Archive for Gennaio, 2023

I pizzini di Messina Denaro ai suoi uomini: «Io sono qua, anche più di prima»

lunedì, Gennaio 23rd, 2023

di  Giovanni Bianconi, nostro inviato 

L’operazione nel 2020 e il ritorno a Campobello. Nell’ultima indagine le tracce del suo potere

Matteo Messina Denaro, i pizzini del padrino ai suoi uomini. «Io sono qua, anche più di prima»

PALERMO-  Il 4 giugno 2021 Matteo Messina Denaro era stato operato da oltre sei mesi — il 13 novembre 2020 — per un tumore al colon all’ospedale Abele Ajello di Mazara del Vallo, con la falsa identità di Alfonso Bonafede. Dunque il latitante era tornato nella sua terra, di origine e di mafia; andando verosimilmente a vivere a Campobello di Mazara, dove il vero Bonafede aveva affittato la casa di via San Giovanni, in cui il ricercato è rimasto fino a giugno 2022, quando s’è spostato in vicolo San Vito. L’intervento era andato a buon fine, ma tra i mafiosi veri e presunti di Campobello — intercettati dai carabinieri nell’operazione «Hesperia», che a settembre ha portato in carcere 35 indagati, oggi imputati, per mafia e altri reati — c’era chi sosteneva che «iddu» fosse morto.

«Chiedi scusa»

Piero Di Natale, quarantunenne di Castelvetrano, considerato dagli investigatori uno dei principali affiliati del clan guidato Franco Luppino (solo omonimo di Giovanni, l’autista di Messina Denaro arrestato insieme a lui), ne parlava con Marco Buffa, cinquant’anni, inquisito per traffico di droga, concorso in associazione mafiosa e porto illegale di armi. Accusandolo di aver messo in giro quella voce sulla fine del padrino; una bugia e un pericolo per lui, giacché al boss — chiamato Ignazieddu — non faceva piacere. E Buffa negava.
Di Natale: «Vedi che è arrivata la notizia di questo discorso… Non parlare in giro di questo fatto che hai detto tu che è morto… Perché già la notizia gli è arrivata… Che c’è stato qualcuno sta dicendo che Ignazzieddu è morto…Vedi che a quello quando pare che non gli arriva… Perché ha sempre sette-otto persone che lo informano…».
Buffa: «Non accusate a me perché vi vengo ad ammazzare tutti e due là… Io non l’ho detto mai questa cosa… Io a te l’ho detto… Ti ho detto: “Secondo me è così”… Finisce a coltellate… Non diciamo minchiate…». Di Natale rivelava a Buffa di aver parlato di questo incidente con Franco Luppino, consigliandogli di «chiedere scusa», e confermava che Ignazieddu era «vivo e vegeto». Con Buffa che si raccomandava: «Appena ci vai… Glielo dico a lui personalmente… Io non le ho mai dette queste cose… Io ho detto solo “secondo me, per me”, gli ho detto “per me non c’è… È morto… Per me…”».

«È vivo e vegeto»

 Un’opinione e niente più. Che però era pericoloso far circolare nell’ambiente mafioso di Campobello, dove evidentemente il peso del padrino continuava a farsi sentire ed era necessario che nessuno lo mettesse in discussione. Questione di potere. Anche perché, dal resto della conversazione, s’intuisce che Matteo Messina Denaro non solo stava combattendo contro la malattia, ma continuava a dare disposizioni attraverso il suo rappresentante diretto sul territorio: Franco Luppino. Sempre attraverso il sistema dei pizzini, secondo l’interpretazione dei carabinieri che stavano intercettando quella conversazione.. È ancora Di Natale a parlare: «Allora in uno degli ultimi… gli ha detto salutami a Sandrone (persona che gli investigatori non sono ancora riusciti a identificare, ndr) e digli che io sono qua come prima, anzi più di prima… E lui è il suo pensiero… Perché io a questo l’ho messo qua… a questo l’ho messo qua e a questo l’ho messo da questa parte… Tu se hai bisogno ti puoi rivolgere a questo, tu con questo se hai bisogno rivolgiti a questo… Io personalmente stavo svenendo per la serie di nomi che ci sono stati…».

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È arrivata la patrimoniale

domenica, Gennaio 22nd, 2023

Gian Maria De Francesco

Una patrimoniale silenziosa che erode i risparmi degli italiani. Ecco cos’è, in estrema sintesi, l’inflazione: una tassa che incide sulle risorse accumulate perché il potere d’acquisto dei redditi è insufficiente a tener dietro all’incremento dei prezzi spinti all’insù dai rincari energetici. La dimostrazione è contenuta in due analisi pubblicate ieri dalla Fabi, il principale sindacato dei dipendenti bancari, e da Confesercenti.

Dopo quattro anni di costanti aumenti, nel 2022 il saldo totale dei conti correnti delle famiglie è diminuito di quasi 20 miliardi di euro. Da agosto a novembre, ha specificato la Fabi, si è registrato infatti un calo di 18 miliardi da 1.177 miliardi a 1.159 miliardi, con una riduzione dell’1,5%. Già a giugno, rispetto a maggio, c’era stata una prima diminuzione di 10 miliardi. La vistosa inversione di tendenza sulla capacità di accumulo dei correntisti, evidenzia l’analisi, arriva dopo un lungo periodo di incremento dei saldi dei depositi bancari: a fine 2017 l’ammontare complessivo era a quota 967 miliardi saliti a 1.144 miliardi a fine 2021. Da fine 2017 a maggio 2022 erano stati accumulati 212 miliardi di euro, poi il cambio di rotta determinato dalla corsa di bollette e prezzi.

Per far fronte al crollo del potere d’acquisto che porta a consumare i risparmi «servono, da parte del governo, politiche fiscali più incisive volte ad aumentare il reddito disponibile e auspico che già quest’anno possano arrivare risposte in questo senso. Ma sono indispensabili, soprattutto, i rinnovi di tutti i contratti collettivi di lavoro scaduti», ha commentato Lando Maria Sileoni, segretario generale della Fabi. Un punto di vista condiviso anche dal segretario Cisl, Luigi Sbarra che da tempo propone «una stagione di rinnovata concertazione», per mettere al centro un «grande tema: un vero patto contro l’inflazione».

Anche Confesercenti è giunta alle medesime conclusioni. L’inflazione nel 2022 ha costretto le famiglie italiane a bruciare 41,5 miliardi dei propri risparmi nel tentativo di conservare il proprio tenore di vita ormai assediato dai costi incomprimibili. La quota familiare assorbita da spese per utenze e abitazione dovrebbe infatti attestarsi quest’anno sul 45,8% del totale mensile. Nel 2019 era il 35%. Una situazione che pesa soprattutto sui redditi medio-bassi. Per le famiglie meno abbienti – circa 10,5 milioni – i costi fissi varranno quest’anno la metà dell’intera spesa mensile, riducendo ancora di più lo spazio per le altre spese. Se si considerano, infatti, anche abbigliamento, bevande e alimenti, la parte di bilancio occupata dai consumi obbligati o quasi sale al 77%, lasciando meno di un quarto (il 23%) disponibile per altro.

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L’Fbi a casa di Biden: trovati altri 6 documenti top secret

domenica, Gennaio 22nd, 2023

Francesca Galici

Nella casa di Joe Biden nel Delaware sono stati trovati sei nuovi documenti classificati come riservati. A dare l’annuncio l’avvocato personale di Biden, Bob Bauer, spiegando che i documenti sono stati sequestrati dal dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, dopo la perquisizione avvenuta venerdì 20. Il Dipartimento ha anche preso per un’ulteriore revisione appunti scritti a mano personalmente dagli anni della vicepresidenza, ha detto l’avvocato. Agli investigatori è stato dato “pieno accesso” alla casa, ha aggiunto Bauer.Scoperti altri documenti in casa Biden

Come ha riferito l’avvocato, le ricerche della Fbi a casa di Joe Biden sono durate 12 ore in presenza degli avvocati ma non dei coniugi Biden, che non erano in casa in quel momento. Nonostante Jill e Joe Biden stiano trascorrendo ogni weekend in Delaware ultimamente, la loro destinazione è la casa al mare, a Rehoboth Beach. La perquisizione del dipartimento di Giustizia nell’abitazione del presidente Biden, a Wilmington, è iniziata venerdì alle 9.45 e si è conclusa alle 22.30. I sei documenti risalgono alcuni al periodo in cui Biden era senatore (1973-2009) e altri al periodo in cui è stato vicepresidente di Barack Obama (2009-2017).

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Ecco perché è sbagliato rinunciare al 41 bis

domenica, Gennaio 22nd, 2023

Vincenzo Scotti*

Caro direttore, Roberto Saviano su La Stampa di martedì 17 obietta che l’“ergastolo ostativo”, al quale è stato sottoposto Messina Denaro, al pari di tanti altri boss della criminalità organizzata, “è oggettivamente una misura che contraddice la natura stessa della pena che serve a reinserire e non ad escludere” e ci ricorda anche che “l’ergastolo ostativo contraddice la natura stessa della Costituzione”. Saviano si inserisce in un dibattito anti 41 bis che ha ripreso forza da qualche tempo e si è allargato dopo la cattura del latitante di Castelvetrano. Già, dopo l’ultimo degli stragisti, Riina, la mafia aveva cambiato volto. Sarà forse un volto umano? Fosse così, certo, si potrebbero mettere finalmente da parte quegli articoli del codice, proposti con decreto legge da me insieme ai colleghi di governo, in cui non c’era solo il 41 bis ma un insieme di norme che completavano specificamente le leggi antimafia del 1991 e 1992 e consegnavano, soprattutto agli investigatori e ai magistrati, “strumenti” rivelatisi concretamente efficaci anche se rischiosi nella lotta alla mafia. In pratica agli uomini dello Stato veniva chiesto un prezzo altissimo: rischiare la propria vita.

In queste ultime settimane ho letto a proposito del 41 bis le stesse obiezioni e critiche che mi vennero rivolte in quei tormentati anni 1991-1993. Forse è il caso di chiarire come e perché si adotta quella misura. Quando sono diventato ministro, una delle questioni più urgenti da affrontare era quella del funzionamento della “macchina” del crimine. I boss mafiosi in carcere gestivano con estrema facilità tutti gli affari in contatto con l’esterno cioè con i capi delle cosche. Nei primi giorni di giugno del 1992 dovevamo dare una dura risposta alla mafia per la strage di Capaci. Il governo approvò un decreto legge, l’8 giugno, con un numero elevato di misure necessarie per rafforzare i poteri di indagine e di giudizio della magistratura e chiudere il cerchio delle norme antimafia. Alla riunione finale dei due ministri chiesi di affrontare la questione del rapporto tra mafiosi in carcere e fuori. La proposta fu quella dell’isolamento per impedire in ogni modo i rapporti tra i boss in carcere e quelli fuori, offrendo ai carcerati di scegliere tra collaborare e andare in isolamento.

Dibattiti di stagione, si dirà. La criminalità organizzata però non è un fatto di stagione. Lo stesso Saviano sottolinea che “nessuno può essere chiuso a chiave senza appello” e io sono d’accordo con lui. Se fosse vero che Messina Denaro, come dice lo scrittore, “è al corrente di molte cose” questa nostra legge gli dà opportunamente la possibilità di liberarsi dell’afflizione prevista dal 41 bis: basta che ci dica quelle “cose”. Questo vale per il fresco detenuto come per gli altri boss che popolano le nostre carceri. Il 41 bis è un chiavistello che costoro hanno in mano e se decidono di parlare serve ad aprire se non le porte del carcere almeno quelle che li separano dal mondo, in modo da rompere il circuito tra chi sta dentro da chi sta fuori che è appunto il fine di quella misura.

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L’uomo della profezia in tv sulla cattura di Messina Denaro: “Confermo la trattativa, non si pentirà”

domenica, Gennaio 22nd, 2023

dal nostro inviato Giuseppe Legato

PALERMO. È novembre del 2022, alla trasmissione «Non è l’Arena» un signore grassoccio, con i capelli grigi retti all’indietro dagli occhiali da sole, una camicia azzurra e le bretelle a rombi, dice qualcosa che non può passare inosservato. Parla dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, già reggenti del mandamento di Ciaculli-Brancaccio, oggi rinchiusi in carcere in regime di 41 bis: «L’unica sua speranza (dei Graviano), e me lo auguro anche io per loro, è che venga abrogato l’ergastolo ostativo e che comincino a godersi la famiglia, i figli. E magari chi lo sa che avremo un regalino. Magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato, che faccia una trattativa lui stesso per consegnarsi e fare un arresto clamoroso, e magari arrestando lui esce qualcuno che ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore… Sarebbe un fiore all’occhiello», dice. A parlare è Salvatore Baiardo, fiancheggiatore dei boss di Cosa Nostra, personaggio misterioso e oscuro.

La profezia del prestanome dei boss Graviano su Messina Denaro che ha anticipato l’arresto

Due mesi dopo, lunedì scorso, Messina Denaro è arrestato a Palermo. Era malato da due anni e mezzo per via di un tumore aggressivo al colon. Le parole di Baiardo diventano una «profezia». Fanno il giro del web. Nino Di Matteo, consigliere togato del Csm, non è convintissimo alle capacità divinatorie dell’uomo già prestanome dei Graviano e sostiene che la vicenda «meriterebbe approfondimenti». Aggiunge: «È difficile credere che dichiarazioni così nette, precise e insinuanti siano state fatte senza il loro consenso, o senza addirittura un loro mandato».

Intanto però Baiardo è diventato una sorta di personaggio difficilissimo da avvicinare. Di lui – va detto – fonti investigative e inquirenti di provata credibilità sottolineano l’inaffidabilità. Ora, alla domanda se davvero presume (come detto a La7) che ci sia stata una trattativa che abbia condotto all’arresto dell’ex latitante, risponde che «se l’ho detto in quella trasmissione è perché ne ero più che convinto». E se questa (per lui) asserita interlocuzione sia stata solitaria o meno, aggiunge: «Penso che quando si fa una trattativa ci sono sempre più persone (che prendono parte alla stessa, ndr)». Secondo Baiardo, Matteo Messina Denaro, fin dalla scoperta della malattia, avvenuta il 17 novembre 2020 con la diagnosi di tumore invasivo al colon fatta dai medici dell’ospedale di Mazara del Vallo, «credo si sia sempre curato a Palermo». Niente viaggi lontano dal suo feudo nel trapanese, insomma, in cliniche del Nord o all’estero. Se ancora tra i Graviano vadano cercati i nuovi riferimenti apicali di Cosa Nostra, smentisce: «Non credo, anche perché Graviano si era trasferito al Nord proprio per cambiare vita». E poi, sull’imprendibilità per 30 anni del capo della mafia trapanese e su come questo sia stato possibile, sottolinea che «come avevo già detto per Graviano, affinché ciò avvenga sono necessarie complicità a largo raggio, a 360 gradi». Infine giudica praticamente impossibile l’eventualità che Messina Denaro possa pentirsi: «Non credo proprio che lo farà mai».

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Meloni, retromarcia su Roma in 100 giorni

domenica, Gennaio 22nd, 2023

Ilario Lombardo

ROMA. E se l’underdog fosse già diventato il watchdog dell’Europa? Tanto per restare all’anglicismo scelto da Giorgia Meloni il giorno della fiducia in Parlamento: la sfavorita che diventa il cane da guardia dei conti e degli equilibri di Bruxelles. A ripercorrere i primi cento giorni del governo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia, che cadranno il 30 gennaio, la parabola sembrerebbe proprio questa. Nulla di nuovo. Tutto già visto in Italia. Dove la marcia in più di chi entra nel palazzo di governo è la retromarcia, e i fiammeggianti propositi di quando si è all’opposizione si spengono, uno dopo l’altro.

La trasformazione di Meloni, però, appare, in qualche modo, più fulminea di altre. Una mutazione condotta tra mille sospiri di sollievo a Bruxelles e a Washington. Ma che in patria, l’amata Nazione non la N maiuscola della premier, deve essere misurata con la spietatezza dell’opinione pubblica sul medio periodo.

Questi cento giorni di giravolte e ripensamenti cominciano con un battesimo speciale, sulla giustizia. Sull’ergastolo ostativo. Durante il governo Draghi, Meloni si oppose al compromesso raggiunto dopo la bocciatura della Corte costituzionale. Troppo poco, disse, astenendosi al momento del voto: troppo poco per chi a destra aveva fondato la propria storia sull’emozione di rabbia provata di fronte alla strage mafiosa di Capaci. Passano pochi mesi, passano le elezioni, Meloni siede a Palazzo Chigi. Prima conferenza stampa, primo passo indietro. Il governo di FdI dà il via libera alla riformulazione dell’ergastolo ostativo che FdI aveva respinto. Lo fa per scelta obbligata, per fretta: dopo pochi giorni sarebbe scaduta la tagliola imposta al Parlamento dalla Consulta.

È solo l’inizio. In quelle prime ore di governo sembra che a preoccupare più di ogni cosa la destra siano gli sballati dei rave. Nel suo primo decreto, Meloni fa inserire il “liberi tutti” per i medici no-vax. Una promessa mantenuta, mentre è costretta a ritirarsi quando prova a eliminare l’obbligo di mascherina nelle strutture sanitarie. Resta invece granitica, e lo è ancora, sul sostegno militare all’Ucraina, nonostante i gorgheggi polemici e le simpatie putiniane dei due alleati, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Passare dall’opposizione al governo è ormai come traslocare in un’altra dimensione, dal populismo alla realtà, dove i limiti – finanziari e diplomatici – mettono subito alla prova le bellicose parole di un tempo. La sovranista Meloni che non voleva le trivelle nei mari d’Italia («un regalo alle lobby») è diventata la principale sostenitrice del gas patrio già durante il discorso programmatico: «Abbiamo giacimenti che è nostro dovere sfruttare appieno». Non c’è dubbio che serva a sfamare il fabbisogno nazionale e a liberarsi della dipendenza dal metano della Russia, ma «la qualità – parole della leader di pochi anni fa – del nostro ambiente da salvaguardare»? La risposta è facile. «Sono cambiate le condizioni».

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Meloni, la mafia e la retrotopia dei garantisti alle vongole

domenica, Gennaio 22nd, 2023

MASSIMO GIANNINI

Aveva ragione Bauman: la civiltà occidentale soffre di “retrotopia”. Ha invertito la rotta e naviga a ritroso. Il futuro è un posto troppo incerto e inaffidabile, mentre il passato è uno spazio in cui le speranze non sono state ancora screditate. In Italia il fenomeno è persino più grave. La nostra retrotopia non è solo nostalgia: è anche il nastro della Storia che si riavvolge in continuazione, tra vecchi miti che vanno e vecchi fantasmi che tornano. Basta guardare i telegiornali, i siti e le prime pagine dei giornali di martedì scorso, per sentirsi risucchiati nella macchina del tempo, a fare i conti con un Paese spesso prigioniero di un passato che non passa. Matteo Messina Denaro che viene arrestato, Gina Lollobrigida che muore. L’Ultimo Padrino da una parte, l’Ultima Diva dall’altra. Stragi coppola e lupara di qua, pane amore e fantasia di là. L’Italia inchiodata ai suoi rituali e ai suoi clichè, a fare i conti con i crimini e i misteri di sempre, e a cercare conforto nella solita Grande Bellezza. Naturalmente e fortunatamente siamo molto di più di tutto questo. Ma l’impressione è che non si riesca mai a voltare pagina davvero, sospesi come siamo tra l’eterno ritorno dei peggiori e l’eterno riposo dei migliori.

A questa sensazione sgradevolmente passatista si aggiunge adesso un altro classico della Seconda Repubblica: lo scontro tra politica e magistratura. Un conflitto che ci portiamo dietro dai tempi di Tangentopoli e Mani Pulite. Un fiume carsico che ha rotto gli argini nel ventennio berlusconiano. Che si era inabissato dall’estate del 2013, quando il Cavaliere fu condannato in via definitiva ed “espulso” dal Senato.

E che adesso, con le destre nuovamente al potere, riemerge in tutta la sua truce virulenza. Perché? A chi giova riaprire le ostilità in questo momento, destabilizzando un esecutivo nato solo da tre mesi e rimettendo nel mirino un potere dello Stato che insieme alle forze dell’ordine ha appena dato prova della sua competenza e della sua efficienza?

La domanda va rivolta alla presidente del Consiglio. Il giorno stesso dell’arresto di Messina Denaro, Giorgia Meloni è corsa a Palermo a festeggiare. E ha fatto bene, perché siamo tutti felici che finalmente sia finito nelle patrie galere un mafioso assassino, responsabile delle mattanze di Capaci e di Via D’Amelio e degli attentati del ’93 a Roma, Firenze e Milano. Sorvoliamo pure su qualche scivolata della premier, che ha nuovamente ceduto al complesso dell’underdog, e accusando un’imprecisata “opposizione” di non voler gioire dell’arresto del super boss siciliano. Come se non fosse possibile esultare per questo successo dello Stato, ma al tempo stesso chiedersi perché ci sono voluti trent’anni a incastrare “u Siccu”, nascosto non nelle grotte afgane di Tora Bora, come Bin Laden, ma in un paesello di undicimila anime a un tiro di schioppo da Trapani. E come se fosse vilipendio per le istituzioni compiacersi per l’esito felice della cosiddetta “Operazione Tramonto”, ma al tempo stesso ricordare tutti i segreti mai svelati sulle coperture di Cosa Nostra, dall’agenda rossa di Borsellino al papiello di Riina, dalle relazioni pericolose del generale Mori ai mancati arresti di Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano. Lo spirito di rivalsa meloniano lo tradisce un titolo di Libero: “La sinistra rosica”. È inventato, sia perché nessuno ha rosicato sia perché la sinistra non ha più la forza di fare neanche quello. Ma è utile a svelare la cifra politico-culturale dei nuovi patrioti, sempre a caccia di un nemico anche quando non esiste. Arrivati al governo, si comportano come quando sfilavano nei cortei del Fronte della Gioventù, “reietti” dell’arco costituzionale.

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Jas Gawronski: «Dissero ad Agnelli della morte del figlio; so che era disperato, ma non pianse»

domenica, Gennaio 22nd, 2023

di Aldo Cazzullo

Vent’anni fa la morte dell’Avvocato. «Una sola donna lo ha veramente coinvolto, non dirò mai chi. Al primo loro incontro, Malagò disse: “Avvoca’, diamoci del tu”. L’unica persona alla quale riconobbe supremazia fu Cuccia»

Jas Gawronski: «Dissero ad Agnelli della morte del figlio; so che era disperato, ma non pianse»

Jas Gawronski, quando vide Gianni Agnelli per la prima volta?
«Avevo vent’anni, era il 1957. Mi invitò a un party a Sestriere, con molta altra gente. Lo incuriosiva che vivessi in Polonia».

Perché?
«Era affascinato dai comunisti. Li riteneva uomini di un’altra categoria: spietati. Ed era interessato alla durezza della vita, alla sofferenza delle persone».

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Gianni Agnelli con Jas Gawronski

Quando lo rivide?
«Mi invitò alla Leopolda, la villa che aveva a Beaulieu, sopra Montecarlo. Il parco, la piscina, la vista indescrivibile: non avevo mai visto una casa così bella. Poi la vendette a un’americana».

Perché?
«La villa si chiamava così perché era appartenuta a Leopoldo del Belgio, padrone del Congo. Una residenza reale, appunto. I tempi erano cambiati. Anche se la sua casa più bella era quella in Corsica, a Calvi, vicino alla grande base della Legione straniera».

Un’altra delle sue passioni.
«Attaccava sempre discorso con i legionari, che non sapevano chi fosse. Anche da quei soldati voleva sapere tutto della durezza della loro vita. Lo colpivano le loro camicie stirate alla perfezione, con le pences dietro: vanno a morire con la divisa in ordine, diceva».

Agnelli la guerra l’aveva fatta.
«Ma non ne parlava mai».

Come andò il ricevimento alla Leopolda?
«Io ho sempre girato in Volkswagen, ma quella volta arrivai con la mia fidanzata di allora su una Jaguar targata Varsavia: un dettaglio che colpì l’Avvocato. Poi dovetti scendere a Montecarlo per un appuntamento. Al ritorno, scoprii che Agnelli ci aveva un po’ provato con la mia ragazza…».

Un po’ provato?
«In modo evidente, ma elegante. Lei era più divertita che turbata».

Non un grande inizio, per l’amicizia di una vita. Cosa vi univa?
«Credo che intanto l’Avvocato avesse nei miei confronti un senso di colpa, o comunque di responsabilità: grazie al fascismo, suo nonno aveva portato via il giornale di Torino a mio nonno».

Alfredo Frassati, editore e direttore della Stampa, nominato da Giolitti ambasciatore a Berlino, dimissionario dopo la marcia su Roma. Com’era suo nonno?
«Uomo d’altri tempi, di poche parole. Agnelli diceva fosse un po’ tirchio; io rispondevo che mio nonno, a differenza del suo, non si era mai fatto fotografare in camicia nera. Ebbe due figli: Luciana, mia madre, vissuta 105 anni; e Piergiorgio, morto a 24 anni per una poliomelite fulminante contratta nelle case dei poveri che aiutava, beatificato da Giovanni Paolo II».

Quali politici stimava l’Avvocato?
«Era affascinato da Pannella. Volle conoscerlo. In lui non vedeva l’esibizionismo, ma la buona fede».

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Indro Montanelli con Gianni Agnelli nel 1999 (Ap)

E i democristiani?
«Non ne parlava certo bene. In generale non aveva una buona opinione dei politici. E neppure dei giornalisti. Anche se frequentava quelli di successo: insieme andammo alla festa per i novant’anni di Montanelli».

E i comunisti?
«Li stimava di più, aveva un ottimo rapporto con Lama. Una volta invitò a cena Castro. Dovevo esserci anch’io; ma Fidel arrivò con il suo assistente, Robaina, futuro ministro degli Esteri; per non essere in tredici a tavola, l’Avvocato mi pregò di venire dopo il dessert».

Cosa la colpì di quella serata?
«Durante la vestizione, notai che Agnelli non le attribuiva alcun significato particolare. Io avevo appena intervistato Castro con grande emozione: da anticomunista di ferro, lo ritengo tuttora un gigante della storia, capace di tenere in scacco otto presidenti americani… L’Avvocato invece era imperturbabile».

Disse davvero che si innamorano soltanto le cameriere?
«Non l’ho mai sentita quella frase. Ma sì, la pensava così».

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Terre rare, cosa sono e quali stati ne possiedono di più

domenica, Gennaio 22nd, 2023

di  Danilo Supino

In Svezia è stato scoperto un giacimento di terre rare stimato come il più grande in Europa. Il luogo del sito è a Kiruna, nel Nord del paese, e la scoperta è stata resa nota dalla Lkab, la società mineraria di stato svedese. Nei comunicati dell’azienda non è ancora nota la reale grandezza del giacimento e la capacità estrattiva. Tuttavia, al momento si pensa che non rientrerebbe tra i dieci giacimenti di terre rare più grandi al mondo. Allora dove sono situate le terre rare più importanti per quantità di elementi contenuti?

Nel mondo i giacimenti di terre rare hanno una grandezza di 120 milioni di tonnellate, distribuiti (stando all’ultima scoperta in Svezia) in non più di 20 paesi. Osservando i gradienti di colore sulla mappa qui in basso, si nota come gli Stati che ospitano il maggior numero di terre rare sul proprio suolo possono essere ricondotti ai Brics, Brasile-Russia-India-Cina-Sudafrica, un gruppo di paesi che nelle analisi economiche vengono associati per il notevole aumento del Pil dal 1990 ad oggi e perché ricchi di materie prime.

Cliccando sullo stato, oltre la quantità in tonnellate, si può conoscere la quantità estratta nel 2020 e nel 2021

Tra i Brics, lo Stato con la maggiore quantità di terre rare è la Cina con 44 milioni di tonnellate, segue il Vietnam con 22 milioni, Russia e Brasile con 21 milioni, poi l’India e via di seguito. Nessuna delle prime dieci nazioni è europea e a dirla tutta neanche nelle successive posizioni. Insomma, la scoperta del sito in Svezia è senza dubbio una buona notizia a prescindere dalla quantità.

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Dove sono le terre rare

Stando alle rilevazioni attuali e ai giacimenti attivi, la Cina non solo è la più ricca per quantità ma anche per numero di siti estrattivi. Infatti, Pechino ha ben nove tra i siti più attivi nell’estrazione dei minerali di bastnasite, laterite e xenotite.

I restanti sono in India a Manavalakurichi, in Russia a Revda, negli Usa a Mountain Pass in California e in Australia a Mount Weld Central Lanthanide. Ognuno di questi giacimenti (i più attivi sono tredici in tutto il mondo), non contiene la stessa quantità di elementi.

Cliccando sull’elemento in legenda si evidenzia nel grafico

Il grafico qui in alto mostra la percentuale stimata degli elementi contenuti per ogni giacimento presente sulla mappa. Ogni sito si caratterizza per la preminenza dell’elemento contenuto.

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Il Pd ci casca ancora: “Nel Lazio gli elettori M5S usino il voto disgiunto”

sabato, Gennaio 21st, 2023

Luca Sablone

Il Partito democratico ci è cascato di nuovo: il voto disgiunto continua a essere visto come una sorta di ancora di salvataggio, un ultimo appiglio per ottenere chissà quale risultato positivo. In realtà, come già dimostrato da alcuni precedenti politici di rilievo, rappresenta uno strumento fallimentare se viene fatto passare come mossa della disperazione. Eppure il Pd si ostina a evocarlo, anche in vista delle elezioni regionali che si terranno nel Lazio il 12 e il 13 febbraio.

L’appello di D’Amato

Un vero e proprio appello al voto disgiunto è arrivato direttamente da Alessio D’Amato, candidato del centrosinistra e del Terzo Polo alla presidenza della Regione Lazio. L’assessore alla Sanità, intervenuto ai microfoni di Coffee Break su La7, ha parlato dei rapporti con l’avversaria Donatella Bianchi del Movimento 5 Stelle e ha lanciato un invito all’elettorato grillino: “Lo strumento del voto disgiunto è quello che mi auguro usino gli elettori del M5S nel Lazio”.

Da “campo largo” a “voto utile”. La litania che ossessiona il centrosinistra

Già nelle scorse ore D’Amato, ricordando che si tratta di una consultazione a turno unico, aveva sottolineato la possibilità di ricorrere al voto disgiunto. Pertanto ha richiamato il solito “voto utile” per evitare che il centrodestra possa trionfare. I margini per partorire un’alleanza con i 5 Stelle ormai non ci sono più, ma il candidato del centrosinistra vuole far leva sugli elettori del Movimento: “Si può fare anche il voto disgiunto, per cui faccio appello al voto utile per evitare che le destre vincano. Credo che un voto ragionato possa essere la soluzione migliore”.

Il Partito democratico negli ultimi giorni proverà a far passare con forza l’idea del voto utile. Nelle intenzioni dovrebbe essere un modo per tentare di incassare quanti più voti possibile al di fuori del proprio elettorato, ma in realtà è un espediente che non ha portato proprio bene in passato. A dimostrarlo, ad esempio, sono state anche le ultime elezioni politiche di domenica 25 settembre: il Pd si è appellato al “voto utile” ai danni del M5S con l’obiettivo di arginare il centrodestra. Il risultato? La coalizione avversario ha vinto nettamente, il Movimento ha preso più voti del previsto e i dem hanno registrato una disfatta.

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