Trieste. Mariti e padri scaraventati nelle
foibe, pistolettate, botte, molestie sessuali, carcere, torture ed
epurazioni nel nuovo paradiso socialista di Tito. Violenze e soprusi
perpetrati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fino gli anni
Cinquanta. E denunciati dalle vittime in 909 dichiarazioni giurate
davanti ad un notaio a Trieste, dopo la fuga dell’esodo. Una
documentazione eccezionale, in gran parte inedita, che fa parte
dell’archivio del Cln dell’Istria, il Comitato di liberazione nazionale,
composto da antifascisti e democratici, che assisteva i profughi e si
opponeva al terrore titino. “C’era la volontà legale di mantenere una
memoria certificata di soprusi, violenze, aggressioni subite dalla popolazione istriana dopo la guerra”, spiega Barbara Sabich,
l’archivista che custodisce la preziosa documentazione presso l’Irci
(Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata) di Trieste.
“Non solo memoria storica, ma la volontà che diventi una prova
legittima” spiega Sabich sfogliando con cura i fogli delle denunce
battuti a macchina, che emergono dal passato per il giorno del ricordo
della tragedia delle foibe e del dramma dell’esodo. Prove firmate di un
processo che non si è mai tenuto ai crimini dei “liberatori” sul sangue
dei vinti e di tanti italiani che non hanno nulla a che fare con il
ventennio fascista, ma spesso vengono additati come “nemici del popolo”.
Anzi, all’inizio restano nella Jugoslavia di Tito, come Emilia Smoliani,
23 anni, di Dignano che fugge a Trieste nel luglio del 1948. “Mio
fratello Ferdinando di anni 17 al tempo dell’occupazione jugoslava
dell’Istria si trovava a Pola e lì rimase quando subentrò
l’amministrazione anglo americana” si legge nella dichiarazione giurata.
Il fratello trova lavoro come inserviente nel corpo della polizia
civile della Venezia Giulia sotto controllo alleato. Il 10 luglio 1947
torna a casa dai familiari nell’entroterra istriano. “Quella sera stessa
la polizia jugoslava lo arrestò – denuncia la sorella – La mattina del
14 luglio venendo ad avvisarci a casa che mio fratello si era impiccato
in carcere”.
“Quella
sera stessa la polizia jugoslava lo arrestò – denuncia la sorella – La
mattina del 14 luglio vennero ad avvisarci che si era impiccato in
carcere”.
Emilia vede la salma “che recava grossi ematomi sulla
fronte e aveva profonde ferite e lacerazioni sui polsi sino a lasciar
vedere le ossa”. La sorella scoppia a piangere e ricorda che “il suo
vicino di cella, Fratti Giovanni, ci confermò il giorno stesso del
seppellimento di aver sentito urlare mio fratello mentre lo
torturavano”. Per avere accusato i titini di omicidio, Emilia è
ricercata e deve nascondersi nei boschi per poi fuggire a Trieste.
Foibe, eliminazioni, arresti a guerra finita
Carmela
Del Ben, di Umago, ha perso il marito Libero Stossich prelevato dai
partigiani di Tito il 28 aprile 1945 e accusato di essere un criminale
fascista. “Era una calunnia perchè egli navigava e non si interessava di
politica – racconta nella dichiarazione giurata – Più tardi la pubblica
accusa per il distretto di Buie e di Capodistria dichiarava che
probabilmente l’infossamento era dovuto ad un errore”. Carmela ricorda
che “la salma di mio marito dopo sei mesi venne recuperata nel fondo di
una piccola foiba sita nei pressi della sua abitazione assieme a quello
di Cesare Grassi e Antonio da Zara”.
Sta per arrivare uno tsunami europeo sull’industria italiana della
consulenza finanziaria e del risparmio gestito, proprio quell’industria
che negli ultimi giorni, da Azimut a Fideuram Intesa Sanpaolo, fino a
Banca Mediolanum l’altroieri e ieri Banca Generali ha visto ottimi
numeri dei bilanci 2022? Il “D-day”, se verrà confermato, sarà il
prossimo 5 aprile quando la Commissione Europea presenterà la “Retail
Investment Strategy” nella quale sarà affrontata la questione delle
commissioni di “retrocessione” o “inducement” riconosciute nella vendita
e distribuzione dei prodotti e servizi d’investimento. Sono quella
parte di remunerazione che riceve dal cliente la banca che gli vende un
prodotto (il classico fondo comune, ad esempio) e che poi la stessa
“retrocede”, cioè “gira” alla struttura distributiva, appunto le reti
dei consulenti finanziari.
La Commissione vorrebbe di fatto abolire le retrocessioni,
uniformando le modalità di remunerazione della distribuzione dei
prodotti finanziari e dell’attività di consulenza in tutti i paesi della
stessa comunità europea. Si tratta di commissioni che nel nostro Paese
valgono circa 7 miliardi di euro e che rappresentano una buona fetta dei
ricavi degli utili delle banche-reti di consulenti finanziari. In
Italia prevale questo meccanismo di remunerazione perché nel paese sono
in minoranza i consulenti indipendenti i quali, invece, si fanno pagare
con parcella direttamente dal cliente, come quando si va dall’avvocato,
dal commercialista o dal medico.
La Commissione trae ispirazione dal modello britannico quando intorno
al 2010 la Gran Bretagna vietò le retrocessioni di commissioni per i
distributori. Il risultato fu che il mercato del risparmio si polarizzò:
da una parte la clientela benestante o superbenestante che ha ricevuto
un servizio totalmente indipendente pagato a parcella; dall’altra i
clienti piccoli, che si sono riversati sulle piattaforme di trading,
senza più consulenza personale.
A metà strada sono rimasti quelli i risparmiatori “orfani” che pur
dotati di una buona dotazione di patrimonio non avevano più un servizio
perché per gli intermediari finanziari era antieconomico offrirlo, e non
avevano neanche consulenti a cui rivolgersi, perché il loro numero si
era drasticamente ridotto. E per costoro è forte la tentazione degli
investimenti fai-da-te, da sempre rischiosissimi. L’attuale
configurazione della distribuzione dei servizi e strumenti finanziari
dell’industria italiana si pone su posizioni decisamente contrarie alle
proposte della Commissione e qualora dovesse passare la norma della
abolizione delle commissioni si creerebbero le condizioni per una
destabilizzazione di tutto il sistema.
In modo particolare dovranno essere riviste le politiche gestionali
ed elaborare nuove strategie di vendita; dovranno essere modificati
tutto il quadro dei rapporti dei consulenti con le società prodotto e
Sgr, rivisti gli assetti organizzativi che riguardano le società di
distribuzione e collocamento, nonché i modelli dei contratti applicati
alle figure professionali quali i consulenti, agenti, mandatari e
subordinati. Tutta l’industria della distribuzione ne sarebbe fortemente
penalizzata e quindi costretta a rivedere strutturalmente il proprio
business e strategie con costi rilevanti.
Dopo dieci annidi amministrazione targata Pd, nel Lazio «è ora di
cambiare aria». A pochi giorni dal voto, il vicepremier e ministro delle
Infrastrutture e deiTrasporti, Matteo Salvini, è certo che il voto di
domenica e lunedì segnerà una svolta nel futuro della regione. Ma il
verdetto che uscirà dalle urne avrà inevitabilmente dei riflessi anche a
livello nazionale.
Ministro Salvini, i candidati governatore del centrodestra
sono dati per favoriti sia nel Lazio che in Lombardia. Sarà un voto di
fiducia anche al governo?
«Sarà soprattutto un voto per confermare il buongoverno che da decenni
caratterizza la Lombardia e per cambiare aria nel Lazio, dove la
sinistra ha operato malissimo soprattutto in settori delicati come
sanità o rifiuti. Poi, certo, mi piace credere che i cittadini siano
soddisfatti del lavoro del governo nazionale».
Alle Politiche in Lombardia e nel Lazio la Lega ha ottenuto
il 13,3% e il 6,3%. I sondaggi finora sembrano confermare queste
percentuali anche per le Regionali. Sarebbe soddisfatto di confermare
questi numeri o punta più in alto?
«Non mi pongo limiti, l’importante è che vinca il centrodestra e sono certo che la Lega farà un ottimo risultato».
Il Lazio e Roma hanno problemi con radici lontane, dai rifiuti alla sanità. Perché Rocca dovrebbe riuscire a risolverli?
«Perché è sostenuto da una coalizione seria, con un programma credibile.
D’altronde in altre regioni il centrodestra ha dimostrato e dimostra di
saper governare bene».
A suo giudizio, qual è la qualità migliore di Rocca? E, nel caso, ci può dire un difetto?
«È un uomo del fare, ma ammetto che non andiamo d’accordo sul calcio!».
Lei ha annunciato un piano per la sicurezza delle stazioni, cosa farete a Termini?
«È partito un piano di assunzioni straordinaria di vigilantes e con le
Ferrovie stiamo collaborando in modo così affiatato che è già realtà Fs
security che ha l’obiettivo di migliorare e razionalizzare i servizi di
controllo nelle stazioni. Sono risultati concreti».
La prima cosa da fare quando si partecipa a una competizione è
sapere da dove si parte. Avere la misura di sé stessi. Quando poi la
gara è fra noi europei, epigoni di nazioni che fino a un secolo fa
dettavano legge nel mondo e che non hanno ancora finito di elaborare il
lutto, l’operazione verità è assai dolorosa. Ma necessaria.
E la realtà è che in ambito europeo l’Italia non è allo stesso
livello della Francia o della Germania. Quando Giorgia Meloni bolla
«inopportuno» l’invito di Macron per ricevere Zelensky con Scholz
all’Eliseo, prima del Consiglio europeo cui per la prima volta il leader
ucraino ha direttamente partecipato, dimostra di non considerare i
rapporti di forza. L’unica potenza nucleare e membro permanente del
Consiglio di Sicurezza nell’Ue, insieme alla maggiore economia
continentale, hanno da tempo formalizzato il loro primato in ambito
comunitario. Mascherando le fondamentali differenze di cultura e di
interessi che le dividono.
Ma sapendo che proprio per questo hanno bisogno l’una dell’altra.
L’Italia viene subito dopo, ma appunto dopo. Spesso si trova ad
arrancare in categorie inferiori al suo peso causa la difficoltà a
stabilire quel che vuole.
Inoltre, se si soffre un’esclusione comunque scontata, forse
lamentarsi in pubblico non è il miglior modo di reagire. Se fai l’offeso
contribuisci ad autoridurti. Infatti Macron ha colto l’occasione di
affondare il colpo. Il presidente francese ha osservato con gusto: «Come
sapete, Germania e Francia hanno un ruolo speciale nella questione
ucraina da otto anni. E poi credo che spetti a Zelensky scegliere il
formato che preferisce». Sia chiaro: in quegli otto anni (2014-22) la
“coppia” franco-tedesca non ha prodotto un successo. Ancora una volta
per non aver misurato la propria potenza. È chiaro che Putin considerava
e continua a considerare solo gli americani veri interlocutori
sull’Ucraina. Quanto agli americani, la loro opinione sulle velleità di
mediazione franco-tedesca (allargata ai polacchi) nel 2014 a Kiev è
stata lapidariamente consegnata alle cronache da Victoria Nuland,
plenipotenziaria Usa impegnata a scatenare piazza Majdan contro il
presidente pro-russo Janukovič: «Unione Europea fottiti!». A ciascuno il
suo. Ma solo se te lo puoi permettere. Certo, nella stagione di Draghi
un marziano avrebbe potuto credere che Parigi e Roma fossero alla pari.
Ma scambiare il rapporto personale fra due leader che se avevano un
problema lo affrontavano improvvisando una cena “privata” con quello fra
i rispettivi paesi porta fuori strada.
NEW YORK. L’uomo che ha trasformato il genere easy listening in una
forma d’arte. L’ha definito così il quotidiano The Guardian,
celebrandolo per l’ultima volta. Burt Bacharach è morto ieri all’età di
94 anni nella sua casa di Los Angeles per cause naturali dopo una vita
dedicata alla musica. Si lascia dietro un’eredità artistica
impareggiabile: 73 singoli nella Top 40 negli Stati Uniti e 52 nel Regno
Unito; un centinaio di artisti che hanno interpretato la sua musica;
collaborazioni con Dionne Warwick, Frank Sinatra, The Beatles, Barbara
Streisand, Tom Jones, Aretha Franklin e Elvis Costello; titoli come I
Say A Little Prayer, Walk On By, What The World Needs Now Is Love, Magic
Moment, The Look Of Love. Persino due Oscar, il primo nel 1969, per
l’intera colonna sonora del film Butch Cassidy and the Sundance Kid e un
altro nel 1981 per Arthur’s Theme cantata da Christopher Cross, colonna
sonora del film Arthur con Dudley Moore e Liza Minnelli.
La vita Nato a Kansas City, Missouri, nel 1928 e
cresciuto a New York, Bacharach inizia ad amare il jazz da ragazzino,
intrufolandosi nei jazz club della città per andare a sentire Dizzy
Gillespie. A scuola intanto studia i classici come Stravinsky e Ravel e
dopo un periodo nell’esercito degli Stati Uniti, diventa pianista
accompagnatore di Vic Damone, degli Ames Brothers e la sua prima moglie,
l’attrice Paula Stewart. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli
anni ’60 lavora anche come arrangiatore ed è il direttore d’orchestra
per Marlene Dietrich durante i suoi tour europei. La svolta pop arriva
nel 1957 grazie all’incontro con il paroliere Hal David. Insieme, i due
sfornano un successo dietro l’altro, a partire dai due singoli iniziali:
The Story of My Life cantata da Marty Robbins e Magic Moments cantata
da Perry Como. Grazie alla sdolcinatezza dei testi di David e agli
arrangiamenti ricchi di archi e melodie facili di Bacharach, i due
insieme compongono canzoni che sfidano l’usura del tempo e che arrivano
intatte ai giorni nostri, senza aver perso un briciolo del genio e del
fascino che avevano quando sono state composte e che infatti ancora oggi
sono suonate, trasformate in cover, ri-arrangiate da musicisti di ogni
genere e età. Alcuni titoli: Say a Little Prayer, originariamente
cantata da Aretha Franklin; What’s New Pussycat? con la voce di Tom
Jones; The Look of Love cantata da Dusty Springfield e Make It Easy on
Yourself dei Walker Brothers. Raindrops Keep Falling on My Head,
interpretata da BJ Thomas e che appare nel film Butch Cassidy and the
Sundance Kid, vince un Grammy e un Oscar nel 1969.
ROMA. «Non siamo gli interlocutori giusti»: è la risposta standard
del Colle quando volano scintille a livello internazionale e si chiede
lassù che aria tira. Stessa reazione anche ieri, dopo lo scatto di nervi
di Giorgia Meloni contro Emmanuel Macron, cioè no comment sul
presupposto che la politica estera spetti al governo e il presidente
della Repubblica debba svolgere compiti di alta rappresentanza,
coltivare relazioni coi capi di Stato, garantire le scelte di fondo
scolpite nei trattati sottoscritti dall’Italia senza però immischiarsi
nelle tattiche diplomatiche, figuriamoci nelle polemiche di queste ore.
Certo (ma pure questo è noto) ai rapporti con l’Eliseo Sergio Mattarella
tiene parecchio. È convinto che un legame operativo tra Italia e
Francia possa essere di grande aiuto all’Europa in generale, e a noi in
modo particolare. Oltre alle affinità elettive con i «cugini»
d’oltralpe, alle comuni radici culturali, c’è un intreccio di
convenienze economiche che suggeriscono di muoversi a braccetto per fare
fronte comune contro certi atteggiamenti dei cosiddetti “frugali”
nordeuropei. Non a caso Mattarella, subito dopo il giuramento del nuovo
governo, aveva favorito il primo colloquio a quattr’occhi fra Macron e
Meloni, sperando che i due s’intendessero; e quando erano esplose le
incomprensioni, a causa della Ocean Viking dirottata a Tolone insieme ai
migranti che aveva a bordo, il presidente aveva tentato di mitigare lo
strappo con una telefonata al suo omologo francese (colloquiare con gli
altri capi di Stato fa parte delle sue prerogative).
Stavolta non si prevedono iniziative né rammendi da parte del Quirinale: sarà la premier a giocare le sue carte con Macron e in Europa. Per quanto il clima con Mattarella sia buono, secondo alcuni ottimo, Meloni non tollererebbe di sentirsi sotto tutela. Al massimo accetterebbe buoni consigli. E, a pensarci bene, il presidente uno gliel’ha dato. Il primo febbraio scorso, salutando l’entrata in vigore del Trattato con la Francia detto «del Quirinale», Mattarella ne ha rimarcato l’importanza strategica.
Il tam-tam tra chi è costretto a fare spesso la spesa in
farmacia era cominciato da un po’, senza che nessuno tra associazioni
dei consumatori e istituzioni sanitarie varie facesse caso al nuovo
aumento di questo annus horribilis dei consumatori italiani. Quello a
carico di prodotti dei quali difficilmente si può fare a meno: i
farmaci. A gennaio, certifica F.Press, sono aumentati in media del 10,4%
rispetto a dicembre. Parliamo dei circa 1.100 medicinali di fascia C,
quelli a totale carico del cittadino ma dispensabili solo dietro
presentazione della ricetta medica. Pillole e sciroppi più importanti
quindi, tra i quali la Tachipirina iniettabile, antidolorifici vari come
il Toradol o il Muscoril, ansiolitici, medicine per la disfunzione
erettile e molti altri ancora. Un mercato che vale 3,46 miliardi che
diventano 5,8 miliardi se si considerano anche i medicinali a pagamento,
ma senza obbligo di ricetta. Anche loro in aumento, del 5,1% nel caso
di quelli “da banco”.
La stangata era in realtà attesa, perché i medicinali di fascia C,
pur essendo a prezzo libero, possono variare solo a gennaio degli anni
dispari. Dietro all’aumento medio del 10 e passa per cento, si cela una
grande variabilità che arriva oltre il 100%. Il Tadalafil, il generico
del Cialis nella confezione da 4 compresse da 10 mg è balzato da 22,9 a
57 euro, per un incremento pari al 148,9%. Ma ad aver fatto il botto
sono anche farmaci indicati per il trattamento di patologie gravi. Il
Sildenafil Zentiva, indicato per chi ha disfunzione erettile, nella
confezione da 4 compresse da 25 mg ha raddoppiato il prezzo da 12,2 a 24
euro. L’Effortil serve per il trattamento dell’ipotensione ortostatica.
Chi ne soffre sa bene come alzandosi da una poltrona o dal letto si
possa finire a terra per le vertigini causate dal repentino abbassamento
della pressione. In questo caso la scatola con sei fiale da 10 mg è
balzata da 40 a 69 euro (+72,5%).
Con gli aumenti superiori al 50% si potrebbe ancora andare avanti a
lungo. Ma per i pazienti i più dolorosi sono quelli scattati su
confezioni già di per se care. Per il Dantrium, nella confezione da 36
flaconcini indicati per l’ipermetabolismo fulminante si dovranno
sganciare ad esempio 168,8 euro in più.
Viene
naturale difendere l’onore italiano offeso dal presidente francese, ma
sottolineare lo sgarbo finisce anche per accentuare l’immagine di
collateralità rispetto ai grandi alleati europei
Parlare
di Italia isolata e umiliata per l’esclusione dal vertice di Francia e
Germania con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è fin troppo
scontato. Forse è un po’ semplicistico anche accreditare una presunta marginalità del nostro Paese in Europa
evocando le polemiche delle settimane scorse tra Roma e Parigi, o il
fatto che il governo sia guidato dalla destra. Certo, stupisce una lite
sul palcoscenico continentale con una nazione con la quale è stato
sottoscritto da pochi mesi un patto di collaborazione; e a poche ore
dall’apertura di un Consiglio europeo. Ma le responsabilità sono ben distribuite.
Le tensioni vanno sommate, senza però essere scelte in maniera strumentale. La verità è che, tranne
rare parentesi come quella del governo di Mario Draghi, il nostro Paese
ha sempre cercato di inserirsi come terzo interlocutore nell’asse franco-tedesco. Ma raramente ci è riuscito.
Lo stesso ex presidente della Bce, quando era a Palazzo Chigi, in
qualche occasione ha faticato a farsi ascoltare. E i «dispetti» dei
cugini francesi non sono mai mancati. Semmai, c’è da chiedersi se la
reazione puntuta di Giorgia Meloni, che ha additato il rischio di una
spaccatura del fronte anti-russo in Europa, sia stata la più meditata.
È probabile che aumenti la sua popolarità elettorale, perché viene naturale difendere l’onore italiano offeso dal presidente francese Emmanuel Macron. Ma sottolineare lo sgarbo finisce anche per accentuare l’immagine di collateralità rispetto
ai grandi alleati europei. Risospinge l’esecutivo in un girone dei
sorvegliati speciali dal quale, in realtà, in questi tre mesi e mezzo
non è mai entrato o rimasto. E ripropone una maggioranza sospettata di
esitazioni sulla politica estera; e un Paese spaccato sulle alleanze
internazionali più di quanto non sia, con le opposizioni che puntano il
dito accusatore.
Le parole di Zelensky, che ha
precisato di avere deciso con Macron e il cancelliere tedesco Olaf
Scholz «cose che non possiamo annunciare», accentuano l’impressione di un «primo cerchio strategico» dal quale gli altri Paesi europei sarebbero esclusi.
E questo sta creando malumori comprensibili e diffusi che vanno oltre
Palazzo Chigi e i confini italiani. Affiorano perfino in alcune
istituzioni europee che si sono sentite tagliate fuori. Per questo i
danni potrebbero risultare superiori alla realtà dei fatti: soprattutto
se l’episodio dovesse modificare una strategia della prudenza e della
rassicurazione che finora ha funzionato, sebbene con esiti controversi.
Di certo, la cautela con la quale la premier, al contrario di qualche
ministro, si è mossa in materia di bilancio, ha evitato tensioni sui
mercati finanziari e attriti con la Commissione europea. E la fermezza
atlantista di fronte all’aggressione russa all’Ucraina le ha conferito
agli occhi della Nato una credibilità a prova di sospetti.
Nella terza serata del Festival di
Sanremo, su Rai 1, ad affiancare Amadeus la pallavolista Paola Egonu.
Gli ospiti sono i Maneskin. Si esibiranno tutti i cantanti: chiudono
Olly, Anna Oxa, Articolo 31, Ariete, Sethu, Shari, Gianmaria, Modà, Will
La terza serata del Festival di Sanremo è la serata di Paola Egonu, e del suo monologo, atteso intorno alle 23.45. Ed è la serata dei Maneskin, che hanno infiammato l’Ariston con il chitarrista Tom Morello. Mengoni verso il trionfo.
I 28 cantanti in gara si esibiranno in questo ordine:
Paola e Chiara, Mara Sattei, Rosa Chemical, Gianluca Grignani, Levante,
Tananai, Lazza, Lda, Madame, Ultimo, Elodie, Mr. Rain, Giorgia, Colla
zio, Marco Mengoni, Colapesce Dimartino, Coma_Cose, Leo Gassmann, I
Cugini di Campagna, Olly, Anna Oxa, Articolo 31, Ariete, Sethu, Shari,
Gianmaria, Modà, Will. Ospiti i Måneskin con Tom Morello, Sangiovanni e
il comico Alessandro Siani.
Ore 02:02 – Sorpresa al terzo posto
Nessuna sorpresa
dunque nella classifica finale, almeno per quanto riguarda la vetta.
Mengoni è sempre più primo: quel che colpisce è il podio semmai. Ultimo
risale tantissime posizioni e si piazza secondo. Ma soprattutto è
Mr.Rain il vero coup de theatre: coi suoi bambini arriva terzo. Chissà
se resisterà anche domani sera
Ore 01:36 – Si chiude con Will e Siani
Su Will non ci
ripeteremo: rileggersi quando detto per Sethu, Gianmaria, Olly. Si corre
verso le classifiche finali. Sarà ancora Mengoni il Papa (provvisorio)
del Festival? C’è spazio per un intermezzo con Siani
Ore 01:28 – I Pooh (ancora intonati)
Ed ecco i Modà che si
riaffacciano dopo essere caduti nel gorgo della depressione, come ci ha
raccontato lo stesso Kekko. Al netto dell’empatia umana, peccato però
che la proposta sia stravecchia, come già detto, dei Pooh ancora
intonati.
Ore 01:23 – Corsa verso il finale
Altro giovane in
batteria, gIANMARIA: si corre veloce senza interruzioni verso la terza
classifica. Anche se la sensazione è, come già detto, che Amadeus si sia
reso conto di aver messo troppi esordienti in pentola e quindi li ha
un po’ confinati sul finale: anche perché pure lui sembra decisamente
acerbo.
Ore 01:19 – Shari, meglio al secondo round
Madame Salmo ovvero
Shari si muove bene sul palco, è precisa nel canto e il brano che le ha
tagliato sul misura il fidanzato funziona ancora meglio al secondo
ascolto
Ore 01:11 – Guazzabuglio Sethu
Per Sethu invece vale
il discorso di Olly: altro guazzabuglio, un po’ indistinguibile. Con
l’aggravante di quel caschetto che viaggia tra Giovanna D’Arco e il
Gianduia Vettorello di Teo Teocoli
Ore 01:07 – Impeccabile stavolta Ariete
L’abbiamo detto più
volte, questo teatro può giocare brutti scherzi. L’altro ieri Ariete ha
steccato più volte, come la ben più navigata Giorgia, per dire. E come
l’altra, stasera è stata impeccabile, facendo meglio apprezzare anche il
brano con le sue inquietanti vasche di squali
Ore 01:03 – Gli amici ritrovati
Gli Articolo 31
celebrano di nuovo la loro pace, di rosso vestiti come dei rapper
americani: niente lacrime oggi, però un omaggio al tempo che fu e
all’amicizia ritrovata. Al di là della resa, una pagina da libro Cuore
qui all’Ariston
Ore 00:45 – Anna arrabbiata
Arriva Anna Oxa: non è
stato molto rilassato il suo ritorno in Riviera, con rabbiosi attacchi
alla stampa ingrata (e smentite su presunte liti a colpi di bicchieri
d’acqua nel backstage con altri concorrenti). E sembra arrabbiata anche
la canzone che si perde tra montagne russe vocali. Comunque il pubblico
dell’Ariston la ama e le tributa una standing ovation
Ore 00:41 – Troppo autotune ( e troppi giovani)…
Ecco Olly: autotune a
profusione, molta confusione, dei giovani quello che ha convinto meno.
Ed è forse una delle poche critiche che si possono muovere all’Amadeus
quater: era davvero necessario ingaggiare ben 28 concorrenti?
Ore 00:24 – Né trash né autoriali
Ecco la quota vintage
(in gara) del Sanremo 2023: sinceramente più trascurabile rispetto a
quella extra (il trio Morandi ecc). Perché tentano la via del nuovo, con
l’aiuto del Rappresentante di Lista, perdono la strada del trash. E non
sembrano arrivare da nessuna parte…
Ore 00:08 – Gassmann ora significa cantante
Al secondo ascolto
cresce Gassmann Jr: il testo scritto con Zanotti dei Pinguini è
ficcante, l’interpretazione anche. La saga di questa grande famiglia
italiana ora svolta definitivamente verso il canto? Stasera Leo non è
sembrato figlio di (tantomeno nipote di)
Ore 00:01 – Al Bano e Romina a tutti gli effetti
L’hanno detto oggi:
dopo aver cantato il loro disamore, oggi celebrano l’amore per sempre,
con l’annuncio delle loro nozze. Ora sono Al Bano e Romina a tutti gli
effetti, i Coma Cose, per inciso bravissimi per testo e armonizzazioni
Ore 23:45 – È il momento di Paola
È il momento
dell’attesissimo monologo di Paola Egonu. Parole semplici, metafore
immediate, qualche incespicatura dovuta all’emozione: ma il messaggio
che siamo tutti dello stesso colore, passa diretto. E l’orgoglio di
indossare la maglia azzurra chiama la standing ovation. Nulla di
elaborato, ma a volte è più importante il contenuto del contenitore.
Ore 23:38 – Pop di altissima fattura
Si ritorna sulla nave,
ma questa volta Gue, a differenza di Fedez, non fa scherzi. E si rientra
all’Ariston con i più autoriali, visti fin qui: Colapesce e Dimartino.
Al secondo ascolto, ancora meglio del primo: voci che si fondono, testo
finemente cucito, in questo incubo urbanomarittimo. Pop di altissima
fattura.
Ore 23:28 – Fuga per la vittoria
Ci sono dubbi?
Difficilmente qualcuno si potrà interporre tra Mengoni e la vittoria
finale: canzone scritta per trionfare, interpretazione impeccabile e da
casa non possono che sostenere lui. La tiara si avvicina.
Ore 23:17 – Scanzonati Colla Zio
Gianni Morandi scherza
con Paola Enogu, prendendo uno sgabello per mettersi alla sua altezza. E
la pallavolista se la cava egregiamente tra una presentazione e
l’altra: tocca ai Colla Zio, della banda dei giovani, forse i più
promettenti. Belle armonizzazioni, scanzonature al punto giusto, bravi.
Ore 23:09 – Il riscatto di Giorgia
Che impressione al
debutto: un’altra campionessa come lei, stonata, tanto che aveva fatto
poco apprezzare anche il brano. Stasera è riscatto, Giorgia non sbaglia
una nota e anche la canzone è bella come recita il testo. Una standing
ovation alla fine che cancella il brutto film di ieri.
Ore 23:02 – Non siamo all’Antoniano
Mr. Rain non si
discosta dalla scelta (infelice) del debutto, Povia ossigenato con coro
di voci bianche che non aiuta il brano, come se fossimo all’Antoniano e
non all’Ariston.
Ore 22:59 – Splendida Elodie, ma il brano…
Tocca alla splendida
Elodie, fasciata di nero. Voce sempre splendida, calda, black,
arrangiamenti ben fatti, eppure tutto questo sembra sopravanzare la
canzone in sé che non vola altrettanto alta.
Ore 22:44 – Ultimo, finto giovane
Ecco un altro che
partiva dalle prime file della griglia: Ultimo. A livello musicale non
si discute, però per approccio e testo sembra molto, ma molto più
vecchio dei suoi 27 anni (per dire l’approccio del trio Al Bano-
Ranieri- Morandi è sembrato più giovanile). A quale pubblico si rivolge
quindi? Non è facile da comprendere
Ore 22:38 – Annalisa diventata fatale
Si vede un’altra
vecchia conoscenza dell’Ariston, Annalisa, questa volta ospitata
all’esterno del teatro: diventata femme fatale anche lei, Emma Stone
ligure, la voce però è quella cristallina di sempre, mentre attacca con
«Bellissima»
Ore 22:25 – Morandi cambia partner
Morandi cambia partner,
dopo il felice rencontre con i coetanei ottuagenari di ieri, Massimo
Ranieri e Al Bano, scende di qualche generazione e ingaggia il
celebratissimo idolo dei teenager, Sangiovanni per intonare «Fatti
mandare dalla mamma» che compie 6o anni proprio ora. Bizzarro ma alla
fine riuscito duetto.
Meloni ha riaperto uno scontro
diplomatico con la Francia, accusando Macron di indebolire l’Europa. Il
faccia a faccia con i primini ministri di Polonia e Repubblica Ceca
Giorgia Meloni non è affatto pentita. Ha da poco riaperto uno scontro diplomatico con la Francia, accusato Macron di indebolire l’Europa, rischia di apparire o di essere indebolita
dalle sue stesse parole, ma ritiene di averle pronunciate a ragione.
«Finora tutto il segreto e l’efficacia della reazione europea alla
guerra è stata l’unità, stiamo facendo tutti dei sacrifici e invece in
questo modo si indebolisce tutto questo lavoro», è il ragionamento che
si raccoglie nella delegazione italiana che partecipa al Consiglio
europeo.
Le parole della presidente del Consiglio, l’accusa a Macron di aver preso una decisione che va contro gli interessi dell’Unione
per motivi di immagine e di politica interna, tengono banco nelle prime
ore di un vertice che è stravolto nella sua agenda dalla presenza del
leader ucraino. I lavori iniziano con otto ore di ritardo. Giorgia
Meloni prima ancora di Zelensky vede i leader del suo stesso partito, ha
un incontro con primi ministri di Polonia e Repubblica Ceca, Mateusz
Morawiecki e Petr Fiala. Si cercano sponde, per gli obiettivi del
vertice, in primo luogo su migranti e aiuti di Stato alle aziende
europee, fra gli alleati della destra continentale: entrambi i i primi
ministri appartengono al partito che presiede la nostra premier.
Potrebbe rivederli in un vertice a tre, nei prossimi giorni, a Varsavia.
Forse poco prima di recarsi a Kiev.
C’è anche una rivendicazione nell’entourage del capo del governo,
ed è quella di aver rappresentato pubblicamente un malumore che è
condiviso da molti altri Stati europei. Organizzare una cena all’Eliseo
alla vigilia del summit di Bruxelles, costringendo «persino Scholz a
correre a Parigi», verrebbe giudicato «inopportuno» anche dai vertici
delle istituzioni comunitarie, da Ursula von der Leyen al presidente del
Consiglio europeo, Charles Michel. Eppure l’unica che si è esposta è
stata lei e insieme alla rivendicazione si raccolgono anche velate
perplessità sulla bontà della decisione: Berlino e Parigi restano
comunque, volenti o nolenti, il motore storico dell’Unione. E anche fra
chi lavora per il governo italiano è possibile ascoltare dubbi
sull’opportunità della scelta di Meloni.
Una scelta che inevitabilmente lascia sullo sfondo le materie e
i dettagli del vertice, la partita italiana sugli aiuti di Stato alle
aziende europee e i passi avanti possibili sul dossier migranti. Tutto
retrocede di un passo rispetto alla presenza di Zelensky e all’incontro
che Meloni stessa ha annunciato la sera prima con il presidente ucraino.
In un primo tempo appare slittato, così come i bilaterali di tutti gli
altri leader europei. La presidente del Consiglio incontra il capo della
resistenza contro la Russia insieme ai leader di Spagna, Svezia,
Romania, Olanda, Polonia e Svezia. All’incontro arriva in leggero
ritardo, insieme al premier olandese Mark Rutte.
Subito dopo però è lo staff di Palazzo Chigi
a comunicare che si è svolto anche un faccia a faccia con Zelensky,
richiesto dallo stesso presidente ucraino. Quindici minuti di colloquio,
secondo fonti italiane. I due leader vengono ripresi dalla telecamere
mentre parlano in piedi, appoggiati al grande tavolo del vertice a 27.
Si discute della prossima visita a Kiev di Meloni, forse anche della
necessaria autorizzazione italiana (oltre a quella di altri Stati) per
far arrivare in Ucraina i caccia promessi da Londra. Sistemi di difesa e
armi che hanno componenti di tecnologia che necessitano del via libera
di un gruppo di Paesi diversi.