«In politica l’immobilismo fa male, per questo Forza Italia si è sempre e continuamente rinnovata nella sua storia ormai trentennale». A distanza da 48 ore dal suo affondo, il presidente di Forza Italia spiega al Corriere della Sera le ragioni della decisione a sorpresa che lo ha portato a sostituire il capogruppo alla Camera, Alessandro Cattaneo e alcuni coordinatori regionali. «Non abbiamo rottamato nessuno, abbiamo reso più efficiente la struttura, sostituendo alcuni coordinatori che, avendo assunto altri incarichi o non essendo stati rieletti, non erano più in condizione di svolgere il loro compito con l’impegno di prima». Berlusconi non vede nel cambio al vertice del gruppo il segno di una insoddisfazione o una riscrittura della linea politica. «Nulla di tutto questo: la linea è quella indicata da me. La stragrande maggioranza, direi anzi la totalità dei militanti e degli eletti, mi chiede ogni giorno di continuare a esercitare la leadership e di essere garante di una linea politica che da trent’anni è quella di lavorare per l’unità del centrodestra. Lo spostamento di Alessandro Cattaneo non è una punizione, è una razionalizzazione, utile a rafforzare il Coordinamento nazionale, mentre abbiamo voluto recuperare l’esperienza e la saggezza di Paolo Barelli nel ruolo di capogruppo», spiega il leader azzurro. Una linea politica più fedele e meno in polemica rispetto alla premier Meloni, suggerita dalla sua famiglia, da Marina in primis e da Marta Fascina. È così? «Con mia moglie Marta e con mia figlia Marina c’è un rapporto fatto di amore, stima e totale fiducia: quindi, come è naturale, capita spesso di parlare di politica e i loro consigli sono preziosi. Ma la linea politica e le scelte operative di Forza Italia sono esclusivamente una mia responsabilità. Quanto al rapporto con il presidente Meloni, è improntato alla massima lealtà, alla stima personale, a una amicizia sincera, nella convinzione che stia facendo bene e che Forza Italia debba dare un contributo costruttivo all’azione di governo.
Elly Schlein «rottama» i cacicchi ma si riprende nel Pd i «dinosauri»
dal vecchio Pci. Si riaffacciano al fianco della segretaria gli
intellettuali rossi, molti dei quali hanno spadroneggiato a Napoli e in
Campania negli anni di Antonio Bassolino.
Dalla città partenopea, ecco che puntuale arriva l’appello dal mondo della cultura per la nuova «eroina» della sinistra.
Un
copione già visto con gli ex leader del Pd Zingaretti, Renzi e Letta. È
la mossa per ritornare in pista. Il governatore della Campania Vincenzo
De Luca li ha pensionati, tenendoli fuori dalla gestione del potere in
Campania. Ora si riaccende la luce della speranza con Schlein.
Spulciando i nomi nulla di nuovo sotto il sole di Napoli. Sono i soliti.
C’è Maurizio De Giovanni, lo scrittore che appena intravede una
lettera-appello si fionda sopra per sottoscriverla. Aveva già firmato
l’appello per Roberto Saviano. Tra gli intellettuali spunta Nino
Daniele, bassoliniano della prima ora. Ma poi anche vicesindaco dello
«scassatore» Luigi de Magistris. Insomma, non proprio una novità. E
ancora; Elisabetta Gambardella, più volte candidata e da sempre legata
ad Antonio Bassolino. Nel gruppo spicca il nome di Salvatore Vozza,
sindaco di Castellammare e deputato del Pds. Poi scrittori e trombati
delle ultime tornate elettorali. In comune hanno la radice: hanno
gravitato nel mondo del Pci. Tutti reduci dalle stagioni rosse a Napoli
come Adriana Buffardi, ex assessore delle giunte Bassolino, pronta a
ritornare. La segretaria ringrazia: «Il nuovo corso del Pd si
arricchisce ogni giorno di presenze e di testimonianze attive che danno
forza a questa comunità. Voglio per questo ringraziare tutte e tutti i
168 intellettuali che hanno sottoscritto l’appello Una speranza e
un’opportunità per la sinistra. Vogliamo dare una mano. Perché è
esattamente questo quello che desideravamo suscitare: la condivisione,
insieme, di un impegno, di una passione, di una visione comune. Solo
così, tutte e tutti insieme, ce la faremo a ricostruire fiducia con le
persone e dar vita a una vera alternativa a questo governo, che si batta
per la giustizia sociale e climatica, per il lavoro di qualità e i
diritti».
Da un lato, dunque, Giorgia Meloni si è presa Forza Italia,
nell’ambito di un’intesa con Marina, i cui prodromi erano ravvisabili
già all’atto della formazione del governo, quando la primogenita stoppò
le bizze del padre in nome del realismo aziendale. Insomma, un classico
esempio di “successione in vita”, fondato sullo scambio tra dominio
politico assicurato alla premier e tutela dell’impero, non proprio
competitivo ma molto bisognoso di un legislatore che blindi lo status
quo: duopolio, canone, concorrenza delle nuove piattaforme, eccetera.
Dall’altro Elly Schlein con grande fatica riuscirà a piazzare i suoi
capogruppo solo grazie a un’intesa con Pina, nel senso di Picierno. E,
parafrasando Peppino: “Ho detto tutto”. Destinata a diventare
vicesegretaria di Bonaccini se avesse vinto, Picierno, con altri, ha
fondato una corrente formata da un pezzo della minoranza che diventa
maggioranza non su una rottura politica su un tema politico –
immigrazione, Ucraina, lavoro – ma in nome, semplicemente, dei posti. E
così, con questa, siamo più o meno a quota dieci correnti: quella di
Franceschini, che ottiene Chiara Braga come capogruppo alla Camera, i
“lettiani” di Boccia (prossimo capogruppo al Senato), Orlando che fa
partita a sé (con Schlein ma un po’ in disparte), Provenzano pure, poi
Cuperlo coi suoi, De Micheli, Articolo 1, i popolari di Castagnetti e la
minoranza di Bonaccini.
Solo apparentemente la dinamica racconta di un rafforzamento della
neo-segretaria che, due settimane fa, aveva promesso di “estirpare i
cacicchi”. Occhio alla modalità: non nomina i capigruppo, lanciafiamme
in mano, sulla base di una spinta esterna, ma si adatta a un meccanismo,
che si riproduce uguale a se stesso, di un partito – o meglio: una
confederazione di cacicchi – a vocazione minoritaria dove l’unica cosa
che conta è il rapporto col potere: i ministeri, quando sta al governo,
ciò che rimane quando è all’opposizione.
Una telefonata intercettata, leakata all’esterno molto
probabilmente dai servizi segreti ucraini, pubblicata sui media ucraini,
sta facendo molto rumore nella «verticale del potere» di Vladimir
Vladimirovich Putin. A parlare, inconsapevolmente intercettati, sono il
produttore musicale (uno dei più importanti del Paese) Iosif Prigozhin
(niente a che fare con l’omonimo Evgheny, il capo dei mercenari di
Wagner) e l’oligarca miliardario Farkhad Akhmedov, ex membro del
Consiglio della Federazione russa. I due parlano spigliatamente e si
lasciano andare a giudizi pesantissimi su Putin. La telefonata è stata
(un po’ flebilmente) smentita da Iosif Prigozhin, che ha detto che la
sua voce è stata in parte ricreata usando l’intelligenza artificiale e i
network neurali. La cosa potrebbe far sorridere ma va riferita.
Tuttavia ieri sera “Important Stories”, il collettivo giornalistico
di Roman Anin, uno dei giornalisti indipendenti russi più autorevoli e
stimati, e temuti dal Cremlino, l’ha avvalorata citando una fonte nel
Fsb, il servizio segreto interno russo, che dichiara testualmente: «La
registrazione della conversazione tra Prigozhin e Akhmedov è autentica,
la dirigenza del FSB ha recentemente tenuto una riunione e ha ordinato
ai subordinati di agire». Si capirebbe, di qui, il terrore che emerge nel video di smentita di Iosif Prigozhin.
Nel presunto audio, i due parlano francamente, come tipico nelle
conversazioni private. Prigozhin racconta: «Hanno collaborato, Igor
Ivanovich (Sechin, nda.), Sergei Viktorovich (Chemezov) e Viktor
Zolotov. Incolpano Shoigu per tutto. Lo chiamano un idiota, alle sue
spalle, ovviamente. E loro hanno il compito di demolirlo, porca miseria.
Sì, ma perché qualcuno deve essere incolpato. Ascolta. Sono le persone
più stupide. La mia opinione è semplice: si comportano come re, come
fottuti dei. Sono creature finite». Akhmedov replica: «Hanno incasinato
la situazione. Hanno rovinato il paese. Hanno fottuto tutti. La domanda
è: cosa succederà dopo di loro? Dannazione, da un lato, kadyroviti,
prigozhiniti, ci saranno guardie. Agiteranno pugnali, martelli. Una
totale follia». «Di tutto questo risponderà il Presidente. Per tutti.
Glielo chiederanno. Hanno fottuto noi, i nostri figli, il loro futuro,
il loro destino, dannazione, capisci?».
Le democrazie resistono. Ma se la passano male. L’America non
ha ancora superato il trauma dell’assalto a Capitol Hill: resta
ipertesa per le mattane di Trump e rimane appesa alla ricandidatura di
Biden. Israele è a un passo dalla guerra civile: da due mesi l’intero
Paese, compresi i riservisti dell’esercito e i dipendenti del Mossad, si
mobilita contro la riforma della giustizia del falco Netanyahu, che
toglie poteri alla Corte Suprema. In Francia Macron impone la riforma
previdenziale solo grazie ai “poteri speciali” (manco ci fosse un
Papeete a Parigi). Il popolo in piazza risale sulle barricate, ancora
annerite dai roghi che cinque anni fa i gilet gialli appiccavano ogni
fine settimana sui Campi Elisi: oggi come allora, per stare alle parole
di Annie Ernaux, non se ne può uscire «senza un po’ di violenza».
E pazienza se la legge Macron alza l’età pensionabile a 64 anni,
nell’unico Paese europeo che ancora la fissa a 62. Ce n’è abbastanza per
mettere a ferro e fuoco la non più Douce France, con buona pace per
quei fessi degli italiani che nel 2011 accettarono senza un plissé la
legge Fornero, che l’età pensionabile l’ha elevata a 67 anni. E ce n’è
abbastanza perché Simone Kuper, sul New York Times, scriva «è tempo di
porre fine alla Quinta Repubblica, con la sua presidenza onnipotente, la
cosa più vicina a una dittatura eletta nel mondo sviluppato, e
inaugurare una Sesta Repubblica meno autocratica». La Germania di Olaf
Scholz sta pagando il prezzo più alto all’indecisione politica del
Cancelliere e alla storica dipendenza dal gas russo: tremano i giganti
del credito, e anche lì da domani scatta la rivolta sociale con il Gross
Streik, il maxi sciopero che paralizzerà i trasporti in tutto il Paese,
unendo in una storica alleanza le due principali sigle sindacali.
La Gran Bretagna di Rishi Sunak vive l’ora più buia, unico Paese in
recessione già dal 2023, con un Pil che cala dello 0,6%, un’inflazione
al 16. Sei inglesi su dieci sono pentiti della Brexit e voterebbero per
un ritorno immediato nella Ue, con tanti saluti al premier che considera
ancora “un’enorme opportunità” il divorzio tra Londra e Bruxelles.
Tre choc globali in quindici anni hanno fiaccato i governi, devastato
le economie, avvelenato le società. In modo strisciante, si insinua
anche in Occidente l’idea che dalla delegittimazione della politica e
dalla disaffezione delle opinioni pubbliche si possa uscire solo con la
secessione delle élite: cioè alterando la qualità delle democrazie,
intaccando i pilastri del costituzionalismo e rafforzando l’esecutivo a
scapito degli altri poteri. Per questo, in Italia, è prezioso il
Presidente della Repubblica. Teniamocelo stretto, Sergio Mattarella.
Nella sua ultima esternazione, all’assemblea fiorentina delle Camere di
Commercio, rilancia l’appello di Alcide De Gasperi, che al congresso
della Dc di Venezia, nel giugno del ’49, invitò tutti gli italiani a
“scendere dal carro e a mettersi alla stanga”, per trainare l’Italia
fuori dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Parla del “Piano
nazionale di ripresa e resilienza”, il Capo dello Stato, preoccupato dei
ritardi conclamati della macchina politico-amministrativa, che possono
farci perdere i 34 miliardi dei prossimi due “assegni” europei.
Rischiamo di fallire l’obiettivo, perché come avverte Paolo Gentiloni,
invece di essere ossessionata da questa missione la politica insegue le
farfalle del Ponte sullo Stretto e della flat tax. Sarebbe un delitto.
Il Pnrr è il nostro Piano Marshall, che proprio De Gasperi ottenne nel
suo “Viaggio del pane”, nel gennaio del ’47, quando volò con il cappello
in mano negli Stati Uniti.
Eugenia Roccella ha ragione: vengono prima i diritti del
bambino. Se la ministra della Famiglia fosse in grado di seguire il
significato di questa sua affermazione, tutto il resto semplicemente non
ci sarebbe. Non ci sarebbe la mostrificazione della gestazione per
altri, non si tirerebbe fuori – addirittura – la categoria del razzismo
perché gli ovociti delle donne nere sarebbero meno costosi di quelli
delle donne bianche. Non si chiederebbe di andare a controllare su
internet, non si evocherebbero pericolose fiere dell’“utero in affitto”
in giro per l’Italia.
Peccato che a questa destra del superiore interesse del minore non
interessi nulla. Non interessano i 35 minori morti nel naufragio di
Cutro, o i 26 bambini che restano chiusi in carcere grazie agli
emendamenti di Lega e Fratelli d’Italia. Non importa nulla degli 800mila
ragazzini privi di cittadinanza e dei conseguenti diritti. Men che meno
dei figli delle coppie arcobaleno, che siano queste formate da due
donne o da due uomini. L’unica cosa che interessa a questa destra di cui
Eugenia Roccella – dopo essere transitata da molti lidi politici – è
fiera portatrice, è la propaganda.
I sondaggi dicono che gli italiani sono contrari alla gestazione per
altri. E allora, è quella che bisogna evocare. Le persone che sfilano
chiedendo diritti per i loro figli non vogliono l’introduzione in Italia
di una pratica che da noi è illegale, molti di loro con la gestazione
per altri non hanno nemmeno avuto a che fare, pretendono solo che i loro
bambini siano trattati dallo Stato come tutti gli altri. Riconosciuti,
come tutti gli altri. Ma tant’è: la propaganda non guarda la realtà, la
distorce a suo piacimento. Alla destra serve proclamare la sua idea di
famiglia: una madre un padre e più bambini possibile. Per farlo, è
disposta a disconoscere tutte le altre, in una deriva da Stato etico di
cui su queste pagine ha scritto Luigi Manconi e che va rigettata per la
sua violenza.
La gestazione per altri è un tema che divide il mondo e di cui
occorrerebbe parlare con una profondità di cui con tutta evidenza nessun
esponente di questo governo è capace. Ma non è un tema all’ordine del
giorno. Di più, l’unica proposta di legge evocata – quella del
segretario di Più Europa Riccardo Magi – la prevederebbe solo in caso di
assoluta gratuità e volontarietà. Niente a che vedere col mercato cui
allude Roccella, che pure c’è ma non riguarda noi.
In Israele rivolta nella notte.
Il presidente israeliano Isaac Herzog chiede al primo ministro Benjamin
Netanyahu di fermare la riforma della giustizia che – scrive in una nota
riportata dai media locali – «indebolisce il sistema giudiziario».
Herzog ha fatto appello direttamente al premier, facendo riferimento
anche ai disordini avvenuti nel Paese: «Abbiamo assistito a scene molto
difficili. Faccio appello al Primo Ministro, ai membri del governo e ai
membri della coalizione. Per il bene dell’unità del popolo di Israele,
per amore della responsabilità a cui siamo obbligati, ti invito a
interrompere immediatamente il processo legislativo» della riforma.
Rivolta nella notte a Israele, i manifestanti cantano la loro rabbia contro Netanyahu: “Democrazia”
Scontri da Tel Aviv a Gerusalemme, anche nei pressi della residenza
del premier. Secondo i media israeliani, sono scese in strada centinaia
di migliaia di persone. La polizia ha aperto gli idranti e lanciato
lacrimogeni. Ora Netanyahu starebbe valutando di ritirare la riforma.
Israele, proteste nella notte: i manifestanti bloccano l’autostrada e la polizia apre gli idranti
08:39
Nuovo appello del presidente Herzog: “Fermate subito l’iter riforma”
Il presidente
israeliano Isaac Herzog ha rinnovato l’appello al governo e al premier
Benjamin Netanyahu a fermare il progetto di riforma della giustizia dopo
la nottata di proteste che ha scosso il Paese. «Per il bene dell’unità
del Popolo d’Israele, per le responsabilita’ a cui siamo tenuti io vi
invito a fermare immediatamente il processo legislativo», ha affermato
il capo di Stato.
08:20
Media: Netanyahu verso la sospensione della riforma
Il premier israeliano
Benyamin Netanyahu parlerà oggi alla nazione e, secondo i media che
citano fonti vicino al primo ministro, potrebbe annunciare la
sospensione della riforma giudiziaria. La decisione è arrivata dopo la
nottata di forti proteste in tutto il Paese a causa del licenziamento
del ministro della difesa Yoav Gallant, reo di aver chiesto il fermo
della riforma. Anche il presidente Herzog questa mattina ha chiesto al
premier lo stop dell’iter legislativo della riforma. Secondo alcune
fonti, il discorso di Netanyahu è atteso attorno alle 10.30 ora locale
(le 9.30 in Italia).
08:00
Indetta una protesta di massa davanti la Knesset: Gallant sia rimesso al ministero della Difesa
I leader delle
proteste anti riforma giudiziaria hanno indetto una manifestazione di
massa alle 14 (ora locale) davanti la Knesset a Gerusalemme. «Non
consentiremo alcun compromesso – hanno sostenuto – che danneggi
l’Indipendenza della Corte Suprema». Gli stessi hanno chiesto che il
ministro Gallant, licenziato dal premier Benyamin Netanyahu, sia
riportato alla responsabilità della difesa. Oggi il governo ha convocato
una Commissione che intende modificare il meccanismo di nomina dei
giudici della Corte assicurando alla maggioranza politica la preminenza
nella scelta
07:46
Proteste ignorate in Israele, riprende in Commissione esame riforma
In Israele, alla
Knesset, si sono aperti i lavori in Commissione Giustizia per votare e
poi consegnare al Parlamento per il voto definitivo il ddl di riforma
giudiziaria che ha scatenato violente proteste nel Paese. Il gesto della
coalizione al governo sembra platealmente ignorare le proteste senza
precedenti che si sono svolte nella notte e anche i rumours, non
confermati però, che il premier Benjamin Netanyahu potrebbe cedere e
sospendere la riforma.
07:27
Uno degli avvocati della difesa di Netanyahu minaccia di non rappresentare più il premier israeliano
Uno degli avvocati
della difesa di Benjamin Netanyahu, Boaz Ben Tzur, avrebbe minacciato di
non rappresentare più il premier israeliano nelle aule di tribunale se
non fermerà la riforma giudiziaria che ha scatenato violente proteste
nel Paese. Lo scrive la stampa israeliana. Netanyahu e’ sotto processo,
accusato in tre diversi procedimenti di corruzione. Boaz Ben Tzur lo
difende nel processo cosiddetto Case 4000.
07:06
Gli aneddoti sull’ex presidente Usa: in Cina al G20 di Hangzhou il 2 settembre 2016 Xi Jinping lo umiliò
Il mio ricordo più imbarazzante su Barack Obama risale agli ultimi mesi della sua presidenza.
Lo seguii al G20 di Hangzhou il 2 settembre 2016, nell’antica capitale
cinese della seta resa celebre da Marco Polo. La presidenza cinese che
organizzava il vertice orchestrò un dispetto all’ospite americano.
Quando l’Air Force One atterrò sulla pista, c’erano
telecamere di tutti i network mondiali per riprendere il leader che si
affaccia allo sportello del Jumbo 747 e scende dalla scaletta. È una scena vista cento volte ma conserva una solennità. Quella volta lo sportello non si aprì.
Io ero lì con i giornalisti accreditati alla Casa Bianca. Passavano i
minuti, molti, e lo sportello rimaneva chiuso. Il comandante dell’Air
Force One non poteva aprirlo: il personale di terra dell’aeroporto non
forniva una scaletta abbastanza alta per arrivare al «muso» del Jumbo.
La tensione era palpabile per l’incidente tecnico-logistico senza precedenti.
Alla fine si vide in movimento sulla pista una scaletta, ma troppo
bassa. La misero davanti all’uscita di servizio, sotto la coda,
praticamente al «sedere» del Jumbo. Passò altro tempo in trattative
febbrili tra americani e cinesi. Vinsero i padroni di casa che
controllavano la logistica del cerimoniale di Stato. Obama
dovette, per la prima volta nella storia dei viaggi ufficiali, uscire
dal retro dell’Air Force One, alla chetichella, in una zona oscurata
sotto i motori, invisibile alle telecamere che lo avevano atteso
dall’uscita d’onore. Il suo arrivo fu reso irrilevante. Lo
screzio venne dimenticato. Guai a sottovalutare questi segnali. Nella
cultura cinese non c’è disastro peggiore che il «perdere la faccia».
Quel giorno Xi Jinping aveva
umiliato il leader americano. Due mesi dopo vinse l’elezione Trump, il
quale non si lasciò mai sfuggire un’occasione per accusare Obama di
ingenuità nei rapporti con i cinesi. L’ex vice di Obama, Joe Biden,
si è convinto che la Cina sia una potenza antagonista, il cui
espansionismo va contenuto. Forse quel gesto di Xi al G20 era una
premonizione.
LEGGI
Ho intervistato Obama due volte.
La prima il 17 ottobre 2016 quando lui accolse alla Casa Bianca
l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, che piaceva ai
democratici americani. Già allora era emergenza profughi nel
Mediterraneo. Obama volle soffermarsi su questo. «L’Italia — mi disse — è
in prima linea nella crisi dei rifugiati, una catastrofe umanitaria e
un test della nostra comune umanità. Le immagini di tanti migranti
disperati, uomini, donne e bambini che affollano piccole imbarcazioni e
annegano nel Mediterraneo, sono più che strazianti. L’Italia ha un ruolo
di leadership. Ha salvato la vita di centinaia di migliaia di migranti,
si adopera per arrivare ad una risposta compassionevole e coordinata
alla crisi, mettendo in evidenza la necessità di dare assistenza ai
Paesi africani da cui tanti di questi migranti provengono». Lui in quel
momento stava affrontando un dramma simile a casa sua, al confine con il
Messico, dove tentava di arginare l’ingresso di clandestini, usando anche dei metodi duri
(centri di detenzione, minorenni separati dai genitori, deportazioni)
che poi avrebbero fatto scandalo sotto la presidenza Trump.
La mia seconda intervista mi rimane impressa per la sincerità. Dicembre 2020.
Era ormai un ex presidente da quattro anni, il periodo trumpiano si era
appena concluso con la vittoria di Biden. «Fare il presidente degli
Stati Uniti — mi disse Obama — è come partecipare a una gara di
staffetta. Prendi il testimone da chi ti ha preceduto: alcuni erano
degli eroi, altri erano al di sotto dell’ideale. Se corri al meglio
delle tue forze, quando passi il testimone la nazione o il mondo saranno
un po’ meglio di prima». Questa descrizione era tipica del personaggio,
consapevole dei
propri limiti e dei limiti della politica in generale; un uomo capace di
osservare se stesso e l’America quasi dall’esterno, con
distacco, disincanto. Sfoderava il tono pacato che ricordo della sua
presidenza. Non tutti lo ammiravano per quello. La destra lo scherniva
come «il presidente che girava il mondo a scusarsi per le colpe
dell’America»: una forzatura, però coglieva una sua caratteristica, la
consapevolezza del declino relativo degli Stati Uniti. Un atteggiamento
più da studioso di geopolitica che da leader. A sinistra contro di lui
c’è una lunga litania di lamentele. L’ala socialista del partito
democratico non gli perdonò mai i salvataggi dei banchieri nella crisi
del 2008. Black Lives Matter e gli intellettuali dell’estremismo antirazzista lo accusavano di «non essere nero abbastanza».
Lui aveva il torto di non
condividere la cultura del vittimismo, la recriminazione arrabbiata, la
ricerca costante di risarcimenti, il razzismo a rovescia contro i
bianchi, l’apologia della violenza. Nella deriva sempre più intollerante
della woke culture, Obama ha una macchia: governò da moderato.
Una volta pensionato, non gli giova di avere accumulato un patrimonio
di 70 milioni con il successo dei libri; e di frequentare troppe
celebrity multimilionarie, da Richard Branson a Bruce Springsteen. Resta
il fatto che nella sinistra dei campus universitari non va giù la
saggezza di Obama che mi parlava così: «La democrazia funziona se ti
siedi attorno a un tavolo con persone che non la pensano come te, e
cerchi di convincerli. Se non ci riesci, accontentati di quello che
ottieni. Perché in una nazione pluralista, nessuno mai ottiene tutto
quello che vuole».
Ma l’intervista con Obama che ricordo con più gusto — e invidia — è di un altro Rampini: mio figlio Jacopo, attore, ebbe con lui un contatto più intimo e molto meno convenzionale.
L’attore
era ricoverato a Ravenna dopo una lunga malattia. Originario di
Villanova di Bagnacavallo, lascia la moglie Erika e la figlia Iliade
Lutto nel mondo del cinema. Ivano Marescotti è morto nel pomeriggio di oggi, domenica 26 marzo, all’Ospedale Civile di Ravenna, al termine di una lunga malattia. Oginario di Villanova di Bagnacavallo in Romagna, aveva 77 anni, compiuti lo scorso 4 febbraio; lascia la moglie Erika e la figlia Iliade.
L’intervista
A febbraio di un anno fa Marescotti, in un’intervista al Corriere, aveva ripercorso la sua carriera che diceva essere iniziata per caso. «Non solo iniziata per caso, ma pure molto in ritardo! Finito
il liceo artistico, mi ero iscritto alla facoltà di Architettura, poi
vengo assunto come impiegato nell’ufficio di Urbanistica nel Comune di
Ravenna, mi occupavo del piano regolatore, un lavoro che ho svolto fino
all’età di 35 anni – raccontava – Nel 1981, un mio amico mi propone di sostituirlo in uno spettacolo
e mi chiedo ancora perché avesse pensato proprio a me, dato che non
avevo alcuna esperienza scenica. Senza arte, né parte, senza conoscere
il mestiere dell’attore, ho deciso di licenziarmi e di accettare questa
avventura che, all’inizio, si prospettava come una occasione unica in tutti i sensi.
Abbandonavo il certo per l’incerto assoluto, non sapevo dove sarei
finito e non potrei consigliare a nessuno di compiere una scelta del
genere, così radicale».
La carriera
Dopo il diploma al liceo artistico Nervi-Severini di Ravenna
e dopo aver lavorato per dieci anni all’ufficio urbanistica del Comune
di Ravenna, ormai trentenne, si era lanciato con coraggio nel mondo del
teatro e del cinema, riuscendo a conquistare il successo in pochi anni.
In teatro aveva lavorato, fra gli altri, con Leo De Bernardinis, Mario Martone, Carlo Cecchi,
Giampiero Solari, Giorgio Albertazzi. Il debutto al cinema risale al
1989, in una piccola parte nel film «La cintura». Poi aveva incontrato
Silvio Soldini e aveva partecipato al film «L’aria serena dell’ovest». La sua è stata una carriera ricca e longeva, con circa 130 lavori
sia in Italia che all’estero, tra fiction e film, fra tv e cinema.
Incredibile è stata la sua capacità di calarsi in personaggi anche molto
diversi fra loro, dal dottor Randazzo in «Johnny Stecchino» di Roberto Benigni al leghista padre della ragazza che ha una relazione con Checco Zalone nel film «Cado dalle nubi», e
fino al papà di Alex in «Jack Frusciante è uscito dal gruppo» di Enza
Negroni tratto dall’omonimo romanzo di Enrico Brizzi. Ha lavorato anche
su set internazionali, avendo ruoli in film come «Il talento di Mr Ripley» di Anthony Minghella, «Hannibal» di Ridley Scott e «King Arthur» di Antoine Fuqua.
Nel 2022 si era ritirato dalle scene per dedicarsi all’insegnamento.
La famiglia e la passione per la politica
Dopo un anno didattico sperimentale con le “Cento ore con Marescotti” nel 2016, sono seguite sei edizioni di Tam – Teatro Accademia Marescotti, organizzate in collaborazione con il Circolo degli attori di Ravenna. Proprio nei giorni scorsi, intervistato, aveva parlato del desiderio di mettersi in proprio
con la nuova «Accademia Marescotti» e con l’annessa compagnia teatrale
formata dagli allievi più promettenti il cui debutto era in programma
per il prossimo 16 aprile al Teatro Socjale di Piangipane con lo
spettacolo «Nudi». Un progetto correlato alla nuova associazione
“Accademia Baccano”, con l’intento di avere da un lato un radicamento
sul territorio e dall’altro una vocazione nazionale. In molti ricordano
anche l’impegno politico di Marescotti. A chi lo intervistava, ripeteva sempre di essere nato con la tessera del Pci, al punto da guadagnarsi la fama di ‘comunista’ del cinema.
A lungo simpatizzante del Pd, aveva però finito col rimanerne deluso.
Così cinque anni fa, dopo un’attenta riflessione, si era deciso a dare
il suo sostegno pubblico al Movimento 5 Stelle, «l’unica alternativa utile al governo di destra».
Si narra che il cancelliere tedesco abbia chiesto a Prodi:
«Fammi avere la cittadinanza di Bolzano, così potrò passare una
vecchiaia prosperosa». A dire il vero l’idea non dispiace a nessuno,
anzi: il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata si ispira grossomodo proprio alle Regioni a statuto speciale. Se il decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 2 febbraio 2023 avrà anche il via libera dal Parlamento, diventerà legge, come annunciato, entro l’inizio del 2024. Allora per cominciare vediamo perché in Italia abbiamo 5 Regioni a statuto speciale.
Cosa hanno in comune
L’origine risale all’art.116 della Costituzione del 1948. I commi 1 e 2
sanciscono che «Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto
Adige e Valle d’Aosta dispongono di forme e condizioni particolari di
autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge
costituzionale». Le ragioni della scelta hanno radici diverse: la forte spinta indipendentista in Sicilia; le rivendicazioni austriache in Trentino-Alto Adige; la prevalenza del dialetto francese in Valle d’Aosta; la complessità linguistica e l’influenza dell’allora regime comunista jugoslavo in Friuli-Venezia Giulia; la povertà secolare in Sardegna.
Invece il Ddl Calderoli si rifà al comma 3 nato dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001, che conferisce alle Regioni a statuto ordinario (Rso) la possibilità di vedersi attribuite «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» in 23 materie tra cui istruzione, salute, ambiente, internalizzazione delle imprese, tutela e sicurezza del lavoro e produzione di energia. La norma nasce su iniziativa del governo D’Alema alle prese con le rivendicazioni di autonomia della Lega Nord e diventa legge sotto il governo Berlusconi. In cosa consiste la similitudine fra le Regioni a statuo speciale e il Ddl Calderoli?
Nel principio che ogni Regione possa negoziare con lo Stato i settori
che intende gestire in proprio trattenendo i tributi equivalenti (qui art. 2 e 5). Entriamo allora nel vivo del meccanismo che regola le Regioni a statuto speciale con l’analisi di Massimo Bordignon, Federico Neri, Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi per l’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani della Cattolica (qui).
Quanto trattengono le Regioni a statuto speciale
Il punto sostanziale è quello di trattenere per sé la gran parte delle imposte: la Valle d’Aosta si tiene il 100% di Irpef, Ires (imposta per le società), Iva e accise sui carburanti; le Province autonome di Trento e Bolzano il 90% e l’80% di Iva; il Friuli-Venezia Giulia il 59% e il 30% delle accise; la Sicilia il 71% dell’Irpef, il 100% dell’Ires e il 36% di Iva; e la Sardegna il 70% su tutto e il 90% di Iva. Con questi soldi si pagano: sanità, assistenza sociale, trasporti e viabilità locali (che però si pagano in proprio anche Regioni come Lombardia, Toscana e Lazio), manutenzione del territorio, infrastrutture per l’attrazione turistica. La Valle d’Aosta e le due province del Trentino si finanziano anche l’istruzione, ovvero gli stipendi degli insegnanti.
Cosa paga lo Stato
Lo Stato paga tutto il resto: le spese per la giustizia (procure e tribunali), le forze dell’ordine, le infrastrutture di carattere nazionale (come la rete ferroviaria, i trafori, pezzi di autostrada, a partire da quella del Brennero), i servizi Inps, oltre alla macchina politica e amministrativa statale.
Tutte spese che sono finanziate dalla fiscalità generale, alle quali
queste regioni non partecipano, o lo fanno in piccola parte.
Costi a Roma, vantaggi alle Regioni
A conti fatti, come mostrano i dati dei Conti Pubblici Territoriali, lo Stato in media spende all’anno per ogni cittadino italiano che vive nelle Regioni a statuto ordinario 10.737 euro, tanto quanto spende per un cittadino valdostano (10.708), per un abitante del Friuli-Venezia Giulia 12.170, per un trentino 9.343, un altoatesino 9.222, un sardo 9.666, e per un siciliano 8.214.