Archive for Ottobre, 2022

Meloni vede Cingolani, asse sulle bollette: “Stop agli speculatori, prezzi giù in tre mesi”. Ecco il piano

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

Luca Monticelli

Con gli stoccaggi già al 91% e l’apporto del gas algerino, l’Italia ce la farà a passare un inverno caldo? La risposta è «forse». Sia il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, sia l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, non possono assicurare che nei primi mesi del 2023 il Paese avrà abbastanza metano per riscaldare le abitazioni e garantire la produzione industriale senza dover ricorrere al razionamento.

La questione energetica è al centro dei pensieri della premier in pectore Giorgia Meloni, che ieri ha incontrato proprio Cingolani alla Camera. Sul tetto al prezzo del gas, la leader di Fratelli d’Italia è in continuità con il governo Draghi: «La crisi è europea e come tale deve essere affrontata, azioni di singoli Stati tese a sfruttare i propri punti di forza rischiano di interferire nella competitività delle aziende e creare distorsioni nel mercato unico», dice a proposito della Germania che ha stanziato 200 miliardi contro i rincari. La priorità è «contrastare la speculazione» ribadisce Meloni che sta studiando un intervento sulle bollette per arginare i costi «nei prossimi tre mesi». Per fronteggiare le difficili sfide che l’Italia ha davanti, sottolinea, «è necessario lavorare tutti insieme».

Intanto le bollette volano. La crescita del 70% si traduce in «una maxi-stangata da 2942 euro su base annua a famiglia solo per il gas. Un rincaro del 117% rispetto all’ultimo trimestre del 2021», lancia l’allarme Assoutenti.

Il price cap sul metano resta la stella polare del governo uscente, che propone a Bruxelles di definire un indice europeo con l’obiettivo di ottenere un prezzo che oscilli tra un minimo e un massimo, e che sia agganciato a listini più stabili come l’Henry Hub americano e il Jkm asiatico.

Per il fabbisogno quotidiano continua però a giocare un ruolo fondamentale quel 10% di gas russo che arriva a singhiozzo. Se Putin chiudesse i rubinetti, l’Italia dovrebbe sperare in un inverno mite, e subirebbe comunque uno choc economico, con un drastico taglio della crescita nel 2023. Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia, teme un inverno tutt’altro che tranquillo: «Se ci saranno molti giorni freddi e il consumo aumenterà, a fine febbraio potremmo essere costretti a razionare il gas».

Secondo una ricerca del fondo di investimento Algebris, un completo blocco del gas di Mosca sarebbe «estremamente sfavorevole», anche perché finora l’Italia non si è preoccupata di risparmiare metano. Nei primi sei mesi del 2022 il consumo è calato solo del 2% rispetto allo stesso periodo del 2021, mentre è addirittura aumentato dello 0,7% in confronto al 2019. L’Agenzia internazionale dell’energia conferma che «senza una riduzione della domanda di gas, qualora la Russia interrompesse le forniture, gli stoccaggi arriverebbero a meno del 20% a febbraio».

Lo spettro del razionamento torna perciò ad aleggiare nel dibattito pubblico italiano. Se si osservano i dati del 2020 sui volumi di gas naturale distribuiti nelle regioni, emerge come sia il Nord del Paese il maggior indiziato a subire un razionamento con effetti più pesanti. Tanto per fare un esempio, la Lombardia consuma quasi cinque volte il gas della Sicilia o del Lazio e quasi quattro volte quello della Puglia. Se si sommano i numeri di Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte si ottiene più della metà del gas naturale che viene distribuito in tutta Italia.

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Giuseppe Provenzano: “Il Pd deve guarire dal governismo e costruire una vera alternativa”

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

Annalisa Cuzzocrea

Peppe Provenzano non si candida alla segreteria del Pd. E non è che voglia arrendersi, il numero due di Enrico Letta. Non vuole suonare la campana a morto della comunità che rappresenta, ma pensa che la discussione sulla sconfitta elettorale e soprattutto su quel che c’è da fare adesso «sia molto di più di una gara o una gazebata». E che il futuro del Pd dipenda dalla capacità di costruire «un’opposizione in grado di creare un’alternativa».
La richiesta al Pd di abbandonare nome e simbolo per andare verso qualcosa di nuovo arriva da più parti, perfino da una sua ex presidente come Rosy Bindi. Lei come risponde?
«A me sembra che rischiamo di alimentare ulteriore confusione. Di fronte al governo più a destra della storia della Repubblica, non credo che sciogliere il primo partito di opposizione possa servire. Dobbiamo invece discutere a fondo. Anzi, forse dovremmo farlo per la prima volta e non da soli».

Ammetterà che il Pd doveva essere un argine ben più forte all’avanzata della destra, ma che quell’argine non ha tenuto.
«Siamo stati sconfitti, ma non siamo vinti. Non c’è stata un’onda nera, la destra ha preso i suoi voti, ma attenzione, l’onda potrebbe arrivare adesso se lasciamo sguarnito il fronte dell’opposizione. Mi preoccupa che la discussione tra di noi diventi autoreferenziale e astratta se elude questo fatto nuovo, che ha rilevanza europea e mondiale».

Quindi cosa bisognerebbe fare adesso, subito?
«Costruire un nuovo partito democratico. Affrontare finalmente il nodo della sua identità, sapendo che questo dipenderà dalla capacità di legare l’opposizione in Parlamento al bisogno di alternativa che crescerà nel Paese».

E da dove si parte?
«Dalle fondamenta e non dal nome. In questo senso l’opposizione può essere perfino un’opportunità. Si dice spesso che siamo nati tardi, la verità è che siamo nati vecchi. Siamo nati al governo, mentre esplodeva una questione sociale che ha minato le nostre democrazie dall’interno. Le nostre risposte sono state a lungo deboli. Il problema non è stato solo Renzi, la lotta alle disuguaglianze non era nel certificato di nascita del Pd».

Molto governismo, poche battaglie?

«Il governo senza consenso è stato il suo errore di fondo. Ogni volta c’è stata una ragione, una giustificazione, però alla lunga questo toglie credibilità. Se non hai un’identità riconoscibile è il governo stesso la tua identità. Non possiamo dire, come Jessica Rabbit, che ci disegnano così. Perché noi siamo così, a tutti i livelli, dal nazionale al locale. Svolgiamo una funzione di governo, ma non una funzione politica. Quella per cui le persone o i gruppi sociali ti affidano le loro istanze e sanno che le porti avanti».

Come si recupera quella funzione?
«Se siamo capaci di rispondere alla domanda di fondo: perché la povera gente non ci vota e come riconquistare il suo consenso senza cedere quello che già abbiamo e che non dobbiamo dare per scontato. Non puoi eludere a lungo il tema dell’identità, tanto più quando gli elettori, sia adesso che nel 2018, ma già nel 2013, votano un simbolo, come se ci fosse il proporzionale. Scelgono chi li rappresenta in quel momento».

Scegliere un’identità significa lasciare andare via un pezzo? Scindersi ancora?
«Solo sciogliere le contraddizioni. In 11 anni di governo, su 15 di vita, abbiamo detto tutto e il contrario di tutto. Un grande partito dev’essere plurale, ma su alcuni punti fondamentali non puoi avere due linee. Perché se un segretario, forse tardivamente, dice in campagna elettorale che il Jobs Act va superato e un aspirante segretario dice che invece no, allora un operaio che cosa deve pensare? Io ci sono andato alla Fiom a Torino, è esattamente questo che mi rimproveravano».

Le due anime originarie, quella di centro e quella di sinistra, non possono andare più insieme?
«Non faccio una discussione ideologica, sono un socialista, ma anche nel socialismo europeo bisogna fare chiarezza visto che ci convivono gli spagnoli e i falchi del rigore nordici. Basta guardare alla vita delle persone. L’altro giorno a Firenze un ragazzo di 26 anni è morto per consegnare una cena. Il giorno dopo l’azienda per cui lavorava gli ha mandato una mail di licenziamento per non essersi loggato sulla piattaforma in tempo. Un errore, si sono scusati. Se di fronte a un’ingiustizia del genere non si capisce immediatamente che è il Pd il partito che ti difende, allora non serviamo a niente».

Il segretario ha annunciato un congresso, sono scattate le prime candidature, si riparte dai nomi e dalle alleanze. C’è qualcosa che non funziona in tutto questo?
«Peggio della sconfitta, è stata la reazione alla sconfitta. Serviva una certa solennità, e invece è partita una ridicola ridda di nomi. Ho visto persino alcuni candidarsi dicendo che non gli piacciono le autocandidature – quelle degli altri, evidentemente».

Traduco: Stefano Bonaccini. Lei è considerato uno dei possibili rivali. Si candiderà?
«Vorrei dare un modesto contributo, prima della discussione politica vera che faremo domani in Direzione. Io non mi candido. È un nome in meno. Voglio confrontarmi sulla politica. Vincenzo Cuoco diceva: invece che dei princìpi si discuteva dei prìncipi. Dovremmo fare il contrario».

Il percorso congressuale appare lento, non all’altezza delle urgenze del Paese.
«Partiamo subito. Chiamiamo a raccolta singoli, associazioni, sindacati, allarghiamo la nostra discussione e chiariamoci sulle scelte di fondo. Dall’esito di questa prima fase dipende la capacità della seconda di non essere l’eterno ritorno dell’uguale. Dobbiamo dimostrare di non essere irriformabili. E a differenza di Enrico penso che dobbiamo discutere anche delle nostre regole, perché non puoi dire “facciamo un partito nuovo” con lo stesso meccanismo malato che consuma i leader e ci riporta sempre al punto di partenza. Un po’ più soli».

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La paura atomica e la follia di Putin

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

Nathalie Tocci

È credibile la minaccia nucleare russa? Questa è la domanda che angoscia l’Europa e gli Stati Uniti, così come altre potenze globali quali Cina e India, per non parlare dell’Ucraina, che ne sarebbe la prima vittima. Razionalmente la risposta è un no secco. Ma la storia è piena di follie che, pur non cambiando l’esito di una guerra, sono tanto insensate quanto possibili. È vero che Vladimir Putin ha parlato apertamente dell’uso dell’arma atomica. Lo fece all’inizio dell’invasione, in quella che sperava fosse una campagna di “shock and awe” in salsa russa. Lo spettro nucleare è riemerso più recentemente, da quando la controffensiva ucraina ha iniziato a liberare i propri territori ad est e sud. Sul piano militare convenzionale, la guerra russa è un disastro. Bisogna riavvolgere il nastro di parecchi decenni, se non secoli, prima di arrivare a una débâcle militare russa di queste proporzioni. In questo quadro militarmente disastroso, Putin contemplerebbe dunque l’uso dell’arma nucleare: ottenere attraverso il “non-convenzionale” ciò che “convenzionalmente” non può essere conquistato.

A questo si aggiunge un altro ragionamento che circola spesso: poiché la Russia – che contempla l’opzione nucleare nella sua dottrina militare – ha recentemente annesso quattro province ucraine (anche se in due di esse, Kherson e Zaporizhzhia, non è chiaro quali siano i confini, a sentire il portavoce del Cremlino), ecco che la minaccia atomica sarebbe diventata credibile proprio alla luce della presenza di forze armate di Kyiv in quello che Mosca adesso considera proprio territorio. Grattando la superfice, queste motivazioni non reggono. Non solo perché non è affatto chiaro che la dottrina militare russa consenta un attacco nucleare in Ucraina. Questa prevede l’impiego dell’arma nucleare solo in quattro circostanze. Una di queste è l’eventualità di un attacco su territorio russo, ma solo se questo rappresenta «un rischio esistenziale per lo Stato». E anche se i territori ucraini annessi sono considerati da Mosca territorio russo, sostenere che perderli rappresenti una minaccia esistenziale allo Stato è un volo pindarico non indifferente. A questo aggiungiamo una riflessione di fondo. Un’arma, inclusa quella nucleare, viene utilizzata per ottenere uno scopo. Quale sarebbe l’obiettivo strategico di un attacco nucleare russo in Ucraina? Un attacco dimostrativo, ad esempio nel Mar Nero, servirebbe a poco. Durante la Guerra fredda, l’arma nucleare ha svolto una funzione di deterrenza proprio perché non è stata usata. Sappiamo che la Russia queste armi le ha; usarle per dimostrarlo cambierebbe poco i nostri calcoli. Una bomba nucleare sul fronte, ossia nelle zone dell’est e sud dell’Ucraina, provocherebbe danni enormi. Ucciderebbe non solo militari ucraini, ma anche russi, così come civili, rendendo inabitabili i territori recentemente annessi. E a seconda delle correnti d’aria, a pagare il prezzo delle radiazioni sarebbero pure i cittadini russi all’interno dei confini riconosciuti del Paese. Infine, un attacco nucleare su Kyiv, provocherebbe non solo danni colossali ma anche una reazione internazionale ben oltre quella occidentale. Dopo gli avvertimenti impliciti di Xi Jinping e Narendra Modi, è impensabile che Pechino e Nuova Delhi possano non alzare ciglio di fronte ad un attacco nucleare su una capitale di 3 milioni di abitanti. A questo aggiungiamo la reazione dell’Occidente. Washington ha chiarito che la loro risposta convenzionale – non certo nucleare – avrebbe conseguenze «catastrofiche» per la Russia. E politicamente compatterebbe ancor più il sostegno occidentale all’Ucraina. Mentre la minaccia nucleare svolge un’utilissima funzione di propaganda per il Cremlino, alimentando paure e divisioni occidentali, agire sul piano nucleare otterrebbe l’effetto contrario. Non a caso, mentre l’invasione russa era stata vistosamente negata dal Cremlino – ed i suoi accoliti in Occidente, consapevoli e non – fino al 24 febbraio, un possibile attacco nucleare è sbandierato da Mosca. La minaccia nucleare ha una forte “ratio” politica. Un attacco nucleare no. È politicamente inimmaginabile uno scenario in cui, ad attacco avvenuto, una fetta d’Europa alzi le mani e si consegni alla mercé del Cremlino.

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“Siamo circondati e controllati”. Il collasso dell’armata di Putin nell’oblast di Kherson, il racconto dei canali Telegram pro Cremlino

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

Jacopo Iacoboni

La mappa della ritirata nel distretto di Kherson pubblicata il 4 ottobre dal canale Telegram Rybar, un canale pro Russia

Che cosa sta succedendo nell’oblast di Kherson? Se sono veri i racconti di diversi canali Telegram pro Russia, tenuti da osservatori e blogger per lo più nazionalisti, che si sono guadagnati una relativa notorietà nel mondo di chi segue queste cose, la Russia sta vivendo un nuovo collasso militare. Ecco perché, secondo questi racconti.

Il più esplicito è Roman Saponkov. La causa della ritirata russa è spiegata con tre motivi. Il primo è questo: «Mancanza di rotazione. Le unità della 126ª Brigata combattono da marzo. I soldati andavano in licenza 5 giorni al massimo. Sette mesi in prima linea senza rotazione. Battaglie costanti, ferite, uomini esperti e bombardati sono stati battuti dal personale per sette mesi di seguito. Alla fine di agosto gli stessi uomini hanno messo fuori combattimento la 128ª brigata della Transcarpazia, tanto che è stato dichiarato il lutto in quella zona. In seguito, gli stessi uomini sono stati lasciati al loro posto. Gli ucraini hanno ruotato, hanno tolto 128 unità per riposare, hanno portato altre unità di carri armati e un mese dopo ci hanno buttato fuori dalle nostre posizioni». In questo quadro, osserva Saponkov, i miracoli non accadono, per quanto eroici possano essere i nostri soldati, se il villaggio è difeso da 15 persone e il nemico attacca e bombarda le unità per sette mesi di fila, prima o poi l’unità perderà l’efficacia del combattimento. I rinforzi della «mobilitazione» decisa da Putin non sono ovviamente mai arrivati.

Il secondo motivo del collasso è che, «a giudicare dalla natura delle perdite, il nemico ha usato una tattica per incunearsi tra i nostri punti di appoggio. Con una carenza selvaggia di fanteria, i nostri erano seduti nelle roccaforti, cioè nei villaggi e nelle piantagioni. Il nemico aveva impiegato mesi di ricognizione per trovare punti in cui infiltrarsi tra le roccaforti. Il passo successivo è stato l’introduzione di unità mobili nella loro avanzata. Le nostre truppe erano pesantemente scariche, i supporti resistevano, ma le riserve mobili non c’erano o non erano sufficienti a fermare lo sfondamento». Benché qualcuno abbia scritto che i neo-mobilitati in Russia sarebbero stati spediti al fronte anche con soli due giorni di training (con quali risultati, sarebbe stato facile immaginare), la realtà è che i riservisti, sia a Lyman, sia a Kherson – di cui stiamo parlando – non sono arrivati.

«Le unità di supporto hanno resistito, ma subito, durante le prime ore, si sono trovate circondate, hanno co battuto fino all’esaurimento. In quel momento, l’esercito ucraino aveva così poche forze che non ha nemmeno catturato gli uomini accerchiati, la maggior parte dei quali è uscita verso di noi»

Cosa interessante, il tempo era inclemente, «ed entrambe le parti non hanno usato l’artiglieria. È quindi logico supporre che se avessimo avuto un certo numero di BTG equipaggiati con elicotteri pesanti, in grado di vedere a diversi chilometri, lo sfondamento sarebbe stato fermato. Ma non mi risulta che i carristi abbiano combattuto fino all’ultimo uomo, vi prego di scusarmi in tal caso».

Il terzo motivo del crollo, secondo Saponkov, è assai interessante, e sarebbe che gli ucraini hanno usato uno stratagemma dal sapore omerico: «I ragazzi sul campo riferiscono in massa che le nostre insegne tattiche, cioè la “Z” e la “V”, sono state applicate all’equipaggiamento del nemico, il che ha contribuito alla confusione delle prime ore della battaglia, mentre il fronte crollava. Se questo è vero, significa che il nemico dispone di un sistema americano di gestione della battaglia incentrato sulla rete, in cui tutte le unità sul campo di battaglia sono collegate in rete e contrassegnate da computer, anche a livello di compagnia, per non parlare del livello di battaglione-reggimento». Si tratterebbe (il condizionale è d’obbligo) di una svolta strategica, che segnala una superiorità marcata degli ucraini sul battleground: «Anche un sergente di compagnia su un Humvee, un BMP o un T-64 può vedere sullo schermo dove si trovano le proprie unità e dove si trovano le altre, e non gli importa quali segni ci siano sulle corazze. Se è così è molto grave, perché si tratta di un livello qualitativamente nuovo di controllo delle truppe. E la nostra ritirata è una conseguenza della perdita dell’equazione». La Russia, stando a questo racconto, non ha nulla di tutto questo.

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La sfida per il governo: a FdI il doppio dei posti di Lega e Forza Italia. Per la Salute c’è l’ipotesi di un tecnico

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

di Marco Galluzzo

Su 18 ministeri una decina dovrebbero essere nella disponibilità del partito di Meloni. Ecco i nomi del braccio di ferro interno al centrodestra

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Da in alto a sinistra, in senso orario: Daniela Santanchè, Gian Marco Centinaio, Alessandro Cattaneo e Raffaele Fitto

La mossa della Lega, che chiede 5 ministeri (Interno, Infrastrutture, Turismo, Disabilità, Affari regionali), riapre i giochi nel centrodestra sulla spartizione dei posti. Se in tutto i dicasteri fossero 18 e se Forza Italia ne prendesse quattro questo significherebbe che Giorgia Meloni avrebbe per se stessa e il suo partito una decina di opzioni, compresi i tecnici di area a cui sta pensando.

Il fatto che la Lega reclami gli Interni non solo per le deleghe ma direttamente per Matteo Salvini — come affermano sia Giancarlo Giorgetti che Riccardo Molinari — potrebbe in realtà essere anche una richiesta tattica: chiedere gli Interni per Salvini per poi puntare su altro. In questa cornice i ministri papabili per la Lega potrebbero essere, oltre a Salvini, Gian Marco Centinaio (Agricoltura), Edoardo Rixi (Infrastrutture), Erika Stefani, che potrebbe tornare allo stesso incarico ricoperto nel primo governo Conte (Affari regionali).

Intanto Ignazio La Russa riporta su un binario meno polemico il tema della presenza di eventuali tecnici nell’esecutivo: «Sarà un numero piccolo o medio piccolo, certamente non grande». La Russa stesso è candidato a diventare presidente del Senato, ma nelle ultime ore sembra rafforzarsi la possibilità che Meloni conceda entrambe le Camere agli alleati: la presidenza di Montecitorio alla Lega, che la reclama, forse per Giancarlo Giorgetti, e quella di Palazzo Madama a FI, che potrebbe schierare Anna Maria Bernini.

La pattuglia di azzurri aspiranti al tavolo della presidenza del Consiglio resta più o meno invariata: oltre ad Antonio Tajani, che è sempre in corsa per un ministero di peso, gli Esteri o la Difesa, c’è Licia Ronzulli, già europarlamentare, Paolo Barelli e Alessandro Cattaneo. Se per Tajani è certo che si tratterà di uno dei ministeri chiave del governo, fra i cinque che vengono condivisi con il capo dello Stato, per gli altri le possibili deleghe sono ballerine e incrociano in alcuni casi (le Infrastrutture ad esempio, con Cattaneo) le aspirazioni degli alleati leghisti.

Sulla rappresentanza di Fratelli d’Italia l’unica certezza è il posto di Giorgia Meloni, per paradosso. Giovanbattista Fazzolari, braccio destro della leader, dovrebbe finire a Palazzo Chigi. Guido Crosetto potrebbe avere le deleghe del Mise, che potrebbero appesantirsi con il ritorno delle competenze del Commercio Estero dalla Farnesina e del digitale dall’Innovazione. Raffaele Fitto, che guida il gruppo dei Conservatori a Bruxelles, potrebbe essere il responsabile degli Affari europei. Daniela Santanchè potrebbe contendersi il Turismo con la Lega, mentre Adolfo Urso potrebbe andare alla Difesa o avere la delega di Palazzo Chigi per il controllo sugli apparati di sicurezza.

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Bersani: «Basta con le primarie del Pd, serve un partito nuovo. Meloni risolva il tema del 25 Aprile»

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

di Monica Guerzoni

L’ex segretario dei Dem: «Meloni risolva il tema del 25 Aprile o la Carta non la tocca»

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«Cosa fatta, capo ha».

Pier Luigi Bersani, ha già fatto pace con la batosta
«Guardiamo avanti. Non ha senso rivendicare, né tornare sul già detto».

Gli errori di Letta?
«Siamo amici da una vita, ridicolo buttare solo su Letta la questione. Questa destra non è maggioranza nel Paese. Il problema nostro è costruire un progetto alternativo, che non si è presentato a queste elezioni. Bisognava dal giorno dopo del governo Conte II lavorare in altro modo, stringere i bulloni di un campo progressista».

E ora, da dove si riparte?
«Dallo scenario. In questi anni la forbice di disuguaglianza si è allargata drammaticamente, la fetta di italiani fuori gioco è cresciuta. Avremo mesi molto difficili, con forti tensioni sociali. E le élite, altro fattore di debolezza, hanno perso sensibilità sul fatto che questo Paese vada tenuto assieme».

Le ultime notizie sul nuovo governo, dopo le elezioni

Cosa dovrà fare il prossimo governo?
«La chiave di risposta si chiama solidarietà, altro che “cara Europa è finita la pacchia”. Credo che anche Meloni si renda conto che il modo di difendere gli interessi italiani è costruire una solidarietà europea, perché qualche Paese ha i soldi e noi abbiamo i debiti. Su questa prima sfida si vede subito che tipo di governo e di opposizione avremo. Serviranno soldi, tanti. E poiché noi diciamo no ai condoni e al debito, non resta che prenderli dove sono».

Non penserà a una tassa patrimoniale?
«Io penso che bisogna tirar su 20 o 30 miliardi dagli extraprofitti di quanti, tra Covid, armi ed energia, di soldi ne hanno fatti molti. E se non bastano, da una progressività delle patrimoniali che ci sono già. O ancora, da un contributo di solidarietà dei redditi più alti. Altrimenti non restano che i condoni e il debito».

Come valuta i rapporti tra Draghi e Meloni? Inciucio o transizione ordinata??
«Giorgia Meloni sta attraversando a nuoto il mare che c’è tra il dire e il fare».

Rischia di affogare?
«Nuoterà, magari ci arriva. Adesso ha a che fare con dei problemini e cerca di dare qualche colpo dal lato del politicamente corretto. Finita la traversata, se la destra è quella dei condoni, del rilassamento fiscale e del regalo alle corporazioni si troverà davanti a dei guai molto seri. Poi, andando avanti, immagino che vorranno mettere mano ad alcune loro bandiere, tipo toccare la Costituzione».

Gli italiani sono pronti per il presidenzialismo?
«Nel profondo, sui diritti o sulla flat tax, l’ondata di destra non c’è. Un solo punto può catturare ed è il presidenzialismo, ma a chi non ha riconosciuto il 25 Aprile gli italiani diranno no. Finché la Meloni e la sua compagnia non si rendono conto di giurare su una Costituzione repubblicana e antifascista credo che gli italiani non gli consentiranno di toccare una virgola della Costituzione».

Sta chiedendo a Meloni di abiurare il fascismo?
«Non voglio abiure, né condanne verbali. Ma a proposito di pacificazione Meloni deve prendere atto che il 25 Aprile è un fatto storico, come fanno gli aristocratici francesi quando festeggiano il 14 Luglio. Perché se non prendi atto della storia e della Costituzione su cui giuri è un bel problema. E vorrei informare che Bella ciao la stanno cantando in Iran e in tutto il mondo».

Il 26 settembre da destra vi hanno sbeffeggiati con un «belli, ciao!». La sinistra si rifonda col congresso Pd?
«Nell’assemblea in cui noi di Articolo Uno rompemmo col Pd, febbraio 2017, in epoca di conclamata catastrofe del renzismo, disperatamente invocammo con la voce di Guglielmo Epifani un congresso vero. Non per eleggere il capitano della nave, ma per mettere la nave su una rotta radicalmente nuova. Dopo cinque anni siamo ancora lì».

Il Pd va sciolto, come ha chiesto Rosy Bindi?
«Deciderà il Pd un percorso. Se c’è da dare un contributo di discussione noi ci saremo, non siamo mai andati via dall’idea di una sinistra di governo. Ma è chiaro che la prima domanda nostra sarà “alla fine del percorso c’è un partito nuovo o si montano i gazebo per scegliere il capitano?”. Questo è decisivo. Basta primarie. Il dilemma non è sciogliere o non sciogliere, è allargare, è l’esigenza di un profilo, di un collegamento con il tema del lavoro, di una forma partito adeguata. Io lo chiamo un partito nuovo».

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COMUNICATO STAMPA:VIDEO INTERVISTA ESCLUSIVA

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

Le posizioni sul Price cap, il sabotaggio del gasdotto NordStream, un’Analisi sulla situazione del Caro-bollette per le famiglie ed imprese italiane, la posizione degli Stoccaggi, le proposte per il nuovo Governo.

Cosa è successo tecnicamente al gadotto NordStream? Cosa sta succedendo in Europa?

Un lunga intervista al Presidente di FederPetroli ItaliaMichele Marsiglia, che punta il dito “I soldi per le armi all’Ucraina sono stai trovati, mentre per le bollette alle famiglie ed imprese italiane ancora no”.

Durante l’intervista si parlerà di RussiaPolitica, Extra-profitti, Eni e le politiche energetiche dell’Europa

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Gas dalla Russia, Gazprom: «Ripreso il flusso attraverso l’Austria, soprattutto all’Italia»

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

di Fausta Chiesa

Riprende ad arrivare il gas russo in Italia, dopo lo stop delle forniture comunicato da Gazprom sabato primo ottobre. Lo ha annunciato Gazprom, dicendo che i flussi sono ripresi attraverso l’Austria, soprattutto per l’Italia. Il gruppo energetico guidato da Alexey Miller ha detto che con i clienti italiani (cioè l’Eni) è stata trovata una soluzione al problema regolatorio con l’Austria. «Il problema – aveva spiegato il 3 ottobre il ceo di Eni Descalzi – non è di ordine geopolitico ma è dovuto al fatto che per il gas portato si dovrebbe dare una garanzia in funzione del passaggio di questo gas al trasportatore che porta il gas dall’Austria all’Italia. Diventa difficile pensare che una società che vuole pagare in rubli possa mettere delle garanzie in euro per il passaggio. Noi stiamo vedendo come e se è possibile subentrare o al trasportatore o a Gazprom. Si parla di 20 milioni di euro di garanzie su miliardi di euro che passano quindi adesso vediamo se riusciamo a subentrare e facciamo questo sforzo. Il gas è già in Austria in questo momento il gas non è nelle mani di Gazprom, è rimasto in Austria e in Germania. Sto facendo fare una analisi di compliance ed entro questa settimana spero che questo problema possa essere risolto». gli effetti della guerra

Dunque tornano i flussi in entrata al Tarvisio (al confine tra Friuli e Austria) del metano siberiano, che attualmente rappresenta il 10 per cento circa dell’import italiano, mentre fino al 2021 rappresentava il 40 per cento. Forniture che si sono ridotte, ma che sono comunque necessarie per passare l’inverno in sicurezza, come ha spiegato l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi. Gli scenari con zero gas russo sono stati ipotizzati dall’Agenzia internazionale dell’energia. «Senza una riduzione della domanda di gas e se la fornitura russa venisse completamente interrotta, gli stoccaggi sarebbero pieni per meno del 20% a febbraio, ipotizzando un alto livello di fornitura di Gnl» e «vicini al 5% in caso di bassa fornitura di Gnl», avverte l’Aie. Un crollo delle scorte a tali livelli «aumenterebbe il rischio di interruzione dell’approvvigionamento in caso di un’ondata di freddo tardivo», sottolinea ancora l’Agenzia. Per scongiurare questo scenario, l’Aie ritiene che l’Europa dovrà osservare misure di risparmio «cruciali» per «mantenere le scorte a livelli adeguati fino alla fine della stagione di riscaldamento». Secondo le sue proiezioni, una riduzione invernale della domanda europea di gas di circa il 9% rispetto alla media degli ultimi cinque anni «sarebbe necessaria per mantenere questi livelli di stock al di sopra del 25%» in caso di minori afflussi di Gnl. Inoltre, la domanda europea di gas dovrebbe diminuire del 13% rispetto alla media quinquennale «per mantenere i livelli di stoccaggio al di sopra del 33%» in caso di bassi afflussi di Gnl. L’analisi

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Missili di Corea del Sud e Stati Uniti sul mar del Giappone. Uno si schianta al suolo

mercoledì, Ottobre 5th, 2022

di Guido Santevecchi e Redazione Online

La risposta alla Corea del Nord di Kim Jong-un che aveva sparato un missile balistico sopra il Giappone facendo suonare le sirene. Riunione di emergenza alle 21 del Consiglio di sicurezza dell’Onu

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE DA PECHINO La risposta alla provocazione di Kim Jong-un è arrivata dopo poche ore: intorno alla mezzanotte ora italiana, le forze armate di Seul hanno annunciato che Corea del Sud e Usa hanno lanciato 5 missili terra-terra nel Mar del Giappone. Uno si è però schiantato al suolo a Gangneung, nel nord-est della Corea del Sud. L’esplosione e il successivo incendio provocati dal missile hanno indotto molti a credere che si trattasse di un attacco nordcoreano. L’incidente ha coinvolto un missile balistico a corto raggio Hyumoo-2. Il missile si è schiantato all’interno di una base dell’aeronautica militare alla periferia della città. L’esercito ha fatto sapere che sta indagando sulle cause del «volo anomalo» del missile. In precedenza lo Stato Maggiore della Corea del Sud aveva annunciato che durante le esercitazioni congiunte erano stati lanciati con successo quattro missili Army Tactical Missile System (ATACMS) e un altro missile Hyumoo-2 in risposta alla provocazione del Corea del Nord.

L’operazione è nata, ha spiegato il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, John Kirby, «per rispondere alle provocazioni della Corea del Nord e assicurarci di poter dimostrare le nostre capacità».

Su richiesta degli Stati Uniti (appoggiati da Regno Unito, Francia, Albania, Norvegia e Irlanda) si terrà oggi alle 21 ora italiana la riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite sulla provocazione della Corea del Nord. Il presidente Usa Joe Biden e il primo ministro giapponese Fumio Kishida si sono sentiti al telefono, condannando il lancio nordcoreano.

Tutto è cominciato quando in Italia era l’alba di martedì. «Missile in arrivo, missile in arrivo. Evacuare immediatamente». Si sono svegliati con l’allarme ripetuto incessantemente dai notiziari tv e con il suono delle sirene gli abitanti della prefettura di Aomori sull’isola di Honshu e quelli dell’isola di Hokkaido.

Vita sospesa per una ventina di minuti, nel Nord del Giappone, fermi anche i treni dell’alta velocità.

Un missile nordcoreano è passato sopra l’arcipelago, in un test che segna una ulteriore escalation della minaccia di Kim Jong-un.

La provocazione in Giappone è un drammatico ritorno al passato nell’esibizione di forza del Maresciallo di Pyongyang: aveva fatto lanciare un missile sopra l’arcipelago giapponese per la prima volta nel 2017, al culmine della sua sfida con Donald Trump. Cinque anni dopo, Kim sembra tornare alla vecchia strategia.

Il missile ha volato per 22 minuti, per circa 4.600 chilometri, la distanza più lunga percorsa da un ordigno nordcoreano durante un test ed è piombato nell’Oceano Pacifico, circa 3.200 km a Est dell’arcipelago. Di solito i tecnici nordcoreani programmano la traiettoria dei loro missili con un angolo di elevazione molto pronunciato, per farli ricadere in mare a Ovest del Giappone, evitando il pericoloso sorvolo dell’arcipelago. Il test di questa mattina ha ricordato a Tokyo e a Seul che le loro città sono sotto tiro. Il monito vale anche per gli Stati Uniti, che hanno decine di migliaia di militari schierati nelle basi giapponesi e sudcoreane.

Gli analisti militari ritengono che l’ordigno fosse uno Hwasong-12, un IRBM (Intermediate-range ballistic missile) capace di raggiungere anche la grande base americana di Guam.

Cessato l’allarme generale, il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha definito l’azione nordcoreana «barbara»; il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha promesso una reazione compatta alla sfida; Washington parla di «risposta robusta» alla nuova provocazione.

Quest’anno la Nord Corea ha già lanciato 42 missili in 23 test, cinque negli ultimi dieci giorni.

Sovrastato dal rumore della guerra in Ucraina, Kim Jong-un cerca di richiamare l’attenzione che crede di meritare e che Joe Biden non sembra intenzionato a concedergli. Nel 2017, dopo che un missile nordista aveva sorvolato il Giappone, Donald Trump aveva reagito con un discorso dalla tribuna dell’Assemblea generale Onu, avvisando «l’uomo razzo» che gli Stati Uniti avrebbero «cancellato dalla faccia della terra il suo regime» se non si fosse fermato. Dopo settimane di tensione, Kim a inizio 2018 sorprese Trump e il resto del mondo dichiarando una moratoria nei test missilistici e aprendo una fase di dialogo. Il negoziato fallì durante il vertice Kim-Trump del febbraio 2019 a Hanoi, quando gli americani si resero conto che il Maresciallo non avrebbe mai rinunciato al suo arsenale nucleare.

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Gli incubi da scacciare

martedì, Ottobre 4th, 2022

di Paolo Lepri

L’America di Biden dovrebbe premere, persuadere, intimare. Il segretario dell’Onu Guterres dovrebbe dedicare tutto il suo tempo a uno sforzo di pace senza lasciarsi condizionare dai segnali contrastanti che vengono da Paesi come Cina e India. L’Europa, da parte sua, avrebbe il dovere (e il diritto) di dimostrare che la volontà può contare anche più degli strumenti dei quali si dispone

Che l’abbia scritta o no pensando agli effetti apocalittici della Bomba, con A Hard Rain’s A-Gonna Fall , composta nel 1962 all’epoca della crisi missilistica di Cuba, Bob Dylan ci ha consegnato per sempre la visione di un mondo attraversato da «decine di oceani morti», orrendamente devastato da una esplosione nucleare e dalla successiva «dura» pioggia di scorie radioattive: un mondo «dove nero è il colore e nessuno è il numero». Il futuro premio Nobel per la Letteratura ci assicurava nell’ultima strofa, «iniziando ad affondare», che «avrebbe saputo bene la sua canzone prima di cominciare a cantare». Troppe canzoni come questa non sono state mai cantate da quando con folle volontà di potenza il presidente russo ha aggredito un popolo alla ricerca della libertà. E da quando — pochi giorni fa, ma dopo altre minacce precedenti di questo tipo — il leader del Cremlino ha annunciato l’intenzione di difendere «con tutte le forze e le risorse a disposizione» le regioni annesse nei referendum-farsa (bene ha fatto la Farnesina a convocare ieri l’ambasciatore di Mosca Sergey Razov, direttore d’orchestra del concerto di provocazioni cui assistiamo da tempo nel nostro Paese), evocando «il precedente» delle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki.

Oggi siamo così tornati a vivere l’incubo nucleare. Senza versare lacrime. Immemori del passato, inconsapevoli del futuro, vivendo in una futile dittatura del presente. Sembra quasi impossibile che dopo aver indicato per anni la corsa agli armamenti nucleari come il più terribile dei pericoli che l’umanità aveva di fronte e dopo aver assistito a decenni di negoziato per ridurre o limitare la minaccia, sia un uomo solo a riportarci verso un orrore che avevamo accantonato e di cui forse non capiamo interamente la micidiale portata.

Un uomo solo e male accompagnato. Alle parole di Vladimir Putin si sono aggiunte infatti le farneticazioni dei falchi che lo circondano, come l’ex «numero due» Dmitrij Medvedev (l’uomo che gli tenne il posto tra un mandato e l’altro) o il leader ceceno Ramzan Kadyrov (il padre che ha mandato al fronte i tre figli minorenni, Akhmat, Eli e Adam), che ha addirittura sollecitato l’uso in Ucraina di ordigni nucleari tattici a basso potenziale. Senza paura di cadere nel grottesco, il Cremlino ha poi definito «emotive» le sue dichiarazioni. L’emotività del male, si potrebbe dire.

All’ex dirigente dei servizi segreti divenuto un efferato autocrate la Nato ha risposto, unita, con la ormai abituale e giusta fermezza. È stato il segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, a chiarire che «qualsiasi uso di armi nucleari avrà conseguenze serie per Mosca». Aver passato questo limite è stato definito tanto «sconsiderato» quanto «pericoloso». A Bruxelles come a Washington, a Londra come a Berlino, a Parigi come a Roma (lo tenga a mente il futuro governo, senza esitazioni), bisogna ormai rendersi conto che la Russia si è trasformata, come ha scritto Thomas Friedman, «in una gigantesca Corea del Nord». I cui confini vanno dall’Europa libera ai bordi dell’Alaska.

Ma quali obiettivi si prefigge Putin minacciando l’uso di armi nucleari negli stessi giorni in cui annuncia le annessioni? Secondo un’analisi del New York Times alle ragioni di politica interna e al desiderio di riconquistare il rispetto perduto nel mondo dopo i recenti insuccessi militari, si unisce concretamente il tentativo di limitare o fare cessare l’appoggio occidentale a Kiev e di spingere il presidente ucraino a trattare «in una posizione svantaggiosa». Questo è proprio il nocciolo della questione: non è possibile costruire la pace in Ucraina se si dovesse verificare anche una sola di tali condizioni.

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