Archive for Gennaio 19th, 2023

Fiumi di miliardi: così Soros ingrassa le casse della sinistra

giovedì, Gennaio 19th, 2023

Massimo Balsamo

L’impero non profit di George Soros è il più grande bancomat per le cause politiche della sinistra al mondo. Il report firmato dal Capital Research Center non lascia spazio a dubbi: dal 2000 ad oggi il magnate nato a Budapest ha stanziato 21 miliardi di dollari tra partiti politici, fondazioni private e ong. Ma non si tratta esattamente di una sorpresa: il novantaduenne non ha mai nascosto l’obiettivo di utilizzare la sua enorme ricchezza – guadagnata nei mercati capitalisti – per riprogettare il Paese a sua immagine e somiglianza. Anche se la sua “macchina” è attiva in tutto il mondo.

Gli investimenti di Soros per la sinistra

Come evidenziato da Libero, le organizzazioni di Soros nel corso del 2021 hanno versato la bellezza di 2,7 miliardi di dollari alla galassia di sinistra racchiusa nell’Open Society Network. La maggior parte di questo denaro sarebbe finita nella casse dei gruppi “dark money”, ovvero con caratteristiche fiscali che li rendono irrintracciabili. Riflettori accesi in particolare sull’Open Society Policy Center gestito dal noto avvocato Tom Perriello: erogati 577 milioni di dollari in sovvenzioni nel giro di dodici mesi.

La macchina di Soros è tenuta in piedi dalla Arabella Advisors, società di consulenza filantropica che convoglia denaro verso ong e personaggi che “sostengono l’advocacy politica sui cambiamenti strutturali”. In altre parole, ad attivisti professionisti che spingono le politiche della sinistra ed eleggono democratici in nome della “charity”. Entrando nel dettagli, Arabella Advisors gestisce cinque organizzazioni non profit e diversi investimenti sono stati mirati al sostegno dei candidati dem per le elezioni di miterm, per la precisione 128 milioni di dollari. E ancora, soldi destinati a progetti di opinion making di sinistra o all’Electoral Justice Project, la macchina per l’affluenza alle urne di Black Lives Matter.I soldi di Soros ai compagni 

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Messina Denaro, le scatole vuote nel bunker: gravi sospetti

giovedì, Gennaio 19th, 2023

Il vero covo di Matteo Messina Denaro è un locale blindato – che gli investigatori definiscono anche “stanza riservata” – un rifugio sicuro, ma temporaneo, è stato individuato ieri 18 gennaio a Campobello di Mazara, in via Maggiore Toselli, nel centro del paese. Si trova vicino alla casa di vicolo San Vito dove il boss ha passato gli ultimi sei mesi della sua latitanza. Anche qui continuano le ricerche, così come negli immobili di Andrea Bonafede che ha prestato la sua identità al padrino. Il bunker è all’interno di un palazzo a due livelli: al piano terra si accede facendo scorrere il fondo di un armadio che cela una porta blindata. Qui, sono state trovate diverse scatole vuote, alcuni documenti, gioielli, argenteria.

L’appartamento di via Toselli è di proprietà di Errico Risalvato che nel 2019 subì una perquisizione assieme ad altri presunti fiancheggiatori di Messina Denaro. Il fratello Giovanni, imprenditore del calcestruzzo, ha finito di scontare da poco una condanna a 14 anni ed è libero. La chiave per aprire la stanza l’ha fornita lo stesso proprietario spiegando che custodiva lì oggetti di famiglia, senza convincere gli investigatori. Che infatti si sono recati subito sul posto insieme al procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Guido.

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Bocchino inchioda Travaglio: “Mi hai chiamato per farti togliere le cause”

giovedì, Gennaio 19th, 2023

Scontro su Giuseppe Valentino, candidato di Fratelli d’Italia al Csm (candidatura poi ritirata), tra Italo Bocchino e Marco Travaglio da Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, nell’ultima puntata del 18 gennaio. “Quando candidi al Csm come vicepresidente cioè come capo uno che è indagato per ‘ndrangheta… Per me è un presunto innocente ma a me preoccupa la sua biografia. È un signore che risulta in contatti strettissimi con un certo Paolo Romeo, che non c’entra niente con l’amico di Bocchino, quello dello scandalo Consip”. “Anche amico tuo…”, ribatte Bocchino.

Qui lo scontro a Otto e mezzo tra Bocchino e Travaglio

“Mai stato. Non l’ho mai conosciuto”, precisa il direttore de Il Fatto quotidiano. “Qualche frequentazione l’hai avuta… Gli hai fatto un’intervista fatta da te”, lo incalza Bocchino. “Non sono stato né intercettato né rinviato a giudizio per traffico di influenze come te e Romeo”, attacca Travaglio. Quindi Bocchino lo inchioda: “Sono lo stesso che chiamasti per chiedermi la cortesia di farti togliere le cause che ti aveva fatto Romeo e che ti sarebbero costate molto. Ho ancora i tuoi messaggi di ringraziamento, Marco”.

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Matteo Messina Denaro, la rete di complici tra massoni e medici: indagato l’oncologo che scoprì il tumore

giovedì, Gennaio 19th, 2023

Riccardo Arena

TRAPANI. Spunta la stanza segreta, spunta la rete delle complicità, in gran parte ancora da scoprire: sotto inchiesta finisce un altro medico, un oncologo, così come è indagato anche il proprietario del secondo covo scoperto ieri a Campobello di Mazara dal Gico della Guardia di finanza, grazie ai dati catastali e a un non meglio precisato «aiutino», e perquisito assieme ai carabinieri del Ros. Ma siamo solo all’inizio, con l’esame di carte, preziosi, documenti e pure scatole vuote perché probabilmente – tra lunedì e ieri – già svuotate.

L’appartamento con l’intercapedine segreta, roba da film, era a disposizione di Matteo Messina Denaro, l’inafferrabile superlatitante della porta accanto, catturato tre giorni fa in una clinica di Palermo. Così come erano a sua totale disposizione tante persone, secondo chi indaga. Innanzitutto per curare il tumore al colon individuato tre anni e mezzo fa a Castelvetrano, il paese della famiglia del boss e poi al centro di diagnosi, visite e interventi chirurgici eseguiti fra Mazara del Vallo, Trapani e Palermo, alla clinica La Maddalena, dove è scattato il blitz vincente degli uomini del Ros, coordinati dal colonnello Lucio Arcidiacono.

Proprio questa serie di passaggi sanitari viene analizzata a fondo con l’indagine che, dopo il medico generico Alfonso Tumbarello, adesso coinvolge («come atto dovuto») anche Filippo Zerilli, il primario oncologo dell’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani che per primo, nel 2019, aveva esaminato i vetrini dell’esame istologico intestato ad Andrea Bonafede. Possibile che non sapesse, Zerilli, che il misterioso geometra-bigliettaio dell’Aquasplash aveva prestato la propria vita, oltre che l’identità, a Messina Denaro? A chi indaga premeva il ritrovamento del primo esame istologico, dal quale emergeva il Dna del capomafia: serve un raffronto per avere la matematica certezza che già allora a essere curato fosse Matteo e non Andrea, il latitante e non il suo amico di vecchia data, pronto a comprare l’appartamento-rifugio di vicolo San Vito con i soldi del capomafia. Nell’ordinare la perquisizione dell’abitazione, dello studio e del reparto – dal quale ieri Zerilli era assente per malattia – i magistrati della Dda palermitana, coordinati da Maurizio De Lucia e Paolo Guido, si sono mostrati convinti di sì, che il primario molto noto a Trapani e appassionato di trekking potesse conoscere la vera identità della persona di cui stava esaminando la situazione clinica.

I pm sono stati indotti a questa convinzione da una fonte confidenziale, che potrebbe essere la stessa che ha guidato il Gico in via Maggiore Toselli, a poca distanza dalla residenza ufficiale di Messina Denaro. Quella casa è di Errico Risalvato, strane generalità di un personaggio che effettivamente – nomen omen – aveva evitato una condanna nel 2001, dopo essere finito sotto inchiesta e fratello di Giovanni, condannato invece a 14 anni. Nel novembre 2019, da incensurato, aveva subito una perquisizione assieme ad altri presunti fiancheggiatori. Poi più niente, fino a ieri.

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Il fumo fa male, ma all’aperto solo a me

giovedì, Gennaio 19th, 2023

Michela Marzano

«E allòra bévo», scriveva Eduardo De Filippo in una celebre poesia. «E chistu surz’e vino, vènce ‘a partita cu l’eternità!». Sono le prime parole che mi sono venute in mente quand’ho sentito parlare delle nuove restrizioni sul fumo (senz’altro giuste, non è questo il punto, cioè…, ma ci tornerò) annunciate dal ministro della Salute Orazio Schillaci. Anche se Eduardo non parlava delle sigarette, certo. E sebbene ormai lo sappiamo tutti, io per prima, che il fumo fa male, anzi malissimo, e che a conti fatti cambia poco che si tratti delle sigarette tradizionali oppure delle Iqos oppure di qualche svaporizzatore – tanto io fumo tutto, alterno le bionde alle elettroniche, accumulo fumo e nicotina da così tanto tempo che non so nemmeno più quanti soldi abbia finora buttato via. E però fumo. E tanto. E non ne sono affatto fiera, ci mancherebbe! Ma non posso (e non voglio) farne a meno.

Le sigarette sono le mie stampelle, dico sempre a chi mi chiede quand’è che smetterò, subito dopo avergli detto che, molto probabilmente, non accadrà mai. Sì, lo so che mia madre ce l’ha fatta, che la mia migliore amica pure, che mio marito non ha mai fumato e detesta sentirmi addosso la puzza delle sigarette quando torno a casa, ma che ci volete fare se ho bisogno di una cosa, almeno una, che non controllo? Che ci volete fare se è sul fumo che è andata a finire la mia scelta e che, adesso, ogni sigaretta è carica di simboli e aspettative – se non fumo non mi sveglio, se non fumo non scrivo, se non fumo non mi concentro, se non fumo non mi addormento, tutto e il contrario di tutto, tanto mica è una questione di logica o di razionalità, no? Ma questo riguarda me, potrebbe dirsi qualcuno leggendomi, chissenefrega di come ti comporti tu, che c’entra con la stretta sul fumo annunciata dal ministro Schillaci? Anche se, un po’, c’entra. Perché un conto, almeno credo, è vietare ogni tipo di sigaretta nei luoghi chiusi: nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di imporre agli altri le conseguenze nefaste delle proprie dipendenze. Altro conto, è vietare il fumo anche all’aperto seppur solo quando si è in presenza di minori o di donne incinte. Quest’aspetto delle restrizioni non lo capisco.

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Fate presto: uscite dai social

giovedì, Gennaio 19th, 2023

Concita De Gregorio

Non mi preoccuperò, nello scrivere queste righe, delle reazioni che scatenerà sui social domattina. Ce la posso fare, devo solo pensare alla vita di prima. Me lo ricordo, quando la libertà di dire non era mai in nessun momento attraversata dal pensiero: pensa che giornata mi aspetta domani. Era meglio, senza un filo di dubbio. Era sano lavorare senza la preoccupazione preventiva del sabba infernale che comunque, anche se ti sforzi di ignorarlo, non ignora te: entra dagli interstizi, si fa spiffero e poi tempesta, c’è sempre un amico che ti avvisa: sei in tendenza, hai visto? Tendenza. Che parola assurda, senza l’indicazione di un approdo. Verso cosa tende, esattamente, questa tendenza? Che trappola. La reputazione, la popolarità. E invece, pensa: prima contavano l’identità, l’autorevolezza.

La costruzione di una reputazione a uso del popolo del web là fuori (in verità là dentro: stanno tutti a casa loro) ha fagocitato l’identità. La popolarità e il consenso hanno preso il posto della competenza, della fatica che serve. Non importa chi sei, importa quello che fai credere di essere. Funziona così. Non penserai mica di sottrarti? Se esci sei fuori, fuori piove. Fa freddo. Nessuno ti vede, smetti di esistere. Esci dal mercato, non te lo ha spiegato il tuo agente? Ho vissuto cinquant’anni senza un’agente, rispondevo prima. Ma allora sei scema. E un assistente, un social media manager, un consulente per l’immagine? No, niente, ma siccome è una conversazione da binario morto non lo dico più.

Ora però. Mi pare di intravedere qualche piccolo, timido indizio di saturazione perciò ripeto qui la proposta che feci anni fa all’uomo più illuminato che abbia mai conosciuto il quale mi rispose, saggio: è presto. Forse tra poco sarà tardi, però. Allora, amici: usciamo dai social. Non esistono senza di noi. Si sono impadroniti delle nostre vite per il semplice motivo che gliele abbiamo consegnate. Vivono del nostro sangue che gli forniamo ogni giorno: una bella edificante foto su Instagram, un post che ci renda interessanti e certo migliori di quello che siamo, che nasconda per carità le nostre fragilità, le vite occulte, le nostre vere pulsioni e passioni. E invece: un pensierino, una provocazione, un ricordo accorato, una foto col morto del giorno che certifichi io c’ero, lo conoscevo. Guardate come sono giusto, opportuno, apprezzabile. Ma se non gli dessimo materia, ai mangiamorte, ci pensate? Non esisterebbero.

Lo so, ci sono milioni di persone che ci lavorano: per mancanza di alternativa, sovente. I social media manager, i costruttori di immagine del politico, della celebrità. Ma siamo sicuri che facciano un lavoro utile a loro e a noi, camuffando continuamente la vera natura delle persone? La disillusione, il sospetto, il complottismo che dilaga, il non ce la contate giusta non nascono anche dalla costante dissimulazione della verità come imperativo? La verità, insomma: sparita dietro la rappresentazione. Parli con il mio addetto stampa, con il mio manager, non è una bella risposta da sentirsi dare e neanche una bella frase da dire.

Le persone migliori che conosco non sono sui social. Senza offesa per chi ci campa e lo capisco: i mestieri di una volta non ci sono più, questo è il mondo come va, bisogna arrangiarsi e starci. Però ripeto: statisti, inventori, poeti, navigatori, gente che pensa e scrive e lavora a costruire mondi. Gente che accudisce persone. Gente che lavora tutto il giorno e che poi si dedica a chi ha intorno, fisicamente: che parla e guarda in faccia chi c’è. Non sono sui social. Non hanno il tempo per farlo, né l’interesse. Hanno da fare.

Che poi. Pensavo leggendo le cronache sul Grande Latitante. Hai vissuto trent’anni alla luce del sole, a casa tua. A parte le complicità che certo ci sono e ci sono sempre state, le massonerie, i piccoli politici locali che hai fatto votare e ti hanno protetto, le borghesie contigue con la mafia, le connivenze, va bene. Ma per non essere notati la cosa più semplice è sempre la stessa: non esibirsi, stare nei propri panni. È quando vuoi essere notato che hai bisogno di avere tribuna: un megafono social serve a questo. Quindi prendiamo nota: senza un profilo Facebook o quello che sia, TikTok la dannazione, puoi persino latitare per decenni. Potremmo noi, che non siamo Messina Denaro, vivere sereni la nostra vita di prima: fare cose che ci va di fare e di dire, o non farle, e tornare a essere chi siamo. Restare chi eravamo.

Il grande problema è il terrore di non essere all’altezza delle aspettative altrui. Familiari, professionali, sociali: se scoprono chi sono davvero son rovinato. Dissimulare, costruire vite da recitare, recitarle (i professionisti dello spettacolo sono, in questo, in effetti, avvantaggiati: possono mettere in scena vite domestiche come fossero un film d’autore). Ne parla Niccolò Ammanniti nel suo ultimo libro, La vita intima (Einaudi): nell’intervista che Annalisa Cuzzocrea gli ha fatto su La Stampa, dice cose semplici e mirabili. Intanto, appunto, niente social. Non c’è tempo, la vita è una ed è breve.

Ma poi: quanta energia, quanto tempo e lavoro quanta ansia ci costa sembrare diversi da quello che siamo. E perché. Per chi? Pensate ai ragazzi: alle loro vite tutte quante virtuali, ormai, al sesso imparato sui siti porno alle relazioni mediate dal giudizio del mondo intero, un mondo sconosciuto. Se parlo con qualcuno che ho di fronte so a chi parlo, se parlo con il web non so chi mi ascolta: e come faccio, se ho 12 anni, a piacere a chi mi ascolta senza sapere chi è? Posso solo fare come mi dicono di fare, imitare quelli già popolari. Essere uguale a qualcuno, rinunciare a essere chi sono. È una tragedia, per i ragazzi. Molto più che per noi. Ma è reversibile? Si può uscire dai social? Possono, gli adolescenti, tornare a parlarsi? Dipende anche da noi. Loro arrivano nel mondo che gli abbiamo apparecchiato. Possiamo sparecchiare.

C’è qualche timido segnale, dicevo. «Prospettive economiche più deboli per i colossi di Silicon Valley», leggo. Dopo Amazon, Facebook, Tesla (Twitter) ora tocca a Microsoft licenziare: diecimila dipendenti di troppo. Qualcosa si è rotto. Non sembrano averlo compreso i grandi gruppi editoriali che abbandonano la carta (e la qualità, e le competenze, e la storia delle persone e delle cose) per inseguire i clic, la pubblicità, un mercato vicino al punto di collasso. È una gara a perdere, alla lunga: economicamente, culturalmente. Piantare semi, si dovrebbe. Non raccogliere frutti di alberi esausti. «La verità è nelle mani, negli occhi e nel silenzio», scrive Christian Bobin, poeta. La paura di non piacere, l’ansia di nascondere le nostre debolezze ci ha portati al più fasullo dei mondi che pretende da noi ogni momento qualcosa di più: che ci consegniamo, come comparse.

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Nuova Zelanda, la premier Jacinda Ardern annuncia le dimissioni in lacrime

giovedì, Gennaio 19th, 2023

di Irene Soave

Lascerà l’incarico il 7 febbraio. In una conferenza stampa a sorpresa la leader laburista ha detto: «Non ho più l’energia per continuare». Poi la proposta al compagno: «Clarke, sposiamoci». Le elezioni si terranno il 14 ottobre

 Nuova Zelanda, la premier Jacinda Ardern annuncia le dimissioni in lacrime

Diventata premier a 37 anni, progressista nelle scelte politiche, empatica e salda nella gestione delle emergenze — dall’attentato terroristico di Christchurch alla pandemia — la leader neozelandese Jacinda Ardern è per molti analisti la premier più importante della storia del suo Paese. Dopo cinque anni e mezzo di governo, «i più appaganti della mia vita», ha annunciato in una conferenza stampa a sorpresa che si dimetterà il prossimo 7 febbraio, alludendo ai sintomi di un burnout. Il suo secondo mandato dura da poco meno di tre anni. Le prossime elezioni si terranno il 14 ottobre.

Davanti ai giornalisti, molto emozionata, non è riuscita a trattenere la commozione e le lacrime. La 42enne leader laburista ha detto che durante l’estate aveva sperato di trovare l’energia per andare avanti «ma non sono stata in grado di farlo». «Guidare un Paese», ha detto con voce strozzata, «è un compito di massimo privilegio, ma anche uno tra i più faticosi», ha detto. «Non puoi e non dovresti affrontarlo a meno di non avere un serbatoio pieno. E un po’ di riserva per le sfide inaspettate».

Le sfide inaspettate non sono mancate nei cinque anni di governo di Jacinda Ardern, e il mondo l’ha osservata con crescente ammirazione mentre ne gestiva una dopo l’altra. L’assalto alle due moschee di Christchurch nel 2019 è stata la prima: 51 fedeli musulmani uccisi, 40 feriti da un suprematista bianco australiano. Ardern ha incontrato il giorno seguente la comunità musulmana della città, indossando un hijab e proclamando due minuti di silenzio nazionali. Empatia; ma anche fermezza. Sei giorni dopo ha promulgato leggi decisive per un giro di vite sull’uso delle armi, vietando del tutto l’uso delle semi-automatiche. E ha rifiutato di dire il nome dell’attentatore: «Cercava molte cose in questo atto, tra cui la notorietà. Ed è per questo che non me lo sentirete mai nominare». Pochi mesi dopo il vulcano di Whaakari, un’isola del Paese, erutta e Ardern si trova di nuovo a consolare una comunità; i morti questa volta sono ventuno.

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Jacinda Ardern durante la conferenza stampa a Napier in cui ha annunciato le sue dimissioni da premier (Getty Images)

Eletta nel 2017, era la premier più giovane degli ultimi 150 anni nel Paese, nonché la terza donna in quel ruolo dopo Jenny Shipley (1997-1999) e Helen Clark (1999-2008). Già dopo pochi mesi di governo aveva collezionato una serie di apparizioni più che simboliche: è stata la prima premier del Paese a partecipare a un Pride, nel 2018; a incontrare la regina Elisabetta, al verti ce dei leader del Commonwealth dello stesso anno, è andata indossando il korowai, abito tradizionale Maori. A giugno del 2018 è diventata madre (prendendo sei settimane di maternità): la figlia Neve è stata la prima bambina allattata al seno da un leader nel palazzo delle Nazioni Unite, dove all’Assemblea Generale di quell’anno ebbe persino il suo minuscolo pass.

Ma la massima popolarità all’estero — in patria negli ultimi mesi i sondaggi continuano a declinare — Jacinda Ardern l’ha guadagnata per la gestione, ferrea, della pandemia. Subito chiusura delle frontiere e lockdown, già dopo i primi casi nel 2020; emergenza contenuta efficacemente (nonostante qualche difficoltà nel rimpatrio dei suoi connazionali dall’estero). Un anno fa, in piena ondata di Omicron, ha posticipato le sue nozze: l’emergenza era ancora alta.

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Perché l’arresto di Messina Denaro frenerà la «rivoluzione» di Nordio sulle intercettazioni

giovedì, Gennaio 19th, 2023

di Gianluca Mercuri

Una frenata in realtà è in atto da tempo, perché alla fine è Meloni che comanda. E la cultura della premier, se non si può definire giustizialista è di certo ultra-legalitaria e cozza con il rischio che un allentamento dei bulloni la faccia fare franca a qualcuno

Perché l’arresto di Messina Denaro frenerà la «rivoluzione» di Nordio sulle intercettazioni
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio (nel riquadro)

Concetto numero 1: «Non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo».

Concetto numero 2: «Le intercettazioni servono soprattutto per individuare i movimenti delle persone sospettate di mafia, terrorismo. Anche quelle preventive sono indispensabili. Altra cosa sono quelle giudiziarie che coinvolgono persone che non sono né imputate né indagate e che attraverso un meccanismo perverso e pilotato finiscono sui giornali e offendono cittadini che non sono minimamente coinvolti nelle indagini».

Concetto numero 3: «Andremo avanti sino in fondo, non vacilleremo e non esiteremo. La rivoluzione copernicana sull’abuso delle intercettazioni è un punto fermo del nostro programma».

In teoria, il 18 gennaio al Senato Carlo Nordio, ha tenuto il punto nella sua battaglia ultra-garantista per una delle riforme per cui si batte da anni e sulle quali ora, da ministro della Giustizia, afferma di non volere recedere (ci sono anche cosucce come la separazione delle carriere dei magistrati e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale).

In realtà, però, la sensazione sempre più diffusa è che l’arresto di Matteo Messina Denaro, per l’impatto politico e mediatico che ha avuto, abbia impresso una frenata pressoché definitiva agli intenti rivoluzionari di Nordio in tema di intercettazioni. Una frenata in realtà in atto da tempo, perché alla fine è Giorgia Meloni che comanda e la cultura della presidente del Consiglio, se non si può definire giustizialista, è di certo ultra-legalitaria e cozza d’istinto con il rischio che un allentamento dei bulloni della giustizia la faccia fare franca a qualcuno. Soprattutto se i reati di quel «qualcuno» — i colletti bianchi, i politici, gli amministratori — in molti casi non sono così distinguibili da quelli di mafia. Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, non a caso, ha parlato al Corriere di «borghesia mafiosa» per descrivere «quel mondo amorale al quale appartengono alcuni esponenti delle professioni, della politica e dell’imprenditoria allenati da generazioni a risolvere i problemi attraverso la mediazione di una mafia sempre disponibile».

Certo, resta un po’ un mistero perché Meloni abbia scelto Nordio, se la distanza culturale tra i due è così evidente (la Rassegna se n’era già occupata a fine ottobre), ma è un mistero fino a un certo punto. Alla premier Nordio piace per la sua brillantezza e la sua totale autonomia di giudizio, nonché per la capacità di tenere testa in qualsiasi dibattito a qualsiasi «toga rossa» e di opporsi al pensiero mainstream che tanto la irrita. Se lo propose come candidato del centrodestra alla presidenza della Repubblica, giusto un anno fa, è perché scelte come questa rientrano pienamente nel disegno egemonico meloniano sulla coalizione, il progetto di un grande Partito conservatore che annetta più o meno tutto, lasciando al suo fianco giusto una costola leghista a mo’ di Csu bavarese. E un progetto del genere non può non includere culture più garantiste della sua.

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Il comandante del Ros Angelosanto: «Le liste dei malati e i telefonini spenti: così siamo arrivati a Messina Denaro»

giovedì, Gennaio 19th, 2023

di Fiorenza Sarzanini

L’intervista a Pasquale Angelosanto: la vera indagine inizia ora

intervista

«Chi pensa a trattative segrete o addirittura a una consegna concordata umilia gli investigatori e i magistrati che per anni hanno lavorato giorno e notte per catturare Matteo Messina Denaro». Il generale dei carabinieri Pasquale Angelosanto, il comandante del Ros che lunedì con i suoi uomini ha arrestato il boss della mafia ricercato da trent’anni, non appare affatto colpito dai sospetti che hanno segnato l’operazione di Palermo. Ma ci tiene a essere chiaro: «Sono pronto a ripetere ovunque, anche in un’aula di giustizia, quello che sto dicendo. Lo devo ai miei uomini e tutti lo dobbiamo alle vittime delle cosche». 

Ammetterà che è sorprendente scoprire che Matteo Messina Denaro viveva a pochi chilometri dal paese dove è nato, si curava a Palermo e faceva una vita normale. 
«Non è un caso se il procuratore Maurizio De Lucia ha parlato di “borghesia mafiosa”. La rete che lo ha protetto è molto stretta. E non dimentichiamoci che svariate volte, in tutti questi anni, siamo stati vicinissimi alla cattura e poi siamo stati beffati o traditi».

 Si riferisce a uomini delle istituzioni? 
«La storia è segnata da politici, appartenenti alle forze dell’ordine, funzionari dello Stato arrestati o indagati per aver avvisato il boss che il cerchio si stava stringendo». 

E invece questa volta quando avete capito che il cerchio si era davvero stretto?
«Venerdì scorso, il 13 gennaio, quando il signor Andrea Bonafede ha confermato una particolare terapia presso la clinica la Maddalena. Ma la certezza io l’ho avuta soltanto quando il colonnello Arcidiacono mi ha telefonato e mi ha detto: “L’abbiamo preso, ha ammesso di essere lui”».

 Quanto tempo fa avevate imboccato questa pista? 
«Qualche mese fa. Grazie a indagini e intercettazioni sapevamo di quali patologie soffriva Messina Denaro e abbiamo fatto partire le verifiche. Ci eravamo insospettiti perché in determinati momenti i suoi familiari avevano comportamenti anomali. All’improvviso annullavano impegni già presi, spegnevano i telefoni, diventavano irrintracciabili e dunque abbiamo pensato che questo potesse accadere in occasione di interventi chirurgici o comunque di cure mediche particolari. A quel punto ci siamo concentrati sui database sanitari e siamo andati su obiettivi mirati». 

Che vuol dire? 
«Abbiamo cercato nelle province di Agrigento, Palermo e Trapani la lista di chi aveva oltre 55 anni e si stesse curando, anche con l’acquisto di farmaci specifici, per queste patologie. Abbiamo incrociato i dati e ottenuto una lista di circa 150 codici. Ci tengo a dire che non è mai stata violata la privacy dei cittadini perché abbiamo lavorato su codici, non su nominativi. Soltanto quando la cerchia si è molto ristretta abbiamo avviato le verifiche personali. E agli inizi di dicembre siamo arrivati a Bonafede. Il 29 dicembre ha prenotato una visita per il 16 gennaio. Ci siamo preparati per intervenire. Il soggetto corrispondeva anche perché appartenente a una famiglia mafiosa vicina al padre di Matteo Messina Denaro, ma c’era un’anomalia evidente».
 

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La «carta di Ronaldo» che inguaia la Juve

giovedì, Gennaio 19th, 2023

di  Simona Lorenzetti

Ecco il documento «che non deve esistere». È firmato esclusivamente dall’ex ds Paratici: per i pm, garantiva a CR7 gli arretrati (non a bilancio)

La «carta di Ronaldo» che inguaia la Juve

«Egregio Signor Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro» si legge nell’intestazione. Poi, a seguire, c’è l’oggetto della comunicazione: «Accordo Premio Integrativo — Scrittura integrativa». Infine, si entra nel merito: «Facciamo seguito alle intese intercorse e uniamo alla presente il documento relativo al premio integrativo riconosciuto a suo favore (Accordo Premio Integrativo) e l’ulteriore scrittura integrativa dell’Accordo Premio Integrativo (“Scrittura integrativa”)». Ecco le prime righe della «famosa carta di Ronaldo», quella che «teoricamente non deve esistere» ed è evocata in un’intercettazione tra il capo dell’ufficio legale Cesare Gabasio e il ds Federico Cherubini. La guardia di finanza l’ha trovata nello studio dell’avvocato Federico Restano (a Torino) il 23 marzo 2022, nel corso della seconda perquisizione disposta dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dai sostituti Mario Bendoni e Ciro Santoriello. 

La «carta di Ronaldo» che inguaia la Juve

Il documento è firmato da Fabio Paratici, l’ex ds della Juve indagato con i vertici societari (tra cui l’ex presidente Agnelli e il suo vice Nedved) nell’ambito dell’inchiesta sui bilanci del club. La «carta» è per i magistrati la «side letter» che deriva dalla seconda manovra stipendi relativa alla stagione 2020/2021: la presunta rinuncia fittizia delle mensilità da parte di alcuni giocatori. Si legge ancora: «Nel confermare gli impegni assunti nei predetti documenti, ci impegniamo altresì a consegnarvi entro il 31.07.2021 l’Accordo Premio Integrativo ritrascritto sui moduli federali “Altre Scritture” a oggi non disponibili, e la Scrittura integrativa debitamente sottoscritta». Il documento, con i relativi allegati, non è mai stato depositato in Lega e fa riferimento a un debito residuo che la società aveva maturato con il portoghese prima del suo trasferimento al Manchester: una parte sarebbe stata pagata, resterebbero ancora 19,6 milioni. In un allegato vengono dettagliate cifre, scadenze e «condizioni» alla base del pagamento, cioè la permanenza alla Juve. 

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