MASSIMO GIANNINI
Viviamo un difficile interregno. Come l’inferno, per Giorgia
Meloni la via per Palazzo Chigi è lastricata di buone intenzioni. Alla
sua prima uscita ufficiale, dal palco milanese della Coldiretti, la
Sorella d’Italia dispensa piccole cose di non pessimo gusto. “Abbiamo in
mente di dare risposte efficaci e immediate ai principali problemi”. E
questo è (quasi) tutto. Manca infatti un solo dettaglio, non
trascurabile: “La priorità sarà il costo dell’energia, come sapete siamo
in costante contatto con il governo, impegnato in una trattativa molto
complessa a livello europeo”.
La premier entrante ci tiene a farci sapere che insieme a quello
uscente si sta adoperando per garantire la famosa “transizione ordinata”
tra le due legislature, senza la quale l’Italia si gioca l’osso del
collo: un posto a sedere tra i grandi di un mondo minacciato dalla
guerra nucleare, un ruolo dignitoso in un’Europa travolta dalla crisi
energetica, la stabilità economica e la pace sociale del Paese. È un
messaggio confortante. Per l’oggi, indica senso della misura e della
responsabilità. Ma per il domani, chissà. È questo l’interregno, questa
la terra di mezzo nella quale vaghiamo, sapendo molto di ciò che
lasciamo, niente di ciò che troveremo.
La Vecchia Epoca tramonta: la Politica fallita che cede lo scettro
alla Tecnica, specchio di una crisi di sistema che costringe due civil
servant a fare i presidenti del Consiglio e due presidenti della
Repubblica a prolungare il mandato al Quirinale. Il 2011 e il 2022:
undici anni racchiusi tra due Mario. Monti che prova a tamponare i
disastri del berlusconismo, Draghi che cerca di ricostruire tra le
macerie del contismo.
In mezzo, il lungo kamasutra del demo-grillo-leghismo, dove populisti
capaci di niente si contendono e si scambiamo il potere con governisti
pronti a tutto.
Tutto cambia, dopo le elezioni di domenica scorsa. Quattro italiani
su dieci disertano le urne, e questo è un virus micidiale per tutte le
democrazie d’Occidente. Ma la Politica si prende lo stesso la sua
rivincita. C’è una maggioranza chiara, trainata da un “ex-partitino”
sopravvissuto all’eclissi finiana che in dieci anni decuplica i consensi
ed espugna il Palazzo d’Inverno. Le tre destre riunite conquistano
Camera e Senato, anche se incassano più o meno gli stessi voti del 2018,
circa 12 milioni. Ma hanno 18 punti di vantaggio sulla coalizione
avversaria: un distacco che non ha precedenti nella Storia repubblicana.
Aspettiamo dunque la Nuova Era che sorge. E ci facciamo domande. Chi
sono, questi Fratelli d’Italia? A che razza di destra si ispirano e si
ispireranno? Soprattutto, chi è Giorgia Meloni? Sarà una Thatcher de
noantri, più corriva ma non meno cattiva della Lady di Ferro inglese? O
sarà Evita Melòn, più “sfascista” ma non meno sovranista della First
Lady argentina?
Nulla è chiaro, al momento. Se non l’ennesimo paradosso italiano. In
Patria (e mai come oggi parola fu più esatta) siamo diventati
immediatamente e sospettamente “patriottici”. Come osserva Domenico
Starnone, le preoccupazioni che trapelano da Washington, Parigi o
Bruxelles ci innervosiscono di più delle congratulazioni che piovono da
Mosca, Budapest o Varsavia. I timori delle democrazie più amiche ci
infastidiscono più dei clamori delle peggiori democrature. Come si
permettono, Lorsignori, di intromettersi nei nostri affari interni? Con
che faccia di palta si permettono di ricordare il passato
“post-fascista” di questa destra nata dalle costole del Msi?
Ammettiamolo: ancora una volta, funziona il solito riflesso condizionato
da Strapaese, in continuo andirivieni tra servo encomio e codardo
oltraggio. Ma non è un bello spettacolo. Anzi, è una vergogna. E se nel
caso della premier in pectore come di chiunque altro è sicuramente
inaccettabile far ricadere sui figli le colpe dei padri (tanto più se i
secondi sono malamente scomparsi dalle vite dei primi), è altrettanto
insopportabile la violenza verbale con cui si manganella chiunque si
azzardi a sollevare un dubbio etico, un distinguo politico o anche solo
un giudizio storico. Fa orrore il pestaggio mediatico di un
intellettuale come Antonio Scurati, colpevole di aver scritto una
trilogia su Mussolini, e per questo bollato come “uomo di M…” da
palafrenieri del giornalismo che in passato, per ossequiare il
Cavaliere, ci hanno regalato qualunque dolosa nefandezza: dai
dossier-patacca su Telekom Serbia e i soldi a “Ranocchio, Cicogna e
Mortadella”, alle false veline sull’allora direttore di Avvenire Dino
Boffo. Meloni non ha alcun bisogno di “soccorso ai vincitori”, né di
mediocri apparatciki da servizio pubblico a caccia di poltrone, né di
“volonterosi carnefici” da Minculpop privato in cerca di medaglie. Al
contrario: certi “favori”, che immaginiamo non richiesti, le arrecano
solo danno.
Fatevene una ragione: il futuro dell’Italia non sta a cuore solo agli
italiani. Siamo un Paese fondatore della Madre Europa. Siamo economia
“sistemica” per l’Eurozona. Siamo cerniera tra Ovest e Est. Siamo gancio
della Nato nel Mediterraneo, al quale si possono appendere o impiccare
il Medioriente e il Corno d’Africa. Nulla è indifferente, all’estero, di
ciò che accadrà a Roma nei prossimi mesi. Dobbiamo saperlo. E dobbiamo
sapere che al momento la paura prevale sulla speranza. In pubblico lo
dice Joe Biden, che ragionando sul destino delle democrazie liberali e
sulla minaccia trumpiana in vista del voto di Midterm avverte i suoi
governatori “guardate cosa è appena successo in Italia”. In privato lo
dicono i banchieri centrali, che da Francoforte ci esortano a “preparare
i sacchi di sabbia davanti alle finestre”. Non hanno torto. Nonostante i
prudenti silenzi della leader, tra i “patrioti” fibrilla l’anima
autarchica e isolazionista incarnata dalla dottrina Fazzolari-Pera.
Ribadire anche dopo il voto che “il diritto italiano deve prevalere su
quello comunitario” è un altro modo per tenere sempre accesa la fiamma
tricolore, che arde nel cuore dei nostalgici post-missini e tiene in
continua ebollizione la pentola della destra eurofobica.