Archive for Gennaio, 2023

La guerra dei carri armati è alle porte. Così possono ribaltare le sorti del conflitto

sabato, Gennaio 21st, 2023

Fausto Biloslavo

Trecento carri armati occidentali moderni è la richiesta del capo delle forze armate ucraine, il generale Valery Zaluzhny. La guerra dei tank è alle porte nel cuore dell’Europa, dove si è svolta durante la seconda guerra mondiale la più grande battaglia di carri armati della storia. Nel 1943, all’apice del carnaio di Kursk, in territorio russo a nord di Kharkiv, erano impegnati tremila mezzi corazzati.

Anche se arrivassero un centinaio di carri occidentali riuscirebbero a sconfiggere l’armata di Putin? Forse no, ma potrebbero servire a smorzare la temuta offensiva di Mosca, dopo un anno di guerra, che punterà a conquistare tutto il Donbass o peggio. I tank occidentali rischiano di non arrivare in tempo e di svuotare gran parte delle riserve europee. Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa, evidenzia che le forniture «presentano molti aspetti critici tra i quali spicca innanzitutto il fatto che l’Europa dispone appena dei carri armati sufficienti ad equipaggiare pochi reparti dei propri eserciti».

Gli inglesi guidano il «partito dei tank». Polonia, Lettonia, Lituania, Danimarca, Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Slovacchia ed Estonia hanno siglato il patto di Tallinn per «la consegna di una serie senza precedenti di donazioni tra cui carri armati, artiglieria pesante, difesa aerea, munizioni e veicoli da combattimento di fanteria alla difesa dell’Ucraina». Il tabù dei tank occidentali moderni è stato rotto dal Regno Unito, che ha deciso di inviare 14 Challenger 2. La Germania nicchia sui Leopard 2. Mezzi corazzati da 60 tonnellate con cannoni da 120 millimetri e sistemi di puntamento che danno filo da torcere a gran parte dei tank russi. La Polonia che scalpita per fornirli all’Ucraina ha bisogno dell’autorizzazione tedesca. Il viceministro degli Esteri, Pawel Jablonski, ha dichiarato, però, che il suo paese «è pronto a intraprendere azioni inusuali» per potenziare Kiev.

I russi stanno preparando forze corazzate fresche composte dai T-14 Armata e da poco hanno schierato nel Donbass i T-90, dopo aver perso migliaia di tank meno avanzati.

Gli olandesi sono altrettanto decisi a partecipare alla guerra dei tank, ma contribuendo al pagamento di nuovi carri armati. Gaiani evidenzia che «di fatto nessun esercito Nato dispone di flotte di tank in eccesso di cui potersi privare senza azzerare o quasi le rispettive componenti carri continuamente ridotte negli ultimi 20 anni».

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“Nuovo nome al Pd”, “È una praticante”. Scontro tra Schlein e De Micheli

sabato, Gennaio 21st, 2023

Luca Sablone

Al Partito democratico va riconosciuto un merito oggettivo: riuscire a spaccarsi e a fare polemica quotidiana anche su questioni frivole. All’interno del palazzo era uno schieramento granitico ma ora, lontano dal potere politico, sta mostrando continue divisioni. A creare divergenze nelle ultime ore è il tema relativo al cambio al cambio del nome del Pd: da una parte si trova chi ritiene necessario apportare questa modifica per dare idea di un rinnovamento; dall’altra è situtato chi sostiene che sia futile occuparsene.

Schlein non esclude il nuovo nome al Pd

A lasciare un spiraglio aperto in tal senso è stata Elly Schlein, che si è mostrata disponibile a valutare un’opportunità del genere. Ma ha voluto mettere in chiaro che sarebbe una scelta da intraprendere in maniera collegiale ascoltando la base dem, senza dunque procedere in maniera verticistica. “È sicuramente un tema che può essere sottoposto agli iscritti”, ha dichiarato la candidata alla segreteria del Partito democratico.

Schlein ha aggiunto che in questo momento il Congresso deve servire “innanzitutto a mettere al centro idee, contenuti e una visione chiara e coraggiosa”. A riaprire la discussione in merito è stato Peppe Provenzano: il vicesegretario dem avrebbe auspicato un referendum per gli iscritti sul nuovo nome del Pd e a tal proposito ha annunciato che la richiesta verrà avanzata al prossimo gruppo dirigente.

La bordata di De Micheli

Una replica al veleno è arrivata da Paola De Micheli, anche lei in corsa per il timone del Nazareno. A suo giudizio ci sono ben altri fronti su cui focalizzare l’attenzione. Da qui la stoccata stizzita a chi chiede di modificare il nome del Pd pensando sia ormai logoro: “Con tutti i problemi che abbiamo, il tema è il cambio del nome del partito? Soltanto chi sta facendo il praticantato nel Pd poteva chiedere il cambio del nome”.

A frenare è anche Stefano Bonaccini, che si dice volenteroso di illustrare il nuovo corso del Partito democratico piuttosto che perdere tempo con una discussione lunare: “Mai come oggi c’è da parlare di sostanza. Non credo che ci abbiano votati o non votati per il nome, posto che peraltro a me il nome Partito democratico piace e non lo toccherei”. Sulla stessa linea Gianni Cuperlo, altro candidato, che si terrebbe stretto il nome del partito: “Mai come ora nel mondo il conflitto è tra la democrazia e ciò che vi si oppone”.

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Balneari, strappo sulle spiagge: ora Meloni rischia una grana con la Ue

sabato, Gennaio 21st, 2023

ALESSANDRO BARBERA

ROMA. Giorgia Meloni ha una nuova mina innescata con Bruxelles: le concessioni balneari. Come nel giorno della marmotta, nonostante una sentenza inappellabile del Consiglio di Stato, una della Corte di giustizia europea, una procedura di infrazione aperta sin dal 2009 e canoni risibili a fronte di profitti spesso enormi, tutti i partiti della maggioranza sono compatti nel chiedere di fermare la scadenza che imporrebbe l’obbligo di messa a gara delle concessioni dal primo gennaio 2024. Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, pressati dalla lobby del settore, hanno presentato tre emendamenti al decreto “Milleproroghe” in discussione al Senato. E lo hanno fatto a poche ore da un incontro (giovedì) del ministro degli Affari comunitari Raffaele Fitto con il commissario europeo Thierry Breton. Fitto, che deve nel frattempo sta trattando con la Commissione le modifiche al Piano nazionale delle riforme (Pnrr), è stato costretto a discutere con il francese anche di questo. In queste ore fra Roma e Bruxelles è in atto un tentativo di mediazione per evitare una rottura. L’approvazione di un qualunque emendamento di stop alla riforma farebbe decadere la legge delega voluta dal governo Draghi in scadenza il 27 febbraio.

Meloni è fra l’incudine e il martello. Da una parte ha la maggioranza compatta nel difendere le ragioni dei balneari, dall’altra l’Unione, con la quale ci sono aperti molti dossier, dal Pnrr alla riforma del Patto di stabilità. L’introduzione delle gare nelle concessioni balneari non è fra gli impegni del Pnrr, ma ha un’enorme rilevanza politica: il sì ad uno solo degli emendamenti sarebbe vissuto a Bruxelles come un atto di provocazione. Prova ne è l’atteggiamento che aveva avuto sul tema Mario Draghi, che a governo dimissionario spinse per fare procedere la mappatura delle concessioni e nonostante la minaccia di dimissioni dell’allora ministro leghista del Turismo Massimo Garavaglia. Ora nella poltrona di Garavaglia siede Daniela Santanché, fino a poche settimane fa titolare di una quota del Twiga di Forte dei Marmi. La ministra ha deciso di cedere le competenze al collega Nello Musumeci, ma è indicata dalle opposizioni come la regista delle operazioni.

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Quelle vite spezzate che non vediamo più

sabato, Gennaio 21st, 2023

Marco Revelli

«Saranno state le dieci, le dieci e un quarto, Metello affondava la cazzuola nella calcina, quando sentì un urlo, che durò un baleno e fu sepolto dal tonfo di un corpo andato a schiacciarsi sulla massicciata. Quinto Pallesi era precipitato dall’impalcatura». È un passaggio cruciale del grande romanzo sociale di Vasco Pratolini, che segna una svolta nella vicenda del protagonista. Da allora la morte sul lavoro o “per lavoro” ha fatto la sua comparsa carsicamente, nella letteratura d’impegno del nostro Paese. Si pensi al furibondo, blasfemo, durissimo “Il nemico” (2009) di Emanuele Tonon, sulla vita invivibile di Settimo, destinato a morire soffocato, trovandosi i polmoni intasati di polvere di legno, quella stessa “che ha inalato per trentaquattro anni” nella fabbrica-mostro del Nordest. O a “Veleno” (2013) di Cristina Zagaria, sulla strage quotidiana che silenziosamente si consuma all’Ilva di Taranto, per molti versi parallelo ad “Amianto”. Una storia operaia (2014), il romanzo famigliare in cui Alberto Prunetti ripercorre la storia del padre, metalmeccanico saldatore che aveva lavorato in tutte le fabbriche più contaminate, da Piombino a Taranto, da Busalla a Casale Monferrato con la famigerata Eternit. Per non parlare dello splendido e terribile poemetto in versi liberi di Giorgio Luzzi sul “Rogo alla Thyssen-Krupp”, utilizzato poi come libretto dal compositore Adriano Guarnieri per un’opera dal titolo diverso, “Lo stridere luttuoso degli acciai” (regia di Alberto Jona).

In tutte queste opere la morte sul lavoro appare indissolubilmente legata alla persona del lavoratore, figura in carne e ossa, e per questo assume il carattere dello “scandalo” che le compete: segna una fine irrimediabile, lo spezzarsi di una biografia personale, e apre – nel lettore – un percorso di riflessione e di ricerca sul “senso” dell’accaduto. In tutti questi casi la morte rimane una ferita aperta, cui si associa un moto di rabbia e di rivolta. Nella statistica che invece si dipana, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, nella cronaca ormai atrocemente ripetitiva che segna il presente, tutto questo si perde. Nella sola giornata di ieri due lavoratori sono morti, a Roma e a Brescia, quasi nello stesso modo: schiacciati dal carico che avevano trasportato. L’incidente bresciano è avvenuto nello stesso momento in cui, a poca distanza, si stava celebrando il funerale di un’altra vittima del lavoro: un operaio di 28 anni morto dilaniato dal nastro trasportatore a fianco del quale lavorava. Nei primi tre giorni del 2023 sono state 7 le vittime sul lavoro. Nel 2022 gli incidenti mortali erano stati 1006, in crescita rispetto al 2021 del 18% per i maschi e addirittura del 49% per le donne. Le denunce di infortunio avevano raggiunto la cifra impressionante di 652.002, il 30% in più rispetto all’anno precedente. Numeri da stato di guerra, che tuttavia si scolorano e affondano nel mare opaco della statistica, perdendo il loro vero significato.

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Intercettazioni, voglia di bavaglio

sabato, Gennaio 21st, 2023

Francesco Grignetti

Piuttosto che ingaggiare un micidiale corpo a corpo con i magistrati, foriero di molti guai, e sicuramente fuori dal comune sentire del popolo della destra, il governo di Giorgia Meloni immagina già una via di fuga dal vicolo cieco dov’è finito con le esternazioni del ministro Carlo Nordio. E perciò, prima cosa, tutte le macchine legislative sono state fermate, quantomeno per un mese, fino alle elezioni regionali di Lombardia e Lazio. Secondo, se proprio si deve fare qualcosa sul tema delle intercettazioni, si colpisca l’anello debole, i giornalisti, e non quello forte, i magistrati.

Fonti autorevoli di maggioranza raccontano di un garbatissimo invito a Nordio affinché metta da parte per qualche settimana i bollenti spiriti. «Non serve a nessuno alimentare uno scontro con la magistratura tutta, che il Paese non capirebbe il giorno dopo l’arresto di Messina Denaro», dice un parlamentare influente. E un altro: «Le intercettazioni non si toccano. La maggioranza, o quantomeno la sua gran parte, è contro la grande criminalità come contro la piccola criminalità».

Non è solo questione di tattica sbagliata. Il ministro Guardasigilli era partito alla carica contro i suoi ex colleghi? Il risultato – osservano sgomenti ai piani alti del centrodestra- è che la maggioranza si è spaccata, con FdI e Lega da una parte, Forza Italia e centristi dall’altra; le opposizioni fuoriuscite inaspettatamente dall’afasia; gli unici a beneficiarne sono quelli del Terzo Polo, vedi il successo della mozione di Enrico Costa. E così, se Nordio era partito con le sue esternazioni per aprirsi la strada e tagliare le intercettazioni, s’è ritrovato, dopo diversi colloqui ad alto livello, a doverle confermare per i «reati-satellite» della mafia, ovvero tutti quelli per cui già si fanno. Un completo disastro, il suo.

E allora? Il mantra che può ricucire le divisioni del centrodestra a questo punto è la lotta ai presunti «abusi», come ripeteva ieri anche il vicepremier Antonio Tajani, che ledono «i diritti di cittadini sbattuti in prima pagina per poi risultare completamente estranei alle vicende». Solo che ora ad abusare delle intercettazioni non sarebbero più i magistrati, quanto i giornalisti.

«Bisogna intervenire – dice infatti al mattino il sottosegretario Andrea Delmastro, FdI, intervenendo alla trasmissione tv Agorà – da una parte con l’Ispettorato generale per verificare che non vi siano fuoriuscite di notizie dalle procure, dall’altra parte con una norma più stringente. E poi lo dico onestamente, sì, anche sui giornali». Chiosa il capogruppo FdI al Senato, Lucio Malan: «Si vogliono impedire gli abusi come la pubblicazione di conversazioni estranee alle indagini».

L’idea che piace dentro al governo, insomma, e che salverebbe la faccia al Guardasigilli, è un possibile divieto di pubblicazione delle intercettazioni tal quali, anche se ricavate da atti giudiziari, «qualora siano pregiudizievoli della onorabilità di un non indagato». Spiegano: «C’è la nuova legge Orlando-Bonafede, ma non funziona, come anche ieri s’è visto nel caso Calovini (uno scoop di Repubblica su un’inchiesta a Milano teneva banco nella chat dei parlamentari di FdI. Troppo gustoso lo sfogo intercettato del deputato Giangiacomo Calovini contro Daniela Santanché per questioni territoriali. «Quando morirà, perché morirà, cagherò sulla sua bara», ndr). Se pure qualche intercettazioni non rilevante penalmente sfugge al controllo dei magistrati, toccherà ai giornalisti valutare». Un eufemismo. Perché in caso di pubblicazione “proibita”, scatterebbero multe salate.

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Sla, leucemie, tumori: le morti misteriose nel calcio. Dall’Epo alle gocce di Micoren ai beta-bloccanti: ecco l’armadietto farmaceutico degli orrori

sabato, Gennaio 21st, 2023

Paolo Russo

Rossi, Mihajlovic, Vialli, Saltutti, Beatrice, Benedetti, Bertuzzo, Rognoni, Zuccheri, Petrini, Viganò, Imbriani, Ferruccio Mazzola, Borgonovo, Zucchini, Aldo Maldera, Rosato, Musiello, Pinotti. La rosa completa di una squadra di calcio. Che c’era e non c’è più. Morti tutti tra i 36 e i 68 anni per Sla, tumore, leucemia, malattie rare e infarto. Come quello che nel 2003 si portò via a 56 anni Nello Saltutti, centrocampista della viola, la squadra che piange un “undici” tra titolari e riserve colpiti e uccisi dalla Sla. «Se avessi saputo che per tutta quella roba avrei perso amici, e rischiato di morire anch’io, non credo che potendo tornare indietro, rifarei tutto da capo. E mi domando, se valga ancora la pena che un giovane sacrifichi tutta la sua vita per un calcio del genere». Si chiude così l’ultima intervista a Nello, pubblicata su “Palla avvelenata”, volume che corre parallelo all’indagine Guariniello sulle malattie e le morti sospette nel calcio. “Quando ero ancora nella Primavera già mi davano di tutto, l’infermeria del Milan era una cosa impressionante, e non so se sarà stato un caso, ma io da un metro e sessanta, in un anno ero passato ai miei 175 centimetri. Strano no?” riflette Saltutti. Che di cose ne racconta tante. Come la flebo a cui passava ore attaccato Bruno Beatrice, suo amico inseparabile nella Fiorentina, morto di leucemia linfoblastica nell’87. «Durante il ritiro -racconta il buon Nello- Bruno era sempre sotto flebo, dal venerdì sera alla domenica; lo avevano convinto che con quelle avrebbe corso il doppio. Tanto per capirci, era uno che al naturale andava molto più forte di Davids, perciò gli chiedevo: ma che bisogno hai di farti iniettare tutte quelle schifezze? A noi dicevano: sono solo vitamine, prendetele e starete meglio. Ma chissà che ci davano invece…». Nel 2005 la procura di Firenze aprì un’indagine conclusasi con una archiviazione 4 anni dopo, perché i calciatori di quella generazione non sapevano mica cosa gli veniva somministrato. Prima di una partita tosta contro il Manchester United tra Nello e suoi compagni di squadra nello spogliatoio venne fatto girare un termos con “caffè speciale”. “Bevetelo, ci dissero, vi farà bene”. E impresa fu. Saltutti che allora giocava da punta divenne immarcabile, fece il gol dell’1 a 1 e all’indomani i tabloid inglesi lo ribattezzarono il “levriero italiano”.

Ora delle tante, troppe morti precoci tra gli eroi della pelota si torna a parlare dopo gli addii di Sinisa e Gianluca Vialli, seguiti all’allarme lanciato dagli ex campioni del Mondo e compagni azzurri di Pablito, Baggio e zio Bergomi.

Sui casi di Sla, 34 quelli accertati, c’è uno studio condotto dal prestigioso Istituto farmaceutico “Mario Negri” effettuato su ben 23mila e passa calciatori di seria A, B e C, dalla stagione ’59-60 a quella 1.999-2000. Ebbene, i ricercatori hanno rilevato che una correlazione c’è, perché l’incidenza della malattia è due volte superiore rispetto alla popolazione che non tira calci alla palla di mestiere. Addirittura sei volte maggiore se si considerano solo i giocatori di serie A. Tra i quali l’insorgenza della Sla è peraltro molto precoce: 45 anni, anziché 65 com’è in media nella popolazione generale. Le cause più probabili sono un mix tra traumi cranici e predisposizione genetica, mentre è più difficile provare la responsabilità di certi fertilizzanti tossici utilizzati nei campi di gioco e dell’abuso di farmaci. Questi ultimi per via del fatto che su di loro i fari si sono iniziati ad accendere solo quando, in tempi più recenti, sono stati messi fuori commercio o inseriti nella lista di quelli dopanti.

Me le inchieste di questi anni, pur non arrivando a sentenza, ci permettono di ricostruire un armadietto degli orrori farmaceutiche e delle pratiche da apprendisti stregoni alle quali sono stati sottoposti i giocatori.

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I tre rischi ignorati

sabato, Gennaio 21st, 2023

di Angelo Panebianco

Andamento ed esiti della guerra sono imprevedibili, ma anche la durata del regime a Mosca e la capacità delle democrazie di sostenere a lungo il Paese aggredito

Una perenne incertezza sugli esiti domina le scelte e le azioni che alimentano la trama della storia. Solo in seguito, col senno del poi, si potrà davvero capire se le varie decisioni prese nel corso del tempo fossero oppure no le più sagge, le più lungimiranti, se si sia constatata oppure no una certa corrispondenza fra i propositi iniziali e le conseguenze delle scelte compiute. Ci sono tre motivi di incertezza nella guerra che dura ormai quasi da un anno nel cuore dell’Europa. Il primo riguarda l’imprevedibilità dell’andamento e degli esiti della guerra. Il secondo motivo chiama in causa la capacità di durata del regime politico che vige nel Paese aggressore. Il terzo motivo di incertezza, infine, riguarda la capacità delle democrazie di sostenere uno sforzo di lungo periodo di appoggio al Paese aggredito. In tema di andamento ed esiti del conflitto in Ucraina bisogna sempre ricordare che, in tutte le guerre, l’unica cosa scontata è che non c’è niente di scontato. Anche se consideriamo un allargamento del conflitto, lo scoppio di una guerra generale, una possibilità remota (la Cina, suo principale alleato, ha chiarito a Putin che non la considera una opzione accettabile), resta il fatto che gli esiti del conflitto sono comunque imprevedibili.

Posto che il sostegno militare occidentale agli ucraini continui a lungo, è impossibile stabilire oggi — come ha osservato Federico Rampini ( Corriere del 19 gennaio) — chi si troverà in vantaggio quando le armi taceranno: sarà il Paese che può mandare al fronte un numero altissimo di uomini, la maggior parte dei quali è però poco motivata, o sarà quello che dispone di un numero assai più basso di combattenti ma animati dalla volontà di vincere? Troppi elementi imponderabili entrano in gioco. Il grande teorico della guerra Carl von Clausewitz chiamava «attrito» l’insieme dei fattori imponderabili, imprevisti, che nelle guerre frustrano regolarmente i piani dei comandi militari, creano un costante divario fra quei piani e quanto accade davvero sui campi di battaglia.

Il secondo motivo di incertezza riguarda la «tenuta», la capacità di durata, del regime russo e, naturalmente, di colui che lo controlla, Vladimir Putin. Cadesse lui, cadrebbe anche il ristretto gruppo che lo coadiuva. Nella sua tragicità il problema è semplice. Putin non può mollare l’osso, non può accettare nessun negoziato se non è in grado, prima di sedersi al tavolo negoziale, di potersi proclamare (credibilmente) vincitore. Se gettasse la spugna quella potrebbe essere — e comunque è ciò che egli sicuramente pensa — la sua fine politica (e forse non solo politica). La «banda Putin» teme di non sopravvivere alla sconfitta. Per questo tutti sappiamo che, a meno di improvvisi rivolgimenti politici al Cremlino (o una vittoria degli ucraini), la guerra continuerà a lungo. Su questo punto gli amici occidentali di Putin hanno ragione: se quei «prepotenti» degli ucraini continueranno a rifiutare di arrendersi, di consegnarsi mani e piedi ai russi, o, quanto meno, di cedere loro, definitivamente, ampia parte del proprio territorio, le armi non taceranno.

Forse l’invasione dell’Ucraina, con tutti i suoi calcoli sbagliati e gli immani costi a carico della società russa, sarà la scintilla che provocherà la caduta del regime putiniano. Ma non conviene scommetterci. Occorre guardarsi da un errore di giudizio tipicamente occidentale, un errore che commettono di frequente coloro che abitano nei territori della democrazia: credere che valga anche per le autocrazie la regola vigente nei nostri regimi politici. In democrazia, un governo non sopravvive a una catastrofe provocata dai suoi errori. Viene cacciato dagli elettori. Un governo autocratico, invece, può riuscire a sopravvivere persino se la sua azione ha imposto costi umani, sociali ed economici ingenti al proprio popolo. La lista dei regimi dittatoriali che hanno inflitto grandi sofferenze ai loro sudditi e che tuttavia sono durati molto a lungo, comprende un numero alto di casi. Plausibilmente Putin verrà prima o poi sostituito (ma quando?). A meno di una netta e inequivocabile vittoria degli ucraini (non si sa quanto probabile), con la riconquista di tutti i territori occupati dai russi, la guerra è dunque destinata a continuare. Chissà se tra un altro anno saremo ancora qui a commentarne l’andamento.

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Juventus, perché le hanno tolto 15 punti: la sentenza e le intercettazioni. «Plusvalenze peggio di Calciopoli»

sabato, Gennaio 21st, 2023

di Massimiliano Nerozzi

Il paragone fatto al telefono dal direttore finanziario Bertola con il ds Cherubini, che nel «libro nero di Fabio Paratici ha scritto «utilizzo eccessivo di plusvalenze artificiali». Paratici al telefono: «Non capisci un c…, tanto come facciamo da 4 facciamo da 10, non è un problema»

Juventus, perché le hanno tolto 15 punti: la sentenza e le intercettazioni. «Plusvalenze peggio di Calciopoli»

Sembrava la sparata di chi è capitato dentro un’inchiesta da film: «Qui rischia di essere peggio di Calciopoli», si lasciò scappare un investigatore dopo le prime perquisizioni nella sede della Juve, a indagini avviate ormai da mesi. Del resto, aveva già ascoltato l’intercettazione ambientale della Guardia di Finanza numero 446/2021, in cui il direttore finanziario Stefano Bertola parlava con il ds Federico Cherubini: «La situazione è davvero complicata, io in 15 anni faccio un solo paragone: Calciopoli». E ora, la sentenza della corte d’Appello federale squassa il club e chi ci ha lavorato e vinto, per anni, e che adesso è stato squalificato (seppure non in via definitiva): «È una follia, ma ormai era chiaro. Abbiamo vinto troppo, siamo stati troppo bravi», si sfoga con un amico un ex dirigente juventino. «Dovevano trovare il modo di farcela pagare». Difficile mantenere la calma: «Bisogna avere fiducia nella giustizia, ma con questo clima è davvero difficile».

Come cambia la classifica di serie A

Tutto parte dall’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dai pm Mario Bendoni e Ciro Santoriello sui conti del club, e dai faldoni di documenti finanziari, mail, intercettazioni, inviati alla Procura della Federcalcio dopo la chiusura delle indagini penali. Va da sé, chi conosceva le carte torinesi aveva ben intuito il rischio, per la società, a livello sportivo. Da un altro dialogo tra Cherubini e Bertola, salta fuori una frase attribuita all’ex ds Fabio Paratici, sulle plusvalenze: «Non capisci un cazzo, tanto come facciamo da 4 facciamo da 10, non è un problema». Più che un’imprecazione, un manifesto, per l’ipotesi d’accusa. Ancora Bertola, in altra conversazione: «Sì, sì, gestione malsana delle plusvalenze eh!». Per non parlare del «Libro nero di FP», ovvero Fabio Paratici, un foglio ritrovato nell’ufficio di Cherubini: «Utilizzo eccessivo plusvalenze artificiali». Lo stesso Cherubini racconterà ai pm, come persona informata sui fatti: «Le plusvalenze finte ritengo che siano quelle maturate nell’ambito di operazioni a scambio, fatte su ragazzi giovani per i quali la determinazione di un valore crea problematiche». E ancora: «Io più volte mi sono lamentato con Fabio che il valore che stavamo dando a quei giocatori non erano congrui».

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Massoneria braccio destro della mafia: il piano di Messina Denaro

sabato, Gennaio 21st, 2023

di  Goffredo Buccini 

In trent’anni di latitanza, Matteo Messina Denaro cercava maggiori rapporti con la politica. La loggia l’avrebbe protetto anche fuori dal Trapanese

U Siccu aveva in testa un’idea grandiosa: che la mafia si pigliasse la politica. Come? Creando logge massoniche coperte «ove vengano affiliati solo personaggi di un certo rango e ove la componente violenta della mafia ne divenga il braccio armato», scrivono cinque anni fa i parlamentari della Commissione Antimafia nella loro relazione conclusiva. Era stato lo stesso obiettivo di un altro padrino dalla vista lunga: Stefano Bontate, il «Principe di Villagrazia», massone della prima ora e monarca della vecchia mafia, ammazzato dai Corleonesi nel 1981. Come lui, anche Matteo Messina Denaro pensava in grande, diversamente dal viddano Riina che pure l’aveva tenuto a balia ma ne capiva solo di scannare cristiani. Anche ‘U Siccu, figlio del capomafia di Castelvetrano «don Ciccio» e istruito dal Capo dei capi come killer («impara bene…»), aveva ammazzato «tanta gente da riempire un camposanto», s’intende. Ma dopo le stragi aveva sterzato la sua Cosa Nostra sugli affari, l’aveva immersa nel «gioco grande» di cui parlava Falcone, relazioni a New York e in Venezuela, Spagna e Inghilterra, eolico, edilizia, supermercati, cliniche, villaggi turistici, piccioli per tutti, un giro stimato da Libera attorno ai quattro miliardi, meno sangue e tanti legami occulti, fino a farsi, secondo qualche pentito, una loggia segreta tutta sua, La Sicilia. 

Radici

«La massoneria è un cemento che lega le persone e le fa stare anche fisicamente in un’unica stanza, di compensazione, dove possono realizzare i loro interessi non sempre leciti», spiegò Michele Prestipino all’Antimafia quando era procuratore aggiunto di Reggio Calabria, altra terra dove molti uomini d’onore portano e portavano il grembiulino, a cominciare da don Paolino De Stefano, il mammasantissima che regalava scarpe a mezza città («così chisti camminano sulle scarpe mie»). Per trent’anni Messina Denaro è sfuggito agli «sbirri» sempre inseguendo la sua idea di potenza, che sempre ha avuto una radice profonda nella sua Castelvetrano, tanto che la Commissione presieduta da Rosy Bindi nel 2017 dedica a questa cittadina del Trapanese di trentamila anime (dove l’altro giorno a manifestare in piazza contro il boss sono scesi in trenta) il primo capitolo del fondamentale dossier su massoneria e clan: la chiave è «il consenso della società civile», non vessata dal pizzo ma, anzi, aiutata dal «sostegno mafioso» e pronta a offrire in cambio «la titolarità di quote delle imprese»: e non solo quella. Teresa Principato, l’ex procuratrice di Palermo che a lungo ha dato la caccia al latitante, ha raccontato due anni fa a Carlo Bonini di essere rimasta «sconcertata», scoprendo che il padre di Matteo, il boss don Ciccio, mandante del delitto Rostagno, era campiere della famiglia D’Alì, banchieri e proprietari terrieri: «Matteo ha avuto uomini fidati in tante amministrazioni, dalle questure ai Servizi. Così riusciva a sapere in tempo reale delle nostre indagini». Ora ha spiegato che «una rete di copertura di carattere massonico lo ha protetto in tutto il mondo». Carte e agendine sequestrate nei suoi covi potranno dire molto. Ma parecchio può dire anche la vita quotidiana di Castelvetrano e dintorni. Uno degli eredi dei D’Alì, Antonio, è appena entrato in carcere per scontare una condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa: è stato senatore di Forza Italia e sottosegretario agli Interni. Un medico assai influente nella sanità siciliana come Giovanni Lo Sciuto, sotto processo per l’inchiesta Artemisia, passato da Forza Italia al Nuovo Centrodestra di Alfano, è arrivato a sedere nella Commissione regionale antimafia mentre, intercettato con un «fratello» di loggia segreta, si vantava dell’amicizia con Matteo: «Quando eravamo ragazzini ci volevamo bene, poi lui ha fatto la sua strada … minchia, come mi tratta, mi tratta mi tratta». Si definiva «sentinella» nell’Antimafia, ma con un’accezione un po’ particolare: «Se arrivano cose sulla massoneria, quando sono cose di qui le prendo e le strappiamo». È un crocevia dei misteri d’Italia, questo. Nel 1950 fu ritrovato qui, nel cortile di un avvocato, il cadavere del bandito Giuliano, col suo carico di enigmi e depistaggi («Di sicuro c’è solo che è morto», fu il mitico incipit di Tommaso Besozzi sull’Europeo). A metà anni Ottanta scoppia a Trapani il caso della loggia segreta Iside 2, sotto l’insegna del circolo Scontrino, dove s’incontrano uomini delle istituzioni e boss come Mariano Agate, «per comporre interessi mafiosi, politici e imprenditoriali compresi quelli riconducibili ai Messina Denaro». Nella sola Castelvetrano la Commissione Bindi segnala sei delle diciannove logge attive nella provincia di Trapani e legate a quattro «obbedienze». Il Comune, sciolto a suo tempo per infiltrazione mafiosa, era arrivato ad avere metà dei suoi consiglieri e dei suoi assessori affiliati a qualcuna di esse. «Pare un ossimoro, ma la massoneria è stato un luogo di occultamento alla luce del sole», sorride triste Claudio Fava, che da vicepresidente ha firmato la relazione Antimafia del dicembre 2017.

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Fiumi di miliardi: così Soros ingrassa le casse della sinistra

giovedì, Gennaio 19th, 2023

Massimo Balsamo

L’impero non profit di George Soros è il più grande bancomat per le cause politiche della sinistra al mondo. Il report firmato dal Capital Research Center non lascia spazio a dubbi: dal 2000 ad oggi il magnate nato a Budapest ha stanziato 21 miliardi di dollari tra partiti politici, fondazioni private e ong. Ma non si tratta esattamente di una sorpresa: il novantaduenne non ha mai nascosto l’obiettivo di utilizzare la sua enorme ricchezza – guadagnata nei mercati capitalisti – per riprogettare il Paese a sua immagine e somiglianza. Anche se la sua “macchina” è attiva in tutto il mondo.

Gli investimenti di Soros per la sinistra

Come evidenziato da Libero, le organizzazioni di Soros nel corso del 2021 hanno versato la bellezza di 2,7 miliardi di dollari alla galassia di sinistra racchiusa nell’Open Society Network. La maggior parte di questo denaro sarebbe finita nella casse dei gruppi “dark money”, ovvero con caratteristiche fiscali che li rendono irrintracciabili. Riflettori accesi in particolare sull’Open Society Policy Center gestito dal noto avvocato Tom Perriello: erogati 577 milioni di dollari in sovvenzioni nel giro di dodici mesi.

La macchina di Soros è tenuta in piedi dalla Arabella Advisors, società di consulenza filantropica che convoglia denaro verso ong e personaggi che “sostengono l’advocacy politica sui cambiamenti strutturali”. In altre parole, ad attivisti professionisti che spingono le politiche della sinistra ed eleggono democratici in nome della “charity”. Entrando nel dettagli, Arabella Advisors gestisce cinque organizzazioni non profit e diversi investimenti sono stati mirati al sostegno dei candidati dem per le elezioni di miterm, per la precisione 128 milioni di dollari. E ancora, soldi destinati a progetti di opinion making di sinistra o all’Electoral Justice Project, la macchina per l’affluenza alle urne di Black Lives Matter.I soldi di Soros ai compagni 

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