Il Partito democratico ci è cascato di nuovo:
il voto disgiunto continua a essere visto come una sorta di ancora di
salvataggio, un ultimo appiglio per ottenere chissà quale risultato
positivo. In realtà, come già dimostrato da alcuni precedenti politici
di rilievo, rappresenta uno strumento fallimentare se viene fatto
passare come mossa della disperazione. Eppure il Pd si ostina a
evocarlo, anche in vista delle elezioni regionali che si terranno nel Lazio il 12 e il 13 febbraio.
L’appello di D’Amato
Un vero e proprio appello al voto disgiunto è arrivato direttamente da Alessio D’Amato,
candidato del centrosinistra e del Terzo Polo alla presidenza della
Regione Lazio. L’assessore alla Sanità, intervenuto ai microfoni di Coffee Break
su La7, ha parlato dei rapporti con l’avversaria Donatella Bianchi del
Movimento 5 Stelle e ha lanciato un invito all’elettorato grillino: “Lo strumento del voto disgiunto è quello che mi auguro usino gli elettori del M5S nel Lazio”.
Già
nelle scorse ore D’Amato, ricordando che si tratta di una consultazione
a turno unico, aveva sottolineato la possibilità di ricorrere al voto
disgiunto. Pertanto ha richiamato il solito “voto utile” per evitare che il centrodestra
possa trionfare. I margini per partorire un’alleanza con i 5 Stelle
ormai non ci sono più, ma il candidato del centrosinistra vuole far leva
sugli elettori del Movimento: “Si può fare anche il voto
disgiunto, per cui faccio appello al voto utile per evitare che le
destre vincano. Credo che un voto ragionato possa essere la soluzione
migliore”.
Il Partito democratico negli ultimi giorni
proverà a far passare con forza l’idea del voto utile. Nelle intenzioni
dovrebbe essere un modo per tentare di incassare quanti più voti
possibile al di fuori del proprio elettorato, ma in realtà è un
espediente che non ha portato proprio bene in passato. A dimostrarlo, ad
esempio, sono state anche le ultime elezioni politiche
di domenica 25 settembre: il Pd si è appellato al “voto utile” ai danni
del M5S con l’obiettivo di arginare il centrodestra. Il risultato? La
coalizione avversario ha vinto nettamente, il Movimento ha preso più
voti del previsto e i dem hanno registrato una disfatta.
Trecento carri armati occidentali moderni è la richiesta del capo
delle forze armate ucraine, il generale Valery Zaluzhny. La guerra dei
tank è alle porte nel cuore dell’Europa, dove si è svolta durante la
seconda guerra mondiale la più grande battaglia di carri armati della
storia. Nel 1943, all’apice del carnaio di Kursk, in territorio russo a
nord di Kharkiv, erano impegnati tremila mezzi corazzati.
Anche se
arrivassero un centinaio di carri occidentali riuscirebbero a
sconfiggere l’armata di Putin? Forse no, ma potrebbero servire a
smorzare la temuta offensiva di Mosca, dopo un anno di guerra, che
punterà a conquistare tutto il Donbass o peggio. I tank occidentali
rischiano di non arrivare in tempo e di svuotare gran parte delle
riserve europee. Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa,
evidenzia che le forniture «presentano molti aspetti critici tra i quali
spicca innanzitutto il fatto che l’Europa dispone appena dei carri
armati sufficienti ad equipaggiare pochi reparti dei propri eserciti».
Gli
inglesi guidano il «partito dei tank». Polonia, Lettonia, Lituania,
Danimarca, Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Slovacchia ed Estonia hanno
siglato il patto di Tallinn per «la consegna di una serie senza
precedenti di donazioni tra cui carri armati, artiglieria pesante,
difesa aerea, munizioni e veicoli da combattimento di fanteria alla
difesa dell’Ucraina». Il tabù dei tank occidentali moderni è stato rotto
dal Regno Unito, che ha deciso di inviare 14 Challenger 2. La Germania
nicchia sui Leopard 2. Mezzi corazzati da 60 tonnellate con cannoni da
120 millimetri e sistemi di puntamento che danno filo da torcere a gran
parte dei tank russi. La Polonia che scalpita per fornirli all’Ucraina
ha bisogno dell’autorizzazione tedesca. Il viceministro degli Esteri,
Pawel Jablonski, ha dichiarato, però, che il suo paese «è pronto a
intraprendere azioni inusuali» per potenziare Kiev.
I russi stanno
preparando forze corazzate fresche composte dai T-14 Armata e da poco
hanno schierato nel Donbass i T-90, dopo aver perso migliaia di tank
meno avanzati.
Gli olandesi sono altrettanto decisi a partecipare
alla guerra dei tank, ma contribuendo al pagamento di nuovi carri
armati. Gaiani evidenzia che «di fatto nessun esercito Nato dispone di
flotte di tank in eccesso di cui potersi privare senza azzerare o quasi
le rispettive componenti carri continuamente ridotte negli ultimi 20
anni».
Al Partito democratico va riconosciuto un
merito oggettivo: riuscire a spaccarsi e a fare polemica quotidiana
anche su questioni frivole. All’interno del palazzo era uno schieramento
granitico ma ora, lontano dal potere politico, sta mostrando continue
divisioni. A creare divergenze nelle ultime ore è il tema relativo al
cambio al cambio del nome del Pd: da una parte si trova chi ritiene
necessario apportare questa modifica per dare idea di un rinnovamento;
dall’altra è situtato chi sostiene che sia futile occuparsene.
Schlein non esclude il nuovo nome al Pd
A lasciare un spiraglio aperto in tal senso è stata Elly Schlein,
che si è mostrata disponibile a valutare un’opportunità del genere. Ma
ha voluto mettere in chiaro che sarebbe una scelta da intraprendere in
maniera collegiale ascoltando la base dem, senza dunque procedere in
maniera verticistica. “È sicuramente un tema che può essere sottoposto agli iscritti”, ha dichiarato la candidata alla segreteria del Partito democratico.
Schlein ha aggiunto che in questo momento il Congresso deve servire “innanzitutto a mettere al centro idee, contenuti e una visione chiara e coraggiosa”. A riaprire la discussione in merito è stato Peppe Provenzano:
il vicesegretario dem avrebbe auspicato un referendum per gli iscritti
sul nuovo nome del Pd e a tal proposito ha annunciato che la richiesta
verrà avanzata al prossimo gruppo dirigente.
La bordata di De Micheli
Una replica al veleno è arrivata da Paola De Micheli,
anche lei in corsa per il timone del Nazareno. A suo giudizio ci sono
ben altri fronti su cui focalizzare l’attenzione. Da qui la stoccata
stizzita a chi chiede di modificare il nome del Pd pensando sia ormai
logoro: “Con tutti i problemi che abbiamo, il tema è il cambio del
nome del partito? Soltanto chi sta facendo il praticantato nel Pd
poteva chiedere il cambio del nome”.
A frenare è anche Stefano Bonaccini,
che si dice volenteroso di illustrare il nuovo corso del Partito
democratico piuttosto che perdere tempo con una discussione lunare: “Mai
come oggi c’è da parlare di sostanza. Non credo che ci abbiano votati o
non votati per il nome, posto che peraltro a me il nome Partito
democratico piace e non lo toccherei”. Sulla stessa linea Gianni Cuperlo, altro candidato, che si terrebbe stretto il nome del partito: “Mai come ora nel mondo il conflitto è tra la democrazia e ciò che vi si oppone”.
ROMA. Giorgia Meloni ha una nuova mina innescata con Bruxelles: le
concessioni balneari. Come nel giorno della marmotta, nonostante una
sentenza inappellabile del Consiglio di Stato, una della Corte di
giustizia europea, una procedura di infrazione aperta sin dal 2009 e
canoni risibili a fronte di profitti spesso enormi, tutti i partiti
della maggioranza sono compatti nel chiedere di fermare la scadenza che
imporrebbe l’obbligo di messa a gara delle concessioni dal primo gennaio
2024. Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, pressati dalla lobby del
settore, hanno presentato tre emendamenti al decreto “Milleproroghe” in
discussione al Senato. E lo hanno fatto a poche ore da un incontro
(giovedì) del ministro degli Affari comunitari Raffaele Fitto con il
commissario europeo Thierry Breton. Fitto, che deve nel frattempo sta
trattando con la Commissione le modifiche al Piano nazionale delle
riforme (Pnrr), è stato costretto a discutere con il francese anche di
questo. In queste ore fra Roma e Bruxelles è in atto un tentativo di
mediazione per evitare una rottura. L’approvazione di un qualunque
emendamento di stop alla riforma farebbe decadere la legge delega voluta
dal governo Draghi in scadenza il 27 febbraio.
Meloni è fra l’incudine e il martello. Da una parte ha la maggioranza
compatta nel difendere le ragioni dei balneari, dall’altra l’Unione,
con la quale ci sono aperti molti dossier, dal Pnrr alla riforma del
Patto di stabilità. L’introduzione delle gare nelle concessioni balneari
non è fra gli impegni del Pnrr, ma ha un’enorme rilevanza politica: il
sì ad uno solo degli emendamenti sarebbe vissuto a Bruxelles come un
atto di provocazione. Prova ne è l’atteggiamento che aveva avuto sul
tema Mario Draghi, che a governo dimissionario spinse per fare procedere
la mappatura delle concessioni e nonostante la minaccia di dimissioni
dell’allora ministro leghista del Turismo Massimo Garavaglia. Ora nella
poltrona di Garavaglia siede Daniela Santanché, fino a poche settimane
fa titolare di una quota del Twiga di Forte dei Marmi. La ministra ha
deciso di cedere le competenze al collega Nello Musumeci, ma è indicata
dalle opposizioni come la regista delle operazioni.
«Saranno state le dieci, le dieci e un quarto, Metello affondava la
cazzuola nella calcina, quando sentì un urlo, che durò un baleno e fu
sepolto dal tonfo di un corpo andato a schiacciarsi sulla massicciata.
Quinto Pallesi era precipitato dall’impalcatura». È un passaggio
cruciale del grande romanzo sociale di Vasco Pratolini, che segna una
svolta nella vicenda del protagonista. Da allora la morte sul lavoro o
“per lavoro” ha fatto la sua comparsa carsicamente, nella letteratura
d’impegno del nostro Paese. Si pensi al furibondo, blasfemo, durissimo
“Il nemico” (2009) di Emanuele Tonon, sulla vita invivibile di Settimo,
destinato a morire soffocato, trovandosi i polmoni intasati di polvere
di legno, quella stessa “che ha inalato per trentaquattro anni” nella
fabbrica-mostro del Nordest. O a “Veleno” (2013) di Cristina Zagaria,
sulla strage quotidiana che silenziosamente si consuma all’Ilva di
Taranto, per molti versi parallelo ad “Amianto”. Una storia operaia
(2014), il romanzo famigliare in cui Alberto Prunetti ripercorre la
storia del padre, metalmeccanico saldatore che aveva lavorato in tutte
le fabbriche più contaminate, da Piombino a Taranto, da Busalla a Casale
Monferrato con la famigerata Eternit. Per non parlare dello splendido e
terribile poemetto in versi liberi di Giorgio Luzzi sul “Rogo alla
Thyssen-Krupp”, utilizzato poi come libretto dal compositore Adriano
Guarnieri per un’opera dal titolo diverso, “Lo stridere luttuoso degli
acciai” (regia di Alberto Jona).
In tutte queste opere la morte sul lavoro appare indissolubilmente
legata alla persona del lavoratore, figura in carne e ossa, e per questo
assume il carattere dello “scandalo” che le compete: segna una fine
irrimediabile, lo spezzarsi di una biografia personale, e apre – nel
lettore – un percorso di riflessione e di ricerca sul “senso”
dell’accaduto. In tutti questi casi la morte rimane una ferita aperta,
cui si associa un moto di rabbia e di rivolta. Nella statistica che
invece si dipana, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno,
nella cronaca ormai atrocemente ripetitiva che segna il presente, tutto
questo si perde. Nella sola giornata di ieri due lavoratori sono morti, a
Roma e a Brescia, quasi nello stesso modo: schiacciati dal carico che
avevano trasportato. L’incidente bresciano è avvenuto nello stesso
momento in cui, a poca distanza, si stava celebrando il funerale di
un’altra vittima del lavoro: un operaio di 28 anni morto dilaniato dal
nastro trasportatore a fianco del quale lavorava. Nei primi tre giorni
del 2023 sono state 7 le vittime sul lavoro. Nel 2022 gli incidenti
mortali erano stati 1006, in crescita rispetto al 2021 del 18% per i
maschi e addirittura del 49% per le donne. Le denunce di infortunio
avevano raggiunto la cifra impressionante di 652.002, il 30% in più
rispetto all’anno precedente. Numeri da stato di guerra, che tuttavia si
scolorano e affondano nel mare opaco della statistica, perdendo il loro
vero significato.
Piuttosto che ingaggiare un micidiale corpo a corpo con i
magistrati, foriero di molti guai, e sicuramente fuori dal comune
sentire del popolo della destra, il governo di Giorgia Meloni immagina
già una via di fuga dal vicolo cieco dov’è finito con le esternazioni
del ministro Carlo Nordio. E perciò, prima cosa, tutte le macchine
legislative sono state fermate, quantomeno per un mese, fino alle
elezioni regionali di Lombardia e Lazio. Secondo, se proprio si deve
fare qualcosa sul tema delle intercettazioni, si colpisca l’anello
debole, i giornalisti, e non quello forte, i magistrati.
Fonti autorevoli di maggioranza raccontano di un garbatissimo invito
a Nordio affinché metta da parte per qualche settimana i bollenti
spiriti. «Non serve a nessuno alimentare uno scontro con la magistratura
tutta, che il Paese non capirebbe il giorno dopo l’arresto di Messina
Denaro», dice un parlamentare influente. E un altro: «Le intercettazioni
non si toccano. La maggioranza, o quantomeno la sua gran parte, è
contro la grande criminalità come contro la piccola criminalità».
Non è solo questione di tattica sbagliata. Il ministro Guardasigilli
era partito alla carica contro i suoi ex colleghi? Il risultato –
osservano sgomenti ai piani alti del centrodestra- è che la maggioranza
si è spaccata, con FdI e Lega da una parte, Forza Italia e centristi
dall’altra; le opposizioni fuoriuscite inaspettatamente dall’afasia; gli
unici a beneficiarne sono quelli del Terzo Polo, vedi il successo della
mozione di Enrico Costa. E così, se Nordio era partito con le sue
esternazioni per aprirsi la strada e tagliare le intercettazioni, s’è
ritrovato, dopo diversi colloqui ad alto livello, a doverle confermare
per i «reati-satellite» della mafia, ovvero tutti quelli per cui già si
fanno. Un completo disastro, il suo.
E allora? Il mantra che può ricucire le divisioni del centrodestra a
questo punto è la lotta ai presunti «abusi», come ripeteva ieri anche
il vicepremier Antonio Tajani, che ledono «i diritti di cittadini
sbattuti in prima pagina per poi risultare completamente estranei alle
vicende». Solo che ora ad abusare delle intercettazioni non sarebbero
più i magistrati, quanto i giornalisti.
«Bisogna intervenire – dice infatti al mattino il sottosegretario
Andrea Delmastro, FdI, intervenendo alla trasmissione tv Agorà – da una
parte con l’Ispettorato generale per verificare che non vi siano
fuoriuscite di notizie dalle procure, dall’altra parte con una norma più
stringente. E poi lo dico onestamente, sì, anche sui giornali». Chiosa
il capogruppo FdI al Senato, Lucio Malan: «Si vogliono impedire gli
abusi come la pubblicazione di conversazioni estranee alle indagini».
L’idea che piace dentro al governo, insomma, e che salverebbe la
faccia al Guardasigilli, è un possibile divieto di pubblicazione delle
intercettazioni tal quali, anche se ricavate da atti giudiziari,
«qualora siano pregiudizievoli della onorabilità di un non indagato».
Spiegano: «C’è la nuova legge Orlando-Bonafede, ma non funziona, come
anche ieri s’è visto nel caso Calovini (uno scoop di Repubblica su
un’inchiesta a Milano teneva banco nella chat dei parlamentari di FdI.
Troppo gustoso lo sfogo intercettato del deputato Giangiacomo Calovini
contro Daniela Santanché per questioni territoriali. «Quando morirà,
perché morirà, cagherò sulla sua bara», ndr). Se pure qualche
intercettazioni non rilevante penalmente sfugge al controllo dei
magistrati, toccherà ai giornalisti valutare». Un eufemismo. Perché in
caso di pubblicazione “proibita”, scatterebbero multe salate.
Rossi, Mihajlovic, Vialli, Saltutti, Beatrice, Benedetti,
Bertuzzo, Rognoni, Zuccheri, Petrini, Viganò, Imbriani, Ferruccio
Mazzola, Borgonovo, Zucchini, Aldo Maldera, Rosato, Musiello, Pinotti.
La rosa completa di una squadra di calcio. Che c’era e non c’è più.
Morti tutti tra i 36 e i 68 anni per Sla, tumore, leucemia, malattie
rare e infarto. Come quello che nel 2003 si portò via a 56 anni Nello
Saltutti, centrocampista della viola, la squadra che piange un “undici”
tra titolari e riserve colpiti e uccisi dalla Sla. «Se avessi saputo che
per tutta quella roba avrei perso amici, e rischiato di morire anch’io,
non credo che potendo tornare indietro, rifarei tutto da capo. E mi
domando, se valga ancora la pena che un giovane sacrifichi tutta la sua
vita per un calcio del genere». Si chiude così l’ultima intervista a
Nello, pubblicata su “Palla avvelenata”, volume che corre parallelo
all’indagine Guariniello sulle malattie e le morti sospette nel calcio.
“Quando ero ancora nella Primavera già mi davano di tutto, l’infermeria
del Milan era una cosa impressionante, e non so se sarà stato un caso,
ma io da un metro e sessanta, in un anno ero passato ai miei 175
centimetri. Strano no?” riflette Saltutti. Che di cose ne racconta
tante. Come la flebo a cui passava ore attaccato Bruno Beatrice, suo
amico inseparabile nella Fiorentina, morto di leucemia linfoblastica
nell’87. «Durante il ritiro -racconta il buon Nello- Bruno era sempre
sotto flebo, dal venerdì sera alla domenica; lo avevano convinto che con
quelle avrebbe corso il doppio. Tanto per capirci, era uno che al
naturale andava molto più forte di Davids, perciò gli chiedevo: ma che
bisogno hai di farti iniettare tutte quelle schifezze? A noi dicevano:
sono solo vitamine, prendetele e starete meglio. Ma chissà che ci davano
invece…». Nel 2005 la procura di Firenze aprì un’indagine conclusasi
con una archiviazione 4 anni dopo, perché i calciatori di quella
generazione non sapevano mica cosa gli veniva somministrato. Prima di
una partita tosta contro il Manchester United tra Nello e suoi compagni
di squadra nello spogliatoio venne fatto girare un termos con “caffè
speciale”. “Bevetelo, ci dissero, vi farà bene”. E impresa fu. Saltutti
che allora giocava da punta divenne immarcabile, fece il gol dell’1 a 1 e
all’indomani i tabloid inglesi lo ribattezzarono il “levriero
italiano”.
Ora delle tante, troppe morti precoci tra gli eroi della pelota si
torna a parlare dopo gli addii di Sinisa e Gianluca Vialli, seguiti
all’allarme lanciato dagli ex campioni del Mondo e compagni azzurri di
Pablito, Baggio e zio Bergomi.
Sui casi di Sla, 34 quelli accertati, c’è uno studio condotto dal
prestigioso Istituto farmaceutico “Mario Negri” effettuato su ben 23mila
e passa calciatori di seria A, B e C, dalla stagione ’59-60 a quella
1.999-2000. Ebbene, i ricercatori hanno rilevato che una correlazione
c’è, perché l’incidenza della malattia è due volte superiore rispetto
alla popolazione che non tira calci alla palla di mestiere. Addirittura
sei volte maggiore se si considerano solo i giocatori di serie A. Tra i
quali l’insorgenza della Sla è peraltro molto precoce: 45 anni, anziché
65 com’è in media nella popolazione generale. Le cause più probabili
sono un mix tra traumi cranici e predisposizione genetica, mentre è più
difficile provare la responsabilità di certi fertilizzanti tossici
utilizzati nei campi di gioco e dell’abuso di farmaci. Questi ultimi per
via del fatto che su di loro i fari si sono iniziati ad accendere solo
quando, in tempi più recenti, sono stati messi fuori commercio o
inseriti nella lista di quelli dopanti.
Me le inchieste di questi anni, pur non arrivando a sentenza, ci
permettono di ricostruire un armadietto degli orrori farmaceutiche e
delle pratiche da apprendisti stregoni alle quali sono stati sottoposti i
giocatori.
Andamento ed esiti della guerra sono
imprevedibili, ma anche la durata del regime a Mosca e la capacità
delle democrazie di sostenere a lungo il Paese aggredito
Una
perenne incertezza sugli esiti domina le scelte e le azioni che
alimentano la trama della storia. Solo in seguito, col senno del poi, si
potrà davvero capire se le varie decisioni prese nel corso del tempo
fossero oppure no le più sagge, le più lungimiranti, se si sia
constatata oppure no una certa corrispondenza fra i propositi iniziali e
le conseguenze delle scelte compiute. Ci sono tre motivi di incertezza
nella guerra che dura ormai quasi da un anno nel cuore dell’Europa. Il
primo riguarda l’imprevedibilità dell’andamento e degli esiti della
guerra. Il secondo motivo chiama in causa la capacità di durata del
regime politico che vige nel Paese aggressore. Il terzo motivo di
incertezza, infine, riguarda la capacità delle democrazie di sostenere
uno sforzo di lungo periodo di appoggio al Paese aggredito. In tema di
andamento ed esiti del conflitto in Ucraina bisogna sempre ricordare
che, in tutte le guerre, l’unica cosa scontata è che non c’è niente di
scontato. Anche se consideriamo un allargamento del conflitto, lo
scoppio di una guerra generale, una possibilità remota (la Cina, suo
principale alleato, ha chiarito a Putin che non la considera una opzione
accettabile), resta il fatto che gli esiti del conflitto sono comunque
imprevedibili.
Posto
che il sostegno militare occidentale agli ucraini continui a lungo, è
impossibile stabilire oggi — come ha osservato Federico Rampini (
Corriere
del 19 gennaio) — chi si troverà
in vantaggio quando le armi taceranno: sarà il Paese che può mandare al
fronte un numero altissimo di uomini, la maggior parte dei quali è però
poco motivata, o sarà quello che dispone di un numero assai più basso
di combattenti ma animati dalla volontà di vincere? Troppi elementi
imponderabili entrano in gioco. Il grande teorico della guerra Carl von
Clausewitz chiamava «attrito» l’insieme dei fattori imponderabili,
imprevisti, che nelle guerre frustrano regolarmente i piani dei comandi
militari, creano un costante divario fra quei piani e quanto accade
davvero sui campi di battaglia.
Il secondo motivo di incertezza
riguarda la «tenuta», la capacità di durata, del regime russo e,
naturalmente, di colui che lo controlla, Vladimir Putin. Cadesse lui,
cadrebbe anche il ristretto gruppo che lo coadiuva. Nella sua tragicità
il problema è semplice. Putin non può mollare l’osso, non può accettare
nessun negoziato se non è in grado, prima di sedersi al tavolo
negoziale, di potersi proclamare (credibilmente) vincitore. Se gettasse
la spugna quella potrebbe essere — e comunque è ciò che egli sicuramente
pensa — la sua fine politica (e forse non solo politica). La «banda
Putin» teme di non sopravvivere alla sconfitta. Per questo tutti
sappiamo che, a meno di improvvisi rivolgimenti politici al Cremlino (o
una vittoria degli ucraini), la guerra continuerà a lungo. Su questo
punto gli amici occidentali di Putin hanno ragione: se quei «prepotenti»
degli ucraini continueranno a rifiutare di arrendersi, di consegnarsi
mani e piedi ai russi, o, quanto meno, di cedere loro, definitivamente,
ampia parte del proprio territorio, le armi non taceranno.
Forse l’invasione dell’Ucraina,
con tutti i suoi calcoli sbagliati e gli immani costi a carico della
società russa, sarà la scintilla che provocherà la caduta del regime
putiniano. Ma non conviene scommetterci. Occorre guardarsi da un errore
di giudizio tipicamente occidentale, un errore che commettono di
frequente coloro che abitano nei territori della democrazia: credere che
valga anche per le autocrazie la regola vigente nei nostri regimi
politici. In democrazia, un governo non sopravvive a una catastrofe
provocata dai suoi errori. Viene cacciato dagli elettori. Un governo
autocratico, invece, può riuscire a sopravvivere persino se la sua
azione ha imposto costi umani, sociali ed economici ingenti al proprio
popolo. La lista dei regimi dittatoriali che hanno inflitto grandi
sofferenze ai loro sudditi e che tuttavia sono durati molto a lungo,
comprende un numero alto di casi. Plausibilmente Putin verrà prima o poi
sostituito (ma quando?). A meno di una netta e inequivocabile vittoria
degli ucraini (non si sa quanto probabile), con la riconquista di tutti i
territori occupati dai russi, la guerra è dunque destinata a
continuare. Chissà se tra un altro anno saremo ancora qui a commentarne
l’andamento.
Il paragone fatto al telefono dal
direttore finanziario Bertola con il ds Cherubini, che nel «libro nero
di Fabio Paratici ha scritto «utilizzo eccessivo di plusvalenze
artificiali». Paratici al telefono: «Non capisci un c…, tanto come
facciamo da 4 facciamo da 10, non è un problema»
Sembrava la sparata di chi è capitato dentro un’inchiesta da film: «Qui rischia di essere peggio di Calciopoli»,
si lasciò scappare un investigatore dopo le prime perquisizioni nella
sede della Juve, a indagini avviate ormai da mesi. Del resto, aveva già
ascoltato l’intercettazione ambientale della Guardia di Finanza numero
446/2021, in cui il direttore finanziario Stefano Bertola parlava con il
ds Federico Cherubini: «La situazione è davvero complicata, io in 15 anni faccio un solo paragone: Calciopoli». E ora, la
sentenza della corte d’Appello federale squassa il club e chi ci ha
lavorato e vinto, per anni, e che adesso è stato squalificato
(seppure non in via definitiva): «È una follia, ma ormai era chiaro.
Abbiamo vinto troppo, siamo stati troppo bravi», si sfoga con un amico
un ex dirigente juventino. «Dovevano trovare il modo di farcela pagare».
Difficile mantenere la calma: «Bisogna avere fiducia nella giustizia,
ma con questo clima è davvero difficile».
Tutto parte dall’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dai pm Mario Bendoni e Ciro Santoriello sui conti del club, e dai faldoni di documenti finanziari, mail, intercettazioni, inviati alla Procura della Federcalcio dopo la chiusura delle indagini penali. Va da sé, chi conosceva le carte torinesi aveva ben intuito il rischio, per la società, a livello sportivo. Da un altro dialogo tra Cherubini e Bertola, salta fuori una frase attribuita all’ex ds Fabio Paratici, sulle plusvalenze: «Non capisci un cazzo, tanto come facciamo da 4 facciamo da 10, non è un problema». Più che un’imprecazione, un manifesto, per l’ipotesi d’accusa. Ancora Bertola, in altra conversazione: «Sì, sì, gestione malsana delle plusvalenze eh!». Per non parlare del «Libro nero di FP», ovvero Fabio Paratici, un foglio ritrovato nell’ufficio di Cherubini: «Utilizzo eccessivo plusvalenze artificiali». Lo stesso Cherubini racconterà ai pm, come persona informata sui fatti: «Le plusvalenze finte ritengo che siano quelle maturate nell’ambito di operazioni a scambio, fatte su ragazzi giovani per i quali la determinazione di un valore crea problematiche». E ancora: «Io più volte mi sono lamentato con Fabio che il valore che stavamo dando a quei giocatori non erano congrui».
In
trent’anni di latitanza, Matteo Messina Denaro cercava maggiori
rapporti con la politica. La loggia l’avrebbe protetto anche fuori dal
Trapanese
U Siccu aveva in testa un’idea grandiosa: che la mafia si pigliasse la politica. Come? Creando logge massoniche coperte «ove vengano affiliati solo personaggi di un certo rango e
ove la componente violenta della mafia ne divenga il braccio armato»,
scrivono cinque anni fa i parlamentari della Commissione Antimafia nella
loro relazione conclusiva. Era stato lo stesso obiettivo di un altro
padrino dalla vista lunga: Stefano Bontate, il «Principe di
Villagrazia», massone della prima ora e monarca della vecchia mafia,
ammazzato dai Corleonesi nel 1981. Come lui, anche Matteo Messina Denaro
pensava in grande, diversamente dal viddano Riina che pure l’aveva
tenuto a balia ma ne capiva solo di scannare cristiani. Anche ‘U Siccu,
figlio del capomafia di Castelvetrano «don Ciccio» e istruito dal Capo
dei capi come killer («impara bene…»), aveva ammazzato «tanta gente da
riempire un camposanto», s’intende. Ma dopo le stragi aveva sterzato la sua Cosa Nostra sugli affari,
l’aveva immersa nel «gioco grande» di cui parlava Falcone, relazioni a
New York e in Venezuela, Spagna e Inghilterra, eolico, edilizia,
supermercati, cliniche, villaggi turistici, piccioli per tutti, un giro
stimato da Libera attorno ai quattro miliardi, meno sangue e tanti
legami occulti, fino a farsi, secondo qualche pentito, una loggia
segreta tutta sua, La Sicilia.
Radici
«La
massoneria è un cemento che lega le persone e le fa stare anche
fisicamente in un’unica stanza, di compensazione, dove possono
realizzare i loro interessi non sempre leciti», spiegò Michele
Prestipino all’Antimafia quando era procuratore aggiunto di Reggio
Calabria, altra terra dove molti uomini d’onore portano e portavano il
grembiulino, a cominciare da don Paolino De Stefano, il mammasantissima
che regalava scarpe a mezza città («così chisti camminano sulle scarpe
mie»). Per trent’anni Messina Denaro è sfuggito agli «sbirri» sempre inseguendo la sua idea di potenza,
che sempre ha avuto una radice profonda nella sua Castelvetrano, tanto
che la Commissione presieduta da Rosy Bindi nel 2017 dedica a questa
cittadina del Trapanese di trentamila anime (dove l’altro giorno a
manifestare in piazza contro il boss sono scesi in trenta) il primo
capitolo del fondamentale dossier su massoneria e clan: la chiave è
«il consenso della società civile», non vessata dal pizzo ma, anzi,
aiutata dal «sostegno mafioso» e pronta a offrire in cambio «la
titolarità di quote delle imprese»: e non solo quella. Teresa
Principato, l’ex procuratrice di Palermo che a lungo ha dato la caccia
al latitante, ha raccontato due anni fa a Carlo Bonini di essere rimasta
«sconcertata», scoprendo che il padre di Matteo, il boss don Ciccio,
mandante del delitto Rostagno, era campiere della famiglia D’Alì,
banchieri e proprietari terrieri: «Matteo ha avuto uomini fidati in tante amministrazioni, dalle questure ai Servizi.
Così riusciva a sapere in tempo reale delle nostre indagini». Ora ha
spiegato che «una rete di copertura di carattere massonico lo ha
protetto in tutto il mondo». Carte e agendine sequestrate nei suoi covi
potranno dire molto. Ma parecchio può dire anche la vita quotidiana di
Castelvetrano e dintorni. Uno degli eredi dei D’Alì, Antonio, è appena
entrato in carcere per scontare una condanna a sei anni per concorso
esterno in associazione mafiosa: è stato senatore di Forza Italia e
sottosegretario agli Interni. Un medico assai influente nella sanità
siciliana come Giovanni Lo Sciuto, sotto processo per l’inchiesta
Artemisia, passato da Forza Italia al Nuovo Centrodestra di Alfano, è
arrivato a sedere nella Commissione regionale antimafia mentre,
intercettato con un «fratello» di loggia segreta, si vantava
dell’amicizia con Matteo: «Quando eravamo ragazzini ci volevamo bene,
poi lui ha fatto la sua strada … minchia, come mi tratta, mi tratta mi
tratta». Si definiva «sentinella» nell’Antimafia, ma con un’accezione un
po’ particolare: «Se arrivano cose sulla massoneria, quando sono cose
di qui le prendo e le strappiamo». È un crocevia dei misteri d’Italia,
questo. Nel 1950 fu ritrovato qui, nel cortile di un avvocato, il
cadavere del bandito Giuliano, col suo carico di enigmi e depistaggi
(«Di sicuro c’è solo che è morto», fu il mitico incipit di Tommaso
Besozzi sull’Europeo). A metà anni Ottanta scoppia a Trapani il caso della loggia segreta Iside 2, sotto l’insegna del circolo Scontrino,
dove s’incontrano uomini delle istituzioni e boss come Mariano Agate,
«per comporre interessi mafiosi, politici e imprenditoriali compresi
quelli riconducibili ai Messina Denaro». Nella sola Castelvetrano la
Commissione Bindi segnala sei delle diciannove logge attive nella
provincia di Trapani e legate a quattro «obbedienze». Il Comune, sciolto
a suo tempo per infiltrazione mafiosa, era arrivato ad avere metà dei
suoi consiglieri e dei suoi assessori affiliati a qualcuna di esse.
«Pare un ossimoro, ma la massoneria è stato un luogo di occultamento
alla luce del sole», sorride triste Claudio Fava, che da vicepresidente
ha firmato la relazione Antimafia del dicembre 2017.