La presidente di FdI agli alleati:
«Risultati chiari, niente giochini». E intima ai suoi di evitare
festeggiamenti: «Serve serietà». Lollobrigida evoca modifiche alla
Carta: «Bella, ma ha 70 anni»
È uscita solo per portare la figlia a scuola e per una seduta di allenamento in palestra per «abbassare un po’ la tensione». Perché Giorgia Meloni,
premier in pectore, sa bene quante difficoltà d’ora in poi dovrà
affrontare. Così, in queste ore, l’ordine dato ai fedelissimi è stato:
nessun festeggiamento, compostezza e riserbo. Perché «il momento è
talmente difficile che dobbiamo essere responsabili e seri». Anche per
evitare sovraesposizioni pericolose, la leader di FdI con i suoi ha
deciso la strategia di questi primi giorni: nessuna conferenza stampa
auto-celebrativa «come avrebbe fatto chiunque avesse ottenuto un
risultato straordinario come il nostro» o festa di piazza. E nessun
affondo polemico: «La guerra civile di questa campagna elettorale va
chiusa. Ci auguriamo nessuno si metta ad avvelenare pozzi, e magari che
venga fatta un’opposizione responsabile, come la nostra».
Ma i problemi per Meloni potrebbero arrivare dalla crisi economica e dagli alleati. Sulla prima, Lollobrigida, Ciriani e Donzelli hanno spiegato che la leader sta già pensando alla prossima manovra, auspicando una collaborazione con Mario Draghi, visti i tempi ristrettissimi per varare la legge di Bilancio. Lo stesso Lollobrigida ribadisce la volontà di riformare in chiave presidenzialista la Costituzione, che «è bella ma ha anche 70 anni di età, sacrificava alla prudenza una maggiore efficienza».
Del governo Meloni ha ragionato con i fedelissimi: il calo di Salvini e le ambizioni di Berlusconi potrebbero portare a richieste ultimative. Lei è netta: i risultati del voto
sono «chiari» e dovrebbero sconsigliare di creare grane. Ma, è
l’avvertimento, «io non accetterò compromessi e non mi presterò a
giochini». Non ci saranno cedimenti su punti del programma per
realizzare promesse impossibili, e nemmeno su richieste di ministeri
tali da creare problemi: «Siamo persone serie, offriamo massima
collaborazione ma siamo arrivati fin qui e non vogliamo perdere la
faccia. FdI non va al governo per far saltare il banco». Le condizioni
per partire sono chiare: o si fanno «le cose perbene», o inutile andare
al governo.
Non lo dice in pubblico Meloni, ma ipotesi come il ministero degli Interni per Salvini, o la presidenza del Senato per Berlusconi, non vengono considerate. Agli alleati si può concedere la presidenza a Palazzo Madama, alla Camera si vedrà, ma tutto dovrà essere «serio». A partire dal dicastero dell’Economia, che si pensa di affidare a un tecnico, magari non a Panetta per non scoprire il versante Banca d’Italia e Bce.
Molto bene il centrodestra, molto male la Lega. Questa la valutazione
consolidata sul «ponte di comando» del Carroccio dopo la diffusione
degli exit-poll (col partito intorno al 10%) e soprattutto con le prime
proiezioni, che lo davano addirittura all’8%: meno di un terzo dei voti
di Fratelli d’Italia, la metà di quelli dei 5 Stelle, tallonato da Forza
Italia. Matteo Salvini oggi appare come il capo in difficoltà di un
partito in crisi.
Il segretario leghista è arrivato alle 22.30 in
via Bellerio, e nella storica sede milanese del Carroccio ha seguito lo
spoglio, coi fedelissimi, in un clima di nervosismo crescente. Alle 23 e
15 il suo primo tweet: «Centrodestra in netto vantaggio sia alla Camera
che al Senato. Sarà una lunga notte, ma già ora vi voglio dire grazie».
Si è aggrappato alla ostentata soddisfazione per la vittoria del
centrodestra, scontata, ma era il voto di lista quello più atteso, e se
gli «exit poll» delle 23 hanno regalato un’illusione di «pericolo
scampato», i dati reali l’hanno tramutata prima in ansia e poi in
aperta, cocente delusione.
Dopo
la mezzanotte le seconde proiezioni: 8,7% quelle Rai, e «Swg» per la 7,
8,1% quella «Tecné» per Rete4. Poi la terza proiezione Rai: 8,8%.
Insomma, la coalizione è andata alla grande – come previsto – il partito
invece no. In via Bellerio nessuno ha più parlato, e quel silenzio
potrebbe anche nascondere una resa dei conti interna.
Non è stata
una giornata di entusiasmi la domenica elettorale dei leghisti. Ieri
mattina Salvini ha votato presto, nella sua Milano. Ha sfoderato la
consueta sicurezza, e l’auspicio di un governo di legislatura. Ha
gettato acqua sul fuoco degli entusiasmi e ha voluto spegnere ogni
polemica con Silvio Berlusconi, che gli aveva riservato parole
«agrodolci», rivelando di volere «più voti della Lega». E il fantasma
del sorpasso, poi, si è quasi materializzato.
Non era stata una
giornata facile, quella di Salvini, e non è stata una campagna
elettorale semplice la sua: una specie di improvvisa volata a cui è
arrivato con la «zavorra» di una responsabilità di governo condivisa con
poca convinzione, gravato dalla sensazione di un ineluttabile calo e
sottoposto all’impietoso confronto con FdI, il partito di Giorgia Meloni
che è rimasto sempre all’opposizione continuando la sua progressione
anche al Nord, fino a concretizzare il bruciante «sorpasso» che già si
era profilato alle ultime amministrative.
I pronostici della
vigilia si esercitavano sul distacco con cui FdI avrebbe «liquidato» la
Lega, e sulla «soglia» che avrebbe segnato la sua sconfitta: il 12%, o
il 10. Lontani i giorni delle Politiche 2018 (il Carroccio era arrivato
al 17%) lontanissimo il trionfo delle Europee 2019, quando il «Capitano»
aveva trascinato il suo partito oltre il 30%, superando il tradizionale
arroccamento nel Lombardoveneto e sfondando anche al Sud. Sono passati
solo tre anni, eppure il vento è cambiato.
Non da ieri, certamente. Ma, quasi di colpo, Giorgia Meloni è
diventata una star internazionale. Tutti parlano, scrivono, analizzano,
inventano o documentano in tutte le lingue l’immagine, la politica,
pregi e difetti, leggende e realtà di Giorgia Meloni, sia sulle pagine
di carta che sugli schermi grandi, piccoli e minuscoli perché lei è oggi
la protagonista del «grande caso italiano».
Provo a ricostruire
il personaggio e come è arrivato ad ambire legittimamente al ruolo di
primo ministro donna, e di destra. Sulla questione della destra, di
quanto sia «estrema» o normale, si capisce quanto sembri complicato
orientarsi su di lei, perché Giorgia Meloni più che multipla è
caleidoscopica. Un giornalista del New York Times ha chiacchierato con
lei in inglese al bar di un albergo dove, sorseggiando uno spritz, le ha
chiesto: «È vero o no che lei ha preso definitivamente le distanze dal
fascismo?» e Giorgia Meloni (secondo il giornalista) avrebbe risposto
soltanto con un distratto monosillabo: «Yeah», facendo cadere il
discorso. Ma il tema del fascismo, se lei sia o non sia l’erede di
Mussolini o almeno dei suoi seguaci, la segue come un’ombra, anche se
dal punto di vista ideologico, più di Mussolini, morto più di trent’anni
prima che lei nascesse, hanno contato i romanzi (con film e serie
televisive) di J.R.R. Tolkien come Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit e
tanti altri ispirati ad un universo immaginario in cui si esalta l’unità
fra simili quando sono costretti a difendere la loro identità e il loro
mondo dalle invasioni degli orchi e altri mostri.
Di
qui, come è evidente, si sviluppa tutta la sua politica contro «la
sostituzione» di un popolo dall’arrivo di masse provenienti da altri
mondi gli immigrati che sbarcano senza controllo che sostituiranno il
nostro. Il fatto che Giorgia Meloni affondi le sue radici in una serie
di romanzi fantasy e non dai teorici del razzismo, non la rende immune
dalle accuse di razzismo e di posizioni comuni alla Le Pen, a Orbán e ai
polacchi, da cui però ha cercato di prendere le distanze a colpi di
timone e cambi di velatura. Ma è sicuro che queste radici l’hanno messa
rapidamente in contatto con una parte crescente di italiani che in
Italia, come altrove, resistono con paura alla minaccia di un cambio di
identità. E su questo punto la Meloni trova più consensi nell’area di
destra di quanti non incontri più Matteo Salvini perché probabilmente ha
sviluppato una forma di comunicazione più diretta e comprensibile in un
panorama difficilissimo in modo da rassicurare tutti.
Giorgia
Meloni si è fatta le giovani ossa nell’Msi, che nell’immediato
dopoguerra nacque per rappresentare i fascisti sconfitti. Non era un
partito di neofascisti, ma di ex fascisti e dalle organizzazioni
giovanili, il Fronte della Gioventù e le attività sindacali nelle
borgate romane abitate da quella classe sociale che Karl Marx chiamava
il «Lumpenproletariat», un gradino sotto il proletariato organizzabile
dal Partito comunista. La sua esperienza ha avuto come teatro ed
ecosistema un mondo più vicino a quello dei romanzi di Pasolini, anche
se vissuto in maniera opposta. Alla sua origine sentimentale e politica
c’è sempre l’idea di una piccola patria che all’inizio era la
Garbatella, un Bronx romano con una umanità priva di ideologia e proprio
per questo etichettata con molta pigrizia come di destra, ma un genere
di destra.
DAL CORRISPONDENTE DA WASHINGTON. La vittoria di Giorgia Meloni trova risalto sulla stampa americana che già nelle ultime settimane aveva fatto un copertura delle elezioni italiane tutta centrata sulla figura della leader di Fratelli d’Italia. Cronache, notizie live (sul New York Times) analisi e commenti a salutare la svolta a destra di un Paese del G7. Tre sono i tratti distintivi che accomunano gli articoli sui siti dei grandi giornalistI e media Usa. Il primo è la probabile ormai nomina della prima donna a Palazzo Chigi; il secondo riguarda la vittoria di un partito che «affonda le sue radici nel post fascismo» ha scritto il Washington Post. Infine, notava la Cnn, la vittoria di Giorgia Meloni offre il ritorno del populismo. Evidenzia la Cnn: «La sua piattaforma politica sarà famigliare per tutti coloro che hanno seguito la retorica dell’estrema destra negli anni recenti: Lei (Meloni) mette apertamente in discussioni i diritti LGBTQ+ e sull’aborto, punta a frenare l’immigrazione e appare ossessionata all’idea che i valori tradizionali e il modo di vita siano sotto attacco per tutta una serie di cose dalla globalizzazione ai matrimoni omosessuali».
Oltre
a sottolineare che il più contento di questo vittoria sarà Steve
Bannon, guru di Trump e ispiratore di un’internazionale delle estreme
destre, la Cnn sottolinea che la vittoria di Meloni «emerge dai recenti trionfi dell’estrema destra ovunque in Europa». Sul Washington Post –
il giornale che una settimana fa aveva fatto un’intervista esclusiva
alla leader di FdI – si sottolinea la svolta epocale italiana e il
rischio di un compattamento delle destre illiberali in Europa. Il
riferimento è a Polonia e Ungheria. In una analisi tutta incentrata sul
successo della Meloni e sulle sfide che questo pone al Paese trova
spazio una riflessione sul buon risultato dei Cinquestelle alimentato
dalla difesa del reddito di cittadinanza.
Il Wall Street Journal addirittura nobilita la vittoria
della coalizione di centrodestra affiancando alla cronaca dall’Italia un
commento in cui l’Editorial Board (che incarna la linea del giornale)
evidenzia come «finalmente l’Italia abbia quel governo di destra che non
è riuscita a formare nel 2018». Anche il giornale del mondo economico
Usa evidenzia il nodo delle relazioni con Bruxelles sottolineando la
debolezza dei conti pubblici italiani, il debito in primis «arrivato al
150% del Pil».
L’arretramento del Carroccio
costringerà la leader di FdI a non mettere in primo piano gli interessi
di partito. L’obiettivo: evitare problemi per la tenuta del futuro
esecutivo
Si prospetta un risultato epocale. E non solo perché per la prima volta nella storia la destra si proietta a vincere le elezioni e ipotecare Palazzo Chigi con una donna alla guida di un governo di coalizione.
Ma perché la legislatura che si apre è destinata a cambiare
profondamente la geografia politica italiana. Il voto di ieri segna la fine del progetto salviniano della Lega nazionale.
L’inesorabile tramonto dell’era berlusconiana. E fa emergere la grave
crisi di voti e di identità del Pd, che non solo esce sconfitto dal
duello con FdI, ma soprattutto viene ridimensionato nel tradizionale
ruolo di punto di riferimento dei progressisti.
Il successo di Giorgia Meloni — secondo i primi dati — si accompagna a una forte flessione degli alleati. La leader della destra
— che ha cannibalizzato i consensi di Lega e FI — è consapevole che i
nuovi rapporti di forza nel centrodestra potrebbero complicare più che
la nascita del governo, la sua navigazione. E non a caso nei colloqui
riservati prima del voto aveva fatto capire che si sarebbero dovuti
privilegiare gli equilibri di coalizione sugli interessi di partito. «È
una questione che Giorgia ha presente», spiegava a sera uno dei massimi
dirigenti di FdI: «Si seguirà la linea che abbiamo già adottato sui
collegi con gli alleati centristi, per esempio».
Perché un conto è vincere, altra
cosa è governare, altra cosa ancora è durare. C’è da affrontare una
congiuntura nazionale e internazionale molto delicata: nessun governo
potrebbe andare avanti a lungo senza una forte coesione interna. E dopo
il terremoto nelle urne Meloni intende stabilizzare il quadro politico
del centrodestra: si vedrà come, visto che Salvini durante tutta la
campagna elettorale ha rivendicato l’obiettivo di tornare al Viminale e
Forza Italia aspira alla Farnesina. Senza dimenticare che sulla
formazione della squadra ministeriale l’ultima parola spetterà al capo
dello Stato. C’è da capire come Berlusconi gestirà il risultato e
quali effetti avrà sul suo partito. Ma soprattutto bisognerà verificare
in che modo Salvini affronterà il pesante risultato con il suo gruppo
dirigente, dove prenderà presto corpo la richiesta di tornare all’antico
ruolo della Lega per ricostruire al Nord quel rapporto con il
territorio uscito distrutto dalle urne. Una linea politica esattamente
opposta a quella del Capitano…
Sull’altro fronte si registra la crisi del Pd, che si trova ora insidiato alla sua sinistra da Conte e alla sua destra dal duo Calenda-Renzi.
Il compito di Letta era tutt’altro che facile: un anno e mezzo fa aveva
ereditato una segreteria che Zingaretti aveva lasciato dicendo di
«vergognarsi» del partito. Il resto lo hanno fatto una serie di errori
tattici e strategici che lo hanno consegnato «nudo» alla sfida con
Meloni. E ora la politica gli presenta il conto, dentro e fuori il
Nazareno. Da una parte si trova il leader del Movimento: nonostante M5S
abbia dimezzato i voti rispetto a cinque anni fa, Conte avrà la
possibilità di fare sponda con quella parte dei democratici desiderosa
di aprire una nuova stagione di rapporti con i grillini sul modello
Mélenchon. Dall’altra i vertici di Azione puntano a diventare il polo
riformista per attrarre quella parte dei dem che non è intenzionata ad
accettare una deriva radicale.
Professor Cacciari, la destra radicale è il primo partito. Gli italiani sono diventati fascisti? «Questa è una colossale stupidaggine».
Beh, si è sentita dire spesso in queste settimane: se vince la Meloni, vincono i fascisti… «Ma,
naturalmente, non è vero. Questo ragionamento è stato controproducente,
come si è visto. La genesi del fascismo è lontanissima da oggi, nasceva
da una crisi della democrazia, avveniva in un contesto molto diverso da
quello dei giorni nostri. Quella che è stata proposta tra Fratelli
d’Italia e il fascismo è stata una sovrapposizione impropria».
Però dentro Fratelli d’Italia ci sono i nostalgici del Ventennio, questo è innegabile… «Questo
è innegabile ma non è stato questo il motivo per cui gli italiani hanno
votato quel partito. I nostalgici vengono tollerati come elemento
identitario. Ma la Meloni sa che se solo provasse a mettere in pratica
una delle ricette del Ventennio, gli italiani si ribellerebbero».
Eppure la crisi della democrazia c’era un secolo fa come oggi… «Ma
quella era la crisi della democrazia liberale. Il pericolo che corriamo
oggi non ha più nulla a che fare con i totalitarismi. Quella che è
entrata in crisi, e da trent’anni ormai, è la democrazia progressiva,
nata in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Una democrazia che
spingeva i popoli ad aumentare i propri diritti, ad allargare la base
sociale di chi ne godeva, a migliorare le proprie condizioni di vita.
Quando questo allargamento progressivo si è interrotto, è nata la
rivolta dei populismi e dei sovranismi contro l’Europa. Perché da quel
momento l’Europa non ha più saputo darsi un’identità politica e non ha
più saputo avere una linea autonoma in politica estera».
Ce l’ha mai avuta quella linea? «Certo che l’ha
avuta. Negli anni Ottanta e Novanta quello dell’Europa era un ruolo di
mediazione tra gli interessi delle grandi potenze militari. Serviva da
punto di incontro. Oggi invece quell’identità si è persa. La linea
dell’Europa in politica estera è oggi una posizione filo-atlantica, di
adesione alla linea della Nato. Il ruolo che avevamo, di mediazione
preventiva con la Russia, è completamente saltato».
Basta tutto questo a spiegare le rivolte sovraniste? «Non basta. Ma spiega perché in un momento come questo l’idea stessa di Europa è entrata in crisi».
Perché di questa crisi la sinistra ha subito le conseguenze
peggiori? Nella campagna elettorale italiana è sembrata quella più in
difficoltà. Come mai? «Dire che è apparsa in difficoltà è
dire poco. Io sarei molto meno generoso: la sinistra italiana è entrata
in totale confusione. La definirei una catastrofe mentale».
Ci può spiegare? «Ma come? Si sostiene che il
pericolo è quello del fascismo, cioè di un attacco eversivo allo Stato, e
non si riesce a trovare il modo di combattere quel rischio tutti
insieme?».
Benché annunciata da tempo, la vittoria di Giorgia Meloni e di
Fratelli d’Italia è un fatto assolutamente nuovo nella lunga storia
repubblicana che ne ha viste di ogni tipo. In un panorama più
frammentato, e con un’affluenza bassissima, specie al Sud, vince, a
scapito dei suoi stessi alleati, la destra-destra che affonda le sue
radici nella lunga emarginazione dalla Prima Repubblica del Msi
almirantiano, nato dalle ceneri di quella di Salò, fuori dall’arco
costituzionale dei partiti che avevano messo a fondamento della Carta
l’antifascismo.
Che questo accada a un mese dal centenario della Marcia su Roma e
dell’inizio del ventennio di dittatura di Mussolini è una coincidenza:
gli italiani che hanno votato Meloni non lo hanno fatto per nostalgia
del Fascismo o perché la considerano fascista, cosa tra l’altro dubbia.
L’unica analogia con la lontana esperienza del Duce è che anche lei
arriva alla guida del governo – e si vedrà se e come, dato che adesso
cominciano i suoi giorni più difficili – alla fine di una maratona
solitaria contro tutto e tutti, compresi Salvini, a cui ha divorato metà
dei voti, Berlusconi, che ha tenuto, e Draghi, verso il quale invece ha
svolto un’opposizione attenta, calibrata e intelligente.
La sua strada verso Palazzo Chigi è segnata, ma non completamente
scontata. Dipenderà da una serie di fattori che oggi devono ancora
precisarsi e rassodarsi, al di là della probabilità, che sembra
accertata, che il centrodestra abbia la maggioranza in entrambe le
Camere: le dimensioni precise della vittoria in termini di seggi,
soprattutto al Senato; le percentuali finali di Salvini e Berlusconi,
tramortiti dal passaggio del carrarmato Giorgia; il peso che in una
situazione instabile potrebbero avere i centristi di Lupi, Toti e
Brugnaro, eletti in gran parte nei collegi messi generosamente a
disposizione da Meloni, ma decisi da subito a riprendersi la loro
autonomia; l’attribuzione definitiva dei collegi più contesi. Ciò che
invece spinge verso la guida del governo questa giovane donna romana –
nata nel quartiere borghese della Camilluccia, abbandonata da un padre
commercialista di sinistra, cresciuta nella borgata “rossa” della
Garbatella e forse per reazione a tutto questo diventata ragazza di
estrema destra – è la sua fortissima volontà, in grado di farle superare
tutte le sfide che si preparano per lei dopo la vittoria. A cominciare
dal pregiudizio europeo – ma non americano – nei suoi confronti, a cui
hanno dato voce la presidente della Commissione Von der Leyen, e molti
giornali, in testa l’autorevole “Economist” che giudicò per primo
Berlusconi incapace di governare l’Italia. E più che la Costituzione e
il presidenzialismo sbandierato tra le polemiche in campagna elettorale,
saranno le reazioni delle istituzioni di Bruxelles e dei mercati
finanziari internazionali, oltre a una situazione sociale che potrebbe
diventare esplosiva, primi ostacoli che Meloni, una volta giunta al
governo, dovrebbe superare.
Sul fronte della sconfitta – annunciata, anche questa – del
centrosinistra, non c’è neppure bisogno di dire che per il principale
avversario della Meloni, Letta, – che inutilmente aveva cercato la
competizione a due, diretta, con la vincitrice, nell’illusione di poter
almeno ottenere la posizione di primo partito – si apre la malinconica
via dell’uscita di scena, lenta o rapida che sarà. Forse perfino del
ritorno all’insegnamento a Parigi, dal quale era stato bruscamente
richiamato e nel quale aveva certo avuto più soddisfazioni. Per
giustificarsi, Letta dirà di esser stato lasciato solo: dai suoi alleati
con cui molto, ma non abbastanza, aveva fatto per costruire la
coalizione che sarebbe servita per competere seriamente. E dai suoi
amici e compagni di partito, defilatisi uno dopo l’altro in attesa del
congresso che nominerà l’ennesimo successore alla segreteria del Pd. Se
il partito continuerà a cercare, non una vera strategia comune e una
strada per la ricostruzione, come ha suggerito Prodi, l’uomo delle due
vittorie “storiche” del 1996 e del 2006, ma un modo per perpetuare e
garantire il gruppo dirigente delle correnti, finirà con l’avviarsi
verso una dissoluzione simile a quella dei socialisti francesi.
L’Italia va a destra e sceglie Giorgia Meloni.
I dati delle proiezioni confermano gli exit poll: il centrodestra ha
vinto le elezioni politiche, ha la maggioranza sia alla Camera che al
Senato, con Fratelli D’Italia primo partito. La leader
di FdI prende parola verso le 2.30 e parla di notte di «riscatto, di
lacrime, di abbracci, di sogni e di ricordi». Si dice «rammaricata» per
l’astensionismo – «la sfida ora è tornare a far credere nelle
istituzioni» – e rimanda «l’analisi più completa del voto a domani», ma
chiarisce che «dagli italiani è arrivata un’indicazione chiara: un governo di centrodestra a guida FdI». E noi, assicura, «non li tradiremo». Alla fine di un discorso emozionale, concluso sulle note de Il cielo è sempre più blu,
cita San Francesco: «”Tu comincia a fare quello che è necessario, poi
il possibile e alla fine ti riscoprirai a fare l’impossibile”. È quello
che abbiamo fatto noi». Se per Meloni è stato un successo come previsto,
per gli alleati – Lega e Forza Italia – non è stato lo stesso. Buono il risultato del Terzo Polo, mentre cala il Pd e sale, rispetto ai pronostici, il M5S. L’affluenzacrolla di quasi 10 punti: ha votato il 63,91% degli aventi diritto, il dato più basso di sempre.
Giorgia Meloni parla dopo il voto: il discorso integrale nella notte della leader di Fratelli d’Italia
Aggiornamenti ora per ora
07.22 – Toti: “Meloni sarà in grado di governare il Paese” «Non
potevamo aspettarci in un solo mese, in piena estate, di consolidare
una proposta politica nata in fretta, unendo esperienze diverse. Di
certo gli elettori non l’hanno premiata come avremmo sperato». Lo scrive
sulle sue pagine social Giovanni Toti, di Noi Moderati. «Le buone
esperienze amministrative non sono state sufficienti a costruire una
proposta nazionale di buon consenso. Gli elettori di “centro” si sono
divisi scegliendo più offerte, anche su poli opposti». Ora, dice
Toti, «all’Italia serve un Governo stabile e capace, e sono certo che
Giorgia Meloni saprà guidarlo con equilibrio. La scelta di dare il
nostro contributo di idee e di voti all’unico Governo possibile e utile
al Paese credo sia stata la scelta giusta. Noi da domani mattina
torniamo al lavoro per la nostra Liguria, come abbiamo fatto ogni giorno
negli ultimi 7 anni».
07.00 – Fratelli d’Italia porta il centrodestra al 44% Il
centrodestra, trainato da Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, vince le
elezioni politiche 2022 e si prepara a governare l’Italia.
Complessivamente la coalizione composta da FdI, Lega, Fi e Noi moderati
raggiunge il 44,5% dei voti, sette punti in più rispetto al 37,5% del
2018. Vince nella stragrande maggioranza dei collegi uninominali di
Camera e Senato. Il centrosinistra, composto da Pd, Alleanza Verdi
Sinistra, +Europa, Impegno civico, si ferma al 26,5%, sostanzialmente
stabile rispetto al 2018 quando il centrosinistra e Leu ebbero
complessivamente il 25,7%. Sono pochi i collegi uninominali dove prevale
il centrosinistra, anche in regioni come l’Emilia Romagna e la Toscana.
Il Movimento 5 Stelle, correndo da solo, ottiene il 15% dei voti e
vince a sorpresa in oltre dieci collegi uninominali del sud, soprattutto
nel napoletano, nel palermitano e a Foggia. Rispetto al 2018, quando
ebbe il 32,2%, M5s cede il 17,2%. La lista Azione-Iv, non presente nel
2018, ottiene il 7,7% Nel centrodestra la parte del leone la fa Fratelli
d’Italia che sestuplica i voti rispetto al 2018, passando dal 4,3% al
26,4%. Lega e Forza Italia quasi dimezzano i loro voti: il Carroccio
passa dal 17,6% al 9%; FI dal 14,4% all’8,2%. Noi moderati corre il
rischio di non superare l’1%. Fratelli d’Italia oggi ha il doppio dei
voti della Lega anche in regioni come la Lombardia e il Veneto. Nel
centrosinistra la lista Pd-Italia Democratica e Progressista è al 19,3%.
Nel 2018 Pd, Leu e Insieme ebbero complessivamente il 22,9%. Cresce
+Europa che passa dal 2,4 al 3%. Male Impegno civico: appena lo 0,5%.
Luigi Di Maio, sconfitto dal pentastellato Sergio Costa nel collegio di
Napoli Fuorigrotta Camera, resta fuori dal Parlamento. Sono molto pochi i
collegi uninominali sfuggiti al centrodestra. Il centrosinistra prevale
fra l’altro a Torino centro, Milano centro, Bologna, Imola, Firenze. La
lista «De Luca sindaco d’Italia» vince nel messinese. M5s prevale nel
napoletano, nel palermitano e a Foggia. Tra i leader Meloni, Berlusconi e
Lupi vincono largo nei loro collegi uninominali di L’Aquila Camera,
Monza Senato e Lecco Camera. Bonelli è in testa a Imola Camera.
Bonino è seconda a Roma centro Senato e rischia di non entrare in
Parlamento se la lista +Europa non supererà il 3% dei voti nazionali.
Letta, Salvini, Fratoianni, Conte e Renzi non hanno corso
nell’uninominale. Calenda e solo terzo nel collegio di Roma centro
Senato.
06.30 – Di Maio non rieletto a Napoli Il ministro
degli Esteri e leader di Impegno Civico, Luigi Di Maio, non è stato
rieletto. Quando mancano ormai poche sezioni al risultato definitivo
(403 le sezioni scrutinate su 440) nel collegio di Napoli Fuorigrotta 2
per la Camera, ha ottenuto il 24,3% dei voti. Nettamente primo l’ex
ministro dell’Ambiente, in lizza per il Movimento 5 Stelle, Sergio
Costa, al 40,5%. Terza Maria Rosaria Rossi, in lizza per il centro
destra, col 22,2%. Solo quarta la ministra Mara Carfagna, di Azione, al
6,7.
04.57 – Esulta il figlio di Bolsonaro: Meloni è Dio, patria e famiglia Eduardo
Bolsonaro, figlio del presidente del Brasile, Jair, e deputato dello
Stato di San Paolo, si è complimentato su Twitter con Giorgia Meloni,
vincitrice delle elezioni italiane, ricordando che la leader di Frateli
d’Italia è «Dio, patria e famiglia». Il voto in Italia precede di appena
una settimana il testa-a-testa in Brasile tra Jair Bolsonaro, leader
dell’estrema destra in America Latina, e il leader della sinnistra
brasiliana, l’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva.