianne, è un territorio statunitense. Si trova in una posizione altamente strategica, nell’Oceano Pacifico occidentale, a tre giorni di navigazione da Manila, a sei dalle Hawaii, a nove da Seattle e ad una decina dalla base militare navale statunitense di San Diego, in California.

Un terzo del suo territorio è occupato da tre basi militari degli Stati Uniti. Troviamo la Naval Base Guam, che ospita quattro sottomarini nucleari e uno squadrone di elicotteri, la Andersen Air Force Base (Andersen AFB), con bombardieri strategici B-52, centri di comando e controllo, e poi il Joint Region Marianas, ovvero il quartier generale che controlla le due basi.

Dal 2013, a Guam è presente il THAAD, Terminal High Altitude Area Defence, un sistema di difesa missilistica fondamentale, agli occhi di Washington, per tenere sotto scacco tanto Pechino quanto Pyongyang.

A proposito di Cina e Corea del Nord, le recenti tensioni con i due attori asiatici stanno spingendo il Pentagono a riorganizzare le difese statunitensi di Guam. In particolare, secondo quanto riportato da Asia Times, gli Stati Uniti starebbero pensando di “disperdere” i loro lanciamissili terra-aria e radar su diverse isolette limitrofe alla stessa Guam, per limitare i danni nel caso in cui dovesse scoppiare una guerra tra Usa e Cina nella regione.

Non è difficile immaginarne la ragione: di fronte ad un eventuale conflitto con Pechino, le strutture strategiche aeree e navali di Guam si trasformerebbero in obiettivi principali del Dragone.

La base navale di Guam

Quest’isola, infatti, è la base americana sul territorio statunitense più vicina alla Cina continentale. La più grande città commerciale cinese, Shanghai, si trova a 2.897 chilometri da qui, mentre l’Andersen AFB, in caso di guerra, diventerebbe una location vitale per il lancio, il riarmo e la riparazione degli aerei d’attacco Usa. Dal momento che sul tavolo ci sono numerosi nodi spinosi – dalla questione taiwanese alle controversie territoriali nel Mar Cinese Meridionale –, gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di correre rischi inutili.

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Da Zaia ai “nordisti”, nella Lega tira aria di fronda

martedì, Settembre 27th, 2022

Alberto Giannoni

«Si salvi chi può». Nel day after della Lega è già iniziata la resa dei conti. In via Bellerio si aspettavano una sconfitta, ed è arrivata una batosta. Avevano messo in conto un risveglio agrodolce, è invece è stato un lunedì nero.

Matteo Salvini ieri mattina ha provato a rilanciare, tentando di giocare il suo «titolo» sulla «quota 100» – i deputati eletti – però nel partito si stanno aprendo già le prime crepe.

Il governatore veneto Luca Zaia parla di un risultato «assolutamente deludente», e chiede una «analisi della sconfitta», che – tradotto – significa una cosa precisa: così non va. Ora si cerca di capire che forma potrà prendere questo malcontento, mentre l’eminenza grigia Giancarlo Giorgetti – rieletto alla grande a Sondrio – aspetta o si defila.

Salvini ha compilato le liste a sua immagine e somiglianza, garantendosi gruppi parlamentari fedeli – fino a prova contraria – ma al contempo esponendosi al rischio di un montante malcontento di esclusi e non eletti. Qualche voce critica si è già levata ieri, le prime domenica notte. Gianmarco Senna, consigliere regionale milanese, non certo nemico di Salvini, ha pubblicato un vecchio simbolo della Lega Lombarda, e un ragionamento che conduceva a una questione identitaria: «Torniamo a chiederci chi siamo». Stentoreo invece l’attacco dell’ex segretario lombardo Paolo Grimoldi, che proprio durante la conferenza stampa del segretario è partito alla carica, parlando di un «disastro assoluto» che imporrebbe «dimissioni immediate». Il consigliere regionale ed ex senatore Roberto Mura ha scritto: «Lega Salvini Premier: un disastro annunciato», e l’ex presidente del Copasir Raffaele Volpi, appena uscito dalla Lega, ha pubblicato un quadro eloquente: «La caduta di Icaro».

Lo stato maggiore salviniano, a partire dal «Capitano», è sul banco degli imputati. Può aggrapparsi all’affermazione del centrodestra, che tornerà al governo garantendo qualche incarico, ma l’exploit della coalizione è una foglia di fico che serve solo a ritardare il momento del «redde rationem». Il 10% che si ventilava alla vigilia sarebbe stato un arretramento severo, ma gestibile; l’8,9% che è arrivato è un tracollo. E i risultati sono impietosi soprattutto al Nord. In Lombardia FdI doppia la Lega (27,6% a 13,9%) che a Milano va sotto il 7%. In Piemonte il confronto è anche peggiore: 26,9 a 10,9%. Non va molto meglio in Veneto: 32,6 per FdI, 14,6% per la Lega. Per non parlare del Friuli Venezia-Giulia, dove Giorgia Meloni conquista tre volte tanto i voti del Carroccio: 32,3 contro 10,9.

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Tutti gli uomini di Giorgia Meloni

martedì, Settembre 27th, 2022

Ilario Lombardo, giornalista de La Stampa, prova a delinare i profili che potrebbero comporre il prossimo governo guidato da Giorgia Meloni. Tra ipotesi, voci di corridoio e volti noti, ecco chi potrebbero essere i ministi della coalizione di centrodestra. 

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La stagione della nuova responsabilità

martedì, Settembre 27th, 2022

MASSIMO GIANNINI

«Oggi abbiamo scritto la Storia». Onusta di gloria, Giorgia Meloni scandisce il Tempo Nuovo che comincia con un’epica degna del Cinegiornale Luce. E sia chiaro: non c’è ironia, in questa constatazione. Quello che scrive sui social la prima donna che porterà la Destra post-fascista al governo del Paese è la pura verità. Come ha detto Charles Kupchan al nostro giornale, la sua vittoria è in ogni senso una “svolta epocale” per l’Italia, per l’Europa, per l’Occidente. Ma a differenza di quel che sostiene il grande politologo americano, il pendolo della Storia non “è tornato” nel campo dei populisti, in virtù della somma trasversale dei voti di Fratelli d’Italia, Lega e Cinque Stelle. In realtà il pendolo sempre lì è rimasto, essendo il trionfo meloniano la terza fase evolutiva di un ciclo populista e sovranista iniziato col berlusconismo e poi sfociato nel grillo-leghismo.

Oggi, come l’Angelo Nuovo di Paul Klee e Walter Benjamin, Meloni ha le ali spiegate al futuro, benché i vecchi cumuli di rovine non si rassegnino a liberarla dal passato. Ma è proprio di questo che adesso c’è bisogno. Se davvero vuole scriverne un pezzo importante, la Sorella d’Italia deve chiudere in fretta e senza rimuoverli i conti con la Storia, che come insegnava Croce è per definizione “sempre contemporanea”. E poi provare davvero, come dice, a curare le ferite antiche e moderne del Paese. A farlo, come promette, “per tutti gli italiani, per unire questo popolo”.

D’ora in avanti noi vogliamo prenderla in parola. Gli italiani l’hanno votata, conferendole l’onore e l’onere di guidare il prossimo governo, se il Presidente della Repubblica deciderà di conseguenza. La legittimità democratica di questa scelta è netta e indiscutibile con buona pace di qualche filosofo francese.

Quello che potremmo chiamare “Fattore F” come Fascismo resta ancora idealmente irrisolto dentro l’autobiografia della nazione, in attesa che chi discende da quella tragedia novecentesca lo sciolga con i fatti e gli atti. Tuttavia, politicamente, dobbiamo riconoscere che quella pregiudiziale è già caduta dentro l’urna, domenica scorsa.

E a prescindere dalla natura e dalla postura del prossimo esecutivo, sul quale continuiamo a mantenere le nostre riserve, siamo tutti convinti che sia un bene, come lei stessa sottolinea, che l’indicazione di “un governo di centrodestra a guida Fratelli d’Italia” esca finalmente proprio da quell’urna. Complice l’insipienza dei partiti e l’incongruenza delle leggi elettorali, e pur nel rispetto delle regole di un Repubblica parlamentare, sono undici anni che i governi non riflettono fino in fondo la volontà popolare. Ora non è più così, e questo oggettivamente può dare più forza al governo che verrà.

Ci sarebbe molto da dire sugli sconfitti di questa tornata elettorale, che ha spaccato in due la vicenda repubblicana. Dal cupio dissolvi della fu Lega Nazionale di Capitan Salvini, che ha bruciato 7 milioni di voti in due anni, all’harakiri definitivo del Pd di Letta, ormai poco più che un “partito fallito” vittima della “catastrofe mentale” di cui parla Massimo Cacciari. Ma conviene concentrare l’attenzione sui vincitori. Il merito di Meloni è quello di aver condotto una lunga traversata nel deserto, portando FdI dall’1,9 per cento delle elezioni del 2012 al 26 per cento di oggi. Di aver trasformato Fratelli d’Italia da piccola formazione di una destra radicale, resistenziale e assistenziale, a grande partito interclassista, per cui oggi vota il 25 per cento dei lavoratori autonomi, il 21 per cento degli impiegati, il 22 per cento degli operai, il 19 per cento dei disoccupati.

Di aver acceso la fiamma tricolore non più solo nelle sedi romane dell’extra-parlamentarismo missino, ma anche nelle aree urbane del Nord industriale, dove oggi conquista il doppio dei voti della Lega rubandoglieli persino nei suoi feudi del Lombardo-Veneto. Di aver capitalizzato al meglio una cospicua rendita di opposizione in quest’ultima disgraziata legislatura, chiamandosi fuori dall’orgia trasformistica che ha generato solo creature innaturali: prima l’accozzaglia gialloverde, poi l’ammucchiata giallorossa, e infine la pseudo unità nazionale, a sostegno dell’ennesimo governo tecnico.

In una fase caotica in cui non un solo leader politico può dire di non essersi rimangiato un’idea, una proposta o una promessa, Meloni è rimasta coerente con se stessa. Sposando le peggiori destre conservatrici e xenofobe d’Europa ma senza accodarsi ai “pupazzi prezzolati” di Putin. Vellicando i peggiori istinti del bestiario No-Vax ma senza esagerare con lo “sfascismo sanitario”. Contrastando l’Agenda Draghi ma cercandone la tutela da Lord Protettore presso la business community e le cancellerie internazionali. L’operazione è riuscita, per lo più a danno dei suoi alleati Salvini e Berlusconi, ai quali ha scippato qualcosa come 5 milioni di voti. E quindi è logico e giusto che la premier in pectore ringrazi gli italiani “che ci hanno creduto”, quelli “che non hanno mollato”.

Ma adesso questi toni non servono e non valgono più. Soprattutto nella misura in cui riflettono una vecchia attitudine da partitino che custodisce l’eredità di Almirante, tenendone ancora vivi i vizi e i vezzi. Non serve il vittimismo al contrario, su “una campagna elettorale non bella, violenta e aggressiva” e sui cittadini che “non hanno ceduto a menzogne e mistificazioni”, come se FdI non fosse anche il partito della destra dura e pura amica di Vox ma una congrega di fraticelli francescani. Non serve lo spirito di rivalsa postumo, su “questa notte che significa tante cose, orgoglio e riscatto, lacrime e ricordi”, come se adesso i ragazzi dei movimenti studenteschi missini che negli anni ‘70 e ’80 praticavano violenza a piene mani, diventati adulti, avessero ancora un deposito di rabbia da svuotare. Non serve evocare la categoria della fedeltà e del tradimento, come si faceva nell’epoca dell’ubriacatura ideologica degli “opposti estremismi”, rivolgendosi all’Italia “che ha scelto noi e noi non la tradiremo”.

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Il Pd a pezzi tra veleni e sospetti. Il leader: “Si eviti una notte di lunghi coltelli”

martedì, Settembre 27th, 2022

ANNALISA CUZZOCREA

Con gli occhi pesti delle notti insonni, dopo il caffè delle nove del mattino, Dario Franceschini prova a dire: «Dobbiamo rivendicare di aver tenuto, non c’è stato il tracollo che alcuni paventavano, l’opa su di noi è fallita e non è possibile che ora gli altri sconfitti parlino come se avessero vinto». Ma nella riunione ristretta con il segretario Enrico Letta, prima delle sue parole in conferenza stampa, la posizione del ministro della Cultura rimane – per la prima volta da molto tempo – minoritaria. Dice Lorenzo Guerini che serve «avere la consapevolezza della gravità di questa sconfitta, perché ha condotto il Paese non nelle mani di un governo qualsiasi, ma di un governo di destra destra». Abbiamo «il dovere di mettere in sicurezza il Pd – spiega il ministro della Difesa – far vedere subito che c’è un’iniziativa nuova per farlo». E quindi «non c’è da precipitare nulla, non servono capri espiatori, non bisogna addossare la responsabilità a una persona sola e tanto meno al segretario, ma bisogna indicare con chiarezza un percorso che ci porti al congresso».

Non sono passati quindici minuti, nella stanza del leader al secondo piano, insieme alle capegruppo Debora Serracchiani e Simona Malpezzi e al braccio destra di Letta, Marco Meloni, che subito la parola congresso aleggia nell’aria con tutti i suoi non detti. I nomi che si rincorrono da mesi: il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, il sindaco di Bari Antonio De Caro, il vicesegretario pd Peppe Provenzano che rappresenta l’ala più di sinistra del partito, la new entry Elly Schlein, che però – ancora – non è nemmeno iscritta. E i tempi: tutti pensano che prima di febbraio-marzo non sia possibile. Ma già ieri sera, Letta fiutava la voglia di melina e dava altre indicazioni: «Dicembre, al massimo gennaio, adesso dobbiamo accelerare».

Non è detto che sia possibile davvero. Nella riunione ristretta alla quale mancava – assente ingiustificato – il ministro del Lavoro Andrea Orlando, Provenzano ricorda al segretario quel che lui stesso aveva detto al suo arrivo al Nazareno: «Non ci serve un nuovo segretario, ma un nuovo partito. È questo che non siamo riusciti a realizzare ed è questo di cui abbiamo davvero bisogno». E quindi: «Non servono scorciatoie personalistiche e un congresso che sia una mera conta sui nomi», serve piuttosto «una nuova identità, tornare a parlare ai propri mondi di riferimento, smettere di essere responsabili a prescindere, farsi carico delle battaglie e delle istanze della parte più sofferente del Paese senza gli equilibrismi continui che tanto hanno danneggiato il Pd degli ultimi anni». Perché la crisi non è cominciata con la sconfitta alle politiche, l’ha generata. La «rifondazione» che immagina Provenzano parte dalle «nuove generazioni» di cui lo stesso Letta ha parlato nel suo discorso, da un congresso con regole nuove aperto anche alle forze esterne al Pd. Non si spinge a dire quali, il vicesegretario, ma il percorso sembra diverso da quello che immaginano gli altri maggiorenti dem. Soprattutto diverso da quello che prefigura Stefano Bonaccini, su cui è già pronta a convergere AreaDem, la corrente guidata da Guerini e orfana di molta della sua forza parlamentare.

Il presidente dell’Emilia-Romagna scalda i motori da tempo e da tempo ha capito che, se vuole davvero vincere la partita, non può presentarsi con il volto dell’ex renziano nostalgico delle alleanze al centro. Così, quel che dice in queste ore è «prima viene l’identità, poi vengono le intese». E quindi: «Serve un profilo di partito forte, servono le candidature giuste, bisogna risultare affidabili agli occhi delle persone». È convinto del fatto che questa destra si possa battere, «Meloni ha preso il 26 per cento, non il 35!». Basta «provare a fare le cose per bene, perché le sconfitte possono essere sì un problema, un dramma, ma anche un’occasione». Poi, non demonizzare l’avversario: «Non serve, spaventa le persone, le allontana».

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Meloni prepara il governo, telefonata con Draghi: “La Costituzione va cambiata, il Pnrr è da rifare”

martedì, Settembre 27th, 2022

Ilario Lombardo, Francesco Olivo

ROMA. Niente giornalisti, niente domande per evitare risposte premature, ma tante telefonate. La prima giornata da aspirante premier di Giorgia Meloni l’ha trascorsa tra le mura di casa, che ha lasciato solo per andare a prendere la figlia a scuola. «Ha passato ore sui dossier più scottanti», dice chi l’ha sentita.

Non è questa l’ora di esporsi, ma il telefono ha suonato come mai. Tantissimi complimenti, chiamate di cortesia, ma anche quelle per iniziare a mettere le basi del governo. Con Matteo Salvini si sono sentiti prima di una conferenza stampa che darà qualche pensiero ai dirigenti di FdI, per forma e contenuto. Tra i tanti scambi telefonici di Meloni, ce ne sarebbe stato uno anche con Mario Draghi. Le fonti vicino a entrambi non lo escludono, ma non è chiaro se sia stato un messaggio di congratulazioni per la vittoria elettorale inequivocabile o una telefonata vera e propria. Draghi e Meloni hanno sempre avuto un eccellente rapporto, consolidato nel corso dei mesi grazie a un’opposizione che il premier ha sempre apprezzato per «la lealtà». Quel che è certo è che l’interlocuzione tra il capo del governo uscente e colei che a questo punto dovrebbe succedergli sono continuate e continueranno nei prossimi giorni, anche in vista del passaggio di consegne previsto per metà ottobre, nella settimana cruciale per la definizione della prossima legge di Bilancio.

I giornalisti di tutto il mondo si erano precipitati nell’albergo dei Parioli scelto come quartier generale, maratone internazionali, radio, tv, grandi broadcaster e blogger, tutti con l’ambizione di fare una domanda a «Miss Meloni». Attesa frustrata. «Ci vediamo domani per un’analisi del voto più approfondita», aveva detto lei a notte molto fonda nel suo comitato elettorale, mentre celebrava, senza molto enfasi, la sua vittoria. Invece la leader di Fratelli d’Italia non si è presentata, una delusione per i moltissimi inviati della stampa mondiale, che hanno dovuto ripiegare su una conferenza stampa di tre dirigenti del partito, i capigruppo di Senato e Camera, Luca Ciriani e Francesco Lollobrigida, e il responsabile dell’organizzazione Giovanni Donzelli.

La sproporzione tra l’aspettativa e la realtà è stata molto ampia, ma la parola d’ordine in FdI è prudenza. La scomparsa di Meloni dalla scena, nel giorno in cui avrebbe dovuto esaltare le ragioni del successo, è parte di questa strategia. Se l’imperativo della campagna elettorale è stato evitare errori che potessero compromettere il primato nei sondaggi, ora che i voti virtuali si sono materializzati, la questione è ancora più urgente: meglio non esporsi. Un conto sono le frasi disinibite di un comizio, altro sono le parole della probabile futura premier.

Una delle questioni sulla quale Meloni sarebbe stata incalzata è il futuro delle alleanze geopolitiche, a partire dal rapporto con Viktor Orbàn. Ma anche le possibili fratture interne alla coalizione in vista della composizione del governo. La conferenza stampa di Salvini è stata piena di messaggi poco rassicuranti per Via della Scrofa. E le parole di Luca Zaia che ne sono seguite, con un attacco diretto al segretario della Lega, hanno aggiunto ulteriori preoccupazioni. Una guerra interna nel Carroccio non porterà nulla di buono, sostengono i dirigenti di FdI. Né sarà d’aiuto, alla causa di un governo che si spera duri cinque anni, un Salvini radicalizzato. La linea scelta sui tormenti degli alleati è, anche in questo, caso, cauta. FdI ha tutto l’interesse di abbassare le tensioni, mortificare la Lega non sarebbe utile, ora che si aprirà la fase più delicata delle trattative di governo. I capigruppo evitano di entrare nelle malizie del leader del Carroccio, ma su un punto Ciriani ci tiene a precisare: «Siamo stati votati trasversalmente, non è un voto di protesta». Le riforme istituzionali restano un’urgenza: «Si può provare a migliorare la Costituzione», dice Lollobrigida che aggiunge: «Teniamo conto che è bella ma che ha anche 70 anni di età».

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