Archive for Ottobre, 2022

Blitz sulle droghe: arrivano le stanze del buco. Bufera sulla Dadone

giovedì, Ottobre 6th, 2022

Alessandro Imperiali

Il prossimo 12 ottobre si terrà la Conferenza Unificata tra Stato e Regioni. L’argomento principale di discussione sarà il nuovo Piano di Azione Nazionale Dipendenze (Pand) 2022-2025 ossia le linee guida delle politiche antidroga. Sul tavolo la proposta che più fa discutere è lo sperimentare in tre città italiane, possibilmente aree metropolitane, le stanze del consumo, anche dette stanze del buco. Oltre che i drug checking, vale a dire l’analisi chimica delle sostanze per essere a conoscenza di cosa si sta mettendo nel proprio corpo. Una pratica più o meno diffusa già in Germania, Spagna, Francia, Paesi Bassi e Norvegia.

Il blitz del governo (dimissionario)

Il piano ancora non è arrivato sui tavoli delle sedi istituzionali ma Fratelli d’Italia si è già detta contraria. Maria Teresa Bellucci, deputata e Responsabile nazionale Dipartimento Dipendenze e Terzo Settore, ha chiesto di far stralciare il punto dall’ordine del giorno. Questo perché è “un lavoro fatto male di un Governo dimissionario” e lo ha definito “inattuabile e confusionario” oltre che realizzato in troppo poco tempo (poco più di due mesi) vista la serietà della questione. Oltre che per questioni tecniche però la proposta viene bocciata da Fdi anche per motivi etici. Maria Teresa Bellucci contesta anche il concetto alla base di tutto questo: “la normalizzazione dell’uso delle droghe”. Ovvero che “drogarsi è una scelta e – aggiunge – la riduzione del danno è fine a sé stessa: io ti auto a drogarti in maniera tale che tu non muoia”. Per questo bocciate, per Fdi, le stanze del consumo e i drug checking.

Lo scontro tra FdI e la Dadone

Ha una visione differente il ministro 5 Stelle Fabiana Dadone, detiene la delega sulle politiche antidroga. Dadone ha replicato accusando Fdi di “svilire un lavoro importante e condiviso, buttandola in caciara”. Non si tratterebbe, dice la pentastellata, di una normalizzazione del consumo di stupefacenti. Al contrario è necessario che “il nostro Paese si aggiorni” anche attraverso il confronto con gli esperti dell’Emcdda che hanno preso parte ai lavori del Piano. “È emerso forte il bisogno di sperimentare l’efficacia di alcune tipologie di servizi ad oggi poco presenti o del tutto assenti. Drug checking e sperimentazioni delle stanze del consumo, fanno parte delle proposte emerse. Un approccio al – sottolinea il ministro – tema del consumo tra medico e culturale” già adottato in tante nazioni europee. Nel piano è scritto che il drug checking è un servizio integrato che permetterebbe vari servizi. Non solo l’analisi chimica della sostanza ma anche un counselling specifico focalizzato sulle esigenze della persona. Questo viene definito nella relazione “un ottimo strumento di aggancio precoce per popolazioni che non entrano mai in contatto con i servizi” e “di prevenzione di intossicazioni inconsapevoli”. Per quanto riguarda, invece, le stanze del consumo nel Piano vengono definiti spazi attrezati in grado di garantire le “condizioni igieniche e sanitarie tali da prevenire la trasmissione di patologie e un pronto intervento in caso di overdose grazie al personale sociosanitario”.

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Il derby Panetta-Franco per Bankitalia dietro l’impasse sul ministero del Tesoro

giovedì, Ottobre 6th, 2022

Ilario Lombardo

ROMA. Fabio Panetta ha compiuto 63 anni il primo agosto scorso. Un giovanotto, per i livelli della gerontocrazia italiana. Se riuscisse a strappare il titolo di governatore della Banca d’Italia il prossimo anno, potrebbe arrivare a concludere il secondo e ultimo mandato in via Nazionale all’età di 76 anni. Gli anni che tra qualche mese compirà Mario Draghi. I ministri dell’Economia passano, i governatori di Bankitalia restano: minimo sei, massimo dodici anni.

Non è molto elegante parlare dell’età delle persone, è vero. Ma il dato biografico è un fattore che va tenuto sempre in considerazione sullo scacchiere del potere italiano. Tanto più in questa partita che incrocia il futuro di due uomini, e due poltrone prestigiose. Una sicuramente più confortevole, l’altra più precaria e più esposta alle turbolenze. Dalla scelta del prossimo ministro dell’Economia passa anche il destino della Banca d’Italia. Chi guiderà uno, non guiderà l’altra. E non si comprenderebbero le difficoltà che sta incontrando Giorgia Meloni nella scelta del futuro titolare del Tesoro se non si tenesse a mente un elemento determinante: la sfida tra Panetta e Daniele Franco, attuale inquilino del Mef, per Palazzo Koch. È il derby che si gioca sullo sfondo della tormentata composizione del futuro governo, e che getta luce sulle ragioni del no, sulle resistenze di entrambi a sedere nel posto più in alto del ministero dell’Economia. Fino al luglio scorso Panetta era il candidato naturale, sicuramente il favorito, a succedere a Ignazio Visco nel novembre del 2023. Ora in campo c’è anche Franco.

In Banca d’Italia raccontano che da sempre vige una regola non scritta, figlia della tradizione: la strada che porta da Via Nazionale a Via XX Settembre è a senso unico. C’è solo un precedente: Draghi. Che, però, al Tesoro era stato direttore generale, non ministro. Eppure, spiega una fonte autorevole che vive i meccanismi di entrambe le realtà, gli sponsor di Franco fanno leva su due argomenti. Ha vestito i panni da ministro in una situazione di assoluta eccezionalità, su richiesta di Draghi, in un governo non politico, di unità nazionale e di emergenza. E poi: il passaggio non sarebbe diretto, trascorrerebbe un anno, un periodo di decantazione sufficiente prima della nomina a governatore. Se Franco ha una speranza, però, è legata a cosa deciderà di fare Panetta: se quest’ultimo decidesse di non trasformarsi nel guardiano dei conti del governo Meloni, la candidatura dell’attuale ministro nascerebbe morta. E sappiamo da tutte le fonti del centrodestra, e non solo, che finora Panetta ha detto di no.

A ripercorrere i loro curricula si trovano similitudini di carriera e differenze. Entrambi sono stati allevati nella culla di Via Nazionale. Hanno ricoperto il ruolo di direttore generale uno dopo l’altro, prima Panetta, e subito dopo Franco. Panetta è poi andato a Francoforte, dove è diventato membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea. Qualche mese dopo, Franco ha lasciato la direzione generale perché chiamato da Draghi, il 13 febbraio 2021, al ministero dell’Economia. Franco è più vecchio di sei anni e ha poca voglia di restare al Tesoro. A maggior ragione in un governo schiettamente politico, nato su presupposti sovranisti. Chi gli ha parlato, in queste settimane in cui è emersa l’ipotesi di lasciarlo dov’è in caso di emergenza, racconta che Franco a domanda diretta non fa che scuotere la testa: «Spero non me lo chiedano davvero» dice. Ed è probabile che si riferisca più al Quirinale che a Meloni. Quello che sappiamo per certo, però, è che lo vuole la Lega, e il sottosegretario Federico Freni che ambirebbe a restare a lavorare con lui magari come vice, ruolo da condividere con Maurizio Leo di Fratelli d’Italia.

Lo schema, però, pare non convincere Meloni. La premier in pectore considera Franco un uomo in qualche modo cooptato dall’area di centrosinistra. Era stato il governo Letta a nominarlo Ragioniere dello Stato nel 2013. Per cultura e provenienza, Panetta è invece considerato più facile da inquadrare nella galassia di centrodestra. Almeno così la pensano gli uomini di Meloni e gli alleati. Inoltre, avrebbe il vantaggio di rassicurare l’Europa sulle future politiche di bilancio, in continuità con Draghi, ma non al punto di essere proprio lo stesso ministro di Draghi.

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La rabbia del premier ma Giorgia garantisce: “Non c’è nessuno scontro”

giovedì, Ottobre 6th, 2022

ALESSANDRO BARBERA E FRANCESCO OLIVO

ROMA. Mario Draghi è furioso: «Ho fatto tutto il possibile, le ho lasciato il lavoro fatto. Adesso tocca a lei». Le critiche di Giorgia Meloni alla gestione del Pnrr e il suo rifiuto di andare al Consiglio europeo sono vissute come un attacco personale. Non se lo aspettava, non dalla leader alla quale ha sempre riconosciuto lealtà, ricambiando piena disponibilità nel passaggio di consegne.

A sera, quando l’incendio ormai è divampato, Giorgia Meloni manda un messaggio per cercare di rasserenare gli animi: «Non c’è nessuno scontro con Draghi». La presidente di Fratelli d’Italia non ha interesse nell’alimentare un duello che giura di non aver cercato e che di sicuro non le giova. La «transizione ordinata», lo ha ribadito ieri, è un tassello fondamentale dell’inizio di un mandato che, ancora prima di cominciare, già si presenta complicatissimo. L’urgenza di dover precisare («non si è trattato di un botta e risposta») è direttamente proporzionale alla vastità dell’incendio scoppiato nel pomeriggio di ieri.

Quando il presidente del Consiglio legge le agenzie, nelle quali il suo probabile successore critica la gestione del Pnrr, il fastidio sfocia presto nell’ira. Lo stato d’animo, se possibile, peggiora qualche ora più tardi. Intorno alle 17 viene pubblicata una frase che Meloni avrebbe detto durante l’esecutivo del suo partito: «Non andrò al Consiglio europeo del 20 e 21 ottobre. A cosa serve forzare i tempi per un appuntamento in cui si rischia di portare a casa poco, o peggio ancora, un fallimento?». La testimonianza è di un deputato di FdI, e la circostanza viene confermata da altri dirigenti presenti alla riunione in Via della Scrofa.

Draghi si sente chiamato in causa, è toccato sul vivo: da una parte Meloni sta mettendo in discussione quello che per lui è un punto d’onore – aver compiuto sforzi enormi per permettere all’Italia di ottenere i fondi europei – e dall’altra crede che definire «un fallimento» un negoziato che ancora deve entrare nel vivo è una mossa che indebolisce il Paese. Il premier, peraltro, è convinto del contrario: quella sul tetto al prezzo del gas è una partita che l’Italia può vincere. Dire poi, in sostanza, che è meglio mandare lui a fare una brutta figura a Bruxelles viene vissuto come una scortesia personale.

«L’Italia ha raggiunto ancora una volta tutti gli obiettivi del Pnrr, come ha accertato la Commissione la scorsa settimana», chiarisce Draghi in cabina di regia. Il punto di vista di Meloni è un altro. Per prima cosa, ci tiene a precisarlo, durante la riunione del partito a Roma il passaggio sul Pnrr non voleva essere un’accusa al premier, ma una constatazione: l’Italia ha speso solo una parte dei fondi erogati, 5,1 miliardi contro i 13,7 ricevuti, come spiegato nella primavera scorsa dallo stesso ministro dell’Economia Daniele Franco alle commissioni di Camera e Senato. Quindi un conto è l’attuazione normativa e i bandi, un’altra è la cosiddetta “messa a terra” dei progetti.

C’è poi un’altra obiezione che fanno i Fratelli d’Italia: il Pnrr è stato pensato prima della guerra e dell’aumento dei costi delle materie prime e quindi andrebbe adeguato alle nuove esigenze, «non penso sia un reato dirlo», ha ripetuto spesso Meloni durante la campagna elettorale. I fondi di compensazione per l’aumento dei prezzi delle materie prime viene considerato «assolutamente insufficiente» dagli esperti del partito che si stanno occupando del dossier: circa 7 miliardi a fronte dei 36 necessari. «In questo modo i bandi andranno deserti», ha spiegato spesso Meloni in questi giorni. Per evitare questo scenario, i collaboratori più stretti della futura premier stanno pensando di modificare la struttura dedicata al Pnrr presente attualmente a Palazzo Chigi, una nuova task force è allo studio, così come resta in piedi l’idea di creare un ministero ad hoc per la gestione dei fondi europei.

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Pd, scontro sulle primarie e sul leader Bonaccini: tempi rapidi per il congresso

giovedì, Ottobre 6th, 2022

CARLO BERTINI

ROMA.  Ormai è chiaro: Stefano Bonaccini, il candidato più accreditato a vincere il congresso del Pd, fa paura a molti nel partito e questo – stando ai suoi sostenitori – sta dietro la polemica sulle primarie innescata dalla sinistra. Sono in molti nel Pd a identificarlo come un «cavallo di Troia» di Renzi, perché appoggiato dalla corrente Base riformista e perché fu nominato dal “Rottamatore” responsabile organizzazione del Pd. Così la pensano a sinistra, dove la sua vittoria verrebbe vissuta come una rivincita dei renziani e questo fantasma agita i sonni di chi evoca in quel caso una separazione consensuale e la nascita di un «nuovo partito di sinistra».

Peccato che a Bonaccini vengano riconosciuti alte doti di mediazione e nessuno escluda che di qui alle primarie di febbraio trovi un accordo con tutte le anime dem, per fare la sua corsa da uomo di partito, emiliano, espressione dei territori e degli amministratori. Oggi dirà la sua in Direzione: tempi del congresso rapidi, no allo scioglimento o al cambio di nome del Pd, rigenerazione dell’identità del partito e rinnovamento delle classi dirigenti dando più spazio ai territori.

A insidiare la sua ascesa potrebbe essere però un’altra figura, Dario Nardella: tra i dem gira la voce, non confermata ma molto ascoltata, che il maggiore esperto di crisi interne del partito, ovvero l’altro Dario, alias Franceschini, pur apprezzando Bonaccini, sostenga che forse sia preferibile in questa fase di transizione una personalità più rotonda, che non risulti punitiva per nessuno, sempre espressione dei sindaci. Dicono sempre i ben informati che Nardella sia in grande sintonia con Franceschini e che in questa campagna elettorale sia andato in tournée nello stivale per appoggiare Letta e al contempo coltivare i contatti fuori dalla Toscana. Ha buoni rapporti anche internazionali, per il ruolo che ricopre a Firenze, tappa di mille eventi. E la rete di sindaci europei Eurocities, che capeggia, lo ha portato a incontrare Zelensky a Kiev. Insomma.

Ecco, ascoltare queste voci è utile per capire meglio la polemica sulle primarie, spuntata come se nel Pd mancassero i motivi di dissidio. Sollevata dalla sinistra, con l’argomento usato da Peppe Provenzano su questo giornale, «le primarie sono solo un rito se prima di chiedere alle persone di venire da noi, non siamo noi ad andare dalle persone». Da Bersani, con il suo «basta con le primarie, il tema è un partito nuovo» esclamato dalle colonne del Corriere della Sera. E stoppato non a caso dai sostenitori di Bonaccini della corrente Base Riformista, come Alessandro Alfieri («basta tattiche dilatorie travestite da nobili propositi di approfondire»), Dario Parrini e Filippo Sensi («le primarie sono uno strumento, il nostro, a proposito di identità…»). Come in tutte le cose che riguardano i dem, dietro una polemica su un tema, c’è un risvolto tutto politico su un nome e in questo caso è quello di Bonaccini, il candidato più accreditato a vincere queste primarie.

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Restituire il potere alle Camere

giovedì, Ottobre 6th, 2022

Montesquieu

Chi teme che tutto cambi con un governo molto di destra, chi spia le mosse della nuova maggioranza, sarà rassicurato dai primi movimenti al suo interno. Per ora siamo al metodo, ma fin qui nulla cambia. Il verosimile prossimo capo del governo, incontra (riceve) gli esponenti degli altri partiti della maggioranza. Si esclude che l’argomento sia la composizione dell’esecutivo, come invece sicuramente è, almeno per i visitatori. Non sembra, invece, che i confronti vertano sulle nomine (per la verità elezioni) dei presidenti delle Camere, quelle che consentono l’apertura del procedimento di formazione da parte del capo dello Stato. Se se ne parla, lo si farà come di un ripiego, un premio di consolazione, un contentino per chi non riesce ad acciuffare il dicastero ambito.

Ulteriore sintomo di una politica che, senza cambiare il nome al sistema istituzionale parlamentare, ha messo i governi a fare anche il lavoro delle Camere. A svolgerne le funzioni: non a caso i partiti hanno, di comune consenso, svuotato le prerogative che la Costituzione assegna alle Camere, fingendo di non toccarle. Poi, per non correre rischi, hanno per coerenza svuotato anche non solo le funzioni, ma le stesse attitudini dei parlamentari. Ad esempio, deputati e senatori, oramai nominati dagli oligarchi, non hanno alcuna relazione con i propri rappresentati, perfino quella di conoscenza reciproca. La nuova maggioranza stupirebbe tutti se non trascurasse la prima, grande occasione di mostrarsi diversa, e addirittura più costituzionale, dei figli naturali della nostra Carta.

La vera beffa, beffa positiva e lungimirante, sarebbe la restituzione del ruolo alle Camere da parte dei presidenzialisti in pectore: se pensassero, correttamente, che una buona separazione e la reciproca autonomia tra i poteri dello Stato hanno paradossalmente più ragion d’essere nell’agognato regime presidenziale che non in uno incentrato sul Parlamento. Perché sono i presidenzialismi a mettere a rischio le democrazie, basta guardarsi attorno, in giro per il mondo. Quanti presidenti governanti si sono trasformati gradualmente in dittatori, prendendosi tutti i poteri? Le democrazie parlamentari sono probabilmente meno incisive, ma hanno il grande pregio di custodire le funzioni vitali degli organi costituzionali, raffreddando lo scontro politico.

Non succederà. Ma scaramanticamente, proviamo ad accennare di cosa si tratta. Basterebbe, al momento, rimandare i conciliaboli ministeriali, e promuovere un incontro formale con le presunte opposizioni da parte della maggioranza. Almeno fino ad un voto di fiducia delle Camere, in parlamento non esistono maggioranza e opposizione: tutte le componenti hanno lo stesso titolo a confrontarsi sulle nuove presidenze, e prima ancora sul ruolo delle due Camere. Sarebbe straordinario che si convenisse, assieme, sulla opportunità di rileggere assieme, magari ad alta voce , gli articoli della Costituzione che trattano del Parlamento: difficilmente potrebbero non convenire sulla insopportabile distanza tra lettera di quelle norme(articoli 70 e seguenti) e pratica parlamentare. Il passo successivo potrebbe essere l’identikit di un presidente idoneo all’opera di ripristino di quelle norme. Perché se la governizzazione delle funzioni parlamentari è divenuta la regola, lo si deve anche alla approssimazione e superficialità prevalente nei criteri di scelta dei presidenti delle assemblee: tra i quali la risolutezza dello spirito e della funzione, entrambi terzi, non è quasi mai stato dominante. I presidenti di Assemblea non debbono essere genericamente terzi, ma mettere in conto un periodo di castità politica, senza appartenenze, relazioni gerarchiche, vincoli di fedeltà.

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La risposta comune che serve

giovedì, Ottobre 6th, 2022

di Federico Fubini

Anche nelle prime settimane di lockdown ognuno andava da solo, poi è arrivata la svolta

Le bollette bruciate nelle piazze d’Italia e le code infinite ai distributori in Francia, non appena Total ha offerto uno sconto di 20 centesimi, sono fra le poche buone notizie giunte all’orecchio di Vladimir Putin negli ultimi tempi. Il dittatore del Cremlino ci vede la speranza che la sua strategia del terrore economico funzioni, se solo riesce a tenere duro. Perché quella che Putin sta muovendo all’Europa è semplicemente una guerra dell’energia, che mira a incrinare la coesione delle società democratiche fino a costringere i governi a un cambio di rotta.

Putin vuole che l’opinione pubblica si convinca che non valeva la pena infliggere sanzioni alla Russia, che la sofferenza delle famiglie e delle imprese deve finire e si deve venire a patti con Mosca. Che si deve negoziare e spingere l’Ucraina a una tregua, che dia tempo all’esercito russo di riorganizzarsi dopo le disfatte. Poiché gli ucraini non mollano la presa — anzi, affondano i colpi — Putin vuole convincere noi a mollare gli ucraini. Vuole farlo ricattandoci sul gas. Lo stesso sabotaggio del gasdotto Nord Stream 1, chiunque ne sia responsabile, sembra voler spingere Berlino a fare marcia indietro e attivare Nord Stream 2 fra la Russia e la Germania. Sarebbe una ritirata sulla prima e la più simbolica delle sanzioni contro Mosca prese dall’inizio della guerra. Per questo la posta del vertice europeo che si apre venerdì a Praga non potrebbe essere più alta.

Ne va della tenuta economica delle nostre imprese, di quella sociale dei nostri Paesi e ne va anche del futuro della guerra combattuta a un’ora di volo dai nostri confini. Purtroppo le risposte che l’Unione europea ha opposto fino a questo momento sono insufficienti, soprattutto ora che siamo entrati nel momento più drammatico e decisivo del conflitto. I ventisette governi hanno varato otto cicli di sanzioni contro Mosca, senza pensare alle difese di fronte alla reazione che sarebbe arrivata da Putin. A lungo la Commissione europea ha difeso il «disegno di mercato» nel settore dell’energia in Europa, malgrado le assurdità evidenti: il taglieggiamento praticato da Putin nel più politico dei settori; le oscillazioni paurose del prezzo del gas sulla piattaforma finanziaria di Amsterdam (l’ormai celebre Ttf), trattata fino a poche settimane fa come un totem intoccabile; le centinaia di miliardi che le imprese elettriche d’Europa devono depositare a un’altra piattaforma finanziaria, a Lipsia, per poter vendere la propria energia; soprattutto, l’insostenibilità delle bollette e il loro totale divorzio da qualsiasi realtà economica.

Se non riconosce questi dati di fatto e non offre risposte serie, l’Unione europea è destinata a perdere legittimità agli occhi dei suoi cittadini. In fondo però non si tratta di una situazione inedita: due anni e mezzo fa le istituzioni europee si trovarono di fronte a un dilemma simile nel pieno della pandemia. Nelle prime settimane di lockdown, da alcune capitali e da settori della Commissione europea si diceva l’equivalente — fatte le differenze — di ciò che alcuni hanno fatto capire durante i primi sei mesi di guerra: ognuno doveva cavarsela da sé, non c’era molto che l’Unione europea potesse fare insieme, una risposta comune innovativa non serviva o era impossibile. Anche allora per un po’ prevalsero le recriminazioni reciproche.

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Bollette luce, dalla corrente per la tv al forno: ecco il conto che arriverà a dicembre

giovedì, Ottobre 6th, 2022

Consumi in calo, i volumi del gas secondo Terna: giù anche il civile

Sta già avvenendo per effetto di bollette impazzite: i consumi gas delle utenze residenziali a settembre sono diminuiti del 9,4% rispetto allo scorso anno, seppur in un periodo dell’anno piuttosto mite, dunque è ancora prematuro capire l’andamento. Nel complesso — considerando anche la materia prima per alimentare le centrali termoelettriche e le utenze industriali — i consumi sono scesi del 15,9%, ai minimi da venti anni, secondo le elaborazioni di Terna.

L’elasticità della domanda: caleranno i consumi?

Probabilmente però non abbiamo ancora visto nulla. Perché il conto del quarto trimestre dell’anno per i 10,7 milioni di utenti rimasti nel regime di maggior tutela — cioè col prezzo amministrato dallo Stato e comunicato periodicamente dall’autorità Arera — dovrebbe frenare ulteriormente la domanda, e l’effetto indiretto potrebbe ripercuotersi anche sul prezzo del gas all’ingrosso su cui l’Europa sta cercando una difficile mediazione.

Il conto senza oneri di sistema

Quello che sappiamo è che nei tre mesi che ci separano alla fine dell’anno le tariffe della maggior tutela cresceranno del 59%. Assoutenti ha elaborato un’analisi per il Corriere della Sera «splittando» il conto per elettrodomestico immaginando una famiglia «tipo» di tre persone tenendo in conto anche la spesa per gli apparecchi lasciati in stand-by come decoder e tv. Quasi tutto raddoppia rispetto alla fine del 2021, occorre saperlo, nonostante gli «oneri generali di sistema», che fino a poco tempo fa gravavano per le bollette luce per il 20% del costo finale, siano stati azzerati dal governo altrimenti, ora, il conto sarebbe da capogiro.

Dalla lavatrice al forno, quanto sale il conto per ogni elettrodomestico

Nel confronto tra il quarto trimestre 2021 e il quarto trimestre 2022 la tv passa da 56,4 euro a 125,4 euro, il phon (molto energivoro) da 77,2 euro a 171,6 euro. Il frigorifero da 89,1 euro 198, la lavastoviglie da 65,3 euro 145,2, il computer da 28,2 euro 62,7. E ancora, l’aspirapolvere da 53,4 a 118,8 euro, il microonde da 71,2 a 158,4 euro, il forno da 29,7 a 66 euro, la lavatrice da 71,2 a 158,4 euro, il condizionatore da 118,8 a 264 euro, il decoder da 51,9 a 115,5 euro e la macchina da caffè da 17,8 a 29,3 euro.

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Governo, Meloni: «No a diktat, io ci metto la faccia. È la fase più difficile della vita della Repubblica»

giovedì, Ottobre 6th, 2022

La leader di Fratelli d’Italia: non mi farò imporre profili che non siano all’altezza del compito, nessuno pensi di risolvere i problemi interni al proprio movimento proponendo nomi

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ROMA — «Io ci metto la faccia su questo governo», scandisce Giorgia Meloni davanti all’esecutivo del suo partito, riunito per la prima volta dal dopo elezioni. E, è il logico corollario, lei non ha alcuna intenzione di fallire.

Per questo parla stavolta a ruota libera e permette che il senso e molti passaggi del suo discorso siano diffusi alla stampa, dopo giorni di silenzio imposto ai suoi e a se stessa. D’altra parte, è arrivato il momento di dare indicazioni chiare su come ha intenzione di muoversi in vista dell’incarico che le sarà conferito, e soprattutto di mandare un messaggio agli alleati di partito: «Sono disposta ad ascoltare tutti e a tenere conto delle loro indicazioni, ma sul principio non si può derogare. Serve un governo forte e coeso, autorevole, di persone competenti, di alto profilo», sostanzialmente inattaccabile, perché quella che il suo esecutivo dovrà affrontare è «la fase più difficile della storia della Repubblica».

Quindi è vero, come ribadisce dopo che i suoi lo hanno sussurrato per giorni, che «non ci sono veti» su nessuno. Nemmeno su Salvini. Ma è necessario mettere le persone più adatte nel ruolo più giusto per ciascuno. Ovvero, la premier in pectore non è disposta ad accettare diktat: «Non mi farò imporre nomi che non siano all’altezza del compito». Qui la precisazione sulle tante polemiche su una composizione della squadra sbilanciata su tecnici anziché su politici: il governo sarà «politico», perché c’è una coalizione molto chiara che ha vinto le elezioni e perché a guidarlo ci sarà una leader di partito come lei, con un programma che è scritto e sottoscritto in sede politica.


Ma se serviranno tecnici in ruoli nei quali la coalizione è «scoperta», si ricorrerà a figure tecniche, e nessuno può pretendere il contrario.

Una cosa insomma è certa, il governo non sarà la camera di compensazione dei problemi interni ai partiti: «Nessuno pensi di risolvere i problemi interni al proprio movimento proponendo nomi per l’esecutivo. Dobbiamo dare alla nazione un governo di altro profilo».

E un messaggio molto chiaro Meloni lo rivolge anche alle sue truppe, che saranno coinvolte nell’avventura ma che non potranno tutte aspirare a un posto al sole: «È fondamentale rispettare il peso e i risultati di tutti i partiti della coalizione, compreso ovviamente Fratelli d’Italia. Ma ricordatevi che noi siamo qui per accontentare gli italiani e non i partiti».

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Il piano Meloni per il governo: senza intesa sui nomi, pronta una sua lista. Il nodo resta Salvini

giovedì, Ottobre 6th, 2022

I tormenti e gli obiettivi della leader di Fratelli d’Italia: questo è un appuntamento con la storia, non dormo la notte. L’idea di trovare la quadra entro metà della prossima settimana

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A volte ci scherza su: «Sono 30 anni che faccio politica, che lavoro per portare il mio partito a vincere, arrivo all’appuntamento con la storia — perché per la destra questo è un momento storico — e nel mondo succede di tutto e di più…». Ma anche se prova a sdrammatizzare Giorgia Meloni, la verità è che — confessa — per le preoccupazioni «non dormo la notte».

Per quello che dovrà affrontare, con molta probabilità subito dopo il vertice europeo del 20 ottobre dove dovrebbe andare Draghi a rappresentare il governo.

Lei si affida alle decisioni del capo dello Stato, non fa pressioni, ma nei ragionamenti con i suoi emerge come la cosa più opportuna per il bene del Paese sia che chi ha istruito tutti i dossier sulla crisi energetica vada a far valere la posizione italiana ai tavoli. Poi, toccherà a lei.

D’altra parte, con il governo uscente i rapporti sono molto buoni, come «dovrebbe essere in una democrazia matura: non ci si fanno i dispetti, non si fanno sgambetti». E Draghi, lo dice senza nascondersi, è stato «più che corretto». Il che non significa che lei sia diventata «draghiana: siamo solo persone serie che si comportano seriamente».


Qualche ministro poi l’ha davvero conquistata. Come Roberto Cingolani, che lei considera «intelligente, capace, generosissimo». Non è un mistero che vorrebbe restasse al suo posto, ma lui ha declinato l’invito. Meloni però non si arrende: in qualche modo, magari come consulente, farà di tutto per tenerlo legato a Palazzo Chigi.

Anche altri le hanno offerto aiuto, guarda caso i più vicini a Draghi: Colao, ma anche Guerini.

I ministri politici invece non hanno avuto gli stessi slanci
, raccontano. Ma adesso è tempo di guardare avanti. Con un avvertimento però, rivolto anche ai suoi: non è disposta a farsi imporre nessuno e non si farà condizionare da musi lunghi o diktat o beghe di partito.

Se non si troverà la quadra entro metà della prossima settimana, è pronta anche ad andare con la sua lista dal capo dello Stato e poi presentarsi in Parlamento : chi ci sta bene, chi non vuole votarla non lo faccia e arrivederci. Lei governerà solo con una squadra di sua fiducia e alto profilo, altrimenti tanto vale non cominciare nemmeno.

Il nodo più complicato resta quello del ruolo di Salvini
. Lei è stata chiara con lui: sarebbe bene evitare che magari il Quirinale blocchi la nomina del leader leghista al Viminale, sarebbe un inizio brutto per entrambi. E a quanto trapela, al Colle si preferirebbe evitare che un ruolo così delicato venga affidato a un segretario di partito. Meloni d’altronde teme che, se le piazze diventassero calde, ministri molto caratterizzati potrebbero diventare un problema per la gestione dell’ordine pubblico.

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Ecco come l’Europa finanzia i singoli Paesi ma contro il caro-bollette non ci sono strumenti

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

Francesco Giubilei

La crisi energetica che sta colpendo in modo sempre più grave l’Europa e che rischia di peggiorare nelle prossime settimane, ha fatto emergere tutte le divisioni esistenti all’interno delle istituzioni europee esplose negli ultimi giorni dopo l’annuncio del maxi piano tedesco da 200 miliardi per fronteggiare gli aumenti. Il tema dell’energia è però solo la punta dell’iceberg di una frattura molto più profonda e che divide i paesi in due grandi blocchi: da un lato la Germania con i paesi frugali, dall’altro l’Italia, la Francia e i Paesi mediterranei. In particolare nella giornata di ieri sono emerse le fratture su quattro grandi temi: il Mes, il Pnrr, il Sure e i fondi di coesione. Dietro a queste sigle, più utilizzate da istituzioni e media che realmente comprese dai cittadini, si nascondono misure chiave per il nostro futuro.

Nella sua ultima dichiarazione ufficiale prima della fine del mandato da direttore generale del Mes, Klaus Regling ha affermato che «l’Unione monetaria ha bisogno del Mes, perché la Bce non può finanziare direttamente gli Stati membri, è escluso dai Trattati». E riferendosi all’Italia ha aggiunto: «Non ha mai avuto bisogno di soldi dal Mes ed anzi ne è un forte sostenitore» né ha mai avuto «grandi squilibri macroeconomici» come la Grecia e il Portogallo che vi hanno fatto ricorso.

Mes è la sigla di Meccanismo europeo di stabilità, un fondo finanziario europeo nato per garantire la stabilità finanziaria della zona euro con una capacità di prestito massima di 500 miliardi di euro. L’utilizzo del fondo da parte degli Stati membri determina però un’assistenza sottoposta a strette condizioni al punto che i più critici parlano di un vero e proprio commissariamento degli Stati da parte dell’Ue.

Diverso è lo strumento del Sure, il programma di prestiti a sostegno dei piani nazionali di supporto all’occupazione lanciato nei primi mesi della pandemia. I commissari Paolo Gentiloni e Thierry Breton hanno proposto l’istituzione di un fondo modellato su Sure (costituito da prestiti con tassi di favore erogati agli Stati dalla Commissione) per fronteggiare il caro energia.

Si tratta di un programma differente dal Next Generation Eu, un fondo da 750 miliardi di euro per la ripresa europea (il Recovery Fund) in cui rientra il Pnrr (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) per gestire i 191,5 miliardi (70 in sovvenzioni a fondo perduto e 121 in prestiti) spettanti all’Italia. Secondo il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis «né il Recovery Fund né il RepowerEu finanziano iniziative per sostenere i redditi o cose simili, situazioni che richiedono risorse di altro genere».

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