Il sottosegretario alla Cultura nel mirino dei social. Poi viene invitato a fare ammenda
Mara Venier lo aveva invitato a Domenica In per celebrare la festa del papà. Anche se Vittorio Sgarbi non è esattamente un modello di riferimento nel campo (lo ha ammesso a più riprese lui stesso davanti alle figlie Evelina e Alba). Ma la scivolata fragorosa in cui è incappato
ha fatto impallidire tutto il resto. A un certo punto la conduttrice
gli ha chiesto quando fossero nate le figlie, per capire quanto le
conoscesse. «Non ho idea delle date, quando è il loro compleanno mi chiamano e mi chiedono il regalo
— ha risposto Sgarbi —. Non so quando compiono gli anni. Però fanno
ancora in tempo a entrare in convento, piuttosto che trovare quei
maschiacci inutili…». Poi il sottosegretario alla Cultura si è rivolto
a una di loro: «Tu di che anno sei? 1999, vero?». «No, sono del 2000»,
ha risposto rassegnata lei. A quel punto la frase che ha acceso fuochi di critiche sui social: «Sei del 2000? Devi stare attenta, allora… C’era una mia assistente che diceva che quelle nate nel 2000 sono tutte tr…».
L’immagine che resta del crac di Lehman Brothers sono quei banchieri giù per strada, con i loro cartoni in mano. L’immagine che resterà di questa crisi invece è forse quella di un unico banchiere: Greg Becker, ormai ex amministratore delegato di Silicon Valley Bank, fotografato in short, maglietta e ciabatte infradito alle Hawaii pochi giorni dopo il fallimento della banca che lui doveva dirigere. Lo scoop è del «Daily Mail», subito ripreso dal «New York Post». Naturalmente non c’è niente di illegittimo se Becker, che oggi è disoccupato e alle Hawaii possiede una villa da 3,1 milioni di dollari, decide di rifugiarsi lì per qualche giorno dopo il peggiore dramma della sua vita professionale. Più discutibile è semmai che lui stesso abbia venduto azioni della sua banca per 3,5 milioni di dollari pochi giorni prima di annunciare l’aumento di capitale, per coprire le perdite che avrebbero innescato il crac. Ma il simbolo dietro l’immagine rimanda, ancora una volta, a una crisi bancaria a due velocità. Ci sono coloro che ne sono in gran parte responsabili, eppure sembrano uscirne sempre ricchi e ben protetti (anche se nel caso di Becker incombe un’inchiesta del Dipartimento di Giustizia americano). Poi ci sono gli altri, quelli esposti alle conseguenze e destinati a pagare il prezzo di errori non loro. È una miscela politicamente esplosiva: in America anche l’ondata di populismo che avrebbe portato Donald Trump alla Casa Bianca parte con i Tea Party, scaturiti dalla crisi bancaria del 2008. Anche stavolta la crisi bancaria si sta già tramutando in un fenomeno a doppia velocità sia in Svizzera, con la svendita di Credit Suisse a Ubs, che negli Stati Uniti. Il cortocircuito in America è in quanto i risparmiatori stanno vedendo in questi giorni: se fallisce una banca come Svb, titani miliardari del venture capital come Marc Andreessen o Peter Thiel hanno i loro depositi da molti milioni garantiti con denaro pubblico fino all’ultimo centesimo; ma se la corsa agli sportelli investe una piccola banca rurale del Midwest, allora un agricoltore locale rischia di vedersi spazzati via tutti i depositi propri e della propria azienda sopra i 250 mila dollari.
Naturalmente esiste una spiegazione logica per questa differenza di trattamento e, nei giorni scorsi, la segretaria al Tesoro Janet Yellen l’ha offerta al Congresso. Nel caso di Svb una
decisione delle autorità a Washington ha determinato che tutti i
depositanti andavano protetti, anche i miliardari, in nome di una
«systemic exception»: non farlo alla Silicon Valley Bank avrebbe avuto
conseguenze «sistemiche». Invece migliaia di banche minori, dove si
servono clienti minori, non sono «sistemiche» e per loro l’«eccezione»
non è prevista. Trump non poteva sognare un’arma più affilata per la sua
retorica contro le élite. Il Tesoro, la
Federal Reserve e le grandi banche americane hanno lavorato per tutto
il weekend per trovare una soluzione per la prossima banca in dissesto,
First Republic. Ma il problema è già altrove. L’associazione
delle banche «di media grandezza» ha scritto ai regolatori chiedendo
che anche i loro depositi siano garantiti per intero con denaro
pubblico. Significherebbe assicurare di fatto risparmi liquidi di tutti
gli americani, per 19 mila miliardi di dollari. Oggi sembra impossibile, dunque la richiesta cadrà nel vuoto. Ma poiché ormai è pubblica, ci si può solo chiedere come reagiranno da domani decine di migliaia di depositanti nelle banche minori: vorranno portare il loro denaro alle banche «sistemiche», innescando nuove corse agli sportelli e altri dissesti.
Sono almeno 25 anni che l’Italia punta sui contratti di lavoro flessibili. Nel 1997 Tiziano Treu, ministro nel primo governo Prodi, introduce l’omonimo pacchetto che insieme alla successiva legge Biagi (2003) regolamenta i primi «lavori atipici». Da allora diverse riforme tra cui il Jobs Act di Renzi rendono le regole sempre più agili. Adesso tocca al governo Meloni, che oltre a ridisegnare il sistema dei voucher, è pronto a incentivare ulteriormente i contratti a termine. Non c’è dubbio che in un mercato molto variegato i contratti debbano permettere una certa flessibilità, ma di quanto si sta allungando questo elastico?
Il ritorno dei voucher
I voucher sono buoni a ore con cui si paga il lavoro occasionale: il 75% va in tasca al lavoratore, il resto copre contributi e assicurazioni contro gli infortuni). Ideati nel 2003 dalla riforma Biagi (art.70) per pagare i «lavoretti» di solito svolti in nero, come babysitter, colf, insegnanti privati, raccoglitori d’uva, ed utilizzabili dai «soggetti a rischio di esclusione sociale» (disoccupati, casalinghe, studenti, pensionati e disabili). Dal 2008 la possibilità di pagare con i voucher viene estesa ad altre figure professionali e nel 2012 con la riforma Fornero si allarga a tutti i settori produttivi e a ogni tipo di lavoratore. La richiesta di voucher si impenna: se nel 2008 ne sono emessi poco più di mezzo milione, nel 2015 diventano 134 milioni. Si impenna anche l’abuso, soprattutto nell’edilizia, nel turismo e nel commercio: molte imprese coprono qualche ora con i voucher, e il resto pagato in nero. In pratica con questa modalità evitano di assumere lavoratori utilizzati a tempo pieno spacciandoli come occasionali. Le irregolarità assumono dimensioni tali che nel 2017 il governo Gentiloni decide di abolirli e con il successivo decreto n.50 del 2017 fissa limiti stringenti (libretto famiglia e PrestO). La finanziaria 2023 ne allarga invece l’uso alle imprese che hanno fino a 10 dipendenti a tempo indeterminato (escluse quelle agricole ed edilizie). L’importo orario minimo netto è di 9 euro all’ora, quello giornaliero di 36 euro. La somma che ogni azienda può spendere in voucher è di 10 mila euro all’anno, con l’obbligo di comunicare preventivamente all’Inps l’utilizzo di lavoratori occasionali. Il governo Meloni dichiara che l’estensione della misura servirà a ridurre il sommerso, ma la norma, come si è già visto, è facilmente aggirabile e allontana i lavoratori da contratti stabili. Anche perché le sanzioni per chi viola la legge non sono severe: da un minimo di 500 euro ad un massimo di 2.500.
Contratti a termine
In Italia negli ultimi anni il contratto di lavoro più diffuso è stato quello a tempo determinato. Nel 2021 ne sono stati attivati 7,7 milioni (il 69% del totale) che sono diventati 8,5 milioni nel 2022. Nel terzo trimestre dell’anno scorso oltre il 31% dei contratti a termine sottoscritti aveva una durata massima di un mese e il 46,5% non superava i 90 giorni. Il decreto Dignità del 2018 prevede che dopo un anno di contratto a termine scatti l’assunzione, se invece l’imprenditore intende prolungarlo, il tempo massimo concesso è di 12 mesi, ma deve indicare una causale e pagare uno 0,5% di contribuzione in più. Ora la ministra del Lavoro Marina Calderone in una recente audizione al Senato ha
sottolineato come «una rigida tipizzazione legale delle causali possa
rappresentare un limite per il sistema imprenditoriale e lavorativo del
Paese». Tradotto: questi vincoli devono sparire. Eppure siamo uno dei Paesi dell’Eurozona con più contratti a termine (16,4%), e molto sopra la media Ocse (11,8%).
Occupati, precari e part-time indesiderati
A gennaio gli occupati hanno superato i 23,3 milioni mentre i disoccupati sono 2 milioni.
Numeri mai raggiunti negli ultimi 15 anni. Tuttavia fra gli occupati, a
crescere sono soprattutto i contratti precari che hanno raggiunto quota
3 milioni (erano 2,3 milioni nel 2008). Allo stesso tempo sono diminuite le ore lavorate pro-capite: venti in meno a trimestre rispetto al 2008, che vuol dire in media anche una paga più bassa. Poi ci sono i contratti part-time indesiderati. Sempre nel 2008 coloro che hanno dovuto accettarli pur preferendo un lavoro a tempo pieno erano 1,3 milioni, nel 2022 sono saliti a 2,7 milioni. L’Italia ha il record del part-time involontario nella Ue: circa l’11,3% del totale dei lavoratori vorrebbe lavorare full time, ma deve accontentarsi di mezza giornata. La media Ocse è del 3,4%.