Archive for Febbraio, 2023

Il digitale e le regole antiche contro offese e anonimato

giovedì, Febbraio 23rd, 2023

di Aldo Cazzullo

La vita virtuale sostituisce la vita reale. Le relazioni tra le persone non sono più fisiche ma digitali. Però nelle piazze elettroniche si possono commettere impunemente reati che in quelle fisiche sono giustamente perseguiti. Questo non può continuare a lungo.

È troppo facile offendere una persona sui social.
È troppo facile minacciarla, ingannarla, danneggiarla, rovinarla
.
È troppo facile estorcere denaro a un anziano, una foto intima a un adolescente, fiducia a chiunque di noi.
E tutto questo accade perché è troppo facile aprire profili «fake» o comunque anonimi, dietro cui celare la propria vigliaccheria.

Si potrebbe replicare: questi reati esistono già. La diffamazione. La sostituzione di persona, quando si finge di essere qualcun altro. Il furto d’immagine, quando si usa la foto di un altro. Ma la macchina giudiziaria italiana era farraginosa già quando la vita virtuale non esisteva; figurarsi ora. Basta conversare con qualsiasi agente della polizia postale per rendersi conto che sta tentando — con abnegazione e professionalità — di svuotare il mare con un cucchiaio. Può intervenire sui casi più drammatici, nella speranza che non sia troppo tardi (rintracciare chi si nasconde dietro un profilo fake non è impossibile). Ma è evidente che la soluzione non può essere solo reprimere. Occorre prevenire. E l’unico modo è obbligare i padroni della rete a non consentire più l’apertura di profili falsi o comunque anonimi.

Facebook, Instagram, Twitter, TikTok, Twitch, ma anche Google e Amazon sono ormai i più grandi editori del mondo. Sono abituati a non produrre e a non pagare i materiali che diffondono, a rastrellare la pubblicità digitale, a versare le (poche) tasse dove conviene. Obblighiamoli almeno a non diventare complici involontari di reati. A non consentire ai loro utenti di danneggiarne altri.

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Il mio eroe antipatico

giovedì, Febbraio 23rd, 2023

di Massimo Gramellini

Signor Zelensky, non credo che avrà né il tempo né la voglia di ascoltare i mugugni di uno scribacchino che allo scoppio della guerra, un anno fa, le dedicò questo elogio: «L’uomo che si è spostato da un set a un bunker senza mai smettere di essere il Presidente: prima per finta e poi sul serio, in un crescendo che dal comico è passato al drammatico e adesso sfiora addirittura l’epico».

Come tanti altri italiani non ho cambiato idea, continuo a considerare eroica la sua decisione di resistere sotto le bombe e a non condividere la posizione di chi, proclamandosi equidistante, in nome del quieto vivere accetterebbe di darla vinta a Putin.

Però proprio il fatto di averla sempre sostenuta mi spinge a darle un affettuoso consiglio non richiesto. La smetta di farci sentire perennemente in colpa, che è l’atteggiamento tipico dei manipolatori.

E la smetta di considerare tutto per dovuto, mostrando di sottovalutare le conseguenze che certe sue parole hanno sui suoi amici. Per esempio, quando durante la conferenza stampa ha sparato a palle incatenate contro l’ingestibile Berlusconi, ha pensato per un attimo che stava mettendo in imbarazzo un governo alleato?

Le ragioni che la spingono a sovraesporsi sono più che comprensibili, ma le assicuro che dopo un anno cominciano a sortire l’effetto opposto.

Presidente Zelensky, lei rimane il mio eroe, ma corre il rischio di diventare meno popolare della causa del suo popolo. E sarebbe un vero peccato.

CORRIERE.IT

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Juve, nuovo fronte dell’inchiesta: accordi segreti con altri club

giovedì, Febbraio 23rd, 2023

di Simona Lorenzetti

Accordi segreti con altri club, per acquisti e cessioni di calciatori, difformi da quelli depositati in Lega. Contratti occulti, al pari delle side letter delle manovre stipendi, per riuscire a far quadrare i conti dei bilanci. 

Sarebbe questo il nuovo sviluppo investigativo su cui stanno lavorando i magistrati torinesi, che accusano gli ex vertici della Juventus — tra loro l’ex presidente Andrea Agnelli e il suo vice Pavel Nedved — di falso in bilancio e false comunicazioni sociali. Di presunti «rapporti opachi» tra la società bianconera e altri club si racconta diffusamente negli atti dell’inchiesta. Ora, però, sarebbero emersi nuovi episodi (che potrebbero portare a contestazioni suppletive nell’udienza preliminare del 27 marzo) in cui si parla di plusvalenze e di debiti, verso altre società, non registrati. 

«Debiti morali», li aveva definiti il ds Fabio Paratici. «Debiti reali» derivanti da «side letter», secondo gli inquirenti. Ed è in questo contesto che vanno lette alcune audizioni avvenute nell’ultima settimana. Davanti ai pm Marco Gianoglio, Mario Bendoni e Ciro Santoriello si sono seduti l’ex calciatore juventino Rolando Mandragora, il padre (che di fatto è il suo agente), il vice presidente dell’Udinese Stefano Campoccia (il suo nome era già emerso tra i partecipanti alla cena organizzata il 23 settembre 2021 da Agnelli alla Mandria e alla quale era stato invitato il presidente della Lega Gabriele Gravina) e Maurizio Lombardo (ex dirigente Juve, oggi alla Roma). Mandragora, oggi nella rosa della Fiorentina, viene ceduto dalla Juve all’Udinese nel 2018 per 20 milioni di euro, con una plusvalenza di oltre 13 milioni. 

Il contratto prevedeva una clausola facoltativa di «recompra» a 26 milioni da esercitare entro il 2020. Mandragora gioca due anni, con risultati poco brillanti, e nel giugno 2020 si infortuna al crociato. Tuttavia, la Juve lo ricompra a 10 milioni di euro (più 6 di bonus) per poi lasciarlo in prestito ai friulani. Secondo i pm, parallelamente al contratto depositato in Lega in cui si parlava di «facoltà» di riacquisto, la Juve avrebbe sottoscritto un secondo accordo segreto con «obbligo» di riacquisto. L’operazione — stando all’ipotesi investigativa — avrebbe permesso alla società bianconera di iscrivere nel bilancio 2019 la plusvalenza e di non iscrivere il debito di 26 milioni. Traccia del debito emergerebbe da una mail del 10 luglio 2020 in cui Claudio Chiellini, capo dell’area prestiti della Juve, elenca le cifre ancora dovute a club e agenti: accanto all’Udinese c’è scritto 26 milioni.
 

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Spid a rischio chiusura ad aprile? Cosa succederà all’identità digitale

giovedì, Febbraio 23rd, 2023

di Valentina Iorio

Ad aprile 2023 scadono le convenzioni per la gestione dello Spid. Ad essere precisi, gli accordi sono scaduti a fine 2022, ma l’Agenzia per l’Italia digitale (Agid) li ha prorogati d’ufficio fino ad aprile. Lunedì 20 febbraio il direttore generale di Agid, Francesco Paorici, ha incontrato le aziende che hanno ribadito le richieste avanzate nei giorni scorsi in una lettera ad Alessandro Musumeci, capo della segreteria tecnica del sottosegretario all’Innovazione, Alessio Butti. Il problema principale per i gestori sono i costi: le spese per i servizi di assistenza ai 33 milioni di cittadini e alle 12 mila Pubbliche Amministrazioni che hanno adottato il sistema sono ingenti e il governo non ha mai creato le condizioni per far sì che i privati adottassero lo Spid e creassero flussi di cassa per le aziende che gestiscono questo servizio.

Senza un accordo si rischia lo stop

In assenza di un accordo tra le parti, da fine aprile Spid potrebbe spegnersi definitivamente. Nella riunione con Agid, infatti, la posizione di Assocertificatori ha avuto il sostegno anche del restante 5% che non fa parte dell’associazione. Assocertificatori rappresenta i fornitori del 95% dei servizi digitali come Spid, Pec e firma elettronica. Tra i soci ci sono Aruba, Infocert e Poste, che da sola ha circa il 76% dei profili Spid rilasciati. «Vista la criticità che il servizio riveste, siamo disposti ad accettare un’ulteriore proroga di alcuni mesi, a patto che ci sia la volontà politica di affrontare il problema della sostenibilità economica del sistema. Siamo disponibili a collaborare per definire insieme una strategia», dichiara il presidente di Assocertificatori, Carmine Auletta, in un colloquio con il Corriere della Sera per fare chiarezza su quanto trapelato negli ultimi giorni.

Un fondo ad hoc per coprire costi e investimenti

«Quando è nato Spid, 8 anni fa, – ricorda Auletta – il legislatore aveva stabilito un principio: l’infrastruttura avrebbe dovuto essere gratuita per i cittadini e per la Pubblica Amministrazione e sarebbe stata finanziata con i flussi di cassa dei provider che avrebbero dovuto essere ripagati dalle transazioni dei privati. Abbiamo chiesto più volte di promuovere l’utilizzo dello Spid uso professionale e persona giuridica a pagamento, abbiamo proposto di creare un sistema di crediti di imposta per incentivare i service provider privati, ma non si è fatto nulla». Nella lettera al sottosegretario Butti, i gestori chiedono un fondo dedicato per coprire i costi del servizio e gli investimenti in innovazione. Inoltre, vogliono essere coinvolti nella strategia del governo per il futuro dell’identità digitale in Italia. A destare preoccupazione e qualche perplessità è la proposta di creare un sistema unico in cui far confluire Spid e carta di identità elettronica (Cie).

Un’unica identità digitale

Il sottosegretario all’Innovazione Butti lo scorso dicembre, in una lettera al Corriere, aveva assicurato: «Non vogliamo eliminare l’identità digitale, ma averne solamente una, nazionale e gestita dallo Stato, come quella che gli italiani portano nel loro portafogli dal 1931». Le ragioni, a detta dallo stesso Butti, sono quattro: semplificare la vita digitale dei cittadini, aumentare la sicurezza, rendere più accessibili i servizi digitali e, infine, risparmiare «perché Spid ha un costo per lo Stato». Sul fatto che la Cie sia più sicura ed efficace dello Spid, le aziende nutrono dei dubbi. Già il fatto che con la Cie serva una carta fisica per accedere al mondo digitale secondo il presidente di Assocertificatori è «anacronistico, in un periodo storico in cui le carte di credito si smaterializzano per confluire all’interno del nostro smartphone». Nei giorni scorsi si è parlato di un bando di gara già a marzo per la nuova app unificata. Ipotesi che non viene confermata dal Dipartimento per la trasformazione digitale. «Abbiamo scritto al sottosegretario per presentare le nostre istanze e quello che ora ci attendiamo è una risposta nel merito. Ci auguriamo che si possa trovare un’intesa nell’interesse dei milioni di utenti che usano questo servizio», dice Auletta.

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Il presidente La Russa e le parole come pietre

giovedì, Febbraio 23rd, 2023

Elena Loewenthal

Dispiacere, disprezzo, disappunto, una punta di ribrezzo. Siamo fatti così, noi umani: un insieme di impulsi più o meno controllati, più o meno ansiosi di venire a galla ed esprimersi. Se non che, in sorte o per fortuna, abbiamo da qualche millennio a questa parte uno strabiliante strumento fatto per mediare, per definire il posto che ognuno di noi vuole occupare nel mondo, senza necessariamente usurpare o conquistare quello altrui. Questo strabiliante strumento è la parola, indispensabile per vivere in comunità e mettere ordine negli impulsi e nei pensieri.

La parola non è mai astratta, non è mai una voce nel vuoto: ha un suo peso specifico variabile che, proprio come il suono nello spazio cosmico, ha un suo timbro a seconda del vuoto o del pieno in cui si propaga. Le parole sono sempre un luogo da dove partono e uno in cui arrivano, come in un viaggio. Quello che fanno ogni tanto le parole del presidente del Senato, la seconda carica della nostra Repubblica, è lungo e breve al tempo stesso. Partono da una sede che non ha nulla di individuale, nulla di singolare nel senso che la seconda carica dello Stato parla inevitabilmente al plurale non per supponenza ma perché è tale in quanto rappresenta la pluralità, cioè il nostro popolo, la nostra storia, il presente che tutti affrontiamo giorno per giorno, e cadono con un tonfo sordo, un po’ straniante. «Il livello estetico (femminile, si presume) è diminuito», «se avessi un figlio gay sarebbe un piccolo dispiacere» (o «non lo accetterei»). Sono parole, è la voce di qualcuno che la pensa diversamente da molti e come molti altri: il pluralismo della democrazia è anche, soprattutto questo, cioè la pacifica convivenza di opinioni diverse. Per fortuna e per destino storico la libertà è ormai in questo nostro paese un bene primario e inalienabile. Il presidente del Senato ha tutto il diritto di esprimere quello che pensa, a titolo individuale, in registro di espressione personale. Ma pur avendo sempre un peso, le parole hanno un peso specifico sempre variabile, che molto dipende dal contesto. Diciamo dal pulpito. Laico o confessionale che sia. E fa un po’ strano che dal pulpito della seconda carica dello Stato vengano parole così. Di per sé lecite, financo innocue, se a titolo personale: il presidente La Russa se la vedrà lui e il figlio, che per fortuna sua non è gay, la carenza estetica della destra.

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Noi pendolari con il fuso orario, Roma più vicina agli Usa che a Ostia

giovedì, Febbraio 23rd, 2023

Gabriele Romagnoli

Nelle lounge Frecciarossa, nelle carrozze silenzio dei treni ad alta velocità che vanno da Roma a Milano senza neppure più fermarsi nel «nodo ferroviario» di Bologna non li vedi e neppure riesci a immaginarli. Battono altre piste, hanno diverse insegne, sono prigionieri di più ristretti confini e soprattutto seguono tempi loro. L’Italia è una, ma quando si sposta su rotaia conosce due fusi orari: quello dei convogli aerodinamici di Trenitalia e Italo che più o meno rispettano i tabelloni delle promesse e quello dei treni regionali, che sovverte ogni aspettativa mettendo in dubbio non soltanto il «quando» (arriva), ma anche il «se».

Quasi mai condividono la stessa stazione. Se accade, come a Bologna, l’alta velocità si fa la sua tana, sotterranea e invisibile. Sono mondi opposti ancor prima di partire. Sopra c’è un atrio piccolo, dove stare ammassati, multietnici e affannati, davanti a binari paralleli di cui non si vede l’ultimo. Sotto c’è uno spazio enorme, un deserto in cui vagare, ma i binari sono soltanto quattro. Il richiamo degli arrivi e partenze è tuttavia costante, la fretta dei passeggeri ripagata. Sopra regna una flemma imposta dai rinvii. In altre città, come Roma, i treni più lenti, se non in altre stazioni, sono dirottati a centinaia di metri dall’ingresso, dove chi non li prende non li può vedere, ci si arriva già stanchi e il binario ha una numerazione che richiama Harry Potter. Che ci si sia anche la carrozza è un incantesimo: ogni volta stupisce.

Nell’Italia a gironi chi vive in quello dell’alta velocità non conosce le tratte dei pendolari. Non sa per dove non parte questo treno allegro. Se deve andare da Napoli a Sorrento prenota un’auto. Quel che resta della Circumvesuviana lo considera come Pompei, o Ercolano: rovine che si mantengono per la disponibile meraviglia del turista, specialmente straniero. Anche per il 2023 è stata eletta la linea ferroviaria peggiore d’Italia e la notizia è stata accolta con ironia nella pagina Facebook Circumvesuviana, guida alle soppressioni e ai misteri irrisolti: «Battute le due squadre romane (Roma Nord-Viterbo e Roma-Ostia Lido), Milano schiantata. Quest’anno Napoli è inarrestabile». Quando le cose non funzionano si protesta, quando non c’è più speranza subentra una specie di orgoglio da record, frammisto a una disperata ironia che ha portato alla creazione di «Roma fa schifo» e «Vesuviana state of mind». Quali i misteri senza soluzione delle linee regionali? Facile: esistono davvero i controllori? Sì, ma per tranquillità non si aggirano.

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Meloni: Berlusconi si fermi. Ma Mosca lo difende. Fi e Lega: stop ai jet all’Ucraina

giovedì, Febbraio 23rd, 2023

FRANCESCO OLIVO

ROMA. L’ordine di scuderia è abbassare i toni, ma a rispettarlo si fa fatica. Vale per Forza Italia, ma anche per Giorgia Meloni. La scena di Volodymyr Zelensky che attacca Silvio Berlusconi nel corso della visita della premier a Kiev è stata troppo dirompente per essere digerita in 24 ore. I due non si sono sentiti, d’altronde, notano da Arcore, la visione della politica estera è talmente divergente che non può bastare una telefonata per ricucire. L’accordo, sperano in FdI, è almeno sulla linea di condotta.

Far sbollire gli animi, insomma, è la consegna, ma intanto le distanze tra i partiti della maggioranza sulla guerra si allargano. Non ha giovato alla serenità il fatto che ancora una volta il Cavaliere sia stato difeso dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakarova: «In un altro impeto di rabbia impotente, l’abitante del bunker ha attaccato Berlusconi, che aveva ricordato al regime di Kiev il Donbass». Meloni, rientrata a Roma ieri, non fa passi indietro e chiarisce come «sia giusto favorire le ipotesi di dialogo ma che non lo si possa fare se non si tengono in considerazione le rivendicazioni ucraine», dice in un’intervista al Tg4.

La tregua non significa che nulla si muova all’interno dei partiti. Fratelli d’Italia oggi manderà una delegazione di primo piano all’ambasciata ucraina di Roma per dare un segnale di appoggio (ci saranno Giulio Tremonti, Tommaso Foti e Giangiacomo Calovini). Gli alleati non hanno aderito. Forza Italia e Lega hanno individuato una linea rossa: l’invio dei jet all’Ucraina. L’ipotesi continua a essere negata, anche da Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepresidente di Forza Italia. Ma in questo conflitto tutto cambia rapidamente, la visita di Joe Biden in Ucraina a Polonia viene letta da tutti come un’accelerazione nell’impegno occidentale. Così, se la Gran Bretagna e poi gli Stati Uniti dovessero inaugurare questo tipo di fornitura anche l’Italia potrebbe essere chiamata in causa. Tra gli alleati di FdI è stata notata una frase di Meloni, pronunciata a Kiev: «Quando c’è un aggredito, tutte le armi sono difensive». Nel partito azzurro nemmeno i più convinti sostenitori dell’Ucraina la pensano così: consegnare gli aerei a Kiev vorrebbe dire fare un salto di qualità enorme nell’impegno italiano. Su quel terreno anche la Lega difficilmente seguirebbe la premier. Il governo, con il provvedimento varato a dicembre, si è fatto autorizzare dal Parlamento l’invio di armi per tutto il 2023, ma con gli aerei si entrerebbe in uno scenario diverso, che richiederebbe una verifica politica nella maggioranza.

Senza arrivare a quel punto, c’è chi già punta i piedi. È il caso di Massimiliano Romeo, capogruppo al Senato della Lega: «Attenzione a non inviare armi che rischino di trascinare l’alleanza atlantica in un conflitto diretto con la Russia. Vorrebbe dire far scoppiare la guerra nucleare». Nel frattempo arriva un avvertimento dell’ambasciatore russo a Roma Sergey Razov: «L’Italia si fa trascinare in una contrapposizione militare, diventando parte in causa nel conflitto», dice all’Ansa.

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Ucraina, all’Onu si vota la risoluzione per la pace ma i Paesi sono divisi: ecco gli schieramenti e chi è pronto a sfilarsi

giovedì, Febbraio 23rd, 2023

dal nostro inviato Alberto Simoni

NEW YORK. La diplomazia internazionale si sposta al Palazzo di Vetro di New York dove oggi è previsto il voto su una risoluzione che «promuove il dialogo e una pace duratura in Ucraina in linea con la Carta Onu». Sono le parole dell’ambasciatrice statunitense Linda Thomas-Greenfield all’Assemblea generale che mercoledì ha iniziato a dibattere il testo della risoluzione che sarà votata oggi. Sponsorizzata da 75 Paesi, fra cui l’Italia, la mozione è più articolata di quella votata lo scorso marzo che condannava l’invasione russa. Questa propone l’ipotesi per “una pace giusta e duratura” e l’Assemblea generale sarà chiamata a prendere posizione.

«La bozza di risoluzione proposta qui in Assemblea Generale non aiuterà la soluzione del conflitto», ha replicato l’ambasciatore russo all’Onu Vassily Nebenzia, che ha poi chiesto di «supportare gli emendamenti introdotti dalla Bielorussia o votare no al testo attuale che è unilaterale» e non bilanciato.
Il voto a Palazzo di Vetro, che anticipa il dibattito a livello di ministri degli Esteri di venerdì al Consiglio di Sicurezza, arriva nelle ore che ricordano l’anniversario dell’invasione russa.

L’ambasciatrice americana nel suo intervento davanti ai delegati dei Paesi membri ha accusato nuovamente Mosca di “crimini contro l’umanità”, ribadendo la linea già esposta la settimana scorsa alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco dalla vicepresidente Kamala Harris. Mentre il ministro degli Esteri ucraino Kuleba ha rilanciato parlando di “genocidio” da parte dei russi.

Il voto dell’Assemblea generale non è vincolante ma ha un valore simbolico molto forte. Consentirà infatti di tirare le somme e vedere quali Paesi, un anno dopo l’attacco russo, sono schierati ancora con Mosca.

La complessità della risoluzione rende difficile ripetere i numeri dello scorso marzo quando 141 Paesi condannarono l’invasione. Fonti dell’Amministrazione Usa hanno immaginato il pallottoliere fermarsi a 130 Paesi, un numero giudicato “considerevole”. Gli occhi sono puntati su alcuni Paesi africani che intrattengono rapporti storici con Mosca, come il Sud Africa, e India e Brasile, dando per scontato l’astensionismo cinese. La Casa Bianca ritiene che il Brasile potrebbe astenersi, mentre un voto contrario dell’India creerebbe qualche disagio visto che New Delhi ospiterà il prossimo G20 (settembre) e negli ultimi mesi aveva preso le distanze da Mosca, pur mantenendo intatto il trade commerciale e l’acquisto di energia.

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Il patto di stabilità e l’Italia ad alto rischio

martedì, Febbraio 21st, 2023

Veronica De Romanis

Nei prossimi mesi, i governi dovranno trovare un accordo sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita, ossia le regole che limitano i deficit e i debiti degli Stati dell’Unione. Sul tavolo c’è la proposta elaborata dalla Commissione europea. Ma ciò non significa che si debba necessariamente partire da quel testo per la definizione di un compromesso. Su questo giornale, in diverse occasioni, è stato rilevato come la proposta presenti numerose criticità. Tra queste vale la pena elencare la poca trasparenza nei processi di valutazione sulla sostenibilità del debito, la mancanza di flessibilità nei piani di correzione delle finanze pubbliche, la scarsa considerazione del ruolo del ciclo economico, l’accresciuto potere delle Commissione e, infine, il ricorso a sanzioni reputazionali. C’è, tuttavia, un aspetto di cui si è parlato ancora poco sebbene – forse – rappresenti la maggiore criticità. La proposta prevede che i Paesi vengano suddivisi in tre categorie di rischio – alto, medio e basso – in base al livello del debito in rapporto al Prodotto interno lordo. Nella categoria ad alto rischio entrerebbero sicuramente l’Italia (147% del Pil) e la Grecia (177%). Sembra, invece, assai difficile che vi finiscano la Francia (112%), il Portogallo (115%), il Belgio (104%) o la Spagna (115%), non solo perché il debito è significativamente più basso ma anche perché hanno un rating migliore di quello ellenico o italiano. È comunque interessante provare a capire quali potrebbero essere le conseguenze dell’introduzione di un sistema ufficiale di bollinatura conferito dalla Commissione europea ai debiti dei Paesi membri – alcuni, come l’Italia e la Grecia, con il “bollino rosso” ed altri con un bollino arancione o verde – rispetto alla situazione attuale di pari trattamento.

Una prima considerazione attiene al programma di Quantitative easing (Qe) della Banca centrale europea (Bce). Ad oggi include i titoli della totalità degli Stati membri. In presenza delle categorie di rischio, potrà la Bce continuare ad acquistarli tutti indistintamente?

Una seconda fonte di preoccupazione riguarda la regolamentazione bancaria. Attualmente i titoli di Stato detenuti dalle banche vengono considerati uguali in termini di rischiosità, ai fini della ponderazione sul capitale. Una volta ottenuto il bollino rosso, la ricaduta sul sistema bancario, in particolare quello italiano, sarebbe immediata. Dovendo accantonare più capitale a fronte dell’aumentata rischiosità, le banche sarebbero costrette a dismettere sul mercato titoli di Stato, con l’effetto di deprezzarne il valore e di aumentarne i tassi d’interesse. Lo spread rispetto agli asset considerati meno rischiosi salirebbe. A questo proposito, val la pena ricordare, che in passato un simile scenario era già stato delineato. Persino auspicato quando, a fine 2015, l’allora ministro delle Finanze tedesche, Wolfgang Schaeuble, propose che i debiti degli Stati perdano la loro condizione di investimenti privi di rischio. Questa era la condizione posta per fare progressi verso una maggiore integrazione bancaria e dare il via libera a un sistema unico di assicurazione dei depositi bancari. Ossia un fondo comune europeo per tutelare i risparmiatori sotto centomila euro. L’idea di Schaeuble, per fortuna, fu rigettata. Ma potrebbe trovare nuova vita se passasse la proposta di classificazione della Commissione europea.

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La battaglia dello Spid: senza un accordo a metà aprile il 95% dei servizi non sarà più accessibile

martedì, Febbraio 21st, 2023

Arcangelo Rociola

ROMA. Spid è a un bivio. Il sistema pubblico di identità digitale, a otto anni dalla sua nascita, affronta il suo primo vero momento di crisi. Le convenzioni con i gestori sono scadute il 31 dicembre scorso. Sul loro rinnovo non c’è un accordo né una proposta. E al momento non è nemmeno chiara la volontà del governo, visto che in qualche occasione si è mostrato poco convinto di Spid come strumento cardine per l’identità digitale degli italiani.

Le prossime settimane sono già decisive. Ieri, secondo quanto ha confermato a La Stampa Agid, si è tenuto un primo incontro tra il direttore generale dell’agenzia, Francesco Paorici, e le undici aziende autorizzate a erogare le credenziali Spid. Un incontro che si sarebbe svolto in un clima «sereno» riferiscono fonti che preferiscono restare anonime. Ma che ha visto emergere le posizioni in campo. I gestori chiedono due condizioni per continuare a erogare il servizio. La prima: rendere Spid economicamente sostenibile. Oggi – viene spiegato – lo Stato dà alle aziende un milione di euro complessivi l’anno per il servizio. Ma i volumi sono aumentati e i costi di conseguenza. E si chiede che la cifra arrivi a 50 milioni da dividere tra gli operatori in proporzione alle identità gestite. La seconda è forse più delicata: gli operatori vogliono essere coinvolti nel caso in cui agenzia e esecutivo dovessero ripensare il futuro stesso dell’identità digitale degli italiani. Finora, è il ragionamento, il loro servizio ha consentito a milioni di italiani di dotarsi di un’identità digitale. E il governo non può non tenerne conto. Condizioni che, se non soddisfatte, potrebbero portare almeno il 95% degli identity provider a cessare il servizio il prossimo 22 aprile. Giorno in cui termina la proroga dei contratti, scaduti lo scorso 31 dicembre come anticipato da Wired.

Entrambi i punti non sono facili da soddisfare. Spid a oggi è usato da 33,5 milioni di italiani. Solo nel 2022 ha consentito un miliardo di autenticazioni online. Nella sua categoria, è il servizio pubblico più usato in Europa. Un record. I suoi numeri e l’affidabilità dimostrata in questi anni in termini sicurezza sembrano dimostrare che il sistema funziona. Funziona, ma non convince tutti. Almeno nell’esecutivo. Lo scorso dicembre il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alessio Butti, ha detto che il sistema doveva cominciare ad essere «spento», in favore della Carta di identità elettronica per evitare spese eccessive per lo Stato. Dichiarazione che ha allarmato gli operatori e l’associazione che li rappresenta, Assocertificatori.

È questo il motivo per cui le aziende chiedono chiarezza (la più coinvolta è Poste, che ha erogato l’80% di Spid in circolazione). Senza di loro, Spid non può esistere. Se non dovessero essere accontentate e dovessero restare sulla linea dura, il sistema imploderebbe. È un sistema pensato per appoggiarsi a un ente terzo chiamato a certificare l’identità di chi accede online alla Pa. Quasi impossibile pensare che un ente statale ne possa prendere il posto dall’oggi al domani. La richiesta economica è importante, ma secondo gli operatori è il minimo per rendere il servizio sostenibile, considerati i costi di gestione, di call center e di intervento: 50 milioni, sostengono, è meno di quanto la pubblica amministrazione risparmia usandolo.

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