Archive for Gennaio, 2023

Sciopero benzinai. Il governo alleggerisce multe e controlli. Il fronte si spacca

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

Marcello Astorri

Riduzione e non retroattività delle sanzioni, un tavolo per riformare il settore, contrastare i contratti illegali, ristrutturare la rete di distribuzione e tagliare i costi per le transazioni elettroniche. Ma resta l’obbligo di esposizione del prezzo medio regionale. Queste le proposte avanzate dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, nell’incontro di ieri con le sigle sindacali dei benzinai Figisc, Fegica e Faib. Non è bastato però a evitare lo sciopero, che è partito alle 19 di ieri (alle 22 in autostrada).

Ai sindacati dei benzinai «abbiamo proposto delle tempistiche più semplici sia per la comunicazione del prezzo medio al ministero, sia per le sanzioni che sono più congrue rispetto alla possibilità che loro hanno di continuare al meglio la loro attività», ha detto Urso, rientrando al ministero. «La prossima riunione è prevista per l’8 febbraio in cui affronteremo alcune tematiche di particolare interesse anche per tutelarli dalla concorrenza sleale in questo settore». Urso ha poi aggiunto: «Ci auguriamo che gli esercenti decidano in modo tale da evitare che ci siano disagi per i cittadini italiani». Questa mattina, alle 11, le sigle sindacali si riuniranno per decidere se accorciare o meno la mobilitazione che, in ogni caso, durerà almeno fino a questa sera alle sette. La Faib Confesercenti, in una nota, «ha valutato e ritenuto positive le aperture presentate» dal ministro e ha già annunciato di voler ridurre a 24 ore lo sciopero. Più critiche, invece, Fegica e Figisc/Anisa, orientate verso lo sciopero di due giorni: «Troppo poco e troppo tardi per revocare lo sciopero. Il tentativo in extremis fatto dal ministro Urso, peraltro apprezzato, non riesce ad intervenire con la necessaria concretezza». Ma cosa c’è di nuovo nella proposta? Alle modifiche al Dl trasparenza già formalizzate e trasmesse al Parlamento, come riduzione delle sanzioni da 200 a 800 euro, l’obbligo di comunicazione dei prezzi settimanale (e non più giornaliero), chiusura dell’impianto solo dopo 4 omesse comunicazioni in 60 giorni e riduzione del periodo di chiusura tra uno e 30 giorni, tempi più lunghi per l’esposizione del cartellone col prezzo medio, si sarebbe aggiunto l’impegno per una non retroattività delle sanzioni, vale a dire la punibilità dell’omessa o ritardata comunicazione solo al momento dell’accertamento. Inoltre, il ministro ha accettato di allestire un tavolo di confronto, che sarà convocato la prima volta l’8 febbraio. «L’annuncio dell’avvio del tavolo volto a ristrutturare la rete distributiva e ridare un piano regolatorio certo va nella direzione giusta», sottolineano Figisc e Fegica. Verrà avviata, inoltre, un’interlocuzione per una revisione della cartellonistica, con la possibilità di razionalizzare i cartelli da esporre. Il ministero, poi, aveva già annunciato la realizzazione di un’App gratuita per conoscere il prezzo medio regionale.

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Il secolo dell’Avvocato

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

A vent’anni dalla morte Ezio Mauro racconta Gianni Agnelli. La figura dell’Avvocato ha attraversato il Novecento in tutti i suoi aspetti, qui ripercorsi in un viaggio tra fabbrica e politica, vicende personali e successi pubblici, Italia e mondo, ma che mantiene come suo centro Torino e la torinesità.

LA STAMPA

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Settimana corta: in 18 Paesi si lavora già quattro giorni. Ecco dove

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

di Milena Gabanelli e Francesco Tortora

Nel mondo post-pandemia delle dimissioni di massa e dell’ormai endemica carenza di personale, si sta facendo strada la settimana lavorativa di quattro giorni. Nel 2023 in almeno 18 Paesi decine di imprese la stanno attuando o sperimentano progetti pilota. La scommessa prevede che lavorando un giorno in meno, ma a stipendio pieno, diminuisca l’assenteismo e aumenti la produttività. Ne beneficerebbero l’ambiente grazie alla riduzione di CO2, la qualità di vita dei lavoratori e le aziende, che diventerebbero più attrattive per personale qualificato e motivato.

2018: in Nuova Zelanda parte la settimana corta

Tra i primi sostenitori della settimana corta si può annoverare l’economista inglese John Maynard Keynes che nel saggio del 1930 «Possibilità economiche per i nostri nipoti» vedeva l’opportunità «di lavorare solo 15 ore a settimana entro un paio di generazioni». Da allora la politica ha rispolverato periodicamente l’idea di lavorare meno a parità di retribuzione. Nel 1956, l’allora vicepresidente degli Usa Richard Nixon dichiarò che la svolta sarebbe arrivata «in un futuro non troppo lontano». Oggi a rilanciarla concretamente è «4 Day Week Global»: la Ong senza scopo di lucro ha esteso a livello internazionale l’esperimento di «Perpetual Guardian», una società fiduciaria neozelandese con 240 dipendenti che dal 2018 ha adottato con successo la settimana lavorativa di 4 giorni. L’iniziativa prevede che in ogni Paese aderente un gruppo di aziende partecipi a un progetto pilota di 6 mesi basato sul modello «100:80:100»: 100% dello stipendio ai dipendenti che però lavorano l’80% delle ore previste (di solito 32) e si impegnano a raggiungere gli stessi risultati che si conseguirebbero lavorando 5 giorni a settimana.

I test nelle aziende Usa e Gran Bretagna

A inizio 2022 è stato condotto il primo importante test scientifico monitorato dai ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Università di Oxford, del Boston College e coordinato da «4 Day Week Global». Trentatré piccole e medie imprese sparse tra Usa, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Irlanda, Regno Unito, che impiegavano complessivamente 903 dipendenti, hanno deciso di seguire il modello «100:80:100». Alla fine del periodo di prova, su 27 società interpellate, nessuna ha dichiarato di voler tornare alla settimana di 5 giorni. Gli indicatori hanno dimostrato che l’esperienza era stata positiva. In media durante il test i ricavi delle aziende sono aumentati dell’8%, l’assenteismo si è ridotto (da 0,6 a 0,4 giorni al mese) e le dimissioni sono leggermente diminuite. Da giugno a dicembre 2022 un nuovo progetto pilota seguito dagli stessi ricercatori è stato lanciato nel Regno Unito: coinvolte 72 aziende con oltre 3.300 dipendenti. Si tratta di banche, società di marketing, assistenza sanitaria, servizi finanziari e vendita al dettaglio. A metà del periodo di prova l’89% delle imprese ha espresso la volontà di continuare l’esperienza nell’anno successivo. La produttività è migliorata «leggermente» per il 34% delle aziende, «in modo significativo» per il 15%, mentre il 46% ha risposto che è rimasta praticamente la stessa, nonostante tutti lavorassero un giorno alla settimana in meno.

Europa: in corso i progetti pilota

Negli ultimi anni la settimana corta si sta testando soprattutto in Nord Europa. Ha iniziato l’Islanda, che tra 2015 e 2019 l’ha sperimentata nel settore pubblico: le ore lavorative sono passate da 40 a 35 da smaltire in 4 giorni senza alcun taglio di retribuzione. Il test, al quale hanno partecipato circa 2.500 dipendenti, è stato così positivo da essere esteso al settore privato. Oggi nel Paese l’86% della popolazione lavora con l’orario ridotto. Progetti pilota si stanno conducendo in Germania su 150 aziende e in Irlanda su 20. In Lituania dal 2023 chi ha figli sotto i 3 anni e lavora nel settore pubblico può scegliere la settimana corta, e in Scozia a inizio 2022 il governo ha lanciato un fondo di 10 milioni di sterline per finanziare le società che vogliono partecipare all’iniziativa. Nel dicembre 2022 è stata la volta della Spagna che ha finanziato un fondo governativo di 10 milioni di euro destinato a circa 70 piccole e medie imprese. Ognuna di queste aziende, che applicano una riduzione di almeno il 10% dell’orario di lavoro e si impegnano a mantenerlo per almeno 2 anni, riceve dal Ministero dell’Industria fino a 150 mila euro. Infine c’è il Belgio: dal 21 novembre scorso, e per un periodo di 6 mesi, le aziende possono concedere ai lavoratori la settimana corta senza tagli di stipendio, mantenendo però lo stesso numero di ore lavorative, ovvero 36. In Italia per ora solo Banca Intesa ha lanciato in fase sperimentale la settimana corta su circa 200 filiali, accoppiata a 4 mesi di smart working. E come per i dipendenti belgi, lavorando un giorno in meno le ore da passare in ufficio salgono a 9.

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Tangenti, l’architetto che ha detto no a un milione di euro e ha denunciato i corrotti

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

di  Andrea Priante

L’architetto veneziano è «l’eroe» che si è ribellato al sistema: «Non mi lasciavano altra scelta che vendere i miei terreni a chi volevano loro. Ma io ho registrato tutto di nascosto»

Tangenti, l’architetto che ha detto no a un milione di euro e ha denunciato i corrotti
Il procuratore capo di Venezia Bruno Cherchi (Vision)

«Ero esterrefatto dalle richieste fattemi dal primo cittadino». E il motivo è evidente: il sindaco Fragomeni e la banda di intrallazzatori che lo circondava «stavano in qualche maniera coartando la mia volontà». È l’ottobre del 2019 quando un architetto veneziano si presenta dai carabinieri e usa queste parole per denunciare la richiesta di una tangente che gli era arrivata dall’allora primo cittadino di Santa Maria di Sala, Nicola Fragomeni, e dal consigliere comunale Ugo Zamengo

La «resistenza  morale»

Per il gip di Venezia ha dimostrato «resistenza morale», e nei suoi confronti, il procuratore capo Bruno Cherchi usa parole di velluto: «Questa indagine è stata lunga e complessa – spiega il magistrato – gestita in maniera encomiabile, ed è nata perché un cittadino non ha accettato e ha mantenuto la “schiena diritta” contro un sistema che prevedeva richieste di denaro da parte di pubblici ufficiali. Ha dimostrato la forza di non cedere alla tentazione di avere dei vantaggi». A 53 anni, questo professionista si ritrova a indossare i panni – sempre piuttosto scomodi – dell’eroe: ha rinunciato a un milione di euro pur di non pagare una mazzetta ai due amministratori comunali. Ma grazie alla sua segnalazione i carabinieri hanno avviato la maxi-inchiesta che lunedì ha portato all’arresto di sei persone tra politici locali, imprenditori e professionisti. Il contributo dell’architetto veneziano emerge dall’ordinanza con la quale il gip ha spedito i sei indagati agli arresti domiciliari. Nella denuncia il 53enne scrive: «Nel 2015 io, mia madre e i miei fratelli abbiamo ereditato del patrimonio immobiliare. Tra i beni vi è un terreno di quasi due ettari nel comune di Santa Maria di Sala». Nel 2017 trova finalmente un acquirente disposto a pagare un milione e 100mila euro per l’acquisto dell’area, a patto che il Comune approvi «un progetto da me redatto su indicazione dell’acquirente» che prevede di realizzare su quel terreno «un’area commerciale e residenziale».

L’incontro

Qualche tempo dopo, spiega l’architetto, incontra Fragomeni: «Il sindaco mi riferiva che vi era un costo da sostenere “come onere aggiuntivo” di 10 euro al metro cubo. Pensavo si trattasse di oneri di urbanizzazione, ma mi diceva di no, che erano oneri per “la gestione della pratica”. All’epoca non ci diedi peso, ma oggi ho ben chiaro di cosa si trattava…». Infatti, dopo che per due anni la sua istanza non riceve risposte dal Comune, a luglio del 2019 gli arriva «una chiamata dal geometra Carlo Pajaro (il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune di Santa Maria di Sala, ndr) che mi invita in ufficio per parlare». Il tecnico gli chiede se l’acquirente è ancora interessato al suo terreno e, quando ottiene conferma, i due si salutano. L’incontro successivo avviene a ottobre. «Lui era da solo, mi ha detto che c’era una nuova proposta da 1,2 milioni di euro per l’acquisto del mio terreno e che mi sarei dovuto rivolgere all’architetto Marcello Carraro (pure lui tra gli arrestati, ndr)». Stando alla procura, le persone interessate all’area sono quelle che, in accordo col sindaco, sperano di costruirci sopra una casa di cura. Ovviamente, dopo aver vinto un appalto pubblico «pilotato». Il veneziano scopre però che Carraro pretende, per la sua opera di mediazione, il 3% del valore della compravendita. Ma il problema è un altro: gli scoccia tradire la parola data al precedente acquirente, anche se capisce che il Comune preme perché accetti la nuova proposta.

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Henry Kissinger: “Il mio amico Gianni era un vero atlantista, ma diceva sempre che la Russia sta in Europa”

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

Lucio Caracciolo

Henry Kissinger, cento anni a maggio, ricorda con emozione il suo amico Gianni Agnelli a vent’anni dalla scomparsa. Il più influente teorico e pratico della politica estera americana, tuttora attivo sulla scena pubblica internazionale con opinioni spesso controcorrente, ha fama di uomo freddo. Non le è. Certo non quando parla del presidente della Fiat, con il quale ha condiviso una lunga e profonda amicizia: «Gianni Agnelli era un uomo di visione, di grande umanità e apertura mentale. Aveva uno charme leggendario, a cui anche io – sulle prime – ho cercato di resistere. Ma non è stato lo charme a creare l’amicizia. È stata l’ampiezza dei suoi interessi. E così siamo diventati amici».

Quando?

«Ci siamo conosciuti nel 1969, quando accompagnai il presidente Nixon durante una visita a Roma. Ci fu una meravigliosa cerimonia al Quirinale, con molti politici e uomini d’affari italiani. La nostra amicizia si è cementata nei due anni successivi. Ogni volta che veniva in America mi chiamava. Ci siamo sempre tenuti in contatto, ma non mi ha mai chiesto nemmeno un favore. Non mi ha mai chiesto aiuto per la Fiat. Mi chiedeva di come andasse il mondo in generale. Parlavamo delle nostre vite, di quello che ci succedeva».

Lei ha definito l’Avvocato «un uomo del Rinascimento».

«Ho usato quell’espressione perché Gianni era un uomo curioso di tutto. Era appassionato di arte, di sport, non solo di politica. Ovviamente, era anche molto interessato all’industria italiana e, aggiungerei, europea. Gianni era capace di appassionarsi a tutto. Per questo i suoi interessi erano così ampi e intensi».

Agnelli era pro-americano nel senso più ampio del termine, un atlantista convinto. Come vedeva il rapporto fra Italia e Stati Uniti?

«Gianni pensava che il mondo stesse andando incontro a una profonda trasformazione. Era convinto che le nazioni atlantiche dovessero affrontare insieme quel cambiamento. Ma era anche convinto che fosse necessario cooperare con tutti i paesi. Gianni era molto orgoglioso delle sue origini italiane. Credeva che l’Italia fosse qualcosa di speciale. Allo stesso tempo, pensava che l’Europa dovesse essere unita e fortemente legata all’America».

Non tutti i leader italiani del tempo, specialmente se politici, erano così atlantici. Non le sembra che l’Italia della guerra fredda tendesse verso il neutralismo?

«No. Secondo me l’Italia era un paese completamente atlantico, sia in termini industriali che politici. Anche perché l’evoluzione della storia europea ha dato all’Italia un indirizzo particolare. Gianni si interessava di politica ed era in contatto con i massimi politici italiani. Ma non si interessava tanto dei problemi immediati. Gli interessava di più capire come i problemi potessero svilupparsi e impattare sulla società nel lungo termine. È per questo che si è impegnato a formare giovani leader, alcuni dei quali sono diventati molto importanti. Gianni è sempre stato aperto a discutere con qualsiasi leader politico. Certo, aveva le sue idee. All’epoca l’Europa era divisa in due. Lui era a favore della Nato, ma credeva che bisognasse sforzarsi di tenere insieme paesi e società diverse. Ed era sicuro che con la Russia – allora Urss – si potesse collaborare».

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Dal monito di Veltroni alle amarezze di Letta, la “guerriglia quotidiana” dei segretari Pd

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

Francesca Schianchi

ROMA. Forse un giorno un qualche ex segretario del Pd racconterà nei dettagli le sue giornate nella trincea di largo del Nazareno, svelerà inediti retroscena, spiegherà chiaramente chi e come ha reso la sua esperienza una “guerriglia quotidiana”, per dirla con le parole di Nicola Zingaretti al momento dell’addio. E allora finalmente capiremo meglio perché ogni abbandono della guida di quel partito – nove tra segretari e reggenti in quindici anni e mezzo – è un mesto cahier de doléances, mai una gioia, un rosario di allusioni a battaglie interne e scontri continui.

L’ultimo a denunciare «amarezze» e «ingenerosità», sabato scorso davanti all’Assemblea nazionale del partito, è stato Enrico Letta. «Ma le tengo per me», ha aggiunto: non serve dire da chi sono venute; è una questione di correnti, una volta sono gli uni, un’altra volta gli altri. Due anni fa lo avevano richiamato da Parigi dove faceva felicemente il professore: incoronato all’unanimità, il partito era a pezzi e toccava qualcuno che incollasse i cocci, pure alla svelta. Due anni dopo, lamenta una quotidianità in cui il segretario passa «l’intera giornata a comporre gli equilibri interni»; per spiegare la linea agli elettori resta appena la serata, «con le energie residue». Non ne aveva più di energie, nel febbraio del 2009, il fondatore Walter Veltroni, l’acclamatissimo primo segretario del nascente Pd, eletto da primarie frequentate da tre milioni e mezzo di persone. Un movimento di popolo mai più bissato in queste proporzioni, ma non abbastanza per preservare il segretario: «Non fate al mio successore ciò che è stato fatto a me», scandì in un affollato, amaro discorso di dimissioni appena un anno e mezzo dopo l’elezione. Passano gli anni e i leader, ma evidentemente l’antico vizio della guerra tra correnti non trova una tregua, se nel 2019 Nicola Zingaretti getta la spugna con un fiammeggiante post su Facebook: «Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da venti giorni si parli solo di poltrone e di primarie».

Parole forse ancora più taglienti di quelle usate qualche anno prima da Pier Luigi Bersani, che pure qualche ragione per essere furioso ce l’aveva: tutte le lacerazioni del partito erano lì, squadernate in quel voto fallimentare su Romano Prodi presidente della Repubblica, 101 traditori (probabilmente di più) che avevano applaudito la proposta la sera prima, per accoltellare candidato e segretario l’indomani nel segreto dell’urna.

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Dalla risata di Fedez su Emanuela Orlandi al selfie in ascensore di Pellegrini: gaffe social e bufere con la scadenza

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

Assia Neumann Dayan

Si può ridere di tutto? O non si può più dire niente, ridere di niente, ma arrabbiarsi per tutto? È successo che Fedez abbia fatto una battuta su Emanuela Orlandi, e il problema non è tanto che l’abbia fatta, ma che quella non fosse una battuta. Come ospite di puntata del podcast “Muschio Selvaggio” c’era Gianluigi Nuzzi: si parlava di “Vatican girl”, la serie Netflix su Emanuela Orlandi, e Fedez voleva probabilmente fare lo spiritoso sul concetto di spoiler. Luis Sal chiede: «Cos’è successo?» e Fedez risponde: «Innanzitutto possiamo dire? Non l’hanno mai trovata». E inizia a ridere. Ride moltissimo, mentre gli altri sembrano in forte imbarazzo. Luis Sal aggiunge: «Questo è un dato di fatto», e Fedez tra le risate risponde: «Comunque la stanno ancora cercando». Nessuno ha riso, perché non fa ridere, perché per essere efficace una battuta deve avere un bersaglio, e qui non c’era, nemmeno ha detto «spoiler».

Essere capaci di fare black humor è complicato, soprattutto in questi anni dove tutto sembra essere offensivo: lo lascerei fare a chi è capace. Grazie al cielo fare il comico non è il mestiere di Fedez, ma questo succede a chi vuole per forza fare la battuta, essere spiritoso, sembrare campione di sagacia. C’è da dire che il trucco non riesce quasi mai, e dove c’è la battuta malriuscita, arriva l’internet. Era dai tempi di quando Fedez chiese: «E chi è Strehler?» che non si sollevava tanta indignazione. Fedez è un caso più unico che raro perché non gli interessa autocensurarsi: sa che ogni cosa che dirà finirà sui giornali, e va bene così. A casa Ferragnez non si può mai stare tranquilli: c’è stata la festa al supermercato, l’aperitivo in elicottero sui ghiacciai, il concerto del Primo Maggio in Rai, i pandori di beneficenza, insomma, se su Google cerchi “Ferragnez polemica” ne esce fuori un’enciclopedia. Eppure, nonostante le polemiche, hanno ancora un lavoro, milioni di euro, un tetto sopra la testa, perché le polemiche sui social scadono dopo al massimo un paio di giorni, la soglia di attenzione della nostra indignazione è in effetti molto bassa.

È che ad un certo punto le notizie fanno il giro, un giro che segue delle fasi ben precise: negazione («non può averlo detto davvero, è un fake»), rabbia («vergogna! Privilegio! Chi ti paga!»), patteggiamento («sarò libero di avere un’opinione o siamo in dittatura?»), depressione («scusa ma devo tornare a lavorare»), accettazione («per me ognuno è libero di fare quello che vuole»), meme. A un certo punto tutto diventa meme: a Matteo Messina Denaro sono bastate un paio d’ore perché sui social cominciassero a girare vignette con i vestiti che indossava durante la cattura. Il meme abbassa, la realtà perde identità e diventa linguaggio. È il concetto grafico del «buttarla in vacca», però non è che si può proprio mettere tutto sul piano della risatina. Pietro Orlandi, che è evidentemente un uomo intelligente, ha detto all’ Adnkronos: «La risata di Fedez mentre si diceva che non avevano mai trovato Emanuela, che ancora la stavano cercando, è stata sicuramente fuori luogo e un po’ mi è dispiaciuto. Ha sbagliato, ma ha parlato per un’ora di mia sorella e questa è la cosa che mi interessa di più». Se il fratello di Emanuela Orlandi lo perdona, può certamente farlo anche l’internet, e comunque già domani ci sarà una nuova polemica per cui stracciarsi le vesti.

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La memoria da curare (sempre)

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

di Ferruccio de Bortoli

La «giornata» è stata istituita soltanto nel 2000. Se dovesse trasformarsi in un esercizio rituale, di semplice buona educazione, non avrebbe senso

La memoria da curare (sempre)
Illustrazione di Doriano Solinas

La memoria è come un giardino. Va curata. Altrimenti si ricoprirà di erbacce. E i fiori dei giusti scompariranno. Divorati. Quei fiori sono persone che hanno lottato anche per la nostra libertà o hanno pagato, con la vita, per la sola colpa di essere nati. Quello che siamo noi oggi lo dobbiamo a loro. Se li dimenticassimo morirebbero una seconda volta. Ma, senza accorgercene, cominceremmo anche noi — fortunati cittadini di una democrazia e di uno Stato di diritto — a svuotarci di valori, a dare poca importanza al coraggio delle idee, al sacrificio personale per un bene collettivo, a impoverirci nella nebbia storica dei fatti. Inerti. Privi di vaccini per difenderci da nuove barbarie.

Liliana Segre è infaticabile nella sua testimonianza della Shoah. Una tragedia immane nella quale alcuni dei nostri antenati furono anche complici, al di là del racconto rassicurante, e a tratti eroico, degli «italiani brava gente». Ma le pagine buie le abbiamo rimosse. Per convenienza. Chissà che non ci fosse anche qualche nostro parente — che abbiamo certamente e giustamente amato — o loro amici, da quella parte? Magari nello spingere i deportati, ebrei, oppositori del regime, sui vagoni della morte; oppure facendo solo finta di non vedere, adattandosi. Chissà come ci saremmo comportati tutti noi nel 1938 davanti alla vergogna delle leggi razziali?

I camion che dal carcere di San Vittore — con il loro carico di vite, tra cui quella di Liliana Segre — diretti verso la Stazione Centrale, sfilarono in una Milano con le persiane chiuse. Ignara, impaurita.

Per quasi tutto il Dopoguerra, fino alla soglia di questo millennio, il sotterraneo della Stazione Centrale di Milano — che vide l’orrore della trasformazione delle persone in pezzi numerati, in oggetti di scarto — era ai nostri occhi un semplice deposito postale. Anonimo nella sua utilità. Nella città medaglia d’oro della Resistenza, pochissimi sapevano quello che era accaduto, lì nel cuore di Milano, sotto il piano dei binari calpestato in tanti viaggi di lavoro, svago, sogni e speranze. Da tutti. Nel nostro comodo oblio quei concittadini, che non erano più tornati, morivano ancora una volta nell’invisibilità della loro storia di ingiuste sofferenze.

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Ecco come e dove stanno già viaggiando i carri armati Abrams e Leopard-2

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

Jacopo Iacoboni

Per Mosca – parole dell’ambasciatore russo a Washington Anatoly Antonov – l’invio di cari armati americani Abrams in Ucraina è una «sfacciata provocazione», la prova che gli Stati Uniti vogliono infliggere una «sconfitta strategica» alla Russia.

Secondo diverse fonti convergenti, Washington dovrebbe annunciare mercoledì ufficialmente l’invio di carri armati M1 Abrams, e anche il dettaglio sui numeri. Berlino ha infine deciso di inviare i suoi carri armati Leopard 2, e anche qui si attendono dettagli sulle quantità (si ritiene che in tutto, anche a breve, possa no arrivare una sessantina di mezzi, equamente divisi). Si tratterebbe di un’inversione di rotta nella politica che, secondo Kyiv, contribuirà a rimodellare il conflitto. Un game changer, come lo furono gli Himars.

In realtà sottotraccia esistono già diversi elementi – nella comunità osint – per provare a ricostruire come sta avvenendo il trasferimento degli Abrams e dei Leopard verso la frontiera occidentale dell’Ucraina, principalmente dalla Polonia.

I mezzi vengono per lo più spostati in treno, e negli ultimi due giorni hanno cominciato a emergere, soprattutto sui canali telegram più vicini al mondo dell’intelligence, specialmente militari russi, dei brevi video che lo testimoniano. Qui siamo in grado di farvene vedere qualcuno.

In uno è possibile osservare il movimento di attrezzature nell’Europa orientale, tra queste carri armati Abrams M1 e Leopard 2, cannoni semoventi M109 Paladin e anche il veicolo da combattimento di fanteria M2 Bradley. Si tratta di video non ripresi in Ucraina, stando alle fonti che le hanno postate (per esempio il canale telegram “Supernova”, o il Canale Grey Zone, il più vicino al Gruppo Wagner), ma nelle zone orientali dei paesi europei confinanti, in direzione Ucraina.

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Catasto, la riforma non ci sarà. Il viceministro Leo: «Sanzioni fiscali da rivedere»

mercoledì, Gennaio 25th, 2023

di Massimiliano Jattoni Dall’Asén

Catasto, la riforma non ci sarà. Il viceministro Leo: «Sanzioni fiscali da rivedere»

«Vogliamo addolcire la curva delle aliquote dell’Irpef. Lavoriamo sull’ipotesi di scendere a 3». Il primo importante step della prima riforma fiscale targata Meloni sarà dunque il passaggio da 4 a 3 aliquote, «per poi progressivamente ridurle ulteriormente». Parola del viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, che poi precisa: «sui numeri ci stiamo ragionando compatibilmente con le risorse a disposizione», ma la bozza del testo sarà già pronta tra fine febbraio e inizio marzo. Mentre dovremo dire addio all’aggiornamento del catasto perché, secondo il viceministro, «i nostri valori catastali non meritano un’accelerazione nell’aggiornamento e in altri Paesi europei la rivalutazione è ben piu datata».

No alla riforma del catasto

Insomma, quei «valori senza senso», di cui parlava Draghi, che chiedeva meno di un anno fa un «sacrosanto bisogno di trasparenza» sugli immobili, non è un’urgenza per il governo Meloni. Del resto, dice Leo, l’aggiornamento catastale non viene fatto «in Austria dal 1973, in Belgio dal 1975, in Francia dal 1970, mentre il nostro risale all’88-89, quindi non possiamo dire di essere la Cenerentola dell’aggiornamento dei valori catastali». Ed è vero. Peccato però che la maggioranza dei Paesi europei non conta il numero di immobili “fantasma” dell’Italia (sono almeno 2 milioni le «particelle» non dichiarate e scoperte dagli aerei “catastali” nel 2021, per circa 1,2 milioni di unità immobiliari). Piuttosto, il governo punterà sull’eliminazione «dell’Irap per tutti i soggetti non-Ires e semplificare il sistema sanzionatorio».

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