Archive for Gennaio, 2023

L’infamia di Khamenei, in Europa siamo libere

martedì, Gennaio 10th, 2023

Pegah Moshir Pour*

Le donne schiave sono quelle occidentali, sostiene la Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei dal vertice di quella teocrazia che sta massacrando le sue figlie più coraggiose. Secondo Khamenei, sarebbe la libertà la causa del potere economico e sociale che l’uomo esercita sull’altro sesso. Leggo e provo profonda vergogna. Per il linguaggio in primo luogo, perché è ancora e sempre un uomo a parlare del corpo, della mente, del futuro, della vita di una donna. Ma soprattutto per la fonte da cui proviene questa frase: «Donne occidentali sfruttate e mal pagate» pontifica quel regime che da tre mesi reprime nel sangue la rivoluzione scoppiata nel nome di Mahsa Amini, ammazzata per una ciocca di capelli ribelle all’hijab.

È vero, nel mondo non c’è ancora piena parità di genere né sul piano dei salari né su quello culturale. Non c’è quasi da nessuna parte. Ma è forse da Teheran che in queste ore possiamo prendere una lezione del genere?Ma davvero? Dobbiamo ascoltare la reprimenda di un governo che insegue le attiviste e gli attivisti fin dentro casa, che arresta, che impicca, che copre lo stupro utilizzato dalle forze dell’ordine per piegare la resistenza delle ragazze e delle loro famiglie? Leggo e prova profonda vergogna ma sono contenta che quantomeno il mondo legga oggi con me e veda con i propri quello che è nella realtà dei fatti il dispotismo della teocrazia iraniana. Le parole della Guida Suprema non sono casuali e non sono nuove per noi iraniani che, in patria come nella diaspora, le sentiamo ripetere ogni giorno da quasi mezzo secolo: sulla tv di Stato, sui giornali, nei discorsi dei politici di ogni rango. La misoginia è la cifra del potere degli ayatollah e della intera galassasia più o meno religiosa di cui si circondano.

Sin dall’inizio, nel 1979, la Repubblica islamica dell’Iran ha negato, tra le altre cose, la possibilità di utilizzare metodi anticoncezionali privando le donne di un controllo diretto sul proprio corpo: l’intenzione era quella di ritagliare un ruolo totalmente domestico e prono alle iraniane fino a quel momento colte ed emancipate. Da quando in Iran non si trovano più preservativi la popolazione è triplicata: ma questo, che per il clero sciita voleva essere uno strumento di sottomissione si sta ritorcendo contro il regime come un boomerang. Quella iraniana è infatti ormai una società molto giovane e sono proprio i giovani ad essere usciti di casa tre mesi fa sotto la spinta delle loro compagne – sorelle, figlie, mogli, madri – e a non voler più tornare indietro.

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Migranti e valori, la premier scelga

martedì, Gennaio 10th, 2023

Annalisa Cuzzocrea

Non è forse un bivio immediato, ma è un bivio. Che a Giorgia Meloni è stato posto davanti prima dal leader del Ppe Manfred Weber e poi, ieri, dalla presidente della commissione europea Ursula von der Leyen. Con chi vuole stare davvero in Europa la presidente del Consiglio di uno dei Paesi fondatori dell’Ue? Da chi pensa di poter ricevere più aiuto? Dal blocco di Visegrad che ha perso – si stanno autoincenerendo – i suoi punti di riferimento mondiali: Putin, Trump, Bolsonaro, o dal blocco dei popolari il cui aiuto, dal gas ai migranti, è sicuramente più spendibile ora che è al governo?

Finora Meloni non ha voluto in alcun modo rinnegare la sua vicinanza ai polacchi di Mateusz Morawiecki o agli ungheresi di Viktor Orban, tanto da far votare il suo gruppo – al Parlamento europeo – contro le sanzioni al governo di Budapest per le sue riforme illiberali e antidemocratiche. Ma è un fatto che gli amici della premier italiana siano, in questo momento, inservibili per il nostro Paese. Sulla questione del price cap al prezzo del gas, l’unico strumento che – ammesso che funzioni – può salvare l’Italia dalla morsa dei prezzi energetici unita a quella dell’inflazione, certo non ha aiutato Orban che resta il leader europeo più vicino a Vladimir Putin.

E l’ungherese non aiuterà, così come non lo faranno Polonia, Repubblica Ceca o Slovacchia, neanche sulla questione migranti che il governo italiano sventola come fosse un’emergenza tutte le volte che ce ne sono da affrontare di reali. Tra i punti fondamentali dell’incontro con la presidente della Commissione europea ieri ci sono stati gli avanzamenti del Migration pact, il nuovo patto europeo per le migrazioni e l’asilo che promette di superare i meccanismi del regolamento di Dublino e di sancire una volta per tutte il principio della solidarietà con i Paesi di primo approdo.

Quel patto però è stato bloccato fin dalla sua nascita, nel 2020, proprio dagli Stati di Visegrad e da coloro che la leader di Fratelli d’Italia considera alleati. Un giorno dopo l’annuncio di von der Leyen, che aveva detto «abbiamo bisogno di procedure eque e rapide e di un meccanismo permanente e giuridicamente vincolante che garantisca la solidarietà», il premier ungherese Orbán, il ceco Andrej Babis e il polacco Mateusz Morawiecki (lo slovacco Igor Matovič si era fatto rappresentare dalla Repubblica Ceca) sono volati a Bruxelles per dire: non se ne parla nemmeno. Quel che serve è chiudere i confini dell’Europa. Chiudere il mare. Fermare le partenze. La stessa ricetta che la destra ha portato in campagna elettorale ben sapendo quanto fosse inattuabile.

L’ostruzionismo dei sovranisti è continuato in questi anni e c’è da scommettere che continuerà, anche se le istituzioni europee hanno sottoscritto una road map che dovrebbe portare a un accordo prima delle prossime elezioni europee, nella primavera del 2024. Ed anche se del patto sulle migrazioni è già previsto che si parli al Consiglio europeo straordinario del 9-10 febbraio. Del resto, che le altre soluzioni – il blocco navale e gli hotspot per dividere i migranti economici dai profughi nei paesi di partenza – siano inattuabili, lo dimostra quel che è riuscito a fare finora il governo italiano che, secondo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è «sulla strada giusta»: un decreto anti Ong il cui unico effetto reale è lasciare sguarnito per più tempo il tratto di mare che separa le coste africane dalle nostre, assegnando di volta in volta alle navi che salvano i naufraghi porti sempre più lontani in condizioni meteo sempre più difficili. «I nostri tecnici hanno valutato che si poteva fare», ha risposto ieri Piantedosi a chi gli ha sottoposto le difficoltà della Geo Barents – con a bordo 73 persone di cui 16 minori non accompagnati – a raggiungere il porto di Ancona. Quattro giorni di navigazione per persone ferite, torturate, alcune vive per miracolo.

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Meloni, la via della destra all’Europa

martedì, Gennaio 10th, 2023

di Stefano Folli

C’è chi pensa che i rincari della benzina abbiano posto termine alla luna di miele di Giorgia Meloni con l’opinione pubblica. Può darsi, ma non vi sono certezze. Vedremo se i prossimi sondaggi segneranno per la prima volta un’inversione della tendenza favorevole che data dalla fine di settembre. Di sicuro i prezzi dei carburanti alle stelle non aiutano la popolarità dell’esecutivo, ma per cambiare scenario ci vuole altro. E senza dubbio all’opposizione sono consapevoli di dover mettere in campo qualche idea meglio strutturata se vogliono conquistare credibilità. Presentare Meloni come una premier quasi allo sbando è irreale: è vero che le sue difficoltà sono notevoli, ma numerose sono anche le carte di cui dispone.

Ieri (lunedì 9 gennaio), ad esempio, l’incontro con Ursula von der Leyen si è svolto all’insegna della cordialità. Nessun risultato concreto, s’intende, e anzi le questioni più delicate, a cominciare dalla gestione dei migranti soccorsi nel Mediterraneo, rimangono sul tavolo come altrettante spine nel rapporto tra Roma e Bruxelles. Se ne parlerà nel prossimo vertice multilaterale in febbraio, ma c’è da credere che per il governo italiano non sarà semplice ottenere il consenso europeo, tanto meno ricevere concrete manifestazioni di solidarietà per quanto riguarda i profughi da ridistribuire nei vari Paesi.

Tuttavia questi colloqui periodici si valutano per l’atmosfera: i sorrisi amabili tra le due signore non sono tutto, è evidente, eppure servono a confermare che non c’è inimicizia tra la presidente della Commissione e l’Italia del destra-centro.

Contano i fatti, oggi e nel prossimo futuro, e la presidente del Consiglio è attenta a non commettere passi falsi. Per cui ha dimenticato le dichiarazioni di qualche anno fa, plaudenti a Bolsonaro fresco vincitore del voto in Brasile, e invece oggi condanna insieme a Von der Leyen il tentato “golpe” dell’estrema destra. Un’agilità che è mancata a Salvini, sul Brasile come sulla Russia di Putin.

Non c’è dubbio peraltro che il passato pesa e le parole restano a lungo nell’aria. Ma l’idea della destra che Giorgia Meloni persegue in Europa è diversa da quella che il suo partito accarezzava fino a qualche tempo fa. L’obiettivo, come è noto, è sostituire i Conservatori ai Socialisti, dopo le elezioni continentali del ’24, nell’alleanza con i Popolari.

Sarebbe un risultato politico abbastanza clamoroso, tanto più se Fratelli d’Italia, magari trascinandosi dietro quel che resta del partito berlusconiano, migliorasse nelle urne, tra un anno e mezzo, il risultato del voto di settembre.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Fazzolari, che è in un certo senso l’ideologo della premier, ha già detto che il traguardo finale è spezzare il condominio franco-tedesco alla testa dell’Unione per inserire l’Italia nel nuovo triangolo del potere.

L’obiettivo è ambizioso, ma diciotto mesi sono lunghi da passare senza perdere slancio. Soprattutto quando l’inflazione supera il 10 per cento, secondo le cifre ufficiali, e i rischi di recessione si aggiungono al caro-vita.

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Maurizio Molinari: “Resta il dubbio se Bolsonaro e Trump hanno discusso in anticipo dell’assalto avvenuto a Brasilia”

martedì, Gennaio 10th, 2023

Il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, intervenuto a SkyTg24 analizza quanto sta avvenendo in questo momento in Brasile. “I 1500 arresti lasciano intendere il timore con cui il governo Lula guarda a quanto avvenuto, ovvero il rischio di una ripetizione di quanto avvenne il 6 gennaio 2021 negli Stati Uniti, con la scelta dei gruppi del passato presidente, negli Stati Uniti era Trump e in Brasile Bolsonaro, che non riconoscono la legittimità del vincitore delle nuove elezioni e si spingono fino a contestare e a offendere le istituzioni del Parlamento che rappresenta la democrazia negli Stati Uniti prima e in Brasile adesso. Dov’è il pericolo? E qual è l’elemento che accomuna questi due eventi?

L’uso della violenza, questo è il dato di dato di fondo. Negli Stati Uniti si arriva all’uso delle armi. In questo caso l’uso delle armi da fuoco non c’è stato, ma ci sono state aggressioni, vandalismo, offese chiaramente alle istituzioni del Parlamento brasiliano. La sovrapposizione fra populismo, offesa alle istituzioni democratiche e uso della violenza, naturalmente, è un pericolosissimo campanello d’allarme. Tutto questo è la scena alla quale stiamo assistendo a Brasilia” spiega Molinari

REPTV

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Taglio alle accise, tentazione retromarcia: il governo nell’angolo teme la crisi di consensi

martedì, Gennaio 10th, 2023

di Serenella Mattera

ROMA – Giorgia Meloni era determinata a tenere il punto, confermare la scelta fatta in manovra di non rinnovare lo sconto sulle accise della benzina, perché costoso e iniquo. Ma ora l’allarme per l’aumento dei prezzi al distributore, il rischio di consumare la fine della luna di miele con il Paese su un tema su cui in passato aveva battagliato tanto, la pongono davanti a un bivio. Di fronte a una decisione che nel governo ha già aperto una faglia.

Non è solo Matteo Salvini a pensare che si debbano trovare i soldi – oltre 1 miliardo al mese – per intervenire, tagliare quelle accise. In Consiglio dei ministri stasera se ne discuterà: Giancarlo Giorgetti riferirà dei controlli anti-speculazione della Guardia di Finanza, Adolfo Urso ipotizzerà di dare più potere al garante dei Prezzi per intervenire. Rischia di non bastare. Sulla necessità di fare qualcosa di più si rischia lo scontro tra i ministri. E c’è già chi ipotizza un altro Cdm in settimana, giovedì, per varare un decreto.

«È una fake news che ci sia la benzina a 2,5 euro. Io faccio ogni giorno l’autostrada perché sono un pendolare e la benzina è 1,8 euro», s’indigna Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario a Palazzo Chigi e consigliere ascoltato da Meloni. «Non è in discussione la reintroduzione di uno sconto sul carburante», aggiunge lapidario. I soldi che Draghi aveva usato per tagliare le accise, spiegano al ministero dell’Economia, sono stati destinati in manovra a «misure più mirate ad aiutare i più deboli».
Un effetto era atteso, un rimbalzo al distributore inevitabile, svanita la sforbiciata da 25 centesimi al litro. La convinzione è che la situazione si vada normalizzando. E che gli aumenti della benzina «a livelli sconsiderati» riguardino casi specifici, non generalizzati, in autostrada e non nelle città, e siano frutto di speculazione. Ecco perché i controlli, la Guardia di finanza. Prima di marzo, prima di avere un quadro completo nel Def, non si vorrebbe di nuovo intervenire sul caro energia, non si vuol rischiare di scassare i conti pubblici per un taglio non necessario sulla benzina.

Ma, c’è un ma. È un dato di realtà che sembra imporsi in queste ore. Riguarda la percezione dell’opinione pubblica. Di che si tratta? Lo ha spiegato ieri a Metropolis la sondaggista Alessandra Ghisleri, di Euromedia Research: «Le persone soprattutto a quello che accade con la benzina sono molto attente e fanno i conti con quello che si diceva in campagna elettorale e anche prima».

Meloni dall’opposizione diceva: abolire tutte le accise sui carburanti. Ecco perché, ora che da premier deve avere a che fare con i «lacciuoli» dei conti pubblici, ha la difficoltà di spiegare perché non fa quel che chiedeva agli altri governi di fare. Dalle rilevazioni emerge che «la gente se ne sta rendendo conto: sulle accise si chiedono ‘ci hanno sempre detto che andavano tolte, perché le hanno aggiunte?’». Ecco il punto, tutto politico. In gioco la popolarità dei partiti di governo, a un mese dal voto in Regioni cruciali come Lazio e Lombardia.

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Il Pd rinvia le primarie. E niente voto on line

martedì, Gennaio 10th, 2023

Domenico Di Sanzo

C’è l’accordo sul rinvio delle primarie del Pd dal 19 al 26 febbraio. Mentre l’ipotesi del voto online – lanciata da Elly Schlein – si è rivelata nulla più di un ballon d’essai. La direzione nazionale di domani approverà il percorso che porterà alla scelta del nuovo segretario del Pd. Ecco le tappe: il 30 gennaio si chiuderanno le iscrizioni, congressi di circolo in programma dal 3 al 19 febbraio e primarie tra i due candidati più votati dagli iscritti il 26 febbraio. Niente da fare per la consultazione via web. Con Schlein in rimonta nei sondaggi, sul no al voto online pesano le paure del fronte che appoggia il favorito Bonaccini. «Volevano portare a votare i grillini e la sinistra radicale e con i click sarebbe stato più facile», spiega al Giornale un dirigente dem in prima linea per il governatore dell’Emilia-Romagna.

Il timore, tra i riformisti, è che la neo-deputata punti al voto di movimenti esterni al Pd, cercando il sostegno tra gli elettori grillini e a sinistra del Pd. E infatti i pro-Schlein insistono. «Per noi la proposta non è affatto archiviata e continuiamo a tenerla sul tavolo, il no di Bonaccini è inspiegabile», dicono dall’area dell’ex vice presidente dell’Emilia Romagna. Dalla mozione Schlein non escludono la presentazione di un ordine del giorno in direzione. E sperano nell’appoggio di un altro candidato, Gianni Cuperlo, che però ha già parlato dei gazebo «in presenza» come di «un buon esercizio di democrazia».

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Boom di sbarchi ma la Svezia dice no ai ricollocamenti. Il piano Piantedosi

martedì, Gennaio 10th, 2023

L’ondata di sbarchi nei primi nove giorni di gennaio è senza precedenti: 3.673 arrivi, secondo i dati del Viminale, dieci volte tanto lo stesso periodo del 2022

Fausto Biloslavo

L’ondata di sbarchi nei primi nove giorni di gennaio è senza precedenti: 3.673 arrivi, secondo i dati del Viminale, dieci volte tanto lo stesso periodo del 2022. In un solo giorno, il 3 gennaio, sono sbarcati 1.194 migranti. Di fronte a questa nuova ondata la presidenza svedese dell’Unione europea fa spallucce ribadendo che «da parte nostra non prenderemo alcuna iniziativa sulla questione ricollocamenti». In pratica l’Italia rischia di rimanere da sola ad affrontare l’ondata, che arriva in tutte le maniere.

Nella notte fra domenica e lunedì è stato registrato il primo sbarco dell’anno a Crotone: 62 persone soccorse al largo di Isola Capo Rizzuto da una motovedetta della Guardia di Finanza. Tutti a bordo di un veliero partito dalle coste turche lungo la rotta del Mediterraneo orientale, la più costosa fra gli 8mila e 10mila euro.

I trafficanti con meno scrupoli sono quelli tunisini, che soprattutto da Sfax imbarcano gli africani su barchini di ferro saldati con delle lamiere, che navigano per miracolo. Dalle foto scattate dalla Guardia costiera si nota che hanno come salvagente le camere d’aria nere dei pneumatici. Costo minimo, sui 1500 euro, e rischio massimo. I tunisini, al contrario e anche altri arabi viaggiano su barchini in legno più sicuri e talvolta con veri salvagenti. Il costo per la breve traversata, ma Vip, può arrivare fino a 3mila euro.

Dalla Tripolitania partono i lunghi gommoni grigi, che vengono caricati anche con un centinaio di migranti. Il prezzo minimo e meno sicuro, senza salvagente, è di 1800 dollari. Nell’altra Libia, la Cirenaica, i trafficanti fanno salpare i grossi pescherecci in disuso, che imbarcano dalle 400 alle 500 persone alla volta. I siriani arrivano in aereo a Bengasi con una specie di visto delle autorità del generale Haftar. Gli egiziani passano il confine via terra. Entrambi pagano fino a 8mila o 10mila dollari per tutto il viaggio fino allo sbarco in Italia.

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Adesso al Paese è necessaria una classe dirigente neutrale

martedì, Gennaio 10th, 2023

di Sabino Cassese

Si dovrebbe superare il circolo vizioso per cui ogni parte politica, quando va al governo, porta i suoi uomini

Tremano gli alti burocrati. Il ministro della Difesa, il 28 dicembre scorso, ha dichiarato al Messaggero che occorre usare il «machete» «contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no e di perdere tempo». È poi ritornato, il 4 gennaio, sul tema, parlando a La Repubblica e affermando che «ognuno si sceglierà i propri collaboratori, come hanno fatto tutti». Due giorni dopo, sul Corriere della Sera, ha lamentato la «non funzionalità di un sistema i cui tempi, le cui procedure, i cui vincoli rendono infinitamente più difficile per tutti operare a ogni livello, rispetto a qualsiasi altro Paese moderno». Il presidente del Consiglio, nella conferenza stampa di fine anno, ha annunciato «una forte riforma della legge Bassanini».

Con gli alti burocrati, tremano anche i livelli inferiori, perché la precarietà scende per i rami e i cattivi esempi vengono imitati. Molti hanno vissuto il passaggio dell’ultimo decennio del secolo scorso, quando le privatizzazioni hanno fatto cessare la lottizzazione nelle banche pubbliche e nel sistema delle partecipazioni statali, e la fame di posti della politica si è rivolta alla pubblica amministrazione.

Di qui una moltiplicazione del «sistema delle spoglie», che — come un virus — si è diffuso e differenziato in tante altre parti del corpo amministrativo.

Le norme che hanno introdotto il sistema definito delle spoglie risalgono all’ultimo decennio del secolo scorso, ma sono ora contenute in una legge di vent’anni fa, secondo la quale gli incarichi più alti dell’amministrazione, quelli di segretario generale e di capo dipartimento dei ministeri e quelli di direttore delle agenzie, incluse quelle fiscali, cessano decorsi 90 giorni dal voto sulla fiducia del governo. È stato così creato un automatismo. La durata dell’incarico corrisponde a quella del mandato di chi ha nominato: simul stabunt, simul cadent . Si tratta di una normativa utilizzata da tutti i governi degli ultimi trent’anni, ispirata dalla prima ondata di populismo in Italia e dall’idea che la burocrazia remasse contro la politica. È evidente che, unita a governi con diciotto mesi di vita media, ha prodotto una forte instabilità amministrativa: basta sommare ai tre mesi di attesa quelli necessari per familiarizzarsi con i vecchi dossier, per capire quanto poco tempo resta per la gestione.

I governi avevano già in precedenza — e continuano ad avere — estesi poteri di nomina, ma solo alla scadenza dei titolari, quando un alto amministratore lasciava il servizio, per andare in pensione o per termine della durata del mandato. Così si rinnovano i vertici degli enti pubblici, di alcune autorità amministrative indipendenti, delle società partecipate, i cui titolari normalmente hanno un mandato di durata triennale. Si è poi aggiunto un istituto prima sconosciuto, definito, secondo l’uso americano (dove l’istituto è esistito fino al 1883) «sistema delle spoglie».

Di questo sistema, che impone una conferma o la nomina di altra persona alla caduta di ogni governo, non c’era bisogno perché ogni ministro ha suoi collaboratori, che sceglie discrezionalmente e fanno parte di quello che si chiamava una volta gabinetto (ora ufficio di diretta collaborazione). I gabinetti, una volta di piccole dimensioni e con pochi poteri, sono ora aumentati di dimensione (ognuno oscilla tra 150 e 300 addetti, spesso dando posti a politici non più candidati o non eletti) ed hanno acquisito poteri di fatto prima inesistenti.

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Padre Georg da Papa Francesco: «Ora devo stare zitto». La decisione sul suo futuro

martedì, Gennaio 10th, 2023

di Gian Guido Vecchi

L’amarezza di papa Francesco e l’invito alla discrezione fatto a padre Georg Gänswein: per lui l’ipotesi di un incarico diplomatico in una nunziatura all’estero o una sistemazione romana, possibilmente discreta

Padre Georg da Papa Francesco: «Ora devo stare zitto». La decisione sul suo futuro
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CITTÀ DEL VATICANO — Gli amici che lo hanno sentito in queste ore raccontano di un uomo che si mostra amareggiato per le interpretazioni «malevole» degli stralci «fuori contesto» del suo libro, fatti uscire mentre si celebravano i funerali di Benedetto XVI, «ma adesso devo stare zitto». Di certo, lunedì mattina, monsignor Georg Gänswein ha dovuto parlare della faccenda a papa Francesco, che lo ha ricevuto in udienza.

Dal Vaticano non si dice ufficialmente nulla. Ma è evidente, si fa notare, che il Papa abbia raccomandato discrezione, come ricordava all’ultimo Angelus: «Dio è nel silenzio».

E che ad avere motivo d’essere amareggiato, piuttosto, è il pontefice, il quale avrebbe cose più importanti di cui occuparsi dell’ex segretario del predecessore: proprio ieri, nel ricevere gli ambasciatori, Francesco è intervenuto per la prima volta dall’uccisione di Mahsa Amini sulla repressione feroce delle proteste popolari attuata dal regime iraniano («il diritto alla vita è minacciato anche laddove si continua a praticare la pena di morte, come sta accadendo in questi giorni in Iran, in seguito alle recenti manifestazioni, che chiedono maggiore rispetto per la dignità delle donne») e sulla guerra Ucraina, con le parole della Gaudium et Spes, ha sillabato che «ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità».

Ma tant’è, il «caso» è stato creato, il libro Nient’altro che la Verità è in uscita, e nel sottobosco dell’opposizione tradizionalista a Francesco monta il tentativo post mortem di usare Benedetto XVI come un vessillo e creare un conflitto tra «i due papi» che nella realtà non c’è stato.

Per quasi dieci anni, nel Monastero, l’emerito è stato attento a evitare ogni sospetto di interferenza nei confronti del successore cui aveva assicurato «incondizionata reverenza e obbedienza»
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Gänswein, del resto, racconta di come Ratzinger rimase «stupefatto» quando, all’inizio del 2020, si tentò di pubblicare col suo nome un libro a doppia firma con il cardinale Sarah nel quale si contestava la proposta del Sinodo amazzonico di ordinare preti sposati prima che Francesco dicesse la sua (senza poi fare nessuna apertura, peraltro), e come Benedetto avesse poi scritto al Papa tutta la sua «tristezza per l’abuso» del suo articolo e si fosse proposto di non far pubblicare più nulla.

Di qui l’amarezza di Francesco. E l’udienza di ieri. Resta il discorso sull’opportunità di pubblicare un libro simile subito dopo la morte di Ratzinger e citare brani della corrispondenza privata tra l’emerito e il Papa. Rispettosissima, del resto.

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Emanuela Orlandi: tombe vuote e depistaggi, i misteri del caso riaperto dal Vaticano

martedì, Gennaio 10th, 2023

di  Fabrizio Peronaci

La sparizione di Emanuela Orlandi e gli altri episodi irrisolti. Il coinvolgimento della banda della Magliana 

Emanuela Orlandi, i messaggi in codice spiegano il giallo: il "158" per telefonare in Vaticano, la Avon, l'ultimatum del 20 luglio

L’ultimo colpo di scena, con milioni di italiani in attesa di notizie, anche terribili — la possibile conferma della morte della ragazzina, dopo il recupero dei suoi resti — risale a tre anni e mezzo fa. 

Luglio 2019. Quella volta le ossa di Emanuela Orlandi, in seguito alla lettera di un anonimo che aveva invitato a scavare «lì dove guarda la statua dell’angelo», erano state cercate in due sepolcri del Cimitero teutonico, in Vaticano, dove dovevano esserci le spoglie delle principesse Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklemburgo, morte da un paio di secoli. 

Non c’erano né loro, le nobildonne, né la minima traccia della «ragazza con la fascetta». 

Emanuela Orlandi: tombe vuote e depistaggi, i misteri del caso riaperto dal Vaticano

Emanuela Orlandi, dopo la notizia della riapertura delle indagini, parla il fratello: credo nella volontà del Papa

E quello fu solo l’ultimo passaggio a vuoto: l’anno precedente, nel 2018, la ricerca dei resti era stata fatta in via Po, nel cortile della Nunziatura, dove erano affiorati un paio di scheletri, mentre nel 2017 si era rincorsa l’illusione di averla localizzata in Inghilterra, dopo il ritrovamento di una nota-spese (fasulla) che attestava lo stanziamento di 483 milioni di lire per tenere Emanuela in vita almeno fino al 1997… 

Misteri, depistaggi, reticenze

Sono passati ormai 40 anni dal 22 giugno 1983, ma la fine di un’innocente quindicenne (e della coetanea Mirella Gregori, sparita 46 giorni prima) è più che mai d’attualità, come dimostra sia l’inchiesta annunciata dal Vaticano sia la recente richiesta dei partiti d’opposizione (Pd, M5S e Azione) di istituire una commissione parlamentare ad hoc. 

Come per il caso Moro. Come per le stragi di Stato. 

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