Archive for Gennaio, 2023

Elezioni nel Lazio, il Pd si azzuffa. Alessio D’Amato affonda

domenica, Gennaio 8th, 2023

Pietro De Leo

Alessio D’Amato, candidato Pd-Terzo Polo alla presidenza della Regione Lazio, che offre il kalumè dell’alleanza al Movimento 5 Stelle. Calenda che si dice pronto ad una corsa autonoma e la candidata pentastellata che respinge l’offerta con un certo sdegno politico. Gli ultimi giorni di cronaca elettorale per la conquista del palazzo di via Cristoforo Colombo sono stati contrassegnati da un testa-coda del centrosinistra. Ma quanto può influire, questo, sulla corsa? Gli elettori saranno ulteriormente scoraggiati nell’assegnare il loro consenso a D’Amato e ai partiti che lo sostengono? Il Tempo ha girato la domanda ad alcuni sondaggisti. Secondo Federico Benini, di Winpoll, quanto accaduto è «materia per addetti ai lavori, gli elettori valutano in base ad altre situazioni», spiega. Una di queste è senz’altro «il peso dei partiti. Questo è un elemento che influirà sugli elettori. Francesco Rocca, candidato del centrodestra in questo parte in vantaggio, di contro paga lo scotto della minore notorietà. D’Amato, al contrario, è il candidato più noto e tradurre questo in voti è la sua vera sfida. Deve raccogliere tutti i voti nel campo Pd-Terzo Polo e poi mostrarsi il più possibile attrattivo anche nell’area del Movimento 5 Stelle. Anzi, probabilmente il tentativo di chiamare all’alleanza serve proprio a questo».

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Carburanti e pane, prezzi alle stelle. Il doppio peso di inflazione e sciacallaggio

domenica, Gennaio 8th, 2023

Massimo Restelli

«Homo homini lupus», scriveva Plauto per mettere in guardia sulla natura umana. Una lezione amara quella del commediografo latino ma che appare ancora oggi attuale se ci soffermiamo ad analizzare come la fiammata dell’inflazione stia bruciando il potere d’acquisto delle famiglie italiane nella vita di tutti i giorni. Due gli esempi di ieri che sollevano più di un dubbio: da un lato, dopo la fine dello sconto sulle accise deciso dal governo (18 centesimi), il gasolio viene ormai «spillato» alla pompa fino a 2,5 euro al litro e la verde attorno ai 2 euro, dall’altro passando al carrello della spesa, occorrono quasi cento euro l’anno in più per portare in tavola pane e pasta. In entrambi i casi, rincari pesanti che potrebbero anche catturare l’attenzione dell’Antitrust.

Perché se è vero che, come per le bollette di luce e gas, va considerato l’effetto a cascata (alcuni stimano una ricaduta su prodotti e servizi tra lo 0,3% e lo 0,6% dal fattore carburanti), dall’altro il rischio «sciacalli» è marcato. Un po’ come è avvenuto nel gennaio del 2002, quando il debutto dell’euro coincise con un forte (e non sempre giustificato) rialzo dei listini. O almeno così sembra scorrendo le segnalazioni delle associazioni dei consumatori che denunciano, con il Codacons, come se già nei giorni scorsi occorressero 2 euro per «dissetare» l’auto con un litro di verde, ieri la benzina in modalità servito sia arrivata a 2,392 euro sulla A1 Roma-Milano, e il gasolio si sia avvicinato in alcune stazioni a 2,5 euro (2,479 euro). Con qualche singolare picco anche nelle Eolie o in Sardegna, dove la logistica costa di più. Una situazione già all’attenzione del governo: nei giorni scorsi il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto aveva bollato come «speculazione» un livello di prezzo di benzina e gasolio oltre i due euro. Pichetto aveva poi aggiunto che nel caso il livello fosse rimasto strutturalmente sopra quella soglia l’esecutivo sarebbe stato pronto a intervenire nuovamente.

Passando dall’auto alla tavola, la speculazione sembra mordere in profondità anche i generi alimentari da sempre considerati per tutte le tasche: l’Unione di consumatori calcola infatti che lo scorso anno, pane e pasta si sono piazzati insieme ai cereali al primo posto nella classifica dei rincari per una spesa di circa 100 euro in più su circa 513 (9,1%) rispetto al 2021 pagati in media da una famiglia tipo. E l’esborso può superare i 700 euro per una coppia con due figli.

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Montagna senza neve e clima impazzito: così lo sci rischia di sparire entro 50 anni

domenica, Gennaio 8th, 2023

Filippo Fiorini

C’è una riga rossa che divide l’Italia e questa riga si chiama fiume Po. Sopra, si scia, sotto, no. O meglio, in tutte le località dell’arco alpino al di sopra dei 1.500 metri gli impianti sono aperti, funzionanti e gli operatori di settore dicono: «La stagione è salva». Sulle Prealpi e a Sud del grande fiume, le conseguenze del cambiamento climatico che lo stesso corso d’acqua aveva manifestato in estate, facendo registrare una siccità record, ora si vedono in quota. Niente neve nella media montagna del Nord, né in Appennino, dov’è troppo caldo per spararla (si scioglierebbe), dove gli operatori del settore dicono che «la stagione è a rischio» e i politici si sono schierati per chiedere ristori, in parte già promessi dal governo. Oltre l’emergenza, però, si sprecano i «che fare?» per il piano a lungo termine. Già, che fare? Nuove tecnologie per produrre neve anche con caldo e venti foehn o di libeccio? Polemiche. Sentieri da trekking, piste da bici assettate per la discesa, seggiovie coi ganci per riportarle a monte e spa in quota al posto di racchette, scarponi e lame sciolinate? Polemiche anche in questo caso ma sopprattutto rammarico, perché un Paese dalla cultura sciistica come il nostro non può che ribellarsi a una tradizione che rischia l’estinzione.

Un report pubblicato dalla Confartigianato a fine 2022 cita dati Eurostat per dare all’Italia il primato europeo nell’economia della montagna: 805,6 miliardi nel 2019 ci danno la pole su 27 Paesi. Certo, questi numeri comprendono non solo le attività turistiche ma anche quelle micro e piccole imprese del territorio che indirettamente ad esse contribuiscono. In montagna, nel 2021, è andato il 51,1% dei villeggianti italiani totali e il 50,7% degli stranieri arrivati in una nazione che è pianeggiante solo per il 23,3% dei suoi oltre 300 mila km quadrati di superficie. Per ripeterci anche nella stagione 2022/23, possiamo già contare per esempio su mete classiche come Sestriere e tutta la Via Lattea (Piemonte), Courmayeur, Cervinia, Monte Rosa e Gressoney (Valle d’Aosta), Santa Caterina Valfurva e Bormio (Lombardia), Madonna di Campiglio, Val di Fassa, Val Gardena e Alta Badia (Trentino), Cortina e le restanti Dolomiti venete, nonché le alture del Friuli. Ovunque, qui, è nevicato, fa freddo e i cannoni garantiscono gli impianti aperti.

Piste chiuse invece nelle stazioni minori del Piemonte, come a Piamprato, in Val Soana, dove la neve di inizio dicembre aveva promesso bene, poi il foehn ha sciolto tutto. Oppure, a Ceresole Reale e Balme, che non hanno mai aperto. A Limone, nella Riserva Bianca, aperte una dozzina delle 40 piste disponibili, mentre a Pian Muné, nel Saluzzese, non c’è abbastanza fondo per sciare. Situazione analoga negli impianti bassi della Lombardia. Scenario ancor più grave più a Sud: Cimone e Corno alle Scale (Emilia-Romagna), Abetone (Toscana), Campo Imperatore, Ovindoli, Pescasseroli e Roccaraso (Abruzzo) sono stati battuti dal libeccio, le temperature sono sopra la media e il panorama è desolante. I governatori di queste tre regioni e i loro assessori al turismo hanno rivolto un appello al referente dell’esecutivo nazionale, vale a dire la ministra del Turismo Daniela Santanchè. Rappresentative della presa di posizione delle zone colpite, le dichiarazioni dell’assessore emiliano Andrea Corsini, che oltre a chiedere «un decreto per lo stato di crisi» ha detto: «Al Cimone e al Corno non puoi prescindere dall’offerta sci. Quindi, ci vuole un’alternativa in caso di condizioni anomale», riferendosi alla necessità di rinnovare i sistemi di innevamento.

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Crosetto e la Bce, parole in libertà

domenica, Gennaio 8th, 2023

Veronica De Romanis

Nelle ultime settimane, diversi esponenti della maggioranza hanno espresso perplessità, dubbi e anche forti critiche, verso l’operato della Banca centrale europea. Per la presidente Giorgia Meloni il problema è essenzialmente di forma: «Sarebbe utile gestire bene la comunicazione sulle scelte che si fanno» ha detto nella conferenza stampa di fine anno. Per alcuni dei suoi ministri, invece, la critica è sostanziale. I giudizi, però, sono divergenti. Secondo il ministro degli Esteri, Antonio Tajani «la decisione della Bce di aumentare i tassi è sbagliata». Il suo collega della Difesa, Guido Crosetto, la ritiene, al contrario, «una scelta comprensibile». Ciò che, invece, a suo avviso non è giustificabile è la fine del programma di Quantitative Easing (Qe), ossia l’acquisto da parte di Francoforte del debito dei Paesi dell’euro. Quindi, per riassumere, dal punto di vista del ministro, la Bce fa bene ad aumentare i tassi, ma fa male a ridurre la massa monetaria immessa nel sistema economico. «Il cambio repentino di politiche monetarie rischia di avere un effetto particolarmente negativo su di noi» ha spiegato in una recente intervista a Repubblica.

A fronte di tali affermazioni serve fare chiarezza. Ipotizziamo a titolo esemplificativo che la presidente Christine Lagarde – che per inciso non decide da sola, ma insieme a un consiglio composto da venti governatori delle banche centrali nazionali (incluso quello italiano, Ignazio Visco) e cinque membri del comitato esecutivo (di cui uno è italiano, Fabio Panetta) -, scelga di seguire la strategia proposta da Crosetto. In primo luogo, alza i tassi. Di conseguenza, i cittadini e le imprese comprano e investono meno. L’inflazione cala. Contemporaneamente, come suggerito dal ministro, la Bce acquista debito degli Stati. Ciò comporta un incremento della liquidità in circolazione. E, quindi, della domanda interna. In questo caso, però, l’inflazione sale.

Se il governo vuole (giustamente) rallentare la corsa dei prezzi, che non va dimenticato, erode il risparmio dei cittadini, in particolare quelli più deboli (come i pensionati o percettori di reddito fisso, cittadinanza compreso), non si può chiedere all’istituto di Francoforte di alzare i tassi e aumentare la massa monetaria simultaneamente. Le due cose non stanno insieme. Pertanto, bene fa la Bce a continuare a perseguire una politica monetaria restrittiva con un’inflazione media che resta intorno al 10 per cento. E, a interrompere gli acquisti di titolo di Stato dei Paesi membri dell’area dell’euro. Da marzo, poi, inizierà gradualmente anche a non rinnovare i titoli a scadenza con un ritmo pari a 15 miliardi al mese.

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L’elezione drammatica di McCarthy ci consegna un’America più divisa

domenica, Gennaio 8th, 2023

Lucia Annunziata

Nel quadrilatero del potere Americano, in due austeri edifici a poche centinaia di metri di distanza – la Casa Bianca e il Congresso – è andata in onda la più recente delle rese dei conti della politica Usa. Sfida dolceamara. Franca e ambigua allo stesso tempo.

La vicenda ormai si conosce. Il 6 gennaio, anniversario dell’assalto del 2021 ai palazzi della religione laica che ha inventato, in Occidente, la democrazia, si intrecciano due storie. Alla Casa Bianca il Presidente Biden, sopravvissuto allo tsunami delle elezioni di Midterm che avrebbero dovuto cancellare i dem da Camera e Senato, celebra la sconfitta di quell’attacco distribuendo elogi e medaglie alle forze dell’ordine che avevano fermato la rivolta. È il suo momento più glorioso di questi ultimi mesi.

Non molto più in là, la Camera bassa del Congresso è bloccata da 4 giorni nel voto per la elezione del Repubblicano Kevin McCarthy candidato dal suo partito come Speaker della Camera, la terza carica dello stato, e avversato da venti deputati del suo stesso partito. La vittoria arriva dopo 15 voti, trascinati nel cuore della notte fino alle otto del mattino del 7, in un clima infuocato che arriva alla rissa fra repubblicani nell’emiciclo, e i democratici che non vanno alle celebrazioni della Casa Bianca per evitare che la loro uscita abbassi il quorum e dunque faciliti la elezione di McCarthy.

Ma anche lo scontro sul nome dello speaker, pur tutto interno al partito repubblicano, è il risultato degli eventi di quel 6 gennaio, che ha devastato il partito repubblicano. Le due vicende, in apparenza opposte, ruotano dunque intorno allo stesso problema, che attraversa da almeno un decennio esplicitamente la politica americana: la disruption, una innovazione distruttiva provocata nel cuore di Washington da una destra radicale e antisistema, molto ben interpretata da Donald Trump.

Una resa dei conti, dicevamo, che ha mosso profonde reazioni nella opinione pubblica del Paese.

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Nella tradizione americana la fiducia e il rispetto delle istituzioni passa innanzitutto per l’accettazione del risultato delle elezioni. Ancora più raro è che la elezione da contestare sia quella di un membro del proprio schieramento. Per capire quanto raro, i media in questi giorni facevano risalire l’ultimo caso a cento anni fa. In realtà non è del tutto così.

Il funzionamento di Washington è da tempo in evoluzione. Messo sotto pressione soprattutto dal cambiamento dei profili sociali nell’epoca del reset tecnologico. Da una parte una classe media bianca e non urbana, come in Usa è ampiamente considerata la classe operaia, frustrata e arrabbiata, che guarda da anni ormai alla destra – fu George Bush Junior il primo Presidente a raccogliere questa onda, nella sua seconda elezione, dopo la Prima guerra in Iraq, sostenuto da questo ceto di classe media/operaia degli Stati centrali della Rust Belt, tra cui molti cattolici. Dall’altra una società urbana legata ai diritti identitari, scolarizzata, globalista, figlia della rivoluzione tecnologica, su cui si affermò il decennio di successi della Presidenza Clinton.

È un paese che seri studiosi della politica considerano attraversato oggi da una frattura così profonda da costituire un rischio. Nel report annuale del think tank Eurasia, che ogni anno il 3 di gennaio fa il punto dei rischi alla stabilità globale, il politologo Ian Bremmer, che dell’Istituto è il fondatore, mette tra questi rischi “Una America divisa”. Si legge a pag. 79 del rapporto: «Gli Stati Uniti rimangono una delle politicamente più polarizzate e disfunzionali delle democrazie dei paesi industriali avanzati. La polarizzazione partigiana dell’elettorato americano continua a erodere la legittimità che costituisce la sostanza delle istituzioni federali. I tre rami del governo e un pacifico trasferimento di poteri attraverso libere e corrette elezioni».

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Ecco perché il prezzo del gasolio non si ferma più. Urgente l’intervento del governo

domenica, Gennaio 8th, 2023

GIACOMO GALEAZZI

ROMA. Era stato uno dei cavalli di battaglia nella campagna elettorale della colazione oggi alla guida del Paese. Strappare gli italiani alle fluttuazioni che spingono in alto i prezzi alla pompa. In realtà il caro carburanti sta toccando vette folli. E non necessariamente per effetto della crisi provocata sui mercati dalla guerra russo-ucraina. “I forti rialzi dei listini alla pompa di benzina e gasolio avranno effetti negativi non solo sul pieno, ma anche sui listini al dettaglio di una moltitudine di beni e servizi”,  afferma Consumerismo No Profit, che chiede al governo Meloni nuovi sgravi sulle accise. “Il rialzo della tassazione sui carburanti, unitamente all’aumento dei prezzi industriali di benzina e gasolio, avrà conseguenze pesanti per le famiglie italiane – spiega il presidente Luigi Gabriele – La corsa di benzina e gasolio rischia infatti di innescare rincari a cascata con effetti sui prezzi al dettaglio stimati tra un +0,3% e un +0,6%.

Perché continuano ad aumentare gasolio e diesel invece della benzina

Carburanti più cari vuol dire infatti maggiori costi di trasporto per l’85% della merce venduta nei nostri negozi, ma anche rincari per le tariffe di numerosi servizi. Il rischio concreto quindi è quello di gettare benzina sul fuoco dell’inflazione, già oggi a livelli elevatissimi. Per tale motivo rivolgiamo un appello al governo Meloni affinché si prosegua sulla strada di una riduzione della tassazione, a partire dal taglio delle accise che nei precedenti mesi ha portato ad un effetto calmierante e ad un risparmio per la collettività italiana”, precisa Gabriele.

Accise
Il rincaro dei carburanti ha due cause: l’addio allo stop alle accise e il rialzo dei listini. Il governo Meloni ha  scelto di non confermare il taglio delle accise per questioni di budget, oltre che per scelte politiche, che hanno portato a privilegiare altri interventi. Si tratta, infatti, di un provvedimento costoso: per coprire lo sconto da marzo a dicembre ci sono voluti circa 7 miliardi di euro. Inoltre, va considerato come il prezzo del petrolio sia sceso rispetto ai picchi dell’esecutivo Draghi. “Accise sui carburanti, serve far chiarezza affinché i cittadini non vengano disorientati delle sterili polemiche montate ad arte in questi giorni. Tagliare le accise sulla benzina non è uno spot elettorale”, sostiene Alice Buonguerrieri, deputato di Fratelli d’Italia, che spiega: “La misura di riduzione venne assunta a marzo 2022 a fronte dello sfondamento del tetto dei 2 euro al litro, sul presupposto, condiviso da tutte le forze dell’allora maggioranza e anche da Fratelli d’Italia, di dare una temporalità ridotta alla misura per verificare l’andamento del mercato. Basta andarsi a rivedere le dichiarazioni dell’allora premier Draghi. Nei mesi successivi il prezzo si è sempre mantenuto a livelli alti sfondando a giugno e luglio i 2 euro nonostante il taglio”. “Successivamente – continua – si è registrato un calo che ha portato diverse nazioni che avevano adottato una misura analoga a toglierla, come ad esempio la Germania. Oggi il prezzo, senza tagli, si colloca intorno a 1,8 euro al litro, vale a dire gli stessi valori del marzo 2012, marzo 2013, marzo 2014. Abbiamo dato corso a una scelta già definita a marzo 2022 da chi oggi finge di non saperne nulla”. Il taglio delle accise, in 8 mesi, è costato circa 8 miliardi.

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“Donna, vita, libertà”: 300.000 firme per il popolo iraniano

domenica, Gennaio 8th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Lo ripeto sempre: un fondo non salva il mondo. E dunque le poche righe che state leggendo non cambieranno di una virgola il Grande Libro della Storia. Ma ci portiamo nel cuore le paure e le speranze di centinaia di migliaia di ragazze iraniane che ormai da quasi quattro mesi scendono in piazza ogni giorno, rischiando e perdendo la loro vita, per protestare contro una teocrazia ottusa, opprimente, feroce. Hanno cominciato il 16 settembre, il giorno in cui Mahsa Amini, 22 anni appena compiuti, fu uccisa di botte dalla “Polizia Morale” perché non portava il velo in modo corretto.

Da allora non si sono più fermate. Ogni mattina escono dalle loro case, organizzano cortei nelle strade, manifestano nelle università. Vengono pestate a sangue dai paramilitari, vengono arrestate, vengono giustiziate. Ma vanno avanti.

Ormai in Iran la lotta delle donne è diventata la battaglia di un intero popolo, soggiogato da un khomeinismo oscurantista, umiliato da una Sharia intollerante, represso da una Guardia Islamica brutale. Siamo già arrivati a quasi 600 vittime innocenti, di cui più di 60 bambini. La rivolta dilaga ovunque e finalmente anche in Occidente qualcosa si muove.

Era ora. Da parte nostra, abbiamo fatto l’unica cosa che ci sembrava possibile, al di là del racconto degli orrori commessi dal regime contro i suoi figli. Abbiamo lanciato una raccolta di firme, all’inizio per chiedere al governo iraniano la sospensione della pena capitale e la liberazione di Fahimeh, giovane insegnante e madre di tre figli, anche lei condannata a morte “per aver fermato il traffico”.

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L’orgoglio che va ritrovato

domenica, Gennaio 8th, 2023

di Aldo Cazzullo

Oggi manca quell’energia, quel gusto del lavoro ben fatto grazie a cui un Paese agricolo devastato alla guerra divenne una grande e ricca potenza industriale

Molti lettori sono rimasti colpiti dalla chiusura di «Vecchia Milano», la storica pasticceria di via Reina, zona piazzale Susa. Il titolare, Orazio Parisi, 83 anni, arrivato da ragazzo a Milano dalla sua Messina, non ce la faceva più; e non ha trovato nessuno disposto a raccogliere la sua eredità. Nell’Italia del dopoguerra, alcune botteghe — ad esempio le macellerie — non chiudevano mai. Neppure il giorno di Natale. Si entrava garzoni a dodici anni, si andava in pensione, e poco dopo si moriva. Ovviamente non abbiamo nessuna nostalgia di quel mondo, di quel sistema. Lavoro durissimo, ciminiere in città, acciaierie in riva al mare, reparti verniciatura, nubi tossiche. Cose irripetibili e da non ripetere. Ciò che forse oggi manca è quell’energia, quell’orgoglio, quel gusto del lavoro ben fatto grazie a cui un Paese agricolo devastato alla guerra divenne una grande e ricca potenza industriale.

Poi, alla fine degli anni 70, il quadro cominciò a cambiare, i grandi conglomerati industriali a essere smantellati. Il robot sostituiva l’operaio, il computer prendeva il posto del contabile. Alla fine del secolo scorso, parve che il lavoro fosse finito. Il grande problema era la disoccupazione. Nel 1997 i socialisti francesi vinsero le elezioni anche perché il loro candidato al ministero dell’Economia, Dominique Strauss-Kahn, disse al tg del primo canale: «Con noi al governo, davanti agli uffici pubblici ci saranno le scritte “si assume”, davanti ai negozi i cartelli “cercasi personale”». Sembrava un miraggio.

Oggi l’Italia è piena di cartelli «cercasi personale». Che non si trova. La prima reazione è istintiva: pagatelo meglio, il personale, e lo troverete. Però aumentando i costi il piccolo imprenditore dovrà aumentare anche i prezzi; e rischierà di perdere clienti e committenti, di finire fuori mercato.

Intendiamoci: in Italia esiste una questione salariale. Gli stipendi aumentano (quando aumentano) molto meno dei prezzi. Intere categorie hanno perso potere d’acquisto, status, prestigio, prospettive. Il problema non è più tanto l’occupazione, quanto i «working poor», i poveri che hanno un lavoro ma non un reddito dignitoso.

Nello stesso tempo, il lavoro sembra diventare sempre meno importante. Continua a essere troppo tassato. Ma viene visto come un peso di cui si potrebbe anche fare a meno, di cui liberarsi prima possibile. Non coincide più con la vita, non è più considerato il mezzo per costruirsi una famiglia, darsi un futuro, esprimere la propria personalità, vivere la vita sociale; ma come un fardello di cui alleggerirsi, se non sbarazzarsi.

Le cause sono molte. La tecnologia ha reso obsolete diverse mansioni tradizionali, selezionando un’élite ben preparata e ben formata, e condannando la base a lavori duri, ripetitivi, frustranti, che lasciamo volentieri agli immigrati, talora in condizioni di semischiavitù. Poi è arrivata la pandemia. I lock-down hanno indotto molti a un cambio di paradigma. Il boom del lavoro da casa e l’introduzione del reddito di cittadinanza hanno fatto il resto. Così siamo diventati la società delle dimissioni (incentivate dalla disparità fiscale crescente tra autonomi e dipendenti). O del «quiet quitting»: che non significa lasciare in silenzio, ma fare il meno possibile.

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Vaticano, gli occhi sul «Conclave». Il fronte dei tradizionalisti per opporsi a Francesco

domenica, Gennaio 8th, 2023

di Massimo Franco

Il malcontento verso il Papa e le mosse dopo la morte di Ratzinger

Vaticano, gli occhi sul «Conclave»: il fronte dei tradizionalisti per opporsi a Francesco

«Se in Conclave sarà eletto un altro Bergoglio, per la Chiesa sarà una tragedia…». Il funerale del papa emerito Benedetto non era stato ancora celebrato, quando uno dei cardinali tradizionalisti più in vista ha iniziato il tamtam della guerra di logoramento con Francesco. Dal 31 dicembre, giorno della scomparsa di Joseph Ratzinger, il tema non sembra quello di come raccordarsi col pontefice argentino alla ricerca di una ricucitura. Su questo, le speranze ma anche la voglia di una tregua appaiono esili. La vera questione, per i suoi avversari, è come impedire che Jorge Mario Bergoglio riesca a condizionare il prossimo Conclave

Le bordate sorprendenti arrivate contro Francesco dal segretario personale di Ratzinger e prefetto della Casa pontificia, monsignor Georg Gaenswein, sono state viste come l’inizio di una fase apertamente conflittuale. Di certo, riflettono il risentimento di una persona che si è sentita umiliata e costretta a tacere a lungo tra le mura del Monastero per non dispiacere a Benedetto. Ma tra gli avversari di Francesco le sue uscite sono state accolte con una miscela di sorpresa e di imbarazzo. Ne sono in arrivo altre, però. 

È in uscita un libro-intervista dell’ex custode della dottrina cattolica, il cardinale Gerhard Muller, con la vaticanista Franca Giansoldati, intitolato «In buona fede», che si preannuncia corposo e profondo nelle critiche al papato argentino. Muller era stato indicato come la personalità su cui puntavano i tradizionalisti. Ma ha sempre rifiutato di schierarsi contro Francesco: pur attaccando duramente i suoi consiglieri e definendo il Monastero dove ha vissuto per quasi dieci anni Benedetto «il luogo dove vanno a curarsi le persone ferite da Francesco. E sono molte…». 

Ma questi «feriti» mostrano quanto in realtà il cattolicesimo ortodosso sia esasperato, tutt’altro che compatto, e non ancora pronto a offrire un’alternativa. Per questo ogni mossa compiuta a Casa Santa Marta mette in agitazione una porzione non piccola dell’episcopato mondiale che da anni mugugna per le decisioni del papa. L’accusa di fondo è di avere fatto imboccare alla Chiesa una strisciante deriva «protestante»; di nutrire un pregiudizio sudamericano contro i «gringos»; di preparare un Conclave scegliendo solo cardinali fedeli alla sua linea; e di avere stipulato «un patto col diavolo» per l’accordo segreto con la Cina di Xi Jinping. Eppure l’altroieri Francescoha ricevuto il cardinale emerito di Hong Kong, Joseph Zen, che era stato arrestato nel maggio scorso e poi rilasciato su cauzione dalle autorità cinesi. 

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Putin: negoziati o guerra totale. Il dilemma del presidente russo, sempre più solo e confuso

domenica, Gennaio 8th, 2023

di Marco Imarisio

L’ex consigliere politico Markov: «Logica ispirata al giorno per giorno, pesa l’insuccesso della prima fase dell’Operazione militare speciale»

Putin: negoziati o guerra totale. Il dilemma del presidente russo, sempre più solo e confuso

I russi odiano l’imprevisto. Nella loro lingua, l’avverbio casualmente, sluchaino , una delle parole più comuni del lessico sovietico, viene sempre usato con un significato peggiorativo, per sottolineare le cose che non sono andate secondo il piano stabilito. Forse questo continuo unire i punti disegnati dalla strategia del Cremlino è inutile fin dalla tarda primavera del 2022. La reazione dell’Ucraina non era messa in conto, e ha cambiato in modo radicale uno scenario che sembrava già deciso a tavolino.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Da allora, la strategia di Vladimir Putin , che è un uomo profondamente sovietico, è diventata un enigma a geometria variabile. È una guerra ma non è possibile chiamarla così, anche se sta per essere varato dalla Duma il decreto che prevede il pagamento di una sorta di patrimoniale bellica per alcune imprese e maggiori tasse alle aziende partecipate dallo Stato. Sì alla mobilitazione, ma non troppo. Che sia parziale, anche se secondo i servizi segreti ucraini, da prendere con le molle, oltre ai trecentomila coscritti richiamati alle armi lo scorso ottobre se ne aggiungeranno presto molti altri, tra cinquecentomila e un milione, segno dell’intenzione di proseguire le ostilità.

Al tempo stesso, sì anche ai negoziati, naturalmente alle proprie condizioni, che prevedono il mantenimento dei territori annessi con i referendum di settembre. Sembra tutto e il contrario di tutto. La diversificazione dei messaggi, esemplificata dalle diverse posizioni del ministro degli Esteri Sergey Lavrov, più «trattativista» e quella dell’ex presidente Dmitri Medvedev, desideroso di bombardare l’Europa e la Nato, può talvolta comunicare anche un’idea di fragilità dell’intero sistema di potere. «Esiste una logica, in realtà» dice Sergey Markov, che fu uno dei più longevi consiglieri politici dello zar, in servizio dal 2011 al 2019, e da ardente nazionalista qual è non rappresenta certo il partito delle colombe, anzi. «Ma è ispirata al giorno per giorno, una mossa per tastare le cancellerie europee, un’altra per far capire a Zelensky che possiamo andare fino in fondo, nulla è escluso. Il peso che l’insuccesso della prima fase dell’Operazione militare speciale sta avendo sullo sviluppo del conflitto ucraino sta diventando sempre più evidente».

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