La lente deformante – sottolineato: deformante – delle primarie ha
restituito alla fine della lunga corsa congressuale due candidature
opposte, non soltanto avversarie, che si sfideranno oggi nei gazebo,
coinvolgendo non uno, ma due diversi popoli e due idee alternative di
sinistra. La prima candidatura ha una proiezione soprattutto
istituzionale, e non solo perché si tratta del governatore di una
regione chiave come l’Emilia-Romagna. La seconda proviene dalla società
civile, nasce non a caso nel movimento “Occupy Pd”, vive un po’ dentro e
un po’ fuori il partito, in cui rientra, riprendendo la tessera per
poter correre per la segreteria.
Non sono neppure le due metà di una mela, ma come una mezza mela che
dev’essere assemblata con una mezza arancia. Quando Bonaccini ricorda
che Schlein è stata la sua numero due in Regione, non lo fa certo per
mostrarle affinità. E altrettanto Schlein, quando dice che l’epoca delle
donne vice è finita. Così che il risultato di oggi, il vincitore o la
vincitrice delle primarie rischieranno, o di dare la sensazione della
vittoria dell’apparato, o di quella delle diverse aree movimentiste che
mai erano riuscite a conquistare la tolda di comando. Restando così fino
all’ultimo come due mondi inconciliabili e confermando i presupposti di
tutte le divisioni interne, che difficilmente potranno ricomporsi.
Sarà uno strano destino per il Pd, nato dalle eredità dei due ex
grandi partiti di massa novecenteschi. Se c’era una caratteristica,
infatti, di Dc e Pci, era che erano avversari, avevano due diversi
sistemi di valori, due differenti reti di collateralismo fortemente
radicate nella società civile; predicavano l’interclassismo contrapposto
alla lotta di classe, e viceversa. Ma poi sapevano sempre trovare un
punto di incontro in Parlamento e nelle istituzioni, fino al
“compromesso storico”, che pure li introdusse nella fase critica
avviandoli verso la scomparsa.
Quando il gioco si fa duro lì intorno non c’è più nessuno. I
partiti si sentono trascurati e scaricano tutto sulla presidente:
«Chiedete a lei». La solitudine a Palazzo Chigi è una condizione
fisiologica, ci si chiude in quelle stanze, si devono prendere decisioni
in pochi minuti e si vive sotto assedio. Ci sono passati tutti e sono
bastati quattro mesi per capire che Giorgia Meloni non è un’eccezione.
La vicenda dei balneari con la presidenza del Consiglio costretta a
rassicurare il Quirinale, davanti a quelle che vengono definite
«provocazioni dei partiti», è solo l’ultimo capitolo di una lista già
abbastanza lunga.
La sensazione di chi vive a stretto contatto con la premier è che, se
il rapporto con i ministri è molto buono, gli alleati in Parlamento non
siano davvero tali: a ogni momento di difficoltà la leader di Fratelli
d’Italia si ritrova da sola. Gli esempi iniziano a essere troppi per non
diventare una tendenza. Dalla sede del governo segnalano almeno quattro
momenti critici durante i quali nessuno si è preso la responsabilità di
difendere la presidente: l’aumento del prezzo della benzina, le
polemiche sulla giustizia (la questione intercettazioni e il caso
Delmastro-Donzelli), la decisione del taglio del superbonus e, appunto,
la dura nota della presidenza della Repubblica contro la decisione di
prorogare le concessioni dei lidi. Situazioni difficili dal punto di
vista comunicativo e politico, nelle quali Meloni si è sentita sotto
attacco senza che nessuno dei suoi soci muovesse un dito per difenderla.
Anzi spesso erano dall’altra parte della barricata. Nella migliore
delle ipotesi, è la lettura dei suoi fedelissimi, i partiti scaricano le
responsabilità su di lei, nella peggiore, e questo potrebbe essere il
caso delle concessioni balneari, la mettono con la malizia davanti alle
proprie contraddizioni, la Meloni oltranzista di ieri contro quella
istituzionale di oggi. «Il centrodestra è abituato a governare insieme
da trent’anni», ripete Francesco Lollobrigida uno dei pochi pontieri tra
la sede del governo e il mondo di fuori. Ma il cambiamento dei rapporti
di forza all’interno della coalizione è stato tale che quello che
valeva fino a pochi anni fa oggi non valga più. I sospetti dei meloniani
aumentano anche perché gli argomenti dove non arriva il soccorso degli
alleati sono quelli più sensibili per l’opinione pubblica, dove cioè il
rischio è di pagare in termini di consenso. E il prossimo appuntamento è
sulla carta ancora più critico: la partita delle nomine. I tavoli
promessi, denunciano gli alleati, non vengono convocati, «per ora tutto è
in mano a Fazzolari, la sorella di Meloni, Lollobrigida e pochi altri».
La premessa di una battaglia.
Se Forza Italia, con grande cruccio del vicepremier Antonio Tajani,
si è ritagliata il ruolo di voce critica («avete visto che fine ha fatto
Gianfranco Fini? » ha ricordato con durezza Lollobrigida agli azzurri
in un’intervista a La Stampa), la Lega è più cauta. Matteo Salvini ne ha
fatto un metodo: «Oneri e onori», risponde a chi gli chiede
dell’alleata. La strategia del leader del Carroccio è di evitare di
polemizzare apertamente con la premier, anzi di elogiarla in pubblico,
salvo non andare mai in suo soccorso quando ci sono insidie sul cammino,
«non le facciamo da parafulmine», è la parola d’ordine data ai
dirigenti da via Bellerio.
I primi due li ha avuti con la
seconda moglie, Flaminia Morandi, l’ultimo, il più piccolo, lo ha
adottato con Maria De Filippi nel 2001
Sono tre i figli di Maurizio Costanzo: Saverio e Camilla, avuti con la seconda moglie , la giornalista e scrittrice Flaminia Morandi, e Gabriele adottato con Maria De Filippi.
Camilla è la più grande. Nata nel 1973, è una scrittrice e sceneggiatrice,
ha un marito e due figli. Non ama i riflettori e si tiene lontana dai
social. All’inizio della sua carriera si è cimentata nel ruolo di
attrice ma poi ha cambiato strada. Nel 2009 ha pubblicato il libro Ero cosa loro. L’amore di una madre può sconfiggere la mafia, con Giusy Vitale. Nel 2015 ha firmato il romanzo Una bellissima notte senza luna. Della sua vita privata si sa pochissimo.
Saverio è nato a Roma nel 1975, oggi ha 47 anni. Regista e sceneggiatore di successo
anche lui ha avuto due figli dall’allora compagna Sabrina Nobile, ora è
legato sentimentalmente all’attrice Alba Rohrwacher. Laureato in
Sociologia della Comunicazione, ha iniziato la sua carriera come
conduttore radiofonico, sceneggiatore e attore. Alla fine degli anni ‘90
si è trasferito a New York per perseguire la carriera da regista. Tra le sue opere più importanti ci sono L’Amica Geniale e la serie tv In Treatment, Private e La solitudine dei numeri primi.
Giorgio
Assumma, avvocato e grande amico di Costanzo: «Quando la conobbe, fu
duro con Maria. Poi mi disse: “È brava, la vorrei come assistente”. Lo
mise a dieta, ma lui si comprava di nascosto le caramelle. Mi disse:
“Nell’aldilà si potrà avere una tv? Se no, che noia”»
«Maurizio mi chiese: “Secondo te, quando si va all’altro mondo, di là che succede?” Risposi: “Non lo so, però si va a stare meglio”. “E potrò avere un televisore?”. “Non credo”. “Sai che noia allora”. “Ma no, vivrai nella pace del Signore”. Vabbè, allora facciamo che chi arriva primo aspetta l’altro».
Migliori amici da 50 anni, Maurizio Costanzo e Giorgio Assumma,
88, ex presidente Siae, avvocato e confidente di molte star di cinema e
tv, si conobbero nel 1973. «Ero presidente della Rusconi Film, lo contattai per un biopic su De Gasperi, poi la politica ci impose Rossellini. Lui non se la prese: “Le cose al mondo vanno così”.
Da allora però non ci siamo più persi. Almeno una telefonata al giorno,
caffè ogni lunedì e mercoledì al bar Vanni, davanti alla Rai. Mi
chiedeva un giudizio su ogni suo progetto, io consiglio sulle cause
legali, mai uno screzio».
Al teatro Parioli, per il Maurizio Costanzo Show, c’era sempre una poltrona in prima fila prenotata per Assumma. «“Se ci sei tu io mi sento più tranquillo”. L’unica volta che mancai gli misero la bomba in via Fauro. Da allora Maurizio mi fece promettere che non avrei più perso una puntata».
Fu Giorgio a presentargli la signorina De Filippi.
«Maria era una brillante laureata in legge, consulente
dell’associazione fonografici italiani, a Milano. La sentivo spesso. Mi
chiese se potevo trovarle un moderatore famoso per un convegno sulla pirateria discografica a margine della Mostra di Venezia. Baudo era impegnato, Vespa pure, Maurizio traccheggiò e infine accettò. Maria venne a prenderci in aeroporto, lui manco la guardò, quasi seccato. Al Lido, scesi dalla barca, si fece sotto un fotografo. Al che Maurizio le disse secco: “Per favore, dottoressa, mi resti lontana, non voglio paparazzate”. E anche a cena la fece sedere dall’altra parte del tavolo. Tornammo a Roma e per due volte l’aereo incontrò una brutta turbolenza sopra Tarquinia, il pilota atterrò in verticale, manovra rischiosissima, che paura. “Siamo stati fortunati, oggi comincia una nuova vita”, commentammo una volta a terra».
E infatti. «Dieci giorni dopo, era sabato, incontrai Maria in un bar di viale Mazzini. “Sono venuta a trovare una zia”. Finsi di crederle. Il lunedì Maurizio mi disse: “Sai, quella dottoressa De Filippi è in gamba, la vorrei come assistente”. E così andò».
Tutto il resto è vita. Nozze in Campidoglio nel 1995, celebrante Francesco Rutelli, ricevimento per cento invitati a villa Assumma. «“Grazie a te ho trovato la donna che sognavo, quella che vorrei guardare negli occhi quando me ne andrò”, mi confidò.
Ogni agosto partivamo tutti per Ansedonia.
Alle 7, noi due soli, facevamo colazione leggendo i giornali, poi
Maurizio si metteva a mollo in piscina, senza nuotare, fermo nell’acqua
con la testa di fuori. Si portava dietro le cassette dei film di Totò,
li avrà visti decine di volte, quanto rideva. La sera si andava a
ballare il liscio in un paesino della Maremma, con l’orchestrina del
posto, lui solo i lenti però, quelli del mattone, si divertiva.
Dopo tre giorni di ferie però cominciava a smaniare, non riusciva a
stare senza lavorare. “Beato te”, mi diceva quando ripartivo per Roma.
Prima di conoscere Maria non aveva mai fatto una vacanza. E non si era mai messo a dieta.
Una mattina, a San Giuseppe, prendemmo un caffè e, dietro mia
insistenza, pure una piccola zeppola con la crema. Nel pomeriggio tornai
nello stesso bar e il titolare mi disse: “Sa avvocato, quel suo amico è ripassato e si è mangiato dodici bignè, uno dopo l’altro”. Poi è arrivata Maria che lo teneva a stecchetto e chiedeva alle segretarie di farle la spia, se il marito sgarrava. Maurizio di nascosto si comprava le caramelle».
Si sono sentiti l’ultima volta giovedì.
«Gli ho telefonato in clinica. Maurizio stava molto meglio, aveva superato bene il piccolo intervento, una sciocchezza, nessuno di noi era preparato al peggio.
Era di ottimo umore, abbiamo parlato di lavoro, di una nuova
sceneggiatura per il cinema, di un contratto per la tv. Mi ha salutato
così: “Ci vediamo presto, tanto non questa, ma la prossima settimana esco”.
E invece una polmonite se l’è portato via. Il giorno dopo è morto. Era il mio unico vero amico. Adesso con chi parlerò?”
Tragedia sulle coste calabresi. Una barca di migranti ha
fatto naufragio stamattina davanti alle coste calabresi di Steccato di
Cutro, a una trentina di chilometri da Crotone. Secondo quanto si
apprende dalle operazioni di soccorso, erano circa in 180 i migranti
ammassati sul vecchio barcone che non ha retto al moto ondoso
spezzandosi in due e facendo cadere in mare i migranti. Circa 50 persone
sono state tratte in salvo, oltre 30 i corpi recuperati – tra cui
diversi bambini – mentre al momento risultano disperse quasi un
centinaio di persone. I corpi di alcuni migranti morti nel naufragio
dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano sono ancora sulla spiaggia di
Steccato di Cutro, coperti da teli bianchi. La pietosa opera di recupero
dei cadaveri sta procedendo. I corpi, una volta rimossi, vengono
raccolti nelle adiacenze del luogo dell’incidente in attesa di essere
trasferiti.
E il bilancio potrebbe ancora aggravarsi. Il barcone dei migranti,
che era molto carico, si è spezzato in due a causa del mare molto
agitato. «In Calabria nel 2022 sono arrivati circa 18mila immigrati
clandestini, la stragrande maggioranza dei quali a Roccella Jonica, un
Comune in provincia di Reggio Calabria diventato ormai punto di approdo
delle rotte illegali dei mercanti di esseri umani. I calabresi – un
popolo che ha conosciuto il dramma dell’emigrazione – hanno accolto
questi migranti, senza alzare polveroni e senza causare tensioni, ma la
situazione sta davvero diventando ingestibile. Cosa ha fatto l’Unione
europea in tutti questi anni? Dov’è l’Europa che dovrebbe garantire
sicurezza e legalità? Che fine hanno fatto le operazioni di dialogo con i
Paesi d’origine dei migranti? Tutte domande che, purtroppo, ad oggi non
hanno alcuna risposta. E chi sta nei territori, a stretto contatto con
la realtà di tutti i giorni, è costretto a gestire le emergenze e a
piangere i morti» afferma in una nota Roberto Occhiuto, presidente della
Regione Calabria.
«È qualcosa che non si vorrebbe mai vedere. Il mare continua a
restituire corpi. Tra le vittime ci sono donne e
bambini» commenta Antonio Ceraso, sindaco di Cutro, il comune del
crotonese dove è avvenuto il naufragio. «si vedono i resti del barcone
su 200-300 metri di costa. In passato c’erano stati sbarchi ma mai una
tragedia così».
«Ancora una catastrofe nel Mediterraneo. Dolore e sgomento per le
vittime che si contano a decine. Uomini, donne e bambini. Intollerabile
che l’unica via d’accesso all’Europa sia il mare. L’assenza di missione
di ricerca e soccorso europea è un crimine che si ripete ogni
giorno» Così un tweet di SeaWatch, l’organizzazione tedesca no-profit
che opera nel Mediterraneo centrale.
Meloni: «Profondo dolore per le vite stroncate dai trafficanti di uomini»
Servirebbe quasi un appello “a tutti gli uomini liberi e
forti” come quello che Don Sturzo rivolse agli italiani il 18 gennaio
1919, per convincere almeno un milione di cittadini coraggiosi ad
accorrere questa mattina ai gazebo, per votare alle primarie del Pd.
Servirebbe la consapevolezza di “questa ora grave”, per spingerli a
versare 2 euro e depositare quella scheda nell’urna, sentendo “alto il
dovere di cooperare ai fini superiori della Patria” e propugnando “nella
loro interezza gli ideali di giustizia e libertà”. Ma sarebbe inutile.
Non siamo nel ’19, anche se in giro tira un’arietta “diciannovista”.
Stefano Bonaccini e Elly Schlein non sono Don Sturzo. E in quel partito
pare ormai perduta ogni gravitas, ogni coscienza di sé e del suo posto
nel mondo e nella Storia. È una sinistra sospesa tra Kafka e Sanremo. Da
una parte si macera in un congresso lungo cinque mesi, tra regole
esoteriche e astrusi commi 22. Dall’altro lato si crogiola con le
canzoni di Ultimo dopo aver dimenticato gli ultimi e con i testi di Rosa
Chemical dopo aver archiviato quelli di Rosa Luxemburg.
Eppure a questa Italia in amore con Giorgia Meloni, a tratti più per
consunzione che per convinzione, un’alternativa politica credibile e
spendibile servirebbe come l’aria. Non perché i patrioti non abbiano
gambe per camminare fino al termine della legislatura. Le hanno, eccome
se le hanno. Anche se non saprà mai capire né accettare la benedetta
pedagogia costituzionale di Sergio Mattarella, questa destra durerà.
Durerà nonostante i provvedimenti senza coperture finanziarie e i
cedimenti senza vergogna alle lobby balneari, gli strappi di Berlusconi
per l’amico Putin e gli spasmi di Salvini per le armi a Kiev, i pasticci
sulle accise e i bisticci sul Superbonus, le bravate para-squadriste di
Donzelli&Delmastro e le sparate cripto-fasciste di
Fazzolari&Valditara.
Ma un’opposizione seria e solida è essenziale. Più Palazzo Chigi è
contendibile e il ricambio è possibile, più la maggioranza dovrà almeno
provare ad alzare gli standard di qualità del governo e abbassare il
tasso di conflittualità interno. In caso contrario l’Italia rischia di
scivolare verso un regime di democrazia bloccata. Per certi versi simile
a quella della Prima Repubblica dominata dall’eterna Dc, ma stavolta
senza più neanche il contrappeso di un altro partito popolare di massa,
per quanto interdetto dal “Fattore K”, come il Pci. Al suo posto, avremo
chissà ancora per quanto un’accozzaglia informe di capi e capetti in
conflitto sistemico, una rissosa macchinetta da guerra comunque votata
alla disfatta permanente.
Per questo, comunque la si pensi, converrebbe al Paese che alle
primarie del Pd ci fosse più partecipazione possibile. Non sarà né potrà
essere una “festa di popolo”, come successe nel 2005, quando vinse
Prodi col 71% e andarono a votare in 4 milioni e 311 mila. Risultato
impensabile, oggi. Vuoi per la diserzione generalizzata dalle urne che
abbiamo già visto dilagare alle politiche del 25 settembre e poi alle
regionali del 12 febbraio, dove al seggio sono andati 4 elettori su 10.
Vuoi per la disaffezione specifica della gente di sinistra, già
certificata dalle ultime primarie del 2019, quando vinse Zingaretti col
66% ma votarono solo in 1 milione e 582 mila. L’emorragia delle primarie
è dolorosa: quasi 3 milioni di voti persi. Quella delle politiche è
addirittura clamorosa: nel 2008 il neonato Pd attraversato dallo
“spirito del Lingotto” veltroniano prese 12 milioni di voti, oggi è
sceso a 5,3 milioni. I voti persi, in questo caso, sfiorano i 7 milioni.
Un disastro. Anche se in Lazio e in Lombardia il partito-zombi che
tutti davano per spacciato ha perso ma è sopravvissuto, dimostrando
un’inaspettata resilienza.
Il partito-kebab, che a ogni tornata elettorale viene fatto a fette
da un nemico finché resterà soltanto l’osso, ha ancora carne e sangue
per resistere. E persino il leader-ombra Enrico Letta, che tutti davano
alla macchia, ha lasciato tracce non trascurabili. In questi mesi ne
abbiamo dette, scritte e sentite di tutti i colori “sull’apposito Pd”.
Partito ipotetico, prima liquido e poi gassoso. Partito in gabbia, fatto
e finito. Partito di baroni e di capibastone. Da ultimo, tra sacchi di
petrodollari del Qatar e visite agli ergastolani di Sassari, anche
partito corrotto e fiancheggiatore di mafiosi e terroristi. Persino il
mite Gianni Cuperlo ha perso la pazienza: “Adesso basta, ci vuole
rispetto per il Pd: non siamo né Sturzo né Gramsci, né Tina Anselmi né
Nilde Jotti, ma non siamo nemmeno Brancaleone da Norcia”.
Purtroppo tra tante accuse esagerate c’è anche qualche amara verità. È
vero che in questi anni, a forza di andare sempre un po’ più “oltre”,
la sinistra si è smarrita. La malintesa “vocazione maggioritaria”, la
pretesa del catch-all, la forza pigliatutto aperta inclusiva e
contendibile, scevra da ideologismi e genericamente liberal, senza più
ancoraggi a ceti e a classi, è finita in un “altrove” dove non si è più
riconosciuta e non è stata più riconoscibile. La fusione a freddo tra le
due anime, l’ex democristiana e l’ex comunista, ha prodotto “l’amalgama
mal riuscito”. Lo scarso spirito di appartenenza è diventato il difetto
di fabbrica della “Ditta”, generando scissioni “a schiovere” e
leadership a perdere, sempre sacrificate nell’assurda cerimonia
cannibale officiata sull’altare del risentimento, dove sono passati
Prodi e D’Alema, Veltroni e Bersani, Renzi e Letta. Sempre più
disancorato dai valori fondativi indicati da Bobbio, cioè libertà
uguaglianza e solidarietà, il partito ha smesso di sognare e di pensare,
ripiegandosi sulla gestione del potere e l’amministrazione di apparati e
compiacendosi dei suoi stessi vizi: il “governismo” che l’ha sdraiato
per 11 anni in un osceno kamasutra di larghe intese e unità nazionali
senza un’elezione vinta, “l’elitismo” che ha coltivato nei salotti Ztl
ricchi e riflessivi e sempre più lontani dalle periferie della
marginalità e del disagio, il “correntismo” che l’ha immiserito nella
cinica spartizione di tessere e prebende, candidature e poltrone.
TORINO. Non va confusa la carenza di medici specialisti con
quella di laureati: in Italia e in Piemonte mancano specialisti, non
laureati», avvertiva pochi giorni fa Chiara Rivetti, segretario del
sindacato Anaao Assomed, rettificando le lamentele della Regione. Tema
del comntendere: la scarsa assegnazione dei posti per il corso di laurea
in Medicina e Chirurgia.
Vero è che, in ogni caso, più posti per il corso di laurea non
guasterebbero: il ministero della Ricerca e dell’Università, su
sollecitazione di quello della salute, ha già dato assicurazioni al
riguardo. Doppiamente vera, e persino più preoccupante, la fuga dei
medici dalle borse (tecnicamente: contratti) di specializzazione. Senza
considerare la disomogeneità nella scelta delle specializzazioni, per
coloro che scelgono questo percorso.
La rappresentazione plastica di questo piano, sempre più inclinato, è
contenuta nello studio realizzato da Anaao sull’effettiva fruizione da
parte dei medici neolaureati dei 1861 contratti statali banditi in
Piemonte negli ultimi due concorsi di specializzazione (2021 e 2022).
Obiettivo: capire come è orientata la scelta dei futuri medici
specialisti. Due voci: “contratti non assegnati”, ovvero quelli che in
sede concorsuale non sono stati assegnati a nessun medico perché nessuno
li ha scelti: “contratti abbandonati”, ovvero quelli assegnati a medici
che l’anno successivo hanno riprovato il concorso cambiato
specializzazione tramite una nuova assegnazione. In Piemonte una borsa
di specialità su 5 (19% dei contratti) non viene assegnata o viene persa
durante il percorso di specializzazione.
Fenomeno nazionale: quasi 6 mila, in Italia, i medici in fuga dalle
scuole di specializzazione. Non c’è una sostanziale differenza
percentuale tra le varie regioni italiane. Analizzando l’entità dei
contratti non assegnati, ad eccezione della Regione Sicilia (3%), tutte
le regioni italiane hanno una sostanziale identità percentuale di
contratti non assegnati, con una forchetta tra il 7% e il 22% e con il
Friuli Venezia Giulia in cui c’è quasi un contratto su tre (29%) non
assegnato.
Il problema nel problema, come si premetteva, è la pressochè completa
adesione a quelle scuole di specialità in cui l’attività privata e
ambulatoriale rientra tra gli sbocchi lavorativi: scartate, o subito
abbandonate, quelle prettamente “ospedaliere e pubbliche”. Particolare
non trascurabile: le protagoniste nella lotta pandemica, prima tra tutte
la Medicina d’Emergenza Urgenza, oltre che nella quotidianità.
Qualche dato: in Piemonte la Medicina d’Emergenza Urgenza registra il
57% delle borse perse, la Microbiologia il 57%, Patologia Clinica il
74%, Radioterapia l’86%. Interessante anche il dato della Rianimazione
con il 33% di mancate scelte. «La carenza di organico rende il lavoro
più disagiato e questo allontana i giovani medici», spiega Rivetti.
Il sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri accoglie il feretro di
Maurizio Costanzo in Campidoglio per la camera ardente nella Sala della
Protomoteca. La sala sara’ aperta al pubblico dalle 10:30
Bastava una sua battuta in un
romanesco sminuzzato per far aprire una persona e un mondo. Lanciò
Sgarbi e Maria De Filippi, forse l’uomo e la donna più conosciuti
d’Italia
Come Molière, Maurizio Costanzo è morto in scena. O, se si preferisce un’espressione di Renzo Piano, è morto nel cantiere. Senza mai smettere di lavorare; che per lui significava vivere.
Ha fatto un sacco di cose, quasi tutte (ma non tutte) bellissime. Fu il primo a invitare in televisione i capi del partito comunista. A «bontà loro» chiedeva a ogni ospite: «Cosa c’è dietro l’angolo ?». Giancarlo Pajetta rispose: «Un altro angolo».
Giorgio Amendola, ingelosito, volle essere invitato anche lui. Scrisse Una giornata particolare per Scola e Se telefonando per Mina. Lavorò a «Paese Sera» con Mughini e Dario Argento.
Inventò un genere, la tv popolare, parlando pochissimo: bastava una sua battuta in un romanesco sminuzzato per far aprire una persona e un mondo. Si iscrisse alla P2, diresse un giornale della Rizzoli piduista, ma a differenza di altri ammise di aver sbagliato.
Ospite del suo show, confuso tra il pubblico, una volta ci fu anche il latitante Matteo Mesina Denaro.
Inventò Sgarbi e Maria De Filippi, forse l’uomo e la donna più conosciuti d’Italia. Distrusse Pippo Baudo quando divenne direttore di Canale5. Introdusse Giovanni Falcone al grande pubblico. La mafia tentò di ammazzarlo.
La conduttrice andava a trovarlo
mattina e sera in clinica e non immaginava questa evoluzione. Erano
uniti da 33 anni e insieme avevano anche un figlio adottivo
Molto provata, scioccata, basita. È
questo lo spettro di sentimenti che attraversa l’animo di Maria De
Filippi, che è stata colta di sorpresa dalla morte di Maurizio Costanzo.
Non se lo aspettava, non c’erano avvisaglie. Lui era stato ricoverato
in una clinica romana per un piccolo intervento, «un problemino
fastidioso, ma non grave». Lei lo andava a trovare mattina e sera, poi come sempre al lavoro, a registrare Amici.
Una routine normale ed eccezionale li legava ogni giorno da 33 anni. La
cena insieme, sempre, ma anche le vacanze (tranne in montagna a sciare,
andava solo lei), una convivenza quasi simbiotica che il Covid aveva
cementato ancor di più. Con il tempo lei era diventata il suo sergente
di ferro — come scherzavano tra loro: controllava dieta e salute,
centellinava cibi e dolci.
Il loro è stato un amore (insieme hanno avuto un figlio adottivo Gabriele, oggi 30enne), ma anche un’alleanza e una staffetta.
L’intesa che si rinsalda in un passaggio di testimone. Prima lui
potentissimo e lei una signora nessuno, ma con tanta stoffa. Infatti
cresce alla velocità della luce. Arriva il momento in cui in coppia sono
«la» televisione, ascolti & potere. Un sodalizio (non solo
sentimentale) che continua finché lei — forte dei 23 anni in meno —
diventa il pilastro di Mediaset come un tempo era stato lui. Costanzo
& De Filippi, un marchio, un brand, una coppia indissolubile, la più
potente della tv. Mai ci fu connubio più influente. Due che hanno fatto
(lei la sta ancora facendo) la storia della tv.
Maurizio Costanzo e Maria De Filippi
si conoscono nel 1989 quando il giornalista era già un nume tutelare
di Canale 5, successi e insuccessi passavano per la vetrina del suo
talk show, che decreta trionfi e disfatte, apre o stronca carriere. Un
trampolino di lancio, quei 15 minuti di celebrità che se riuscivi a
bucare lo schermo si potevano ripetere in un istante che diventava
eterno. Anche Maria è una sua intuizione (tra i tanti che ha lanciato si deve aggiungere anche lei).
All’inizio Queen Mary era ancora una principessa povera: «Quando ancora
non ero popolare, e arrivavamo nei posti, mi sentivo messa da parte,
direi sicuramente di essere stata gelosa di Maurizio. Poi ho imparato
che Maurizio sa esserci, è un punto fermo, penso che mi abbia
rasserenato. Io avevo due lati diversi. Uno molto forte, la certezza di
saper fare, mentre dal punto di vista emotivo ero insicura».