Archive for Gennaio, 2023

I 5 Stelle in affanno per completare le liste. Mancano i candidati

sabato, Gennaio 7th, 2023

Domenico Di Sanzo

Giuseppe Conte sale nei sondaggi ma sprofonda nella partecipazione online. Proprio quella democrazia diretta che era il core business e tratto rivoluzionario del M5s delle origini sembra più appannata che mai. Basta prendere i risultati delle votazioni sulla piattaforma SkyVote in vista delle elezioni regionali di Lazio e Lombardia. I problemi maggiori si registrano in questa ultima regione, dove i grillini corrono in alleanza con il centrosinistra a sostegno di Pierfrancesco Majorino. Per la circoscrizione di Sondrio si è candidato un solo attivista, 81enne, in una provincia in cui per formare una lista c’è bisogno di almeno due candidati. A Cremona i candidati erano esattamente al minimo sindacale di due, ma uno è stato escluso e quindi nessuna lista nemmeno nel cremonese. Mentre in altri casi, come ad esempio sulla lista provinciale di Bergamo, a Via di Campo Marzio – sede nazionale dei Cinque Stelle – saranno costretti a usare il bilancino per garantire il numero minimo di componenti della lista e anche l’alternanza di genere. Nella città orobica, infatti, Conte dovrà rinunciare a qualche candidato pur di inserire tutte e tre le donne che si sono presentate, assicurando così l’equilibrio tra i sessi, seppur a prezzo di una lista più «corta». Stesso discorso varrà per Brescia. Invece su Como, con una sola donna candidata, ci sarà bisogno di derogare al principio di alternanza di genere per il listino che dovrà essere formato da un minimo di quattro candidati e da un massimo di sei. Insomma, con una situazione così desolante, in Lombardia i grillini saranno più un peso che un valore aggiunto per la coalizione a sostegno di Majorino. Nell’altra partita, quella del Lazio, i pentastellati agiranno da disturbatori, con buone chance di favorire indirettamente la vittoria del candidato di centrodestra Francesco Rocca, a scapito di Alessio D’Amato, ex assessore alla sanità della giunta di Nicola Zingaretti.

Anche nel Lazio, dove il Movimento correrà da solo con la giornalista Rai Donatella Bianchi, Conte e i suoi sherpa sul territorio saranno costretti a fare i salti mortali per riuscire a portare a casa le liste. Difficoltà che si sommano al calo inesorabile della partecipazione online. Con i numeri della piattaforma SkyVote che non sono mai decollati. A Roma, ex feudo di Virginia Raggi, la città simbolo del grillismo che scalava i Palazzi del potere, è stata registrata un’affluenza del 25,47%, con soli 3892 votanti su 15mila e 278. Va ancora peggio nell’altra grande circoscrizione, Milano. Nella metropoli lombarda e provincia c’è stata un’affluenza del 23,80%, con 1467 votanti su 6mila e 164 aventi diritto. Per la Lombardia il dato più basso è quello di Lodi, con il 22,36% di affluenza e 74 votanti su 331 aventi diritto sulla piattaforma SkyVote. Curiosità: nel capoluogo lodigiano sarà candidata per il Consiglio Regionale la seconda classificata Annarita Pacifico, che è stata votata soltanto da 24 attivisti. Cifre da rappresentante di classe o al massimo da amministratore di condominio. Sempre a Como, l’ultimo aspirante in lizza per entrare in lista è Stefano Pini, scelto da 10 iscritti certificati sulla nuova piattaforma del M5s.

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Le vacanze di Conte arrivano in Parlamento “Quanto ha speso lo Stato per la sua scorta?”

sabato, Gennaio 7th, 2023

Domenico Di Sanzo

Le vacanze di Conte arrivano in Parlamento "Quanto ha speso lo Stato per la sua scorta?"

Non si fermano le polemiche sulla vacanza extra lusso di Giuseppe Conte a Cortina D’Ampezzo. Anzi, c’è di più, il caso arriva in Parlamento. È pronta un’interrogazione parlamentare da parte del Terzo Polo, lo schieramento che – soprattutto con i renziani di Italia Viva – è in prima linea in questi giorni per chiedere chiarezza all’ex premier e leader del M5s. Nel testo dell’interrogazione a risposta scritta, presentata dalla senatrice Silvia Fregolent come prima firmataria, viene sottolineato il prezzo delle prestigiose camere del Grand Hotel Savoia, «hotel a cinque stelle lusso la cui tariffa minima in quel periodo è superiore ai 1.500 euro per pernottamento».

Il Terzo Polo si rivolge al ministro dell’interno Matteo Piantedosi, chiedendo se il Viminale «sia a conoscenza di quanto riportato in premessa e se la scorta dell’On. Giuseppe Conte è stata impegnata a tutela dello stesso a Cortina d’Ampezzo durante il suo pernottamento nel periodo di capodanno, con quante unità, dove è stata fatta alloggiare e quanto sia stato speso dalle forze dell’ordine per il suddetto periodo». Fregolent sottolinea anche il silenzio di Conte e dei suoi su «quanto sia costato l’intero soggiorno e chi lo abbia pagato». Domande che Il Giornale ha provato anche a porre allo Staff del Grand Hotel Savoia, ottenendo un diniego «per motivi di privacy» davanti a qualsiasi richiesta di informazioni sui costi della lussuosa vacanza dell’avvocato di Volturara Appula. Secondo Fregolent e il Terzo Polo «elementari ragioni di opportunità imporrebbero estrema chiarezza circa il pagamento del suddetto soggiorno, cionondimeno è opportuno comunque verificare quanto sia stato speso per la trasferta e la protezione dell’ex Presidente del Consiglio per il suo soggiorno nella predetta località».

Ma Conte sceglie ancora la strategia del silenzio e nel M5s fanno fatica a trattenere l’imbarazzo per una questione che si sta ormai trascinando oltre le previsioni dei pentastellati. I parlamentari dei Cinque Stelle nicchiano, sviano il discorso, non rispondono alle domande nemmeno sotto la promessa dell’anonimato. Si rifugiano in risposte del tipo «parliamo d’altro, dobbiamo affrontare temi concreti» e aspettano che passi la buriana.

E però ad alimentare il dibattito ci sono le dichiarazioni di Valentina Fico, ex moglie di Conte, che rilancia le voci sul mancato pagamento del salatissimo conto da parte dell’ex presidente del Consiglio. «Ma la compagna è miliardaria! Dove volete che passi le vacanze? In un ostello? E lui era ospite, non ha mica pagato», dice la Fico in uno scambio WhatsApp con Fabrizio Caccia del Corriere della Sera.

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Quell’odio tra i vicini che si uccidono in ruspa

sabato, Gennaio 7th, 2023

Paolo Crepet

Una mia conoscente, bravissima illustratrice inglese, aveva avuto un’idea fantastica: disegnare una grande pianta dell’Europa dove erano riprodotte e, ovviamente, amplificate le case principali della sua vita. Come una lente d’ingrandimento aveva amplificato stanze e mobilio, una mappa mentale che raccontava di lei in maniera fantasiosa e reale.

Casa è identità, non solo dettaglio catastale. La casa è il luogo della nostra infanzia, della crescita, delle feste e dei funerali. Contiene l’essenziale del viaggio interiore di ciascuno, parallelepipedo fisico dell’anima. Non a caso fin dalla notte dei tempi quando un regime voleva condannare una persona rea di qualche misfatto, soprattutto se di ordine morale, e prima di arrivare alla pena capitale, veniva decisa la demolizione della casa ove dimorava, a volte anche entrambe le cose. Accade ancor oggi in Iran o in Afghanistan. Distruggere, dare fuoco a una casa per liberarsi dell’immondo. Se quel sito viene cancellato, forse anche quell’anima e il ricordo di essa lo saranno e vano il suo ricordo.

La scena madre si compie alla vigilia dell’ultimo giorno di festa, l’Epifania, pochi chilometri dal borgo storico di Arezzo. Due uomini litigano da tempo. Immagino che il confronto sia iniziato con uno screzio per qualche motivo futile, poi però le occasioni si moltiplicano perché abitano a poca distanza. Gli incontri diventano sfide, le parole montano come flutti, si passa alle imprecazioni e alle minacce. Immagino che qualcuno dei parenti o amici abbia tentato di dissuadere i duellanti, farli ragionare. Ma ci sono parole – quelle che si dicono e si ascoltano, ma non si sanno elaborare – che scavano e diventano micce cui si pensa di notte e di giorno, tarli demolitori che non lasciano scampo al buon senso, un’onta da lavare definitivamente. L’ira si fa fisica fino a immaginare la distruzione dell’altro. La vecchia casa restaurata con sacrificio e dedizione è il simbolo che uno vuole ferire a morte, l’altro difendere a ogni costo, anche con la vita altrui.

È ora di cena, si prepara l’attesa per i bambini, forse ci sarà chi prepara la calza da appendere in cucina con carbone e dolcetti. Da qualche parte forse ma non lì, perché la sfida torna e si fa feroce. Un’ultima invettiva, poi il silenzio lacerato da un rumore sordo. L’enorme ruspa gialla entra nel buio umido di una serata di gennaio, avanza decisa, travolge auto per poi entrare nella facciata di pietra del casale del nemico. Immagino il senso di orrore di chi non riesce a scappare e vede la grande lama d’acciaio penetrare la loro intimità. Un fucile, uno sparo forse più d’uno, per l’uomo seduto alla guida del mostro giallo non c’è scampo.

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Aumento dei tassi, è scontro nella Bce: l’asse Italia-Portogallo contro i falchi

sabato, Gennaio 7th, 2023

dal nostro inviato Marco Bresolin

BRUXELLES. L’inflazione nell’eurozona torna a una sola cifra dopo due mesi consecutivi con un dato superiore al 10%, ma il 9,2% registrato a dicembre è il classico bicchiere riempito a metà attorno al quale si stanno già scontrando visioni opposte. Una contrapposizione destinata a far salire la tensione attorno al tavolo del consiglio direttivo della Banca centrale europea, che nei prossimi mesi sarà chiamato a discutere e approvare il percorso di aumento dei tassi d’interesse. Che per ora sembra confermato.

Gli ottimisti vedono nel dato diffuso ieri da Eurostat una chiara inversione di marcia dei prezzi – in frenata rispetto al 10,6% di ottobre e al 10,1% di novembre -, favorita dal calo del costo dell’energia. Del resto gli analisti si aspettavano un valore del 9,5% per l’ultimo mese dell’anno, che invece ha chiuso con tre decimali in meno. Ma per i pessimisti è il dato dell’inflazione “Core” a preoccupare: il valore al netto dei prezzi energetici e alimentari ha raggiunto il livello record del 5,2% a dicembre, superiore al dato di novembre e alle stime, che si attendevano una stabilizzazione al 5%.

Al tavolo della Bce, ottimisti e pessimisti si chiamano rispettivamente colombe e falchi. I primi sono ancora in netta maggioranza, ma il 9,2% di dicembre offre un argomento in più al fronte dei governatori del Sud che vorrebbe allentare la stretta sui tassi. Ieri è stato il portoghese Mario Centeno a dar voce alle istanze delle colombe, definendo «abbastanza positivo» il dato di dicembre. Secondo l’ex presidente dell’Eurogruppo, «a meno che non emergano nuovi shock esterni», il tasso d’interesse di riferimento della Bce «si sta avvicinando al suo picco». Centeno è noto per una certa cautela nelle sue dichiarazioni, mai di rottura, e anche ieri ha premesso che «i tassi aumenteranno fino a quando sarà necessario per raggiungere l’obiettivo» di medio termine del 2%. Ma il portoghese ha sottolineato che «siamo sulla strada per arrivarci» e questo lascia trasparire una certa volontà di mettere in discussione la linea dura che a Francoforte continua a prevalere.

Le tensioni sono già nell’aria e Il primo confronto è alla riunione di inizio febbraio. Sulla base del discorso pronunciato a dicembre da Christine Lagarde, gli analisti si aspettano un nuovo rialzo di 50 punti base il prossimo mese, in linea con la decisione presa il mese scorso. Lo stesso passo sarà poi compiuto a marzo e nuovamente a maggio. La linea sembra ormai tracciata, come confermato dai toni sul blog della Bce, nel quale si sottolinea che l’aumento dei tassi non sta avendo un impatto negativo sulle finanze pubbliche dei Paesi più indebitati.

La vera resa dei conti ci sarà al vertice di giugno, quando il consiglio direttivo sarà chiamato a fare una valutazione del percorso di aumento dei tassi sin qui seguito e a definire di conseguenza la strategia per la seconda metà dell’anno. L’Italia è allineata alla posizione portoghese, ma si tratta di un fronte nettamente minoritario, visto che a insistere per una frenata ci sono solo Malta, Grecia e Cipro. Il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, ha detto che «la Bce deve ripensare la corsa al rialzo dei tassi. Il rischio è la recessione, servono sforzi per sviluppo e occupazione».

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Ciao campione, ci hai fatto battere il cuore

sabato, Gennaio 7th, 2023

Gigi Garanzini

Scrisse una volta il sommo Brera che i campioni meriterebbero di morire giovani, nel pieno della loro gloria, ed essere trasportati in Olimpo su un carro di fuoco. Per uno sberleffo del destino toccò proprio a lui quella sorte, già in età surmatura. Da allora il paradosso breriano è un tormento in più che si somma al dolore quando uno dei grandi se ne va.

Perché nella rétina come nella mente è sul campo che torniamo a riviverli, ai tempi in cui ci facevano battere il cuore. Quando Vialli la insaccava sotto la sud di Marassi, e se non erano svelti ad abbracciarlo lui partiva con le capriole e c’era rischio che esondasse il Bisagno là fuori. Quello scudetto impossibile, firmato da un grande presidente, Mantovani, dalla saggezza dello zio Vujadin, da una signora squadra le cui punte di diamante si chiamavano Mancini e Vialli. Il cui abbraccio di un anno e qualcosa fa sul prato di Wembley, dove avevano perso al fotofinish una finale di Coppa Campioni e appena consumato la rivincita firmando l’Europeo, rimane un’immagine indelebile e struggente. Oggi poi insopportabile. Perché tutti e due sapevano, non solo Gianluca, che il destino restava in agguato.

Adesso che ha fatto il suo corso, il primo sforzo da compiere è proprio quello. Rimuovere il ricordo più recente della lunga sofferenza e ripercorrere il cammino del vero Vialli. Quello partito da Cremona, e da lì a proposito di Brera lo strepitoso ri-battesimo, Stradivialli, e atterrato da capitano bianconero sull’ultima Champions della Juve, 1996. Con un’appendice di grande prestigio al Chelsea, in campo e in panchina, sino alla definitiva scelta di vita londinese. Il carattere non gli mancava di sicuro. Dentro e fuori il rettangolo. Il primo, e più significativo esempio, è che si diceva e si dice essere la fame il vero propellente di un calciatore, di un’atleta. Di famiglia agiata, Vialli la fame non l’ha mai nemmeno immaginata. Ma non è facile trovarne un altro che in campo si sia sempre speso come si spendeva lui. Che trascinasse, anziché farsi servire: che ci mettesse sempre il massimo della quantità anche nelle rare giornate in cui la qualità non era la solita. Un centravanti a tutto campo, ala destra in origine come già era accaduto a Paolo Rossi, dotato in egual misura di agilità e di potenza. Con il gusto, a volte il vezzo anche dell’acrobazia. Era stato Vicini, a sua volta ex-doriano, il primo ad accentrarlo nell’Under 21: figurarsi se Boskov, che con Azeglio aveva giocato, si lasciava sfuggire l’intuizione.

In quella seconda metà degli Ottanta la Samp faceva collezione di Coppe Italia. Grasso che colava, come no, ma quelli nel frattempo di erano messi in testa l’idea meravigliosa. Così quando Berlusconi mise sul piatto un’offerta delle sue, Mantovani chiamò a sé Vialli, Mancini e Vierchowod e chiese loro se se la sentivano di restare e provarci, con opportuni rinforzi. Vialli col Milan una mezza parola l’aveva spesa. La girò sul versante Fininvest, e me lo ritrovai in un programma settimanale. Che bel tipo. E quanto calcio ho imparato, troppo tardi ahimè, in sala di montaggio. Rallenta, torna indietro. Come fa a non essere rigore, se il piede davanti è quello dell’attaccante? Sai che mazzo mi faccio io a smarcarmi di qua e di là sempre con l’idea fissa di metterci il piede per primo? Anni ’80, per l’appunto: oggi toccherebbe rifare l’audio perché smarcarsi è diventato attaccare lo spazio.

Il meglio di sé televisivo lo dava con Fazio, blucerchiato nel midollo, quando una volta l’anno andava da lui con Mancini. Ma è stato poi un’opinionista di spessore vero negli anni di Sky, la cui costola italiana aveva contribuito a creare per via dell’amicizia con Murdoch.

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Ecco la Quarta guerra mondiale: l’Ucraina è la prima linea europea

sabato, Gennaio 7th, 2023

Domenico Quirico

Sì, è proprio una reazione simile a quella di un ramo piegato e improvvisamente slegato. Il ramo riprende la posizione con tanta maggiore violenza quanta è stata la forza con cui è stato ritorto. Negli anni Novanta del Novecento la Terza guerra mondiale finì con la auto dissoluzione dell’Unione sovietica. Il grande nemico su cui poggiava l’equilibrio del sistema globale del secondo dopoguerra sparì in un modo inedito e apparentemente irrazionale, per implosione e non per sconfitta sul campo. C’era proficuo spazio per il millenarismo del trionfo dell’Occidente, o meglio degli Stati Uniti, e la fine di ogni possibile matassa ingarbugliata di Storia. Dopo trent’anni con la Quarta guerra mondiale in corso, di cui ci si avvicina l’anniversario del primo anno, il ramo torna violentemente al suo posto.

Ucraina – Russia, le news sulla guerra di oggi

Evitiamo il solito catechismo di bugie sull’ampiezza limitata del conflitto. Gli ucraini sono soltanto la prima linea europea e ne sopportano le tragiche conseguenze. Ma la presenza anglo americana sul terreno si accresce in battaglie ormai telecomandate. Si combatte più silenziosamente negli Stati proletari del terzo mondo, Africa, Vicino oriente, secondo lo scenario della competizione tra i blocchi per le zone grigie, un classico che fu della Guerra Fredda. In attesa che la Cina, sempre cauta, apra i suoi fronti. Si torna alla contrapposizione frontale, guerresca, economica, direi umana, tra due schieramenti globali fondati su immaginari accuratamente cesellati dalla propaganda delle due parti come portatori del Bene e del Male assoluti. Qualcosa di primitivo che sembrava appartenere semmai alle guerre di religione e di cui si è fatta la prova nella fase più brutale della guerra al terrorismo.

Da una parte l’Occidente capitalistico liberale, saldamente tenuto in pugno da Washington senza cui Europa e satelliti asiatici sarebbero sguarniti dell’unica cosa che conta, la forza militare come avvenne contro l’Urss staliniana. Dall’altra l’Eurasia russo cinese con le insegne del capitalismo autocratico; che riprende la sfida alla superpotenza americana dal punto in cui l’aveva interrotta negli anni Novanta del secolo scorso. Primo assalto portato a riguadagnare quella che era la fascia di sicurezza, l’impero interno con Ucraina e Taiwan.

La Russia, a cui è sempre stato riconosciuta, anche nella Terza guerra mondiale, la caratteristica di potenza europea, questa volta, tagliata fuori dall’ Europa centrale dalla avanzata della Nato, deve volgersi alla componente asiatica: per necessità o per scelta. Perché quella immensa parte del suo impero, per risorse, territorio e vicinanza alla alleata ormai indispensabile, è più ampia e ricca.

Che guerra è questa, la quarta con scenario mondiale? Se Lenin fosse a Zurigo a scrutare come nel 1915 l’Europa in fiamme, sarebbe soddisfatto. Potrebbe riscrivere, con qualche marginale aggiornamento, il saggio L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Altro che geografia politica arcaica!

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Per le (grandi) riforme la fretta non è d’aiuto

sabato, Gennaio 7th, 2023

di Paolo Mieli

Affrontando insieme vicende fondamentali e casi secondari, come sta facendo attualmente il governo, spesso si è costretti a fare percorsi all’indietro

«Meglio meno, ma meglio». Questo il titolo di un celebre articolo che il 4 marzo del 1923, a cinque anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, Lenin pubblicò sulla Pravda. Lettera scritta con l’intento di dare la linea al XII Congresso del Partito comunista russo (bolscevico) che si sarebbe tenuto a fine aprile. Vladimir Uljanov era già stato colpito da un primo ictus e, pur avendo da poco compiuto cinquantatré anni, avvertiva di essere alla fine dei propri giorni (sarebbe morto nel gennaio dell’anno successivo). Intendeva con quell’articolo dar sfogo all’irritazione nei confronti dei compagni di partito che avevano «fretta» di realizzare il programma originario e «blateravano» nel nome della «cultura proletaria». «Per incominciare», scrisse, «ci accontenteremmo di un’autentica cultura borghese». Si concentrassero i dirigenti del Pcr(b) su un minor numero di obiettivi, era l’esortazione di Lenin, e cercassero di ottenere risultati apprezzabili in campi limitati e specifici.

Ci permettiamo di suggerire la lettura di questo testo a Giorgia Meloni alla quale, probabilmente, non è capitato di inciampare in esso negli anni del suo percorso formativo. La scarsità di analogie tra la «rivoluzione» che la destra italiana ha in programma per il 2023 e quella russa del 1917 non è in discussione.

Conta che da quella lettera di Lenin la presidente del Consiglio può trarre qualche spunto di riflessione sui primi due mesi di vita del suo governo. Scoprirà d’aver messo troppa carne sul braciere e che, in fin dei conti, è lei stessa la vera responsabile delle retromarce a cui è stata costretta con impressionante regolarità. Molte retromarce, forse troppe nell’arco di una settantina di giorni. Il problema è che quando si affrontano insieme questioni fondamentali e casi secondari, capita che si sia spesso costretti a compiere repentini percorsi all’indietro. E si debba alla fine constatare che si sono disperse inutilmente preziose energie. A dispetto di risultati che oltretutto sono inferiori al previsto.

Poco male quando si tratta di errori commessi ai primi passi. A patto però che la riflessione dia i suoi frutti e induca a non insistere su quel modo di procedere. E, purtroppo, non è ciò che si prospetta. Ripartire mettendo sul terreno tre riforme gigantesche — quella dell’autonomia differenziata, quella della giustizia e quella costituzionale — non sembra un’idea saggia. Soprattutto in riferimento alla terza riforma, quella che si propone di irrobustire il corpo istituzionale del nostro Paese con una potente iniezione di presidenzialismo. Proposito in sé non disdicevole. Purché si sia in possesso di idee chiare, si possa contare su una maggioranza sufficientemente compatta e si disponga di una strategia per coinvolgere una parte consistente dell’opposizione.

Sulla solidità della maggioranza non ci può essere miglior giudice della stessa Meloni: se avverte di avere alle proprie spalle una falange oplitica, vuol dire che le cose, al di là delle apparenze, stanno così. Ma per quel che riguarda l’opposizione ci sentiamo di escludere che nella fase attuale — fase destinata a durare a lungo — i suoi avversari possano rendersi disponibili ad un accordo. Se non su punti marginali. Forse neanche su quelli.

Il Pd, l’unico partito strutturato e con una storia alle spalle che risale a settantacinque anni fa, ai tempi in cui fu varata l’attuale Costituzione, non può concedersi un allontanamento da quell’ancoraggio. Neanche in merito a temi su cui venti o trent’anni fa avrebbe potuto mostrarsi disponibile. Troppo grande è il rischio di subire contestazioni dai movimenti che gli fanno concorrenza da destra e da sinistra. A cui si aggiungono settori non marginali dell’intellettualità che ha ancora una qualche influenza su quel che resta del suo elettorato.

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Iran, impiccati altri due giovani manifestanti

sabato, Gennaio 7th, 2023

di Greta Privitera

Iran, impiccati altri due giovani manifestanti

Molti dei tweet che lo annunciano, cominciano così: Buongiorno mondo, il regime iraniano ha impiccato altri due ragazzi: Mohammad Mehdi Karami, 22 anni, e Mohammad Hosseini, 26.

A dare la conferma è la Nuova agenzia giudiziaria dei pasdaran. I due sarebbero stati impiccati all’alba, prima della preghiera.

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CORRIERE.IT

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Anne Applebaum: «Dobbiamo immaginarci una vittoria ucraina, sarà la fine di Putin»

sabato, Gennaio 7th, 2023

di Viviana Mazza

Anne Applebaum: «L’Occidente si deve preparare a questo scenario». Per la scrittrice e giornalista «l’unico modo in cui la guerra può finire è se i russi capiscono di aver perso»

Anne Applebaum: «Dobbiamo immaginarci una vittoria ucraina, sarà la fine di Putin»

DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE
NEW YORK – Il cessate il fuoco unilaterale (che sia reale si o no) annunciato da Putin per il Natale ortodosso cambia qualcosa nella guerra?

«Non cambia nulla. Ed è piuttosto cinico. Perché non dichiararlo il 24 dicembre, quando i cattolici ucraini e anche alcuni ortodossi celebrano il Natale? Oppure perché non farlo durante il Capodanno, che per molti nel mondo di lingua russa è più importante del Natale?».

A settembre, dopo la controffensiva ucraina nella regione di Kharkiv, Anne Applebaum — scrittrice e giornalista, coinvolta in passato anche in importanti colloqui voluti dal presidente Joe Biden con storici e intellettuali — scrisse sull’Atlantic: «Gli ucraini potrebbero vincere questa guerra. Noi nell’Occidente siamo davvero preparati a una vittoria ucraina? Sappiamo quali altri cambiamenti potrebbe portare?». Già a marzo Applebaum diceva che bisognava «immaginare la possibilità di una vittoria», definita in termini più limitati («l’Ucraina resta una democrazia sovrana con il diritto di scegliere i propri leader e trattati»). Come ha chiarito Zelensky a Washington, la «vittoria» per Kiev non significa ormai solo recuperare territori, ma anche ottenere risarcimenti economici e giustizia per i crimini di guerra. Una definizione che per Applebaum è giustificata, anche se «straordinariamente ambiziosa». Difficile immaginare come la Russia possa accettarlo, se Putin resta al potere. «Dobbiamo aspettarci che una vittoria ucraina, e certamente una vittoria per come l’Ucraina la concepisce, porterà anche la fine del regime di Putin», secondo Applebaum, il che è anche monito, poiché in assenza di meccanismi di successione, ciò comporta opportunità ma anche rischi.

Che cosa significa oggi dire che la vittoria è l’unica via per la pace in Ucraina?
«Io credo che l’unico modo in cui la guerra possa finire — e intendo finire davvero e non riprendere dopo sei mesi o un anno — è se i russi perdono e capiscono di aver perso. Devono realizzare che la guerra è stata un errore e che non può essere ripetuta. La mia opinione è che come minimo debbano essere respinti dai territori che hanno conquistato dal 24 febbraio, meglio anche dalla Crimea. Devono vederlo come un disastro per il loro Paese. Penso che ciò non possa accadere se non c’è una chiara sconfitta russa».

Qualche giorno fa Macron ha detto che Parigi appoggerà l’Ucraina fino alla «vittoria». Washington dice che resterà al fianco dell’Ucraina per tutto il tempo necessario, ma sembra evitare la parola «vittoria». Alla domanda ripetuta di un giornalista se gli Usa resteranno al fianco dell’Ucraina fino alla vittoria, il portavoce del dipartimento di Stato Ned Price ha risposto: «Vogliamo vedere una Ucraina indipendente, sovrana, prosperosa e capace di difendersi».
«Per dar loro il beneficio del dubbio, la mia supposizione è che l’Amministrazione non voglia chiudersi in linee rosse che richiedano di ottenere “x” o “y” perché la guerra abbia fine, poiché le circostanze sul campo possono cambiare. La ragione per cui sono così vaghi — e a volte vaghi in maniera esasperante — è che non vogliono che tra sei mesi si dica “avete detto che avreste accettato solo questo particolare esito”. Questo per dare loro la migliore interpretazione. L’Amministrazione è stata piuttosto costante, quasi tutti — dai vertici ai funzionari — hanno ripetuto che non diranno agli ucraini cosa fare. Penso che probabilmente ci siano anche delle paure tra alcuni all’interno dell’Amministrazione: se o meno gli ucraini possano riconquistare il proprio territorio o il timore che il conflitto continui per lungo tempo. Ma quando ripeto che la guerra non finirà finché gli ucraini vincono e i russi perdono, non è per bellicismo: è l’unica via realistica».

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Padre Georg, nuove rivelazioni: «Francesco non ascoltò Ratzinger sulla propaganda gender». Bergoglio: «Silenzio e umiltà, non credete a false notizie»

sabato, Gennaio 7th, 2023

di Virginia Piccolillo

Gänswein: «Benedetto scrisse a Francesco che occorreva una “resistenza forte e pubblica”. Non arrivarono più altre richieste specifiche di osservazioni»

Padre Georg, nuove rivelazioni: «Francesco non ascoltò Ratzinger sulla propaganda gender». Bergoglio: «Silenzio e umiltà, non credete a false notizie»

«Dio si incontra nell’umiltà e nel silenzio». Risuona come un gong di fine round il richiamo di Papa Francesco, nei giorni del clamore provocato dalle rivelazioni dell’assistente di Papa Benedetto XVI Georg Gänswein, su frizioni e incomprensioni tra i due pontefici. E, all’indomani del funerale di papa Ratzinger, punto di riferimento per l’ala più tradizionalista dei cattolici che è entrata in fibrillazione, lancia alto un monito a non «dare scandalo» .

Parlando ai fedeli dell’Epifania, Bergoglio scandisce: «Adoriamo Dio e non il nostro io; adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col fascino del prestigio e del potere, con il fascino delle false notizie; adoriamo Dio per non inchinarci davanti alle cose che passano e alle logiche seducenti ma vuote del male».

Impossibile non pensare alle parole di Gänswein che nel libro in uscita Nient’altro che la Verità lamenta di essere rimasto «scioccato» alla decisione di Papa Francesco di renderlo un «prefetto dimezzato» .

La fede, ricorda il papa argentino, è anche «sofferenze che scavano nella carne». E aggiunge: «In questi momenti si levano dal nostro cuore quelle domande insopprimibili, che ci aprono alla ricerca di Dio». E tra queste: «Dov’è quell’amore che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti?».

Cita papa Benedetto XVI papa Francesco, spiegando che la fede è un «pellegrinaggio», un «mettersi in cammino». E sottolinea che «la fede non cresce se rimane statica; non possiamo rinchiuderla in qualche devozione personale o confinarla nelle mura delle chiese, ma occorre portarla fuori, viverla in costante cammino verso Dio e verso i fratelli». Facendo pensare quasi a una risposta a padre Georg che in un’intervista lo ha accusato di aver «spezzato il cuore» di Ratzinger con il suo stop alle messe in latino .

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