Non credo che i primi passi falsi del governo Meloni, dalla marcia indietro sul Pos alla riscrittura delle norme sui rave party, abbiano turbato troppo l’elettorato: sono cose abbastanza marginali, che toccano in modo diretto poche persone.
Alquanto diverso è invece il caso delle accise sui carburanti, ridotte con vari decreti da Draghi (e in parte da Meloni stessa), ma sostanzialmente ripristinate con la Legge di bilancio.
Discutere se si tratti oppure no di una promessa mancata è meno rilevante rispetto ad un altro dato: l’aumento del prezzo dei carburanti è tangibile, riguarda quasi tutti, ed è di entità non trascurabile (in media 35-40 euro al mese per famiglia, secondo una mia stima). Insomma, è una di quelle mosse cui non si può non reagire.
Non sappiamo che cosa succederà nei prossimi giorni, e se ci sarà da
parte del governo un tentativo di correre ai ripari, ad esempio mediante
un nuovo (inevitabilmente modesto) taglio delle accise, o mediante
buoni-carburante per certe categorie, o mediante un allineamento al
ribasso delle accise del gasolio e della benzina,
come suggerito dall’Istituto Bruno Leoni. O se, invece, il governo
terrà duro, lasciando le cose come stanno e spiegando perché non ha
rinnovato il taglio delle accise.
Quel che mi sembra certo è che, coerenza con le promesse elettorali a parte, dare una spiegazione non è difficile. La ratio
della misura è infatti molto semplice e chiara: mantenere la riduzione
delle accise si poteva fare solo in due modi, ovvero con 10-12 miliardi
in più di debito pubblico, o con 10-12 miliardi in meno di sostegni alle
famiglie e alle imprese. Nessuna delle due opzioni sarebbe stata
indolore, ed è tutto da dimostrare che sarebbero state opzioni più
favorevoli ai ceti popolari e/o meno rischiose per l’economia.
L’Rt sale leggermente ma resta comunque
sotto la soglia di 1, quindi l’epidemia continua a rallentare. Il dato è
di 0,91 (un po’ insalita rispetto allo 0,83 della scorsa settimana). Il
valore rende conto della situazione dei 15 giorni precedenti, quando
viene calcolato dalla Cabina di regia di Istituto superiore di sanità e
ministero alla Salute.
Più aggiornato è il dato dell’incidenza, cioè del numero di casi settimanali. Anche quello è in miglioramento, visto che è sceso a 143 contro il 231 di
venerdì scorso. La riduzione è importante, del 38,09%. I casi
settimanali sono quindi stati circa 84.300 contro i 135.990 della
settimana precedente. Il dato è il più basso da novembre del 2021. La
situazione quindi è molto positiva e per ora non si vedono effetti delle
varianti che circolano in altri Paesi. La causa potrebbe essere anche una importante riduzione dei tamponi.
Il tasso di occupazione in terapia intensiva, dicono dall’Istituto
superiore di sanità, è in lieve calo, cioè al 3,1% rispetto al 3,2%
della settimana scorsa. quello delle aree mediche scende al 10,1% dal
12,1%.
“Nessuna Regione/PA è classificata a rischio alto. Sette sono a rischio moderato e quattordici classificate a rischio basso”, spiega la Cabina di regia.
Non sarò una mamma finlandese, però nutro anch’io qualche lievissima perplessità sullo stato di salute della scuola italiana. E forse non solo della scuola. A Rovigo, per dire, c’è una professoressa di scienze, Maria Luisa Finatti, che ha appena denunciato alla magistratura una classe intera, ventiquattro ragazzi: alcuni di loro per averle sparato addosso dei pallini con un fucile ad aria compressa, e gli altri per avere ripreso e diffuso la scena sui social con commenti tra il gongolante e l’irridente. L’episodio risale all’ottobre scorso. Ebbene, a dar credito alla prof, ciò che l’ha spinta a compiere un gesto così irrituale è stato il silenzio di tutti.
Il silenzio degli studenti, tranne l’unico che si è scusato, ma di nascosto, per non fare brutta figura con i compagni. Il silenzio della scuola, che non ha ancora preso provvedimenti nei confronti dei pistoleri. Ma soprattutto il silenzio delle famiglie: in tre mesi neanche un genitore di quella scoppiettante combriccola si è sentito in dovere, non dico di strigliare il proprio figliolo (e quando mai?), ma almeno di chiamare la prof per chiederle come stava, esprimerle solidarietà e tentare di ricostruire un canale di comunicazione tra la famiglia e la scuola, le due istituzioni in disarmo che si occupavano dell’educazione dei giovani prima di essere rimpiazzate dai più agili smartphone. Un’istituzione non dovrebbe mai fare pena, ma non saprei descrivere diversamente ciò che provo per quella professoressa, e un po’ per tutti noi.
Il Servizio sanitario nazionale, un presidio fondamentale per
la salute delle persone e per la solidarietà nazionale, è oggi malato.
Unanimemente riconosciuto punta avanzata della pubblica amministrazione e
all’avanguardia nel panorama internazionale, il Ssn appare sempre più
«non autosufficiente», ovvero incapace di svolgere autonomamente le
funzioni che gli sono proprie. Conosciamo le cause della malattia; per
troppi anni è stato sottoposto a interventi contrari al rispetto dei
principi costituzionali e dei diritti umani fondamentali, assecondando
l’idea che il mercato avrebbe comunque potuto sostituire buona parte
della sanità pubblica, quella più in grado di generare profitti.
Condividiamo le tante grida di allarme che (solo) ora si levano forte,
ma non accettiamo la diagnosi di incurabilità espressa da molte voci,
spesso non disinteressate. Riteniamo al contrario che il Ssn possa
ancora essere salvato, e si debba combattere per ridargli ruolo e
dignità. Perché in assenza di sostanziali interventi straordinari e di
un grande lavoro trasformativo sul piano culturale e politico, la sua
«non autosufficienza» è destinata ad aggravarsi e gli italiani sono
destinati a vedere la propria salute sempre più condizionata dalla loro
situazione socio-economica.
Eppure, nonostante le sue tante pecche, il Ssn è un piccolo
capolavoro: è l’espressione della capacità del nostro Paese di
raggiungere grandi risultati con poche risorse. A dispetto della storica
penuria di risorse, il Ssn ha infatti sempre saputo produrre buoni
risultati in termini di salute. Valga per tutti un dato poco noto: il
numero di decessi (per 1000 abitanti) ritenuti potenzialmente evitabili
attraverso il ricorso a interventi sanitari tempestivi e appropriati è
in Italia del 30% inferiore alla media Ue (24% in meno della Germania).
Anche il tasso di sopravvivenza ai tumori è superiore alla media Ue. Un
capolavoro, se si pensa che l’Italia destina complessivamente alla
sanità un ammontare di risorse del 25% inferiore alla media Ue, mentre
Francia e Germania spendono rispettivamente il 45% e l’85% in più
(calcolate per abitante e a parità di potere d’acquisto – dati Oecd
riferiti al 2019).
Ma come si spiega l’apparente paradosso della bassa spesa e dei buoni
risultati? Innanzitutto, un sistema universale come il nostro evita la
spirale dei costi propria dei modelli basati sulle assicurazioni sociali
o sulle polizze malattia (come dimostra la letteratura specialistica
sui sistemi sanitari comparati). Conta la competenza acquisita nel tempo
dai professionisti della sanità pubblica: il Ssn è l’unico settore
della pubblica amministrazione che negli ultimi decenni si è dotato di
un apparato tecnico e di un sistema di governance che – per quanto
imperfetti – non hanno eguali negli altri comparti pubblici. C’è poi la
preparazione dei professionisti e la loro dedizione alla sanità
pubblica, magistralmente svelate in occasione della pandemia ma ancora
poco riconosciute – se non a parole – dai decisori e dalla politica.
Conta il ruolo svolto dalle famiglie (e dalle donne) nella cura di molte
persone fragili, senza gravare eccessivamente sulla spesa pubblica. E,
per ironia della sorte, contano le politiche di risanamento della
finanza pubblica che hanno costretto la sanità pubblica a puntare
sull’appropriatezza e sull’essenziale. E così il Ssn ha via via imparato
a operare sempre con meno risorse, mentre i governi hanno imparato a
imporre sempre maggiori sacrifici, confidando sul fatto che nessun
ospedaliero avrebbe abbandonato un paziente alla fine del proprio turno
di lavoro o si sarebbe sottratto ai doveri cui deve adempiere «quali che
siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera» (come
afferma il codice di deontologia medica). Un modo di procedere, quello
dei governi, poco responsabile e al contempo poco rispettoso della
dignità del lavoro di cura, che invece andrebbe protetto e valorizzato.
Ma ormai il vaso è colmo, gli operatori si sentono traditi e le persone
si stanno abituando a rivolgersi al privato.
Andare di corsa nei telegiornali delle 20, Tg1 e Tg5, per
riscrivere per la terza volta in tre giorni la versione sul mancato
taglio delle accise sulla benzina significa aver capito di aver
sbagliato molto, in questa storia. Forse tutto. Giorgia Meloni non ha
solo paura della rivolta dei benzinai, che pure può considerare parte
della sua base elettorale. Le preoccupazioni della presidente del
Consiglio riguardano tutto l’elettorato, perché non c’è tema più
trasversale del costo dei carburanti. Ne sa qualcosa Emmanuel Macron,
che ha visto le città francesi messe a ferro e fuoco dai gilet gialli.
Non è certo un grande amico della premier italiana, il presidente
francese, ma ha vissuto l’incubo che lei preferirebbe evitare.
Solo che, neanche fosse Fonzie in Happy Days, Meloni non
riesce a dire: avevamo fatto male i calcoli, ci siamo sbagliati. Prima
adotta la tecnica populista per antonomasia: è colpa della speculazione!
Qualcuno ci sta marciando, interessi oscuri rialzano il prezzo alla
pompa. Parte la caccia ai “furbetti”, con tanto di convocazione a
Palazzo Chigi del comandante della Guardia di Finanza e di strigliata –
con conseguenti maggiori poteri di monitoraggio e sanzionatori – a mr
Prezzi, nel nome della trasparenza.
Le dichiarazioni in questo senso si susseguono anche nelle ore in cui
è il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica a certificare
che no, non c’è nessuna speculazione, il prezzo medio dei carburanti
sale esattamente del costo dell’accisa reintrodotta. La versione cambia,
siamo al taccuino della premier e al “bagno di realismo”. Riassumiamo:
“Sapevamo che i prezzi sarebbero aumentati, ma il taglio delle accise è
ingiusto, aiuta anche i miliardari, noi abbiamo deciso di concentrarci
sui più bisognosi, e poi il video in cui parlavo della necessità del
taglio era del 2019, nell’ultimo anno non mi sarei mai sognata di dirlo.
Sono una persona seria, io”.
Ai quotidiani e alle residue forze di opposizione basta andare a
pagina 26 del programma di Fratelli d’Italia per leggere la promessa di
“sterilizzazione delle entrate dello stato da imposte su energia e
carburanti” e di “automatica riduzione di Iva e accise”. Ai tg, la
premier la spiega così: “Non si parla di taglio, ma di sterilizzazione.
Vuol dire che se il prezzo sale oltre una determinata soglia, quello che
lo Stato incassa in più di Iva verrà utilizzato per abbassare il
prezzo. Che è quello che si sta facendo anche con questo decreto”.
Peccato che per farlo, il decreto sia stato modificato dal Consiglio dei
ministri di ieri sera. È stata riesumata una vecchia norma del 2007 e
pare saltato pure il tetto ai prezzi del carburante in autostrada.
Guadagnerà anche 12 milioni di sterline al giorno, grazie al suo
memoir «Spare», «il figlio di scorta», ma sarà difficile che l’ex
principe Harry potrà goderseli in patria quei soldini. Al momento
infatti , secondo un autorevole sondaggio dio ,,, , è l’uomo più odiato
d’Inghilterra. E questo è soltanto l’ultimo degli effetti
negativi legati all’uscita della sua corposa autobiografia. Il primo è
che il figlio di Carlo III non è più gradito alla cerimonia di
incoronazione del sovrano prevista per il 6 maggio. Più il libro vende e
più – per assurdo – cresce la popolarità della famiglia reale che
anziché distrutta – a suon di «never complain and never explain» (mai
lamentarsi, ma spiegare) hanno ricevuto applausi e sorrisi a non finire.
Carlo d’Inghilterra in Scozia e Kate e William a Londra per
inaugurare ufficialmente il Royal Liverpool University Hospital.
La lite con Meghan (divorzio in vista?) Nemmeno
il tempo di festeggiare per le vendite record di Spare, quasi 2 milione
di copie solo nel Regno Unito, e già il principe Harry con un feroce
gossip riguardante una furiosa lite con la moglie Meghan Markle. A
sganciare è stato il magazine tedesco «Frau Aktuell», secondo cui i
Duchi del Sussex (ribattezzati malignamente i duchi di Montecito)
sarebbero stati protagonisti di una discussione così accesa da
richiedere l’intervento della polizia della contea californiana dove
vivono. Ovviamente, conferme dai diretti interessati non ce ne sono,
prove fotografiche dell’arrivo delle volanti nemmeno, eppure
l’indiscrezione ha fatto il giro del mondo. Quale sia stato il motivo
scatenante non è dato saperlo, ma che tra i due le acque siano piuttosto
agitate è una di quelle voci che circolano con insistenza da mesi,
tanto che diverse fonti vicine all’ex attrice raccontano di come Meghan
starebbe pianificando nei dettagli le tappe verso il divorzio.
ROMA. Nella sua giornata peggiore a Palazzo Chigi, Giorgia
Meloni si ritrova da sola. Ha un consenso forte, ma in tempi mutevoli e
nevrotici, basta un niente per far cambiare il vento. L’ondata di
malcontento scatenata dagli aumenti, veri, percepiti o gonfiati che
siano, rischia di interrompere, o per lo meno di macchiare, una luna di
miele finora tutto sommato serena.
Lo sconto alle accise per ora non torna, al di là di quello che
Giancarlo Giorgetti aveva ventilato, ma occorre spiegarlo anche ai
telespettatori dell’ora di punta. Poi ci sono gli alleati che attaccano.
Silvio Berlusconi non vuole guerre, ma fa una considerazione che ha un
suo peso: «Quello sulla benzina è il primo errore della signora Meloni».
Poi c’è Matteo Salvini che, occupato com’è dai cantieri del suo
ministero, non spende una parola per difendere la leader in difficoltà.
Il Carroccio poi aspetta al varco i Fratelli d’Italia, l’appuntamento è
per la ratifica del Mes, il fondo salva Stati che nessuno vuole
utilizzare, ma che andrà presto approvato dal Parlamento.
La premier sa riconoscere i segnali e sono negativi: «Sono peggio di
Fratoianni», dice privatamente degli alleati, con ironia amara. Le tv
del Cavaliere non fanno che mandare in onda servizi con automobilisti
inferociti. È il caso di intervenire subito, ammesso che non sia troppo
tardi, prima di essere travolta (in termini di consenso) da una misura
che la premier continua a ritenere giusta. Serve una controffensiva. Sin
dalle prime ore del mattino i fedelissimi mandano alle agenzie
dichiarazioni per giustificare le scelte dolorose del governo. Non
basta, però, come non è bastato il video postato sui social mercoledì, e
oggetto di critiche anche di molti fan, per le incoerenze rispetto alle
promesse elettorali. Così, nel pomeriggio Meloni decide di concedere
due interviste alle edizioni delle 20 dei tg di Rai e Mediaset.
L’esigenza di dover spiegare, ancora una volta, la ragione per cui lo
sconto deciso da Mario Draghi non sia stato rinnovato, è giustificata
dalle prime rilevazioni nell’opinione pubblica.
C’è un’altra insidia poi: lo sciopero minacciato dai benzinai. Oggi
le categorie saranno a Palazzo Chigi per scongiurare quello che un
dirigente di Forza Italia definisce «il primo sciopero della storia
indetto su una norma che nessuno ha capito», ovvero la cosiddetta
operazione trasparenza che obbligherebbe i gestori a esporre cartelli
con i prezzi medi del carburante. Una trovata che il responsabile
Energia di Forza Italia, Luca Squeri, in un’intervista a La Stampa,
ha definito «populista». Da Arcore si fanno diverse critiche alla
gestione di questa prima piccola crisi. L’aumento così repentino dei
prezzi poteva essere evitato, ragionano i berlusconiani, magari
rendendolo più graduale di quanto è stato fatto o con una misura
specifica nella manovra, quando era chiaro che il calo del prezzo del
petrolio, previsto da Giorgetti, non sarebbe stato così consistente. «Un
errore», ripetono gli azzurri, che si sono scagliati contro chi, anche
da Palazzo Chigi, aveva addossato la colpa degli aumenti a una
fantomatica speculazione.
La verità storica e giudiziaria
acquisita sul caso Orlandi, su cui il Vaticano ha riaperto le indagini: i
pedinamenti di altre ragazze, i riscontri sulle due piste principali,
il ruolo di Agca e De Pedis, il nesso con il caso Gregori
Dopo l’accelerazione dei giorni scorsi, che ha portato all’apertura di un fascicolo per omicidio e occultamento di cadavere da parte del Promotore di giustizia della Santa Sede, Alessandro Diddi, per la prima volta saranno dunque le autorità ecclesiastiche, con il supporto della Gendarmeria, a tentare di risolvere l’intrigo legato alla scomparsa della «ragazza con la fascetta». Quarant’anni dopo i fatti (la ragazza sparì il 22 giugno 1983) e in un clima di grandi aspettative.
Qualora la magistratura vaticana riuscisse ad arrivare dove non è giunta quella italiana, infatti, la luce della riconquistata verità e trasparenza su una pagina tanto buia e controversa si rifletterebbe anche sul pontificato di Francesco. Indizi, prove, riscontri: la possibile svolta passa da una rivisitazione delle piste percorse, che saranno scandagliate rivedendo vecchie carte e informative, nonché dall’audizione di nuovi testimoni. Un lavoro enorme, nel quale sarà centrale l’esame delle precedenti inchieste della Procura di Roma (1983-1997 e 2008-2015), da tempo archiviate. Con un obiettivo preliminare: individuare i fatti già emersi e indiscutibili, cristallizzati in verbali giudiziari sulla
base di elementi probatori solidi, che possano essere usati come «base
istruttoria» per successivi accertamenti. E allora eccoli, i 10 punti fermi da cui partire.
1 – Azione premeditata
Una prima certezza riguarda la natura del crimine
ai danni della sventurata Emanuela Orlandi: si trattò di un
allontanamento volontario da casa, in quanto la quindicenne figlia del messo pontificio Ercole, ingenuamente, cadde in un tranello, che però, nel giro di poche ore, diventò un sequestro di persona vero e proprio. Ma attenzione: Emanuela non fu la prima «scelta». Come evidenziato da due verbali d’interrogatorio dell’Arma dell’11 e del 24 luglio 1984, almeno due coetanee residenti in Vaticano, le figlie dell’aiutante da camera di Wojtyla, Angelo Gugel, e del capo della Gendarmeria, Camillo Cibin, furono «attenzionate», pedinate e poi scartate, in quanto i familiari ottennero una sorveglianza speciale (il primo verbale è di Ercole Orlandi, il secondo della diretta interessata, Raffaella Gugel, la quale riferì di essere stata seguita per settimane sul bus e per strada da un uomo «sui 28-30 anni, carnagione scura, tipo nazionalità turca»). Tale antefatto è rafforzato da un “alert” lanciato dal capo dello Sdece (servizi segreti francesi), il marchese Alexander De Marenches, su possibili rapimenti nelle Sacre mura e sembra accreditare la pista del terrorismo internazionale legata alle tensioni di quel periodo, in piena Guerra Fredda, e ai tentativi di Alì Agca di uscire dal carcere. Va infatti tenuto presente che – due anni prima – l’autore dell’attentato a Wojtyla (13 maggio 1981) era stato condannato all’ergastolo al termine di un processo-lampo (luglio 1981). E, molto stranamente, non aveva presentato appello.
Aveva forse ricevuto qualche rassicurazione? Negli stessi mesi, mentre
il Lupo grigio riceveva a Rebibbia la visita di due esponenti dei
servizi segreti (uno Sisde, Luigi Bonagura, e l’altro Sismi, Alessandro
Petruccelli), iniziarono a circolare voci sulla sua liberazione
tramite il “prelevamento” di cittadini vaticani. Un caso? Non basta. La
nuova inchiesta dovrà valutare anche un ulteriore elemento significativo
e mai approfondito: Emanuela assunse la cittadinanza vaticana solo tre mesi prima di sparire, come attesta un atto anagrafico
datato 23 marzo 1983 (protocollo n. 06773). Anche questa una
coincidenza? Oppure, al contrario, la famiglia fu indotta dai rapitori,
con un sotterfugio, a far «emigrare» la ragazza Oltretevere, per creare le condizioni del ricatto?
2 – Ricatto ai massimi livelli
Emanuela
sparì il 22 giugno di 40 anni fa e la vicenda assunse presto rilievo
planetario. A certificare la delicatezza del caso Orlandi e la
probabile natura spionistica dell’azione sono quattro circostanze. La prima è che Giovanni Paolo II decise di pronunciare pubblicamente nome e cognome
della quindicenne, con voce accorata, durante l’Angelus del 3 luglio
1983, solo 11 giorni dopo la scomparsa, condividendo «le ansie dei
familiari» e facendo appello «al senso di umanità di chi ha
responsabilità in questo caso». Impossibile che una scelta del genere non fosse stata vagliata in Segreteria di Stato: il Santo Padre non si occupa di «scappatelle». Emanuela doveva essere già diventata lo strumento di un’azione inconfessabile e di un ricatto ai massimi livelli, con il pontefice polacco nella parte della vittima, tanto da essere costretto a piegarsi. Altri elementi eloquenti: la concessione ai rapitori di un codice riservato
(il 158) per contattare il Segretario di Stato Agostino Casaroli
(procedura anomala, spiegabile solo con ragioni serie, il numero 2
vaticano non parla con chiunque gli telefoni); la presenza in casa Orlandi di due agenti del Sisde (Giulio Gangi, morto
di recente, e Gianfranco Gramendola) già 48 ore dopo la scomparsa; la
pressione fatta dagli stessi 007 perché il padre nominasse un avvocato vicino ai servizi segreti, Gennaro Egidio, la cui parcella (altro indizio sottovalutato) non fu mai presentata a Ercole Orlandi e saldata in altro modo, mai chiarito.
Tensioni
nella maggioranza sulla decisione sulle accise. Crepe anche sulle
nomine. E il decreto benzina è stato corretto fuori dal Consiglio dei
ministri
Il caro benzina e le nomine di primavera. E poi le armi all’Ucraina, il futuro dei balneari e l’elezione dei membri laici del Csm.
Ogni giorno (e su ogni tema) un esponente della maggioranza si alza e
rilascia dichiarazioni in controtendenza rispetto alla linea di Palazzo
Chigi. A volte sono sussurri, più raramente grida, ma è un continuo controcanto che fa fibrillare il governo. E se nelle stanze della presidenza del Consiglio la parola d’ordine è «niente retromarce», sull’emergenza carburanti il pressing di Forza Italia e Lega è riuscito ad aprire una breccia, che ha incrinato la tetragona resistenza di Giorgia Meloni.
Il decreto «trasparenza» sui prezzi di benzina e diesel, approvato il 10 gennaio, a due giorni appena dal via libera è stato ritoccato in corsa,
formalmente durante la riunione del Consiglio dei ministri di ieri e
praticamente nelle stanze della presidente del Consiglio. «Hanno fatto tutto Giorgia e Giorgetti», racconta sottovoce un esponente dell’esecutivo, uno di quelli che si sentono tagliati fuori dalle scelte importanti. Dalle nomine al vertice delle tre agenzie fiscali sino all’emergenza carburanti «decide tutto lei», è la cantilena ai vertici di Forza Italia e Lega, a volte intonata con la variazione «decidono tutto loro». La premier e il ministro dell’Economia.
Così è stato martedì sul provvedimento che ha imposto l’esposizione
alla pompa del prezzo medio giornaliero e così è stato ieri. Quando,
sull’onda delle proteste, il decreto è stato riveduto e corretto:
non tanto in Cdm, giacché tanti ministri non hanno ancora visto il
testo, ma prima e dopo. Un metodo inedito, che somiglia a una
approvazione «salvo intese».
A rivelare cosa bolliva nel pentolone di
Palazzo Chigi è stato lo stesso Giorgetti. Rispondendo al question time
del Senato, il ministro ha fatto riferimento alla norma che potrebbe consentire di ridurre le accise
«in relazione all’incremento verificato dei prezzi dei carburanti». A
stretto giro fonti di governo hanno chiarito che non si sta lavorando a
una sforbiciata immediata. «Non ci sono le condizioni — spiegano nello staff di Meloni — Giorgetti è stato interpretato male».
La direttiva sull’efficientamento energetico degli immobili che si
appresta ad approvare la commissione Energia del Parlamento europeo, sta
suscitando numerose critiche per una misura che rischia di rivelarsi
una stangata per i cittadini, in particolare italiani. Oltre ai rischi
già emersi di adeguare entro il 2030 tutti gli immobili residenziali a
una classe energetica E per poi raggiungere la D entro il 2033 e
arrivare a emissioni zero tra il 2040 e il 2050, ci sono nuovi elementi
che Il Giornale ha scoperto visionando la «Direttiva del Parlamento
europeo e del consiglio sulla prestazione energetica nell’edilizia».
L’attuale
versione del testo presenta numerose modifiche rispetto a quella
realizzata nel 2021 e nei prossimi giorni saranno discusse ulteriori
proposte di modifica, nonostante ciò permangono criticità e
contraddizioni lampanti.
La
prima è l’enfasi posta sul tema delle bollette. Per indorare la pillola
ai cittadini europei obbligati a ristrutturare le proprie abitazioni,
nella direttiva si legge: «La ristrutturazione è fondamentale per
ridurre il consumo di energia degli edifici, ridurre le emissioni e
abbassare le bollette energetiche». Ciò è senza dubbio vero, peccato che
il costo degli interventi pur con alcuni incentivi sia a carico dei
proprietari. Con un capovolgimento di quanto avvenuto negli ultimi mesi,
nel documento emergono «i vantaggi di una bolletta energetica più bassa
sono persino più rilevanti in un contesto di prezzi energetici
elevati». Un passaggio anche in questo caso corretto ma da Bruxelles si
sono dimenticati di dire che gli aumenti delle bollette sono stati
determinati proprio dalle politiche energetiche errate dell’Ue e, per
porvi rimedio, ora dovrebbero essere i cittadini a pagare (ancora una
volta) di tasca propria. Si obietterà che l’Ue prevede incentivi e
sgravi fiscali per le ristrutturazioni ma in prevalenza sotto forma di
prestiti o mutui: «Per sostenere la mobilitazione degli investimenti,
gli Stati membri promuovono l’introduzione di strumenti d’investimento e
di finanziamento abilitanti, quali prestiti per l’efficienza energetica
e mutui ipotecari per la ristrutturazione degli edifici…».
Lecito
chiedersi nel caso della richiesta di un prestito o mutuo ipotecario
per la ristrutturazione, cosa accadrebbe se per sopraggiunte difficoltà
economiche il proprietario non riuscisse a ripagarlo. Con tutta
probabilità la casa verrebbe espropriata ma un conto è chiedere un
prestito per propria volontà, un altro perché si è obbligati a
realizzare i lavori.