Tecnici puri. Tecnici d’area. Tecnici battezzati nel fonte battesimale delle urne. Gradazioni. Sfumature.
Visioni
diverse e scintille sulla composizione del nuovo governo. Il partito
dei tecnici assomiglia per certi aspetti al gruppo misto: dentro c’è di
tutto e ci potrebbe anche essere qualche ministro dell’imminente governo
Meloni. Chi andrà all’economia? Insomma, chi occuperà una delle caselle
più pesanti?
Ecco che il tam
tam accredita soluzioni di alto profilo che rispondono a nomi di
tecnici, naturalmente non ostili al centrodestra. Rimbalzano le foto di
Fabio Panetta, in cima ai desiderata di Giorgia Meloni, e di Domenico
Siniscalco, che fu già ministro indipendente con Berlusconi e, non a
caso, se ne andò in polemica per le mancate dimissioni del governatore
della Banca d’Italia Antonio Fazio.
«Io non credo nei tecnici puri
– ha detto sabato Berlusconi in un’intervista alla Stampa – se
esistessero la politica diventerebbe inutile».
E però un
personaggio come Panetta, oggi nel board della Bce, sarebbe un aiuto
straordinario per l’esecutivo che deve accreditarsi nelle istituzioni
europee e dunque avrebbe via libera da tutti i partiti della coalizione.
Peccato che l’interessato abbia già detto e ridetto che lui non ne vuol
sapere. Senza contare il fatto che il Paese perderebbe una voce
autorevole in un consesso strategico e nessuno può garantire che sarebbe
sostituito da un altro esperto italiano. Toccherà allora a Siniscalco?
Ma forse l’incarico potrebbe essere dato a Giulio Tremonti, che occupava
quella poltrona così pesante proprio prima di lui e che sarebbe il più
tecnico dei ministri politici.
Agli
Esteri si riparla di Elisabetta Belloni, la prima donna al vertice dei
Servizi, un tecnico fra i più stimati nel Paese, già a un passo dal
Quirinale quando era stata proposta dal duo Salvini Conte. Poi quella
nomina fu bocciata davanti alle telecamere da Matteo Renzi, ma lei
rimane in pole position per qualunque ruolo apicale. Alla Farnesina
aspira anche Giulio Terzi di Sant’ Agata, già ministro degli Esteri con
Monti, pure lui uscito di scena salutando la compagnia in disaccordo
sulla gestione del caso dei marò. Terzi di Sant’ Agata è un
ambasciatore, ma ormai è entrato nella cittadella costruita da Giorgia
Meloni ed è appena stato eletto senatore nel collegio di Treviglio.
Una
traiettoria che assomiglia a quella di Carlo Nordio, magistrato per una
vita, oggi in pensione e fresco deputato votato in massa a Treviso.
Insomma, un tecnico non più tecnico, anche se non è il caso di
impiccarsi alle forme. Nordio potrebbe diventare Guardasigilli, portando
in dote la sua indipendenza di giudizio, la sua competenza e la sua
lontananza dalla corporazione togata.
Il governo che sta per
nascere dovrà comunque trovare un punto di equilibrio: Berlusconi e
Salvini spingono per un assetto più politico, Meloni cerca riparo dalle
tempeste in arrivo dietro lo scudo di personalità specchiate e dal
curriculum inattaccabile che dovrebbero essere i pilastri della squadra.
L’ombra della penuria di gas si allunga sull’Europa
intera, Italia compresa. Le ultime vicende lasciano presagire un futuro
incerto e carico di ulteriori tensioni. Non bastasse il misterioso
sabotaggio dei gasdotti Nord Stream, con le accuse
reciproche rimbalzate tra Stati Uniti/Unione europea e Russia, e le
inevitabili conseguenze a cascata su tutto il mercato energetico europeo, ecco che tornano ad affiorare le mai risolte spaccature tra i membri Ue.
È lontano, infatti, l’accordo sul price cap, ovvero
sul tetto da imporre al prezzo del gas. Da una parte troviamo la
Germania, contraria a questa soluzione, dall’altra 15 Paesi, tra cui
l’Italia, che l’hanno invece caldeggiata e sostenuta in una lettera
inviata a Bruxelles. Ma non è finita qui, perché nel documento informale
presentato dalla Commissione europea è ben evidente una seconda
divergenza: quella tra i sostenitori del price cap al prezzo del gas,
inteso come all’intero import della preziosa risorsa, e i fautori di una
misura meno radicale, che vorrebbero invece applicare il price cap solo
al gas di provenienza russa.
In uno scenario del genere, la stessa Commissione ha messo sul tavolo
due proposte. La prima: lanciare un nuovo indicatore del mercato del
gas da affiancare al Tdt di Amsterdam, e dedicato al Gnl –
ovvero al gas naturale liquefatto – per slegare quest’ultima fornitura
dai rincari del gas dovuti ad eventuali manipolazioni di Gazprom. La
seconda: imporre un tetto al prezzo del gas usato per generare elettricità.
Questo ipotetico sistema comporterebbe un prezzo amministrativo
ottenuto attraverso un intervento pubblico che andrebbe a pesare sui
bilanci dei singoli stati membri. Più nello specifico, il sistema
elettrico nazionale di ciascun Paese si farebbe carico di pagare la
differenza tra il prezzo di mercato del gas e quello figlio del price
cap. Il punto è che, lasciando ai singoli governi la possibilità di
calmierare i prezzi, si creerebbe una spaccatura tra
quei Paesi che possono effettivamente intervenire in maniera massiccia,
perché dotati di un ingente spazio fiscale, e quelli che, al contrario,
hanno le mani legate.
Il gas divide l’Europa
La Germania, intanto, ha attivato uno “scudo” di un
valore compreso tra i 150 e i 200 miliardi di euro per calmierare i
prezzi del caro energia. Berlino attingerà a piene mani dal Fondo di
stabilizzazione economica, un fondo al di fuori del normale bilancio
federale. “Il prezzo del gas deve andare giù”, è l’imperativo categorico
del cancelliere tedesco Olaf Scholz.
C’è la Germania, dunque, e poi ci sono gli altri Paesi, alle prese
con strane scomparse di gas e rebus all’apparenza irrisolvibili.
Prendiamo l’Italia. “Gazprom ha comunicato di non poter
confermare la consegna dei volumi di gas richiesti per oggi (sabato 1
ottobre ndr) a causa della dichiarata impossibilità di trasportare il
gas attraverso l’Austria. Oggi, pertanto, i flussi di gas russo
destinati a Eni attraverso il punto di ingresso di Tarvisio saranno
nulli”, informava l’Eni sul proprio sito.
Poco dopo è arrivato un chiarimento da parte di un portavoce della
stessa Eni: “A partire da oggi Gazprom non sta più consegnando il gas ad
Eni poiché, stando alle sue comunicazioni, non sarebbe in grado di
ottemperare agli obblighi necessari per ottenere il servizio di
dispacciamento di gas in Austria dove dovrebbe
consegnarlo”. La frase chiave è però la seguente: “Ci risulta però che
l’Austria stia continuando a ricevere gas al punto di consegna al
confine Slovacchia/Austria”.
Dal canto suo Gazprom ha affermato che “il motivo di
questa interruzione sono le modifiche normative in Austria” e che la
società russa “sta lavorando per risolvere il problema insieme
all’Italia”. “Il trasporto di gas russo attraverso l’Austria – ha
aggiunto il colosso russo – è stato sospeso a causa del rifiuto
dell’operatore austriaco di confermare le nomine di trasporto”.
Il Pd è alle prese con tre passaggi cruciali: l’avvio del congresso,
la definizione delle future alleanze e la scelta dei capigruppo di
Camera e Senato. Tre partite incrociate tra loro, che indicheranno la
rotta nel dopo Letta. Sul terreno della battaglia congressuale (giovedì
c’è la direzione nazionale che apre le danze verso il congresso) si
registra lo strappo tra il governatore dell’Emilia Romagna Stefano
Bonaccini e quello campano Vincenzo De Luca. I due presidenti avevano un
accordo: De Luca avrebbe dovuto garantire l’appoggio a Bonaccini in
caso di candidatura alle primarie dem. L’intesa è saltata. Il motivo è
la posizione assunta dal presidente dell’Emilia Romagna in favore della
battaglia leghista per l’introduzione dell’autonomia differenziata. Il
feeling tra Bonaccini e Zaia non è andato giù allo sceriffo salernitano
che ha deciso di ritirare il sostegno al collega del Pd. L’autonomia
differenziata è un tema spinoso, difficile da digerire da Roma in giù.
Il presidente della Campania valuta altre opzioni in campo. Si segnala
nelle ultime ore un avvicinamento tra De Luca e Francesco Boccia. Dal
proprio canto, il governatore dell’Emilia è a un passo dall’annuncio
della candidatura: «La classe dirigente va rinnovata nella sostanza, non
per slogan: abbiamo donne e uomini nel partito dei territori,
amministratrici e amministratori che hanno dimostrato sul campo di saper
vincere. Smettiamola di tenerli in panchina», rilancia dal suo profilo
Facebook.
La seconda partita si gioca sul campo delle alleanze. Una partita destinata a condizionare anche la scelta dei due capigruppo nella prossima legislatura. L’idea è di puntare su due profili graditi a Giuseppe Conte. L’obiettivo è chiaro: far rifiorire il campo largo sepolto dalla gestione Letta. I due nomi che avrebbero chance di riallacciare i fili del dialogo con i Cinque stelle sono Nicola Zingaretti alla Camera e Francesco Boccia al Senato. L’altra opzione è una reggenza con gli attuali Simona Malpezzi (Senato) e Debora Serracchiani (Camera) fino alla scelta del nuovo segretario del Pd. A Palazzo Madama l’ipotesi Boccia sembra però aver perso quota. I senatori bocciano il nome dell’ex ministro per gli Affari regionali. Si fa largo, invece, Cecilia D’Elia. A Montecitorio l’alternativa a Zingaretti sarebbe Peppe Provenzano, il numero due del Partito con una posizione filo-grillina. Si ragiona già anche sul nome del presidente del Copasir: il favorito in casa Pd è Enrico Borghi.
La sconfitta elettorale accende la dialettica interna alla Lega. Lo
fa prendendo vie esterne e laterali, senza un’onda che si propaga
dall’interno. Sono infatti soprattutto gli esponenti della vecchia
guardia, quella più legata a Umberto Bossi e a Roberto Maroni a
sollevare eccezioni e invocare una correzione di rotta.
L’attacco a Matteo Salvini si sviluppa su due fronti: dentro la Lega nasce il «Comitato per il Nord» lanciato dal Senatùr, un progetto che punta a recuperare dialogo e voti nel bacino territoriale più naturale per il Carroccio. Fuori dalla Lega i nordisti ex militanti che Gianni Fava – già sfidante per la segreteria nel 2017 – intende radunare il 15 ottobre a Biassono. Da verificare i numeri di entrambi i tentativi, ma di certo queste iniziative vanno a intercettare umori che oggi sono presenti nelle regioni del Nord. Un elettorato che negli ultimi 30 anni ha avuto la Lega come partito di riferimento e oggi guarda a Fratelli d’Italia
«Il
prossimo 20 ottobre è convocato il consiglio federale della Lega nord
che dovrà fissare la data del prossimo congresso. Salvini stavolta non
potrà correre perché fa il segretario del suo partito personale. Si
riapre la partita per rilanciare la Lega Nord che è cosa diversa dalla
Lega Salvini premier» dice a LaPresse Gianni Fava. «Sono pronto a
rimettermi in gioco come ho fatto 5 anni fa con la consapevolezza che il
mondo è cambiato e stavolta la partita sarà aperta» assicura, dando
appuntamento a sabato 15 ottobre a Biassono (Monza e Brianza) per la
manifestazione «Per il Nord! Riparte la battaglia». Fava non aderirà
alla corrente di Bossi perché «potrebbe diventare una componente di un
partito che non è il mio».
L’ex ministro Roberto Castelli si
schiera su una linea di attesa rispetto alla sortita bossiana. «Se il
Comitato del Nord parte dall’esigenza di portare alla ribalta il
dibattito sulla questione settentrionale, ben venga. Ma vediamo la vera
essenza di questa iniziativa». Per il momento Castelli con la sua
associazione parteciperà all’appuntamento di Biassono.
Il
consigliere regionale veneto Fabrizio Baron ritiene che «la proposta di
Bossi rappresenti uno sfogo figlio del malessere che è dato dalla
lontananza del partito dal territorio». Baron nei giorni scorsi ha
candidato Matteo Salvini a ministro delle Regioni e per l’Autonomia. «Da
3 anni non si fanno congressi, dopo 4 anni al governo non si è riusciti
a fare l’Autonomia che è tema fondante della Lega. In compenso abbiamo
votato per quella specie di Cassa per il mezzogiorno che è il reddito di
cittadinanza per non parlare di come in un nulla abbiamo votato per
Roma Capitale».
Tremano molte valute, in questi giorni, anche di paesi importanti. O
forse no, non tremano nemmeno tanto, per tutte le tensioni che erompono
sui mercati finanziari in una fase di tassi di interesse in veloce
rialzo che parte dagli Usa che ha cancellato un quinto del valore
capitale dei titoli. Vengono a galla tutte le debolezze del globo.
Mentre il dollaro continua a rafforzarsi (+5,5% da ferragosto su un
insieme bilanciato delle altre valute) sono intervenuti a sostegno della
loro valuta Giappone, India, Singapore, Corea, Thailandia. Nell’Europa
fuori dall’euro soffre la Svezia. Ma nel commercio mondiale di oggi il
fattore cambio incide molto meno che in passato. Anni fa la tempesta si
sarebbe scatenata lì, oggi forse no.
Tocca così domandarsi dove altro si manifesterà la prima frattura,
data la quantità di fattori di rischio che preoccupano il Fondo
monetario e la Banca dei regolamenti internazionali. Si sa già di Paesi
emergenti che faticano a rimborsare i creditori eppure spesso le crisi
si accendono inaspettate dal centro. Ieri una banca di peso mondiale, il
Credit Suisse, ha dovuto smentire difficoltà.
La crisi improvvisa della sterlina, che fra l’altro ha messo a nudo
la fragilità di fondi pensione mal regolati, è stata un avvertimento; e
in Gran Bretagna resta troppo alto il mercato immobiliare. In altri casi
potrà succedere che politiche sbagliate si rivelino subito tali; o che
alla fine si provino tali alcune da tempo sospette, come quelle
dell’Argentina o della Turchia.
Il continuo calo delle quotazioni di Wall Street nell’ultimo
trimestre, per un complessivo -5,4%, ha ridotto un importante fattore di
pericolo senza cancellarlo. D’altra parte, le Borse dei Paesi emergenti
sono precipitate in media oltre il 25%. Ovunque aver debiti costa molto
caro: ci si domanda quali operatori possano aprire con le loro
difficoltà un processo a catena.
Dappertutto gli errori vengono a galla. Con i tassi alti della
stretta monetaria anti-inflazione (cominciata in alcuni Paesi emergenti
prima degli Stati Uniti) soffre chi ha preso a prestito per sopravvivere
sia chi lo ha fatto per espandersi oltre misura. Per conto chi la
stretta monetaria l’ha evitata si trova con l’inflazione fuori
controllo, attorno all’80% sia in Argentina sia in Turchia.
Ma accade anche che a causare problemi sia l’opposto, come in
Giappone dove di alzare i tassi non c’è bisogno perché l’inflazione è
ancora bassa, e allora i capitali fuggono altrove a cercare rendimenti
migliori. Mentre fra i Paesi emergenti troppo indebitati ce ne sono
alcuni come Sri Lanka e Zambia che la Cina ha finanziato a piene mani
per la «Via della seta»
Nella tempesta, in quali navi le falle si apriranno prima? Gli alti
prezzi dell’energia e la guerra in Ucraina impongono di aggiustare con
urgenza scelte che erano parse ottime finora. Basti pensare che tre
quarti delle imprese italiane impegnate nel commercio internazionale
hanno dichiarato a Intesa-Sanpaolo che rivedranno le loro catene di
fornitura a scopo di maggiore sicurezza.
TARANTO. «Andrebbero prese decisioni da economia di guerra.
Diversamente, prima le famiglie e poi le imprese sono destinate a
collassare, com’è successo a noi». Attilio Caputo è il direttore
generale di Caroli Hotels, gruppo alberghiero pugliese con 275
dipendenti, tra indeterminati e stagionali. Insieme ai suoi fratelli è
il titolare della storica catena da cinque strutture e mille posti letto
tra Santa Maria di Leuca e Gallipoli. Che da sabato non accettano più
prenotazioni: le bollette passate da 100 mila euro a 500 mila euro al
mese obbligano alla resa. Tutti in cassa integrazione i 275 dipendenti,
in attesa di tempi migliori.
Come siete arrivati a questo punto? «Causa
rincari. Le nostre quattro strutture nel Salento, nel biennio
luglio-agosto, hanno ricevuto una bolletta di 500 mila euro. L’anno
scorso, nello stesso periodo, non superava i 100 mila. E aggiungo che
siamo una realtà certificata Ecolabel che già applica tutte le politiche
di risparmio energetico con dotazione anche di impianti fotovoltaici.
Questa decisione è stata sofferta: per tutelare l’azienda ci conviene
chiudere. Non possiamo riversare questi aumenti sui clienti perché non
sono in grado di sostenerli. È un disastro totale».
Adesso che si fa? «Per ora siamo ancora operativi
e le strutture sono piene. Gli impegni già in essere verranno
rispettati, ma da questo momento non accettiamo più prenotazioni.
Lavoreremo altri 40 giorni, non di più. I dipendenti finiranno in cassa
integrazione. Questo significa interrompere un rapporto di
collaborazione, ma anche umano. Abbiamo persone che lavorano qui da
sempre. Prima il padre, poi il figlio e ora il nipote. Abbiamo una
responsabilità nei confronti di chi ha messo su famiglia o acceso un
mutuo con la garanzia occupazionale. Saremo impegnati con AssoHotel a
far sentire la nostra voce, considerando che il turismo esprime il 14%
del Pil. Qualcosa dobbiamo pur contare. Ma così nessuno riuscirà a
rimanere in piedi».
Che soluzione c’è? «Stabilire un tetto massimo al
prezzo del gas e dell’energia. Proprio la Puglia è al primo posto in
Italia per produzione di energia da eolico e solare e si ritrova a
pagare quanto le altre regioni. Lo Stato suggerisce il credito d’imposta
e la dilazione dei pagamenti, ma non è così che risolveremo i
problemi».
Giorgia Meloni sa di non poter sbagliare una mossa. La
situazione internazionale è drammatica e l’unica maniera di affrontarla,
specie per una figura percepita con qualche diffidenza all’estero, è
presentare una squadra di qualità. Lo ha spiegato nei giorni scorsi agli
alleati, i quali ne hanno dedotto una conclusione: «Giorgia vuole un
governo di tecnici». Una lista vera e propria non è stata sottoposta
durante i colloqui con i leader, ma nei partiti si fa una stima delle
personalità “extraparlamentari” da portare dentro al governo: «È pronta a
nominarne otto o persino dieci». In totale i ministri con portafoglio
sono quindici e quindi, secondo queste previsioni, l’esecutivo che segna
il ritorno della destra al potere sarebbe assai poco politico. E tra
questi ministeri ci sarebbero anche quelli della Sanità e
dell’Istruzione, posti molto ambiti da esponenti dei partiti della
maggioranza. Il problema è, a quanto riferiscono fonti di FdI, che i
nomi fatti finora dagli alleati non soddisfano gli standard di qualità
che la grave situazione internazionale richiede. «Si tratterà di tecnici
di area», hanno cercato di rassicurare i meloniani, cercando di
raccogliere un’obiezione posta da Silvio Berlusconi in un’intervista a La Stampa,
ma Forza Italia e Lega restano preoccupati di essere di fatto
emarginati all’interno del proprio governo. Il grado di tensione è tale
che tra gli azzurri è cominciata a circolare una battuta, «a questo
punto ci potevano tenere il governo Draghi», sarcasmo misto a timore
perché se Meloni si prendesse tutto, quella del 25 settembre
diventerebbe per Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, una vittoria
mutilata. Il leader della Lega ha convocato per domani un consiglio
federale straordinario che all’ordine del giorno ha proprio «condividere
e poi scegliere i nomi più adatti». Una mossa con la quale Salvini
manda un segnale interno in una fase assai delicata della sua
leadership: «Decidiamo insieme». Ma il vero destinatario del messaggio è
Meloni: saremo noi a indicarti i nomi.
I leader a questo punto si sono già visti, un primo giro di opinioni
che, al di là di un clima che tutti definiscono molto cordiale, presenta
un ostacolo non insormontabile, ma serio. La trattativa si è
incagliata: il “governo dei migliori” con una spolverata sovranista «non
è quello che si era detto agli elettori», ragiona un leghista.
Meloni, dopo la prima uscita pubblica da premier in pectore sabato a
Milano, si è presa un giorno lontana dal suo ufficio di Montecitorio, ma
anche da casa sono proseguiti telefonate, colloqui e lo studio dei
dossier. La questione energetica e la piega presa dal conflitto ucraino
fanno «tremare i polsi», ma la premessa per cominciare ad affrontare
direttamente questi problemi è poter formare una squadra di governo. E
quindi convincere gli alleati a mettere da parte le pretese eccessive.
Tra le poche dichiarazioni pubbliche della futura premier in questi
giorni c’è questa: «Vi assicuro che stiamo lavorando a una squadra di
livello che non vi deluderà». Parole che unite a quelle, meno enfatiche,
ascoltate durante i colloqui con Salvini e Berlusconi, lanciano ombre
sulla settimana che si apre. «Può accadere che ci siano personaggi con
un’esperienza tale da essere nel governo, pur non essendo parlamentari,
ma siano dei casi, non la regola», dice Antonio Tajani, coordinatore
nazionale di Forza Italia.
Sfuma l’elezione al primo turno per
il candidato del fronte di sinistra. L’uscente populista resiste nelle
sue roccaforti come il Sud e Rio. Si temono contestazioni
DALLA NOSTRA INVIATA SAN PAOLO –
Testa a testa in Brasile fra Lula e Bolsonaro, che andranno al
ballottaggio il prossimo 30 ottobre. L’ex presidente, candidato di un
fronte ampio delle sinistre, si è fermato al 48,4% dei voti, mentre
l’attuale presidente, candidato del Partito liberale (destra) ha tenuto
nei suoi feudi politici — in particolare il Sud e Rio de Janeiro —
conquistando il 43,3%. Lula, ha visto
così sfumare la possibilità di vincere al primo turno e ancora una volta
i sondaggi si sono rivelati molto imprecisi.
«È solo rimandato, la lotta continua». A
spoglio finito, Lula si presenta ai giornalisti in un hotel del centro
di San Paolo e fa buon viso a cattivo gioco: «Non ho mai vinto
una elezione al primo turno, il ballottaggio è una opportunità di
maturare le proposte». Poi, ricorda che quattro anni fa era detenuto,
«estromesso a forza dalla politica e dissi che saremmo tornati». Ammette
che avrebbe preferito vincere subito, «avrei fatto una breve luna di
miele, tre giorni, con la mia Janja» (la sociologa sposata ad aprile, ndr).
E invece «dovrò aspettare a fine mese. Il 27 compio gli anni, speriamo
che il popolo mi regali la grande vittoria, come nel 2002».
Mentre il presidente uscente Bolsonaro ha dichiarato
che «approfitterà del secondo round per dimostrare la bontà della
politica del governo federale di fronte alla pandemia, citando dati
economici». Quindi ha affermato di aver superato quelle che ha definito
le «menzogne» degli istituti di ricerca, citando Datafolha. «Ora è
fiducia totale».
È stata una giornata lunghissima e
carica di tensione. Oltre 156 milioni di elettori erano chiamati a
scegliere il nuovo presidente e il suo vice, i 513 deputati, un terzo
dei senatori, i governatori e i deputati dei 27 stati federati. Si sono
formate code lunghissime fuori dai seggi, con attese che superavano le
quattro ore. Per questo le urne sono state chiuse dopo l’orario
previsto, alle 17 (le 22 in Italia). Poi è iniziata la conta dei voti —
gli exit poll sono proibiti in Brasile — partendo dalle regioni del sud,
più vicine a Bolsonaro, che fin dall’inizio della campagna ha
contestato il sistema elettorale elettronico. Il presidente ha imposto che le forze armate supervisionassero il voto in un campione di seggi. Non
era mai accaduto prima, ma benché i militari occupino molte posizioni
di comando nell’attuale amministrazione, è improbabile che sostengano
tentativi golpisti. Si temono invece azioni di forza dei sostenitori di
Jair.
«Il bolsonarista più fanatico
dovrà adattarsi alla maggioranza della società», ha avvertito Lula,
parlando alla stampa nella scuola di San Paolo dove ha votato,
accompagnato dall’ormai inseparabile moglie «Janja» e dal candidato
vicepresidente Geraldo Alckmin (suo ex avversario politico). «Sarà
facile ripristinare la democrazia e la pace in questo Paese — ha
aggiunto —. Coloro che non vogliono, che non rispettano la legge… sarà
un loro problema». Sabato sera, incontrando la stampa, ha
affermato che per il secondo turno è «pronto a conversare con chiunque
sia necessario, a fare un’Arca di Noe per migliorare la vita del popolo
brasiliano». Dovrà insomma inseguire il voto degli indecisi e,
soprattutto, trovare un accordo con gli altri candidati presidenziali, o
almeno quelli ideologicamente a lui più vicini: Simone Tebet, la vera
sorpresa di queste elezioni, che ha preso il 4,41% e Ciro Gomes, con il
3,09%.
Perfino nelle disposizioni transitorie finali della Costituzione c’è una prova di cautela nel giudizio sul regime
Nel
perenne revival del fascismo a scopo etico-ammonitorio che si celebra
sui banchi delle nostre librerie (da non confondere con i veri libri di
storia che sono tutta un’altra cosa) quest’anno si è portato molto il
tema «Ma perché siamo ancora fascisti» declinato anche come «Non abbiamo
fatto i conti col fascismo», «Perché l’Italia è ancora ferma a
Mussolini» e così via moraleggiando e biasimando. Col fine, per
l’appunto, di deprecare il fatto che noi italiani saremmo ancora e
sempre innamorati del duce, non ci vergogniamo abbastanza di lui e del
suo regime, insomma non avremmo
compiuto, a differenza dei virtuosi tedeschi, quell’abiura collettiva
della dittatura e delle sue malefatte, necessaria per poter essere dei
veri democratici. Come del resto starebbero a dimostrare i risultati delle elezioni che si sono appena svolte.
Il fatto è che agli italiani, in realtà, quell’abiura nessuno l’ha mai chiesta.
Tanto meno quando era più urgente e giusto farlo, e cioè all’indomani
del crollo del fascismo e della catastrofe bellica. In questo senso ha
un valore paradigmatico la dichiarazione che il 22 giugno 1944 fece il
governo italiano (si trattava del governo presieduto da Ivanoe Bonomi:
il primo, sottolineo, formato da tutti partiti del Comitato di
liberazione nazionale) con parole che meritano di essere ricordate. E
che saranno in seguito, in un modo o nell’altro, ripetute per centinaia
di volte nelle cronache e nei discorsi degli esponenti politici
dell’epoca.
Diceva
quel testo: «Il Consiglio dei ministri nella sua prima ordinanza
constata che esso, per la sua origine politica, rappresenta quella
grande maggioranza del Paese che già nel 1940 era schierata contro la
dominazione fascista e contraria all’ingresso in guerra dell’Italia
accanto alla Germania hitleriana. Perciò
come suo primo atto il Consiglio afferma che soltanto il fascismo è
responsabile dell’adesione dell’Italia al patto tripartito e
dell’ingresso nella guerra (…). La nazione, non più sottoposta
al più oppressivo dei sistemi di polizia ha saputo riprendere in mano le
sue sorti e decidere liberamente del proprio destino».
Ma come ho detto di citazioni
analoghe c’è solo l’imbarazzo della scelta. Mi limiterò ad un’altra
soltanto, per la particolarità della sua sede e della data. È tratta
dall’editoriale dell’organo del Partito d’Azione, L’Italia libera,
del 2 giugno 1946, intitolato «Perché devi votare per la Repubblica».
La risposta del giornale è: «perché votando la monarchia fascista
assumeresti la responsabilità di una politica passata e futura di guerra
e di rovina. Solo la Repubblica è capace di liberarti della responsabilità della guerra monarchico-fascista».
Come si vede l’esempio dei mancati conti con il fascismo venne agli italiani dall’alto e venne proprio dai partiti antifascisti.
I quali a mio giudizio avevano peraltro ottime ragioni per scegliere
questa via e non quella dell’invito all’esame di coscienza e
all’autodafé collettivo. Due ragioni in particolare. Innanzitutto i
partiti antifascisti erano convinti giustamente che, per quanto
fragilissima, la dissociazione di responsabilità degli italiani dal
fascismo (peraltro convalidata dall’esistenza della lotta armata delle
formazioni partigiane) era comunque un argomento indispensabile per
cercare di ottenere dai nostri vincitori le migliori condizioni di pace
possibili. In secondo luogo — e forse innanzitutto — essi si rendevano
conto che una strada diversa — cioè ammonire il Paese all’abiura e al
pentimento — non avrebbe fatto altro che sancire la loro estraneità
rispetto ad esso, accrescere la già ampia diffidenza che in molti
suscitava il loro ruolo di oggettivi alleati dei nemici di ieri, di
gente salita al potere solo grazie alla sconfitta italiana. (Ciò che,
detto tra parentesi fu anche il motivo per cui non fu estradato nei vari
Paesi stranieri che ne avevano fatto richiesta neppure uno delle decine
di criminali di guerra del Regio Esercito).
di Francesco Battistini, Lorenzo Cremonesi, Marta Serafini e Redazione Online
Le notizie di lunedì 3 ottobre, in
diretta. Prosegue con successo la controffensiva delle truppe di
Zelensky per riconquistare Kherson
• La guerra in Ucraina è arrivata al 222esimo giorno. • La città di Lyman
nel Donetsk è pienamente controllata da Kiev. Si tratta di una città
strategica che fa parte dei territori annessi da Putin alla Russia. • Il leader ceceno Kadyrov: «Mosca valuti l’uso dell’arma nucleare tattica». • Stoltenberg (Nato): «Conseguenze serie se Putin usa armi nucleari». • Ci sono fratture interne al Cremlino? I tre assi dell’intelligence occidentale. • Paolo Valentino ha intervistato il miliardario russo Melnichenko,
industriale russo sotto sanzioni: sulle annessioni spiega che
«l’Occidente non ha ancora capito cosa significhi realmente questo
passaggio: sarà impossibile da cambiare. Il caos in Russia può portare
catastrofi», ed è «ingenuo e pericoloso» pensare che «tutti i problemi,
in primis quelli di sicurezza, saranno risolti non appena ci sarà un
cambio di regime». • La Russia chiude il trasporto stradale ai «Paesi ostili».
Ore 09:27 – Russia, reclutatore sospeso: in migliaia mobilitati per errore
Il capo del
reclutamento militare in una regione russa dell’Estremo Oriente è stato
sospeso dalle sue funzioni dopo che migliaia di persone sono state
erroneamente chiamate a combattere in Ucraina. “Il commissario militare
di Khabarovsk krai, Yuri Laiko, è sospeso dalle sue funzioni. Ciò non
avrà alcuna influenza sull’obiettivo fissato per noi dal presidente”, ha
affermato il governatore Mikhail Degtiariov in un video su Telegram,
senza esplicitare il motivo esatto di questa sospensione. “In dieci
giorni diverse migliaia di nostri connazionali hanno ricevuto la
convocazione e si sono recati ai commissariati di polizia militare. Ne
abbiamo mandati a casa circa la metà perché non soddisfacevano i criteri
di selezione per arruolarsi nell’esercito”, ha detto il governatore.
“La mobilitazione parziale riguarda solo le categorie designate dal
ministero della Difesa e dal Presidente. Qualsiasi abuso deve essere
punito”, ha aggiunto.
Ore 08:32 – Kiev, bombe russe su Zaporizhzhia nella notte, vittime
Le forze russe hanno
lanciato la notte scorsa un attacco missilistico contro la città di
Zaporizhzhia, nell’Ucraina meridionale: alcune infrastrutture sono state
distrutte e ci sono vittime. Lo hanno reso noto su Telegram il capo
dell’amministrazione militare dell’omonima regione, Oleksandr Starukh, e
il portavoce del Consiglio comunale della città, Anatolii Kurtieve. Lo
riporta la Ukrainska Pravda. «Il nemico ha lanciato un attacco
missilistico sul centro dell’Oblast (la città di Zaporizhzhia, ndr). Si
stanno raccogliendo informazioni sui danni e sulle vittime», ha scritto
Starukh. Da parte sua, Kurtiev ha aggiunto che alcune infrastrutture
della città sono state distrutte e ci sono vittime.
Ore 08:01 – La Nato sull’Ucraina: «Se Putin usa armi atomiche, la Russia pagherà»
«Conseguenze serie per la Russia» se Vladimir Putin «ricorrerà in qualsiasi modo alle armi nucleari».
Il Segretario della Nato, Jens Stoltenberg, in un’intervista
trasmessa ieri dalla tv americana «Nbc», fa sapere di aver avvisato
direttamente il Cremlino. «Il presidente Putin usa una retorica sul
nucleare pericolosa e imprudente. È vero la stiamo sentendo da diverso
tempo, ma ciò non toglie che resti estremamente pericolosa. Per questo
gli abbiamo comunicato quanto sarebbero gravi le conseguenze per la
Russia: cambierebbe la natura del conflitto».
Stoltenberg, però, non ha chiarito se la guerra «cambierebbe» al
punto da indurre l’Alleanza atlantica a intervenire direttamente in
Ucraina: «Questo è un conflitto iniziato dal presidente Putin. La Nato
non ne fa parte. Quello che facciamo è fornire sostegno all’Ucraina, una
nazione indipendente e sovrana in Europa che ha il diritto di
difendersi da un’aggressione».
Ore 08:00 – Kharkiv, il viaggio in treno per salvare 200 pazienti psichiatrici dai russi: «Erano ridotti pelle e ossa»
«Quando mi hanno
chiamato dall’ospedale e mi hanno detto che Irina non ce l’aveva fatta,
confesso che è stata dura non piangere». Non è certo la prima volta che
Emilie Fourrey, coordinatrice del treno di Msf in Ucraina dedicato
all’evacuazione dei feriti si trova di fronte a situazioni drammatiche.
Ma l’ultimo viaggio non lo dimenticherà tanto facilmente.
Duecento pazienti con patologie neurologiche e psichiatriche,
compresi Parkinson e Alzheimer, messi in salvo dopo essere stati
trasportati – e bombardati – dal confine con la Russia a Strelecha, fino
a Kharkiv e poi, finalmente, grazie al treno di Msf, trasportati a
Kiev. Tra loro anche Irina, sull’80ina. «Soffriva di Parkinson e aveva
contratto tubercolosi e polmonite. Durante il viaggio si è aggravata e
ieri mi hanno chiamato per dire che era deceduta nonostante le cure».
Ore 07:40 – Cosa sono le bombe nucleari tattiche? Potenza, gittata, effetti e scenari
Vladimir Putin avverte che «non è un bluff».
La Russia potrebbe usare le armi tattiche nucleari «per proteggere la sicurezza nazionale».
Il Pentagono e il comando Nato di Bruxelles stanno esaminando le
possibili contromisure . Anche se l’opinione prevalente è che il
bombardamento atomico dell’Ucraina sia tuttora un’ipotesi poco
probabile.
1. Quali ordigni potrebbe usare Putin? L’Armata russa dispone di
circa duemila bombe tattiche nucleari con un raggio di azione limitato,
intorno a uno-due chilometri, ma con un impatto devastante. Le armi
possono essere montate su missili Iskander,con una gittata fino a 500
chilometri, oppure trasportate dai jet.
Ore 07:15 – La carica dei nazionalisti in Russia per la guerra
Chiamatela pure l’invasione degli ultranazionalisti. Sono ovunque.
Nei talk show della propaganda più schierata, ospiti graditi al
pubblico della Russia profonda. Nei parchi della capitale, dove la
domenica mattina qualche loro emulo arringa la folla di mamme con i
passeggini. E soprattutto, nella mente di Vladimir Putin, come ha
dimostrato il suo ultimo discorso, una dichiarazione di odio definitiva
verso l’Occidente collettivo che è al tempo stesso anche un compendio
delle tesi di questo gruppo dalla limitata rappresentanza politica ma di
enorme peso e influenza non solo nell’opinione pubblica.
Come ha scritto Andrei Kolesnikov, docente del Carnegie Endowment
for International Peace , le parole del presidente russo sono state «un
campionario di luoghi comuni cospirazionisti» che trent’anni fa si
sarebbero potuti leggere solo nelle pubblicazioni clandestine di questi
movimenti nazionalisti-patriottici.
La tirata sul colonialismo americano e quella sul satanismo
dell’Occidente sono prese di peso dai manifesti di partiti come la
Russia Conservatrice di Sergei Baburin, di organizzazioni come il
Movimento Russo Imperiale di Stanislav Vorobyov, per altro inserito
nella lista dei gruppi terroristici degli Usa, e di altre minuscole
formazioni. Leggi qui l’articolo completo del nostro inviato a Mosca Marco Imarisio.