Anche se non è detto che sia finita, perché i pm potrebbero fare
appello, l’assoluzione – la terza – dell’ex-presidente del Consiglio
dalle accuse relative all’epoca delle “cene eleganti” di Arcore, così
definite dai legali, consente a Berlusconi di tirare un sospiro di
sollievo. E sottolinea l’assurdità di un processo che ha già avuto le
sue conseguenze ed erogato una condanna, questa sì definitiva, per un
leader politico ormai da un decennio sul viale del tramonto. Un
itinerario imboccato proprio a causa delle indagini a proposito della
prima sera in cui una ragazza di nome Karima finì in Questura a Milano, e
Berlusconi goffamente intervenne in suo favore, prima ottenendo di
farla consegnare a una sua collaboratrice, poi arrivando a far votare il
Parlamento a favore di una balla colossale, cioè la tesi che fosse
stata liberata per evitare un “incidente diplomatico” con l’Egitto di
Mubarak, di cui appunto “Ruby”, questo il suo soprannome, si sarebbe
dichiarata, mentendo, nipote.
Si può dire che l’intera Seconda Repubblica, non solo Berlusconi, sia
crollata dietro a una tale bugia. E adesso che Meloni ha deciso di
ritirarsi dall’accusa di parte civile in cui si erano cimentati Renzi e
poi Gentiloni, che tutto il sistema politico italiano si sia
autodistrutto correndo dietro agli sguardi dal buco della serratura di
Arcore. Dopo la caduta di Berlusconi infatti, e dopo il ventennio in
cui, con tutti i limiti possibili, i governi venivano scelti dagli
elettori, e questo semplice meccanismo democratico aveva incarnato la
ricostruzione politica seguita al terremoto di Tangentopoli, dal 2011 al
2022 venne l’epoca della nuova emergenza e dei governi tecnici nati
dall’impossibilità di trovare maggioranze nella realtà politica
nuovamente azzerata dalla magistratura.
Venerdì nero per i trasporti in tutta Italia. A rivendicarlo è
il sindacato Usb Lavoro Privato, che ha annunciato un’ampia
mobilitazione che inizierà venerdì 17 febbraio per tutto il settore
pubblico ma vedrà anche un presidio davanti al ministero dei Trasporti
«per rivendicare la centralità dei trasporti pubblici e del ruolo degli
autoferrotranvieri», come si legge nel comunicato di Usb, il prossimo 3
marzo.
Tra le richieste del sindacato ci sono la «cancellazione degli
aumenti delle tariffe dei servizi ed energia, con conseguente
congelamento dei prezzi dei beni primari e dei combustibili; il
superamento dei penalizzanti salari d’ingresso garantendo l’applicazione
contrattuale di primo e secondo livello ai neoassunti; maggiore
sicurezza dei lavoratori e del servizio con l’introduzione del reato di
omicidio sul lavoro e, infine, il salario minimo per legge di 10 euro
l’ora contro la pratica dei contratti atipici e precariato».
Lo sciopero a Roma e Milano Lo sciopero del trasporto pubblico locale a Roma
coinvolgerà Atac, Cotral, Astral e Roma Tpl. Oltre a Usb Lavoro
Privato, a scioperare sarà Fast Confsal, che ha però limitato la
mobilitazione a 4 ore. I mezzi saranno fermi dalle 8.30 alle 17 e dalle
20 a fine servizio. Coinvolte nello sciopero anche le ferrovie ex
concesse, come la Roma-Lido (nuova Metromare) e la Roma-Viterbo, come
confermato da Astral, con le stesse modalità: dalle 8.30 alle 17 e dalle
20 sino a fine servizio. A Milano l’ATM, l’azienda dei
trasporti pubblici milanesi, con un breve tweet, ha annunciato che
“venerdì 17/02 le organizzazioni sindacali USB Lavoro Privato e AL COBAS
hanno proclamato uno sciopero a livello nazionale che potrebbe avere
conseguenze sulle nostre linee dalle 8:45 alle 15 e dalle 18 fino al
termine del servizio. Sulla app daremo aggiornamenti in tempo reale”.
Anche Trenord sarà coinvolta nell’agitazione.
Lo stop a Torino Disagi previsti anche a Torino,
dove sono in programma due scioperi del trasporto pubblico locale. Il
personale tecnico della metropolitana protesterà per 4 ore, dalle 12
alle 16, mentre la mobilitazione proclamata dal sindacato Usb durerà 24
ore. Le fasce di garanzia comunicate da Gtt per il servizio urbano e
suburbano, metropolitana, assistenti alla clientela e personale addetto
ai centri servizio al cliente sono dalle ore 6 alle ore 9 e dalle ore 12
alle 15. Anche ad Alessandria, il personale dell’Amag sciopererà per 4
ore: dalle 8.30 alle 12.30.
Il pediatra aveva detto che si trattava di tosse nervosa.
«Probabilmente il bambino soffre per la nascita della sorellina, non si
preoccupi, passerà». Ma un giorno Francesca è andata a svegliare Nicolò,
che fino a poche ore prima era a giocare in piscina, e la domenica
precedente sullo slittino, e che nessuno riusciva a fermare mai. Lui,
che all’asilo si precipitava sempre di corsa, le ha detto: «Mamma, non
mi sento sicuro». E a quel punto lei ha preso la macchina e ha guidato
da Bologna fino a Riccione perché lì c’era un pediatra che conosceva,
uno che i bambini li visita ancora. E quel medico le ha detto: «Corra in
ospedale. Non sento i polmoni».
Francesca è Francesca Testoni, direttrice di Ageop ricerca. Ageop è
l’associazione fondata da alcuni genitori di bambini malati di cancro
nel 1982 che da anni sostiene, grazie a bandi pubblici e donazioni
private, gli studi scientifici sui tumori e l’assistenza ai bambini e
alle famiglie a Bologna, in collaborazione con il Policlinico
Sant’Orsola. Anche quando quei bambini arrivano da lontano, dalla
Serbia, dal Montenegro, dalla Libia, dai Paesi dove curarsi è molto più
difficile che da noi.
Se stavolta Francesca parla del figlio, però, di quel che è accaduto a
lei nel 1999 quando scoprì che la tosse non era nervosa ma causata da
un sarcoma che si era preso i polmoni del suo bambino, è perché da
quando lavora con Ageop quella storia l’ha vista ripetersi troppo
spesso. «Sono passati ventitré anni e si continua a restare senza
speranza per la mancanza di diagnosi precoci. In oltre un ventennio non
sono cambiati i protocolli, non sono stati studiati marker rivelatori,
la concezione dell’Ospedale senza dolore non è ancora una pratica
abbastanza diffusa». Perché il sarcoma non è solo il tipo di tumore
infantile che più spesso ha prognosi infausta, ma è anche quello più
doloroso. Lo ha raccontato nei mesi scorsi la mamma di Lorenzo Bastelli,
quando aveva chiesto «scrivete a mio figlio per fargli vedere ancora il
mondo, scrivete per distrarlo dal dolore». La valanga di lettere,
video, disegni arrivata ha accompagnato Lorenzo negli ultimi mesi della
sua vita. Ma non può esistere solo la solidarietà, per questi bambini e
per queste famiglie. Serve l’impegno delle istituzioni, servono i fondi
per la ricerca.
Ageop, l’associazione dei genitori che lotta per i bambini
In Italia ogni anno si ammalano di tumore o leucemia oltre 1400
bambini e oltre 800 adolescenti. Ma mentre per le leucemie e i linfomi
le guarigioni sono aumentate, rimangono drammaticamente basse per i
tumori cerebrali, i neuroblastomi e i sarcomi. Questi ultimi – i meno
studiati, i più insidiosi – sono il 22 per cento delle neoplasie
diagnosticate a bambini e ragazzi. L’osteosarcoma ha un picco
d’incidenza fra i 10 e i 25 anni, il Sarcoma di Ewing in due fasce
d’età, fra i 3 e i 6 anni e tra i 15 e 25 anni. Mentre il
Rabdomiosarcoma si sviluppa principalmente dai 2 ai 6 anni e dai 15 ai
19 anni.
«Non si fa mai una classifica delle malattie – dice Francesca Testoni
– ma altri tipi di tumore, le leucemie, i linfomi, hanno rovesciato le
percentuali di guariti rispetto a 20 anni fa. Nei sarcomi, che sono
tumori maligni solidi, recidivanti, e in cui la diagnosi precoce è
essenziale, è tutto drammaticamente fermo». Così, senza marker
specifici, senza protocolli nuovi, «li si scopre quando il bambino
arriva in pronto soccorso con una massa di dimensioni tali da aver già
provocato dei danni. Perché i sarcomi premono sulle parti molli,
comprimibili, accorgersene in tempo è la cosa più difficile».
Quando Francesca nel 1999 è arrivata con suo figlio in ospedale, i
raggi hanno mostrato – al posto dei polmoni – una gigantesca massa
bianca. Il versamento aveva invaso la gabbia toracica. A quel punto la
diagnosi arrivò in pochi giorni, ma una volta tentato l’intervento si
capì che il sarcoma era inoperabile, perché molto diffuso. Quella tosse
andava avanti da mesi. «Quest’anno, dopo 23 anni, ho rivissuto la stessa
storia con una bambina arrivata da noi dopo che per mesi i pediatri e
l’otorino avevano detto ai genitori che il suo raffreddore continuo era
causato dalle adenoidi. Che si trattava di infiammazioni passeggere.
Finché non è stata portata al pronto soccorso con difficoltà
respiratorie e da lì è passata direttamente in rianimazione.
L’ingiustizia di questo tumore è che è raro tra i rari, ma il diritto
alla salute dovrebbe essere assoluto, universale. Non proporzionato al
numero. I bambini e i ragazzi malati di sarcoma hanno diritto ad avere
una diagnosi precoce e cure che non siano ferme, che non siano tossiche,
ma a misura di bambino».
Quindi riassumendo. La sinistra ha Sanremo e la destra ha il Paese. È
così? Ho capito male o è così? Non è questo che dice il sottosegretario
alla Cultura Gianmarco Mazzi, Fratello d’Italia? Uno che di mercato
dello spettacolo se ne intende, è un professionista del ramo: «Occorre
una nuova narrazione dopo la nostra vittoria elettorale». Sorvolo sul
fatto che “narrazione” sia una parola da reato: bisognerebbe dare dieci
euro da devolvere alla formazione scolastica primaria ogni volta che si
pronuncia, avremmo risolto il deficit dell’Istruzione. Sì, certo, è un
tic lessicale detrito della sinistra: vuoto propagandistico e stantio
come tutte le formule enfatiche che non portano, vedete, a nessun
risultato. Strano che la destra di governo non trovi parole sue, più
assertive e pugnaci, ma andiamo avanti. Se fossi la Sinistra – qualunque
cosa essa ormai sia – e mi chiedessero preferisci essere egemone a
Sanremo o nel Paese non avrei dubbi: voi sì? Ma se fosse vero che “la
narrazione di Sanremo” è di sinistra, e piace a due terzi del Paese,
come mai gli stessi due terzi poi non votano o votano a destra, se alle
urne ci vanno – fra un momento arriviamo a chi diserta e perché.
Qualcosa non torna. O la pappetta omogeneizzata di Sanremo è il riflesso
del Paese (che sarebbe, secondo Mazzi, di sinistra) o il medesimo
Paese, come risulta dalle urne, è di destra e allora dev’essere di
destra anche una buona parte di chi si sintonizza entusiasta sullo
spettacolo mainstream di RaiUno: quello dove le vallette ora si chiamano
co-conduttrici e guarda come sono brave a scendere le scale, guarda che
intelligentissime che sono, sanno persino scrivere il compito assegnato
e dolente da sole. La guerra di invasione dell’Ucraina la mettiamo alle
due di notte, se no Berlusconi e Salvini si dispiacciono e un po’ a
dire il vero si dispiace anche la sinistra senza casa, quella cosiddetta
radicale che il Pd lo trova troppo di destra, preferisce sintonizzarsi
con la Lega. E’ tutto sbagliato, è tutto incomprensibile e da rifare.
Che motivo ci sarebbe di cambiare i vertici della Rai, di imporre
dirigenti nuovi – ad averne, disponibili fascistissimi e credibili per
curriculum – se già questi producono il risultato emerso dalle urne? Se
fossi la Destra – e abbiamo sotto gli occhi cos’è – mi terrei stretta
tutti gli Amadeus del mondo. Funziona, questa storia di Benigni che
parla di Costituzione sacra e Fedez che bacia in bocca il cantante
profano, straccia la foto del sottosegretario vestito da Hitler (che
burlone, il sottosegretario, burlone anche Fedez) se poi il giorno dopo
gli elettori di sinistra restano a casa, a votare non vanno e se vanno
non bastano: Giorgia Meloni vince, stravince e hai voglia a dire che non
è una fuoriclasse, che esagerazione. Fatelo voi, se vi riesce, di
portare un partito da 3 al 30 in una briciola di anni: fatelo, come mai
non lo fate?
Quindi non capisco cosa c’è che non va, visto da destra è un successo. Il problema, caso mai, è di là. Com’è che la presunta cultura egemone, quella di sinistra, non esprime una cultura politica? Com’è che i fan di Benigni, di Madame, di Tananai che mette gli ucraini nella sua canzone e spopola nelle radio poi non trovano la forza di alzarsi mettesi il cappotto sopra il pigiama e andare al seggio, il giorno dopo? La risacca, probabilmente. Il senso di inutilità del gesto. Troppe volte l’elettorato di sinistra si è fidato e si è affidato a chi, alla fine, ha fatto il suo personale interesse. Ha macinato soldi, legittimamente per carità, consulenze e conferenze profittando del suo reddito reputazionale: del credito che in qualche momento gli elettori gli avevano dato, credendo che lo statista, l’uomo nuovo avrebbe lavorato per loro, per tutti e non per sé. Candidati sbagliati, si sente dire. Bè certo: in prima battuta quello. Candidati opachi, senza carisma, frutto di mediazioni fra nemici interni. I più amati, a sinistra, i più votati dagli elettori sono stati regolarmente messi alla porta. Sarebbe lunghissimo l’elenco dei consiglieri assessori e deputati non ricandidati – non ammessi alle primarie – sebbene assai popolari fra gli elettori, tuttavia non “in quota” di qualcuno. Le quote, le rivalità interne e semiesterne, gli interni di prima ora titolari di un partito proprio. Quelli che hanno preso il bus del consenso e poi sono scesi per capitalizzarlo, per fare lo sgambetto a chi gli stava sullo stomaco perché quella volta mi dicesti, quella volta facesti. Fate voi la lista, la sapete. Se poi i nuovi diventano il sangue fresco di cui i vecchi vampiri si nutrono appropriandosene: tutto resta come prima, niente cambia. Questa la percezione. Questa la grande depressione. Gli elettori di sinistra non sono scomparsi: sono esausti. Risparmiano le forze, come i malati, per continuare a vivere. Finché non ci sarà il segnale che la vecchia fallimentare guardia si è ritirata (ma la meraviglia di ritirarsi?
Professor Cacciari, l’Italia si è definitivamente melonizzata? «Assolutamente no».
Ha vinto a mani basse. «Veramente il dato
eclatante, sul quale non ci si sofferma con la necessaria radicalità, è
la dimensione, questa sì straordinaria, dell’astensionismo. Come si fa a
dire che l’Italia si è melonizzata se nelle due regioni più importanti
del Paese va a votare un avente diritto su tre? Un fenomeno di portata
talmente rilevante da porre un problema di legittimità del voto».
Ha vinto ma non vale? «Ovvio che vale. Il punto
non è la legittimità formale, ma quella politica sostanziale. Che cosa
faremo quando si recheranno alle urne solo i candidati?».
Un paradosso? «Una tendenza. Se fossi un leader
che ha vinto in queste condizioni direi: considerato lo scollamento tra
la domanda e l’offerta politica, sento questo mio successo come
infondato e mi adopererò perché in futuro non capiti più».
Scenario angosciante. Ma perché la fuga dalle urne? «In questo caso perché non c’era partita. La sinistra non esiste. E la gente non va allo stadio se sa già il risultato».
Enrico Letta ha spiegato al New York Times che Meloni stupisce tutti per scelte e capacità. «Avrà stupito lui che abitava altrove».
Feroce. «Meloni cresce da anni. Nella sua
alleanza è stata brava a superare e a mettere all’angolo non tanto le
posizioni fasciste, quanto quelle salviniane, che, per quello che mi
riguarda, sono molto più indigeribili. E ha anche dimostrato la capacità
di superare le contraddizioni con i poteri forti europei. Per altro, a
differenza del Pd, è riuscita a dare struttura e organizzazione al suo
partito».
Secondo il sottosegretario Fazzolari il segreto di Meloni sarebbe un altro. «Cioè?».
Lo ha svelato orgogliosamente al Foglio: gli Usa e la Cia stanno con la premier. «Al
massimo è la premier che sta con gli Stati Uniti e con la Cia. Ma
questo va da sé. Un paese che non è leader in Occidente con chi vuole
che stia?».
Con la Nato, gli Usa e l’Ucraina senza se e senza ma? «Esatto.
Il ragionamento di Meloni è fatto al 70% di realismo e di pragmatismo.
Poi mi auguro che, sottotraccia, anche la premier cerchi di vedere se
esistano margini per uscire dalla crisi prima del disastro».
Nucleare? «Secondo lei?».
Vede una soluzione? «Il ritiro immediato delle
truppe russe dall’Ucraina e contestualmente un referendum in Crimea e
Donbass sorvegliato dall’Onu. Fine. Tra i diritti umani non esiste anche
quello dell’autodeterminazione dei popoli?».
Il sottosegretario Fazzolari dice anche che Washington ci sostiene considerandoci l’unico interlocutore davvero affidabile. «Puttanate.
Stupidaggini propagandistiche. Certamente Meloni ha giurato fedeltà al
programma di Draghi e ha come obiettivo quello di rassicurare non solo
gli Usa e la Nato, ma anche i popolari europei».
Obiettivo che Berlusconi ha smarrito. È diventato ghandiano o putiniano di ferro? «Suppongo
abbia nostalgia dei rapporti felici che aveva con l’oligarca e con il
regime di merda che aveva messo in piedi nella povera Russia. Ma sono
questioni che riguardano solo lui e non mettono in crisi nulla e
nessuno. Se la fu, fu, fu, fu sinistra ne ride non ha capito quello che
sta succedendo».
Meloni corre indisturbata verso il partito unico della destra? «Certo.
Ma non solo. Meloni vuole spingere anche tutti i dittatorelli ex
fascisti ungheresi, polacchi, bulgari, sloveni o croati, verso una
grande destra europea che si allei al Ppe. Un disegno ambizioso, altro
che Le Pen. Ma quelle volpi della sinistra non se ne rendono conto e
continuano a sparare contro Berlusconi».
Sono alberghi diffusi, ma senza le imposte degli hotel. Nardella: entro marzo vertice a Palazzo Vecchio
L’immagine del piccolo proprietario che
mette a disposizione dei turisti la seconda casa — o la camera da letto
in più — è ormai un ricordo sbiadito degli albori di Airbnb. A Firenze, gli affitti brevi vengono gestiti da giganti del settore che hanno fatto incetta di appartamenti, con concentrazioni altissime.
In totale, solo un host su tre mette sul mercato un solo appartamento.
La capolista, la Homes in Florence
(che sul portale Airbnb compare col ben più familiare nome di «Edoardo e
Michela») ha sia appartamenti di proprietà sia in gestione, ma «la
maggior parte sono in gestione», come spiegano nella sede societaria, un
piccolo ufficio con soppalco, nascosto nella stretta via dei Velluti,
in Oltrarno.
Si tratta di giganti che, secondo la legislazione nazionale, non sono equiparabili ai piccoli affittacamere
e che sono considerati imprese, con tanto di obbligo di cedolare secca,
ma comunque con un regime sia fiscale, sia di norme burocratiche molto
limitato rispetto a quello che invece ricade sugli hotel.
Di fatto, alberghi diffusi che però
per la legge non lo sono. Questa concentrazione è stata aiutata dalla
pandemia, con i grandi host che hanno potuto fare incetta di
appartamenti quando i piccoli non riuscivano a mantenerli, a causa
dell’assenza di turisti tra lockdown e zone rosse.
Parallelamente, col ritorno del turismo di massa, da Pasqua 2022 in poi, sono tantissimi gli appartamenti che sono stati convertiti — o riattivati — come Airbnb. E negli ultimi quattro mesi, c’è stato il boom:
dai poco più di 7.500 di fine settembre agli attuali quasi 11 mila.
Oltre quattromila in più, nel segno di una trasformazione che dopo lo
stop della pandemia ha ripreso a correre in modo impetuoso.
Il candidato alla segreteria del Pd: «Sui balneari poco responsabili, le gare vanno fatte»
CorriereTv
«Giorgia Meloni non è una fascista è una persona molto capace, ha idee molto diverse dalle mie, dovrà dimostrare di essere all’altezza di guidare il governo italiano. Sono troppi pochi mesi che è partita: noi come Pd ci siamo stati quasi ininterrottamente per 11 anni. Ci vuole misura per criticare». Lo dice il candidato segretario del Pd Stefano Bonaccini a Coffee Break, su La7. «Sui balneari
stanno facendo una cosa poco responsabile ad una categoria che con noi è
sempre andata d’accordo. Le gare vanno fatte, non si può scartare da
lì. Bisogna però accompagnarle con investimenti che si possono
quantificare. Mi pare che Meloni abbia interesse a stare dentro il patto
atlantico da una parte e a ciò che l’Eurozona costringe dall’altro. Ma
credo che siano già incorsi in qualche incidente di troppo»
Di che cosa ha bisogno l’Ucraina
per vincere? Pazienza strategica da parte nostra, con tutto quello che
richiede anche nel rilancio delle nostre capacità militari. Precise
garanzie per la sicurezza futura dell’Ucraina: promessa di adesione alla Nato o qualcosa di simile. Un Piano Marshall per la sua ricostruzione. Un’offensiva diplomatica globale per sganciare da Putin
i «non allineati» dell’Asia Africa Sudamerica. Più armi e una logistica
adeguata per arrivare a minacciare il controllo russo anche sulla Crimea.
Riforme interne contro la corruzione. Sono alcune idee offerte da
quattro generali molto autorevoli, due americani, un canadese, un
australiano. Tutti e quattro hanno alle spalle carriere operative di
spicco, e oggi lavorano in compiti di consulenza (per cui hanno maggiore
libertà di parola). I due statunitensi sono celebri per il pubblico
italiano, gli altri due sono considerati tra i massimi esperti
strategici in campo alleato. Li ho sentiti nell’ambito di un’iniziativa
dell’Atlantic Council di Washington. Sono David Petraeus e Wesley Clark (Usa), Rick Hillier (Canada), Mick Ryan (Australia).
Qui trovate un mio riassunto delle loro analisi, che vi dà «lo stato
dell’arte» del dibattito strategico occidentale a un anno dall’invasione russa.
Wesley
Clark fu il capo delle forze Nato durante la guerra del Kosovo alla
fine degli anni Novanta, fu anche brevemente candidato alla nomination
democratica per l’elezione presidenziale. È convinto che la posta in
gioco è immensa per tutti noi, «siamo a una svolta nella storia
mondiale, a seconda se l’Ucraina vince o perde, il nostro futuro sarà molto diverso».
Clark sgombra il campo dal dibattito sul presunto errore che
l’Occidente avrebbe fatto compattando Cina e Russia tra loro. «Non è
possibile scegliere se affrontare la Russia oppure affrontare la Cina,
in alternativa. Ambedue queste superpotenze vogliono smantellare l’ordine mondiale;
sono collegate tra loro. E un nostro successo in Ucraina avrebbe un
effetto deterrente sulla Cina». L’errore che abbiamo fatto è un altro,
secondo lui: «Abbiamo rinunciato fin da principio ad una escalation
verso il dominio strategico». L’allusione è alla scelta di Joe Biden e
di tutta la Nato, di escludere l’imposizione di una no-fly zone
per interdire lo spazio aereo ucraino ai missili russi; o in generale
la rinuncia preventiva a un intervento diretto della Nato che avrebbe
potuto cambiare i calcoli di Putin. Clark è preoccupato per le
«incertezze europee». Ritiene che con la nostra cautela abbiamo
«spostato il centro di gravità di questo conflitto dentro la testa di
Putin, per cui la guerra finirà solo quando lui si convincerà finalmente
che non può prevalere». Perciò dobbiamo attaccare Putin «da tutte le
angolature possibili». Clark stila questo elenco. Sul piano economico dobbiamo ancora intensificare le sanzioni.
Su quello legale dobbiamo preparare il terreno perché Putin sia
giudicato per crimini di guerra. Su quello diplomatico dobbiamo
incalzare il mondo dei non allineati. Sul terreno militare è urgente dare all’Ucraina armi di lunga portata,
inclusi i caccia. Conclude osservando che «arrivare a minacciare il suo
controllo della Crimea è essenziale per costringere Putin al tavolo di
negoziato».
Il generale David Petraeus è stato capo delle forze multinazionali sia in Afghanistan che in Iraq, nonché capo della Cia. Vede una «estrema urgenza di approvvigionare l’Ucraina con nuove armi e munizioni, perché l’offensiva russa in corso è una minaccia seria». Non basta mandare gli aiuti militari, bisogna accompagnarli con tutta la logistica in senso lato: manutenzione, componenti, munizioni, addestramento in profondità.
L’obiettivo è resistere per poi lanciare a maggio-giugno una
controffensiva che prenda di mira in modo particolare la Crimea. I
militari ucraini vanno accompagnati in una transizione dai vecchi
arsenali sovietici (che conoscono) ai nuovi armamenti occidentali, è una
riconversione che richiede investimenti importanti nella loro
formazione. Petraeus vede la necessità di discutere subito sul Piano
Marshall per la ricostruzione, «probabilmente da gestire in seno al G7».
Va messa all’ordine del giorno anche la sicurezza futura dell’Ucraina.
«Perfino Henry Kissinger ha cambiato parere e ora è favorevole al suo ingresso nella Nato». Se l’adesione alla Nato
dovesse incontrare ostacoli (per esempio le obiezioni di qualche membro
europeo o un veto della Turchia), per Petraeus non bisogna perdere
tempo e passare all’alternativa: «Mettere insieme una coalizione dei
volenterosi, tutti quei paesi che sono disposti sotto la guida degli
Stati Uniti a fornire subito delle garanzie formali di difesa militare
dell’Ucraina», con trattati bilaterali o multilaterali ad hoc.
L’Italia sta scoprendo adesso che le
dinamiche internazionali possono essere fonte di pericoli mortali,
possono minacciare la sicurezza e l’integrità del nostro Paese
Porsi domande bizzarre può a volte aiutare a capire qualcosa del complicato mondo che ci circonda. La domanda bizzarra è questa: come
mai la guerra che si combatte in Europa non ha già scompaginato
alleanze e coalizioni in Italia? Come mai putiniani e atlantici si
dividono fra i due schieramenti (di governo e di opposizione)?
Come mai non hanno dato vita ad alleanze — certamente eterogenee quanto a
scelte di politica interna — ma omogenee sul terreno più importante?
Perché non sono ancora sorte coalizioni tenute insieme da un
fondamentale accordo sulla questione della guerra?
Un’antica e gloriosa dottrina sostiene il «primato della politica estera», ossia l’idea che le posizioni di politica interna e le
alleanze fra i partiti che operano entro i diversi Paesi siano imposte
dalla politica estera, dipendano dalle scelte che si fanno sulle
questioni internazionali più importanti. Come la guerra per
l’appunto. Ciò, a sua volta, sarebbe il frutto dei vincoli stringenti
imposti dalle dinamiche, dagli eventi e dalle alleanze internazionali.
Tenuto conto che l’esito della guerra che si svolge nel cuore
dell’Europa deciderà degli equilibri nel Vecchio Continente, e dunque
anche del destino dell’Italia, chi applicasse meccanicamente la dottrina
del «primato della politica estera» dovrebbe immaginare la formazione
di ben altri schieramenti al posto di quelli esistenti.
Da una parte, Berlusconi, Salvini, Conte più quel settore del Pd, non si sa quanto consistente, che ha «subito» la scelta atlantica di Enrico Letta e non vede l’ora di sbarazzarsene. Dall’altro lato, Meloni, Calenda, Renzi, più quella parte del Pd fermamente convinta della necessità del sostegno all’Ucraina. Con il mondo cattolico diviso, un po’ di qua e un po’ di là.
La suddetta domanda non
apparirebbe bizzarra (come oggi invece è) se vivessimo ancora in età
bipolare come al tempo della Guerra fredda. Allora c’erano i blocchi
contrapposti, le alleanze internazionali in Europa erano rigide e
stringenti. Non era possibile in Italia avere al governo forze politiche
nemiche del blocco internazionale di appartenenza. Da qui la
conventio ad excludendum
, l’impossibilità per il partito comunista (legato al blocco
nemico di quello occidentale) di essere preso in considerazione dagli
altri partiti come possibile partner di governo. Da qui anche il fatto
che una forza di sinistra (il partito socialista) potè sfuggire al
cappio della
conventio ad excludendum
solo rompendo l’alleanza con i comunisti. In età bipolare il primato della politica estera si manifestava in tutta la sua potenza.
Oggi però viviamo in un ambiente internazionale assai meno rigido, molto più fluido. I
condizionamenti esterni ci sono ancora ma sono multipli, esercitati
contemporaneamente da una pluralità di centri di potere internazionale:
i confini detti «nazionali» sono porosi, facilmente attraversabili da
forze esterne anche fra loro in competizione e in conflitto.
Il partito atlantico, pro-Zelensky e il
partito putiniano, anti-Zelensky, non dividono solo la politica. Hanno
ramificazioni ovunque. Nel mondo delle imprese come in quello
della cultura, dello spettacolo e dell’informazione. Un effetto evidente
della «porosità» dei confini, del fatto che una società aperta è
esposta a ogni genere di influenza. Si aggiunga che, rispetto al mondo
di ieri, è cresciuta assai, come effetto del successo del processo di
integrazione europea, l’interdipendenza fra i Paesi dell’Unione e, con
essa, sono aumentate le forze transnazionali che li attraversano e li
legano. A differenza di oggi un tempo l’Europa non era fonte di
divisione fra i partiti: anche i comunisti, da un certo momento in
avanti diventarono favorevoli alla (allora) Comunità europea. È un’altra
condizione che rende attualmente più difficile la formazione di
coalizioni coese sulla collocazione internazionale dell’Italia.
Il problema si presenta ovunque, o quasi ovunque in Occidente ma in Italia con particolare forza e intensità. Perché disponiamo di debolissimi anticorpi.
In un Paese in cui la forza preponderante del «patriottismo di
fazione», a destra come a sinistra, rende difficilissima la convergenza
intorno a una idea condivisa di interesse nazionale (e nei momenti in
cui si realizza, tale convergenza è sempre comunque precaria), è difficile che si possa fare, se non per brevi periodi, fronte comune contro le sfide esterne.
Come proprio le divisioni sulla guerra entro gli schieramenti — e
soprattutto in quello che più conta, lo schieramento di governo —
dimostrano ampiamente.
L’11 febbraio la commissione per l’industria, per la ricerca e per l’energia del Parlamento europeo ha dato il via libera alla revisione della direttiva Ue sulle «case green» per il miglioramento delle performance energetiche degli immobili. La proposta, che ha ottenuto 49 voti favorevoli, 18 contrati e 6 astenuti, fissa come obiettivi la classe energetica «E» entro il 2030 e quella «D» entro il 2033, allo scopo di raggiungere le zero emissioni del settore edilizio entro e non oltre il 2050. Dopo l’approvazione in Commissione, il provvedimento andrà al voto dell’Assemblea plenaria del Parlamento Ue, in calendario dal 13 al 16 marzo. A quel punto avrà inizio il cosiddetto Trilogo: un negoziato fra le tre istituzioni europee – Parlamento, Commissione e Consiglio – che porterà, probabilmente con ulteriori novità e modifiche, verso la versione definitiva del testo. Dopodiché, si passerà al recepimento di ciascun Paese membro dell’Eurozona.
Il primo step
Nel
lungo calendario di prescrizioni contenuto nella direttiva Epdb (Energy
performance building directive), tra i primi obiettivi da raggiungere
entro il primo gennaio 2024 c’è quello del divieto di agevolazioni per
le caldaie alimentate a combustibili fossili. In realtà, il bonus caldaia in Italia rientra già negli ecobonus
ed è rivolto a chi installa sistemi a basso impatto ambientale (caldaia
a condensazione di classe A senza valvole e impianti dotati di
generatori di calore alimentati a biomasse combustibili). Dunque, se il
governo dovesse rinnovare gli incentivi anche nei prossimi anni non ci
saranno conflitti con la direttiva Ue. Del resto, nel mercato
immobiliare italiano, la presenza in un’abitazione di una caldaia
declassificata abbassa la classe energetica e dunque svalorizza la
struttura stessa. Insomma, già non conviene puntare sulle caldaie a gas
quando si tratta di valorizzare la propria abitazione.
Gli incentivi 2023 (che potrebbero essere prorogati in futuro)
Attualmente la caldaia può essere sostituita con l’agevolazione del Bonus al 50%per interventi di ristrutturazione semplice. L’importo viene riconosciuto come agevolazione fiscale pari al 50% delle spese sostenute per un importo massimo di 30.000 euro per la sostituzione della caldaia e il nuovo impianto deve essere di classe A. L’Ecobonus con l’agevolazione al 65%, invece, prevede la sostituzione della caldaia con una di classe A e contestualmente l’installazione dei sistemi di termoregolazione evoluti di classe V, VI o VII per il controllo della temperatura dell’acqua in relazione a quella ambientale.