Archive for Gennaio 17th, 2023

Niente fango complottista su chi indaga

martedì, Gennaio 17th, 2023

Stefano Zurlo

Niente fango complottista su chi indaga

È andato tutto in modo limpido. Sobrio e trasparente. Ma non si sa mai. Speriamo che non torni la stagione dei veleni e dei sospetti. Speriamo che il successo di oggi non sia accompagnato dal solito corteo di retropensieri, meglio se maligni. Speriamo di non sentir rimbombare i nomi degli investigatori che hanno firmato questa operazione come presunti protagonisti di fantomatiche trame oscure. È già successo, ci auguriamo non si ripeta. La memoria corre alla cattura di Totò Riina, trenta anni fa, e alla mancata perquisizione del covo dove alloggiava il capo dei capi di Cosa nostra. Abbiamo passato anni ad ascoltare i nomi del capitano Ultimo e del generale Mori alternativamente come eroi della lotta a Cosa Nostra e poi come oscuri burattinai di trame oblique al di là della linea della legalità. Processi su processi, per il giallo del covo di via Bernini, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e per la trattativa Stato mafia che hanno alimentato l’industria del pregiudizio e la catena di montaggio del «chissà cosa c’è dietro», ma non hanno portato a nulla. Se non a rendere tutto torbido e confuso. Reati e comportamenti opachi vanno colpiti, ma qui è scattata una sorta di maledizione: fango e capi d’imputazione a grappolo. E poi ancora, una delegittimazione di alcuni tra i più importanti detective del nostro Paese. Pensiamo ai Subranni, ai De Donno e a altri la cui reputazione è stata macchiata e messa in naftalina per un tempo interminabile.

È un destino sfortunato che ha decimato le migliori energie sulla prima linea di questa battaglia difficilissima. E viene l’ulteriore dubbio che si sia alimentato questo gioco al massacro utilizzando trasversalmente qualunque elemento e indagine. Qui il discorso si fa ancora più contorto perché il malfunzionamento della nostra giustizia rende ogni opinione credibile. Resta il fatto che anche l’ex prefetto di Palermo Renato Cortese, artefice della cattura di Bernardo Provenzano, è finito diritto nell’imbuto del caso Shalabayeva e ne è uscito, assolto, solo in appello. Un’altra coincidenza sfortunata, naturalmente. È giunto il momento di voltare pagina: non sprofondiamo di nuovo nella palude del complottismo.

IL GIORNALE

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Favole e miti che riaffermano il valore di ogni vita umana

martedì, Gennaio 17th, 2023

di Mauro Magatti

La partecipazione popolare ai grandi funerali sottolinea ciò che rischia di «perdersi» nella società ipertecnologica. Le esequie tratteggiano precisamente i caratteri dell’«eroe» del nostro tempo. I casi della regina Elisabetta, di papa Benedetto XVI e di Pelè

Favole e miti che riaffermano il valore di ogni vita umana
La cerimonia funebre per Benedetto XVI in piazza San Pietro

I grandi funerali pubblici sono sempre più momenti solenni di ricomposizione sociale. Ne abbiamo riprova, ancora una volta, negli ultimi tempi. Elisabetta, per 70 anni regina del Regno Unito, nell’Abbazia di Westminster, nel cuore di Londra. Benedetto XVI, papa emerito nella basilica di San Pietro a Roma. Edson Arantes do Nascimento, detto Pelè, considerato il più grande calciatore di tutti i tempi, a Vila Belmiro, stadio del Santos, a Rio de Janeiro. Tre vite, tre capitali, tre luoghi altamente simbolici, tre sfere della nostra vita sociale. Con decine di migliaia di persone che decidono di dare l’ultimo saluto alla salma, anche sopportando code e disagi, mentre l’eco mediatica arriva ad accomunare centinaia di milioni di persone in varie parti del mondo.

Sulla scena pubblica riemerge così ciò che abbiamo rimosso nella vita privata: probabilmente è proprio perché nelle strade delle nostre città i funerali non si vedono più che la rilevanza di queste grandi occasioni pubbliche diventa ancora più spettacolare. Ed è forse perché sempre più spesso il corpo del defunto viene nascosto dallo sguardo di figli e amici che il rito dell’omaggio al cadavere di un altro essere umano la cui vita pubblica ha espresso un significato condiviso diventa un potente momento di identificazione collettiva.

Un motivo arcaico riemerge così nel cuore delle società contemporanee: la morte come occasione di ricapitolazione. Solo grazie alla rievocazione dei momenti salienti della vita di chi non c’è più, e che tutti abbiamo conosciuto, c’è modo di ricollocare la propria vicenda personale in un tempo troppo veloce e frammentato. Partecipare a un funerale pubblico permette di sentirsi parte di una grande narrazione collettiva che aiuta a dare un senso alle proprie fatiche quotidiane. Ma anche a leggere le vicende storiche, osservandole da una prospettiva diversa da quella della cronaca. Come sempre è successo, anche oggi è la morte che introduce nella vita collettiva quella scansione che permette ai viventi di dare senso a ciò che fanno.

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La telefonata di Mattarella e gli elogi al Viminale. Arrivano le congratulazioni di Ue e Casa Bianca

martedì, Gennaio 17th, 2023

Massimiliano Scafi

La telefonata di Mattarella e gli elogi al Viminale. Arrivano le congratulazioni di Ue e Casa Bianca

È il giorno dell’orgoglio. Adesso che dopo trent’anni Matteo u siccu è dentro, associato alle patrie galere, sbattuto finalmente in un carcere di massima sicurezza e inchiavardato, lo Stato può gonfiare il petto, almeno per 24 o 48 ore. Giorgia Meloni vuole trasformare il 16 gennaio in una festa nazionale, più sobriamente Sergio Mattarella si accontenta di raccogliere il senso civico unificante dell’arresto del boss e di prolungarlo il più possibile. I reparti del Ros in assetto di guerra si aggirano ancora per i reparti della clinica, Messina Denaro è in volo scortato verso una località segreta, quando il capo dello Stato alza il telefono e «si congratula con il ministro dell’Interno e con il comandante dei carabinieri» per la cattura «realizzata», ci tiene a ricordare, «in stretto raccordo con la magistratura».

Poche parole, asciutte, quasi fredde. Lo stretto indispensabile, eppure arrivano da un presidente che la tragedia della mafia l’ha vissuta e sofferta di persona, quando si è trovato tra le braccia il corpo insanguinato del fratello Piersanti. Ora, sempre nella sua Palermo, finisce nella rete l’ultimo capo stragista e dopo trent’anni la battaglia a Cosa Nostra appare a un punto di svolta. I ritardi? Le complicità? La latitanza tranquilla di Messina Denaro? Quello che conta per Mattarella è il risultato, la rivincita repubblicana, lo spirito di unità nazionale, i titoli in festa dei giornali stranieri. E i complimenti arrivati dal dipartimento di Stato americano, che considera l’arresto «un successo significativo e una coraggiosa dimostrazione degli sforzi per combattere la mafia». E le parole Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo: «Il mondo e più sicuro oggi». L’Italia insomma che fa bella figura e ottiene un’affermazione prestigiosa e senza colore politico, frutto della fatica di investigatori e magistrati che hanno continuato a lavorare sodo a prescindere da chi fosse in quel momento a Palazzo Chigi.

E di «vittoria dello Stato», nel senso di comunità, parlano un po’ tutti, da destra al centro a sinistra. «La lotta alla mafia non conosca tregua», dice Ignazio La Russa. Il presidente della Camera Lorenzo Fontana dedica «un pensiero commosso a Falcone, Borsellino e Livatino». Felice Silvio Berlusconi: «Vince il diritto, vince la giustizia, vince l’Italia intera. Lo Stato è più forte di Cosa Nostra». Per il ministro della Giustizia Carlo Nordio «si chiude davvero una delle stagioni più drammatiche della storia della Repubblica; con l’arresto dell’ultimo super latitante si rinnova l’impegno contro ogni forma di criminalità, semplice e organizzata». Per Matteo Salvini «le nostre istituzioni e i nostri uomini in divisa non mollano mai».

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“Salari aumentati, su i tassi”. Ma i dati smentiscono la Bce

martedì, Gennaio 17th, 2023

Giuditta Mosca

"Salari aumentati, su i tassi". Ma i dati smentiscono la Bce

La Banca centrale europea (Bce) difende la politica economica orientata all’aumento dei tassi direttori, già ritoccati più volte a partire dal mese di luglio del 2022, sostenendo che sarà necessario intervenire ancora. Il perché è presto detto: l’aumento del costo del denaro rallenta i consumi e quindi l’inflazione, giunta al 9,2% nell’Eurozona e all’11,6% in Italia.

Ora però la Bce sostiene che l’aumento dei salari spingerà i consumi e questo contribuirà a fare salire i prezzi, motivo per il quale sarà necessario ritoccare ulteriormente verso l’alto i tassi direttori.

Quanto è reale, però, l’aumento dei salari?

Prima di addentrarci in questa analisi, occorre sottolineare che quando si parla di un dato economico si fa quasi sempre riferimento a valori medi e spuri. Valori medi perché sono riferiti a un intero comparto di riferimento e spuri perché non sono paragonati ad altri elementi del medesimo contesto.

L’Eurotower, in questo caso, usa come indice i salari tedeschi, cresciuti del 3%. Questo non vuole dire che tutti i lavoratori in Germania hanno ricevuto un aumento salariale e non tutti in uguale misura: il 3% che per la Bce è un parametro valido riguarda soltanto i metalmeccanici. Inoltre, e qui cominciamo a spostarci in Italia, la Bce non sembra tenere debito conto dell’inflazione in rapporto al valore reale dei salari né di altri dati significativi come, per esempio, il fatto secondo il quale gli italiani hanno assottigliato i propri risparmi, proprio per fare fronte al caro vita (bollette in primis).

In Italia l’aumento dei salari si può stimare intorno all’1% in media ma i salari reali, quelli che tengono conto dell’inflazione, sono scesi di oltre il 6%. Davanti a questi numeri, la linea di pensiero della Bce scricchiola.

La logica della Bce

A Francoforte sono certi che i salari aumenteranno ovunque in Europa. Buono a sapersi e, parlando esclusivamente dell’Italia, è vero che i sindacati stanno chiedendo agli imprenditori di rinforzare le buste paga, proprio a causa della perdita di potere di acquisto dei lavoratori.

Il fatto che i sindacalisti siano al lavoro non vuole dire che il risultato è assicurato ma, ancora prima, occorre fare un ragionamento a valle. L’industria italiana è pronta ad assorbire il maggior costo della forza lavoro o dovrà aumentare i prezzi di vendita per farvi fronte? Così fosse, l’aumento delle retribuzioni contribuirebbe a creare inflazione, in un contesto nel quale la Bce si dice pronta ad aumentare ancora il costo del denaro per limitare l’ascesa del caro-prezzi.

Sembra il classico cane che si morde la coda ma la Bce ha una soluzione anche a questo: poiché ci sono molte aziende che producono beni o servizi per altre aziende, un eventuale aumento dei costi di fornitura andrebbe a ricadere sull’inflazione soltanto in modo differito.

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Mes, l’Ue applaude l’Italia. L’imbarazzo di Giorgetti: “Deciderà il Parlamento”

martedì, Gennaio 17th, 2023

dal nostro inviato Marco Bresolin

BRUXELLES. Le tensioni legate alla ratifica del Mes continuano a creare imbarazzo nel governo italiano. Questa volta, però, per ragioni opposte alle precedenti. Non è il pressing di Bruxelles a mettere in difficoltà l’esecutivo, bensì la valanga di complimenti ricevuti per i segnali positivi sull’ultimo tassello che manca per dare il via libera definitivo alla riforma del fondo Salva-Stati. «Pare esserci qualche progresso» ha riconosciuto il vice-presidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, a margine dell’Eurogruppo. Ancor più esplicito l’irlandese Paschal Donohoe, che presiede la riunione dei ministri finanziari dell’Eurozona: «Voglio riconoscere il lavoro che è in corso nel governo italiano». Parole che non hanno affatto reso facile la giornata di Giancarlo Giorgetti.

Dal Tesoro si sono infatti premurati di far sapere che «la decisione spetta al Parlamento», preoccupati che la valanga di elogi dei signori di Bruxelles possa mandare ulteriormente in agitazione quella parte della maggioranza che – al momento – ancora non vuole rassegnarsi alla ratifica. L’idea di un provvedimento dell’esecutivo per incardinare la ratifica «è un fatto positivo» per il commissario Paolo Gentiloni. Ma all’interno del governo sta crescendo il timore che fare un passo in questa direzione possa avvicinare lo spettro della sfiducia, visto che a novembre il parlamento aveva impegnato l’esecutivo «a non approvare il disegno di ratifica del Mes». Per questo si aspetta un segnale dalle Camere, che per ora non sembra affatto nell’aria, anche per via del periodo pre-elettorale. La sensazione, però, è che le cose possano cambiare dopo le amministrative, in programma tra meno di quattro settimane. E di questo tutti sembrano essere consapevoli anche a Bruxelles. Pierre Gramegna, che è il nuovo direttore esecutivo del Mes, ieri ha avuto uno scambio con Giorgetti a margine della riunione. Al termine della quale è parso correre in soccorso del ministro: durante la conferenza stampa finale, mentre i suoi colleghi elogiavano il governo Meloni per i passi che sta compiendo, il lussemburghese ci ha tenuto a sottolineare che «ora è tutto nelle mani del Parlamento italiano» e che «dobbiamo rispettare il Parlamento italiano».

Per Giorgetti, e per l’intero governo, la gestione della partita legata al Mes è una passeggiata sulle uova che va percorsa con estrema cautela. A Roma, ma anche a Bruxelles. L’Italia non può permettersi di fare una frittata perché sta entrando nel vivo la trattativa sulla creazione di un nuovo fondo comune per aiutare l’industria europea ad affrontare la transizione energetica e per rispondere ai sussidi americani. Non è certo il momento di alzare le barricate, per questo c’è l’esigenza di rassicurare i partner Ue sul Mes. «Forme comuni di finanziamento dei progetti strategici europei sono la corretta risposta» alle sfide attuali, ha detto il ministro delle Finanze. Che, proprio per evitare di andare allo scontro con Berlino, ha aperto alla possibilità di rivedere le regole sugli aiuti di Stato: «Siamo consapevoli della necessità di rivedere la politica degli aiuti di Stato che deve diventare meno burocratica e più flessibile».

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Niccolò Ammaniti: “La paura dice la verità”

martedì, Gennaio 17th, 2023

ANNALISA CUZZOCREA

Abbiamo forse troppa paura della nostra vita intima. Di come possa essere giudicata dagli altri, di come possa non corrispondere all’idea che sapientemente, di noi stessi, costruiamo. Nell’ultimo romanzo, il primo dopo otto anni, Niccolò Ammaniti ci mostra con pazienza da entomologo quello che siamo diventati: l’ossessione per l’immagine pubblica, la politica capace solo di inseguire il consenso veloce e fortuito, le decisioni prese in base a intuizioni di presunti guru tecnologici, la difficoltà di fare quel che fa sentire bene davvero, l’inclinazione al sospetto e alla paranoia.

Ne La vita intima, in uscita oggi per Einaudi Stile Libero, tutto questo è raccontato attraverso Maria Cristina Palma: la donna più bella del mondo, moglie del presidente del Consiglio italiano, ex modella, una vita costellata di dolori, ma non per questo esente dagli attacchi feroci dei social network e dalle critiche spietate di chi la circonda.

Anche in Anna c’era una protagonista femminile. Ma si trattava di una ragazzina e la trama apocalittica era completamente diversa da questa, del tutto contemporanea. Come mai ha scelto di calarsi, e immergere il lettore, nella testa di Maria Cristina Palma?
«Di solito quando scrivo in terza persona tendo a creare molti personaggi. Stavolta ho scelto una terza persona diversa, con la protagonista al centro. C’è solo un momento in cui il narratore descrive quel che pensa la sua assistente, una cosa come “chi me l’ha fatto fare”, ma è un attimo, quasi un errore dal punto di vista stilistico. L’idea era di stare sempre con lei e usare il presente, per storicizzare meno la storia. All’inizio ho fatto molta fatica, poi è andata».

La fatica non si vede. Sono 301 pagine che filano via come fossero 80. Non si percepiscono tentativi di impressionare il lettore, di dimostrare una tesi, di esibire le proprie capacità narrative. Emerge la storia.
«Dopo otto anni senza scrittura ho usato una tecnica che mi permettesse di rivolgermi a chi legge. Alla maniera dei libri dell’’800 o delle favole. Ho sentito il bisogno di riprendere il rapporto con i lettori, che avevo perso. E poi ho messo più riflessioni personali: che vanno da Darwin all’etologia fino ai processi che riguardano la memoria. Nella fase del racconto però sono stato il più vicino possibile a Maria Cristina, ho usato una sorta di terza persona mimetica: un lavoro più complesso del solito non a livello di scrittura, ma a livello psicologico. E alla fine sono soddisfatto».

Ma perché un personaggio così distante da lei?
«Non sono uno che scrive un libro all’anno, scrivo quando mi va. Quindi penso che ogni libro debba essere un passo in avanti. L’ultima volta avevo scrutato l’animo di una ragazzina in un mondo post-apocalittico, questa volta ho pensato a una donna matura. Volevo vedere cosa succedeva mettendosi in quei panni e capire se sarei riuscito a renderla credibile».

Una sfida.
«Resa più difficile dal fatto che ho scelto una donna particolare, che non ha certo le credenziali per essere la più simpatica del mondo. Bellissima, ricca, all’apparenza ha tutto: una vita spenta, ma assolutamente privilegiata. Ho sempre pensato che le donne così diventino donne immagine, trofei per gli uomini che le conquistano. Come le mogli dei calciatori, come la moglie di Trump. Scelgono di essere la compagna dell’uomo potente e vengono classificate in un certo modo, senza che nessuno abbia voglia di scavare».

Il New Yorker ha pubblicato un lungo articolo sull’abuso del trauma-plot nella letteratura contemporanea. Ho pensato, magari vale anche per quest’ultimo di Ammaniti. Poi ho letto e ho capito che per quanto avvenimenti luttuosi siano presenti nella vita d Maria Cristina, per quanto sia uno choc scoprire che esiste un video porno di lei a venti a anni, l’unico vero trauma della sua vita è la bellezza.
«C’è una scena in cui la sottosegretaria-rivale dice a Maria Cristina mentre guardano l’Opera: “Io penso che una bellezza come la tua metta soggezione. C’è qualcosa di assoluto che ti sovrasta e quando uno ti sta vicino fa fatica a essere sé stesso. Tu non sei sullo stesso piano del resto dell’umanità”».

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La profezia del prestanome dei boss Graviano su Messina Denaro che ha anticipato l’arresto

martedì, Gennaio 17th, 2023

Salvatore Baiardo, l’uomo che gestì la latitanza dei fratelli Graviano, aveva rivelato a Massimo Giletti su La7 di una probabile trattativa sull’ergastolo ostativo che avrebbe potuto portare all’arresto di Matteo Messina Denaro, da lui descritto come “gravemente malato”. Arrestato il boss superlatitante Matteo Messina Denaro, considerato il capo di Cosa Nostra

LA STAMPA

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Cattura Matteo Messina Denaro, il colonnello Arcidiacono: «L’ho visto e non ho avuto dubbi»

martedì, Gennaio 17th, 2023

di Alfio Sciacca

L’ufficiale a capo di 100 uomini: «Le manette non servivano. Alla fine lui
ci ha ringraziati per come l’abbiamo trattato». «Gli abbiamo dato dell’acqua
e chiesto se avesse bisogno di mangiare qualcosa per le medicine»

Cattura Matteo Messina Denaro,  il colonnello  Arcidiacono: «L’ho visto e non ho avuto dubbi»

DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO – Come il capitano Ultimo con Totò Riina anche lui ha guidato una squadra di «cacciatori» alla ricerca del superlatitante Matteo Messina Denaro. Ma, a differenza di «Ultimo», a missione compiuta preferisce non indossare il «mefisto» o sciarponi per nascondere la propria identità . Tutt’altro. Il colonnello Lucio Arcidiacono ci mette la faccia e non ha alcun timore a svelare la sua identità.

«Sono il comandante di un reparto operativo che ha degli obblighi e ritengo di dover operare in questo modo — replica secco a chi glielo fa notare —, in passato ho più volte testimoniato in vari processi. Non ho nulla da nascondere».

E poi aggiunge: «Anche perché io sono entrato nell’Arma il 28 ottobre del 1993 e un siciliano capisce bene cosa significa». Come a dire: la stagione di sangue culminata con le stragi del ’92-’93 Arcidiacono se la porta dentro come una ferita ancora sanguinante. È questo omaccione nato a Catania 49 anni fa il capo operativo della squadra che, seguendo quello che ci tengono a definire «il metodo dalla Chiesa», ha stretto il cerchio attorno a Messina Denaro .Un passato a capo dei Ros di Catania dove scoperchiò il pentolone delle collusioni tra mafia e politica, anni fa è tornato a Palermo per coordinare la squadra messa su per dare la caccia al boss.

«Io e i mei uomini eravamo sulle sue tracce da almeno 8 anni — spiega—. Prima al reparto anticrimine di Palermo e poi come comandante del primo reparto investigativo che si dedica proprio alla ricerca dei grandi latitanti». Ai suoi ordini almeno un centinaio di militari («ma dei miei non dico nulla») che dopo lunghe indagini fatte di intercettazioni e pedinamenti, soprattutto di natura informatica, hanno intuito che quell’uomo che si spacciava per Andrea Bonafede potesse essere proprio l’ultimo dei grandi latitanti di Cosa nostra.

«Tutto è cominciato — racconta — intorno alle 6.30. Sapevamo che Bonafede sarebbe andato alla clinica, ma non avevamo la certezza di chi si celava dietro quel nome. È arrivato a bordo di una Fiat Bravo bianca e si è subito diretto all’accettazione». La cattura però avviene successivamente, fuori dal perimetro della clinica Maddalena. Il sedicente Bonafede «esce su una stradina laterale intorno alle 8.20, probabilmente diretto in un baretto per fare colazione».

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Covi, pizzini e coperture: la vita «al buio» di Matteo Messina Denaro

martedì, Gennaio 17th, 2023

di Giovanni Bianconi

Cercato anche all’estero,  era nascosto nella sua Sicilia. Con i gli affari illeciti avrebbe accumulato un tesoro di 4 miliardi di euro

Covi, pizzini e coperture: la vita «al buio» di Matteo Messina Denaro

Trent’anni di latitanza sono un segno di potere e di esercizio del potere; una sfida nella quale Matteo Messina Denaro non è soltanto sfuggito alla cattura, ma ha continuato a guidare un pezzo importante di Cosa nostra contando sul prestigio derivante anche dall’essere l’ultimo latitante della mafia stragista che aveva messo in ginocchio lo Stato. All’appello mancava solo lui, Matteo Messina Denaro, uno dei «rampolli» di Totò Riina, ricercato dal 1993 da subito dopo l’arresto del «capo dei capi», mentre era in corso l’attacco terroristico della mafia corleonese alle istituzioni e alla convivenza civile, di cui il boss di Castelvetrano è stato uno dei protagonisti. 

Per gli inquirenti e gli investigatori che l’hanno cercato così a lungo era una sfida da vincere; per il «popolo di Cosa nostra» un legame col passato e con la storia. Al punto da essere chiamato in causa forse perfino strumentalmente, da chi pensava di spendere il suo nome per conservare la propria influenza. Era il sospetto di un mafioso di medio calibro della provincia trapanese, che — intercettato da una delle migliaia di microspie che in questi anni hanno invaso la Sicilia nel tentativo di raccogliere una voce che potesse portare al superlatitante — diceva: «Io sono del parere che questo qualche giorno, a meno non lo abbia già fatto, si ritira… e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui ormai non c’è più qua…». 

Invece non si era ritirato, ed era ancora là. Ha continuato a gestire il potere e il patrimonio accumulato grazie agli affari: droga, estorsioni, riciclaggio, investimenti nell’eolico, nei supermercati, nel turismo e in altri settori. Un tesoro stimato da qualcuno in 4 miliardi di euro, sebbene avventurarsi in cifre e calcoli sia un esercizio rischioso. Una latitanza trascorsa in Sicilia e in altre parti d’Italia, forse con qualche puntata fuori dai confini.

 Di Matteo Messina Denaro rifugiato all’estero s’è parlato spesso: una volta in Spagna, un’altra in Albania. Ma tutte le indagini, alla fine, ritornavano sempre in Sicilia, nel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani che fu il suo regno e prima ancora del padre Francesco, morto latitante nel 1998, per il quale Matteo ha continuato a far pubblicare l’annuale necrologio di ricordo insieme al resto della famiglia, firmato «i tuoi cari». In quella terra e in quel legame hanno germinato le radici mafiose di un boss che è sempre stato «nel cuore» di Totò Riina

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Il covo di Messina Denaro trovato nel Trapanese, perquisizione per tutta la notte

martedì, Gennaio 17th, 2023

di Alfio Sciacca

Si trova nel centro di Campobello di Mazara, il paese del Trapanese dove risiedeva l’autista del boss Giovanni Luppino

Il covo di Messina Denaro trovato nel Trapanese, perquisizione per tutta la notte

DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO — Si trova nel centro di Campobello di Mazara, il paese del Trapanese dove risiedeva l’autista del boss Giovanni Luppino e sarebbe l’ultimo nascondiglio del capomafia.

Qui i carabinieri del Ros e la procura di Palermo hanno individuato il covo del boss Matteo Messina Denaro, arrestato, ieri, alla clinica Maddalena di Palermo.


Nel corso della notte il blitz alla presenza anche del procurare aggiunto di Palermo Paolo Guido. La perquisizione del covo è andata avanti per tutta la notte.

Il covo si trova in un anonimo palazzetto a due piani gialli in una zona semicentrale nel centro di Campobello di Mazara. Qui avrebbe a lungo soggiornato il boss ma non si sa cosa abbiano trovato all’interno i militari del Ros e in particolare se ci sia traccia del cosiddetto «archivio di Riina», in pratica tutte le carte che erano nel covo di Via Bernini a Palermo dove aveva trascorso la latitanza il capo di Cosa nostra Totò Riina e che non venne perquisito subito dopo l’arresto avvenuto esattamente 30 anni fa.


La palazzina attualmente è cinturata dalle forze dell’ordine che impediscono a chiunque di avvicinarsi. Sicuramente si sa che all’interno del covo c’erano diversi capo di abbigliamento firmati e dei profumi. A conferma della notoria dello stile di vita che ha sempre tenuto dal boss Messina Denaro, amante del lusso e dei vestiti griffati.

Articolo in aggiornamento…

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