È stato un fine settimana complesso sul fronte degli sbarchi. Il Tempo traccia un quadro della situazione con Wanda Ferro, deputata di Forza Italia e sottosegretaria all’Interno. Onorevole Ferro, si è riaperto il fronte Ong. È scattato il fermo per la nave «Louise Michel» di Bansky e la Guardia Costiera ha sottolineato come spesso l’attività delle Ong faccia da intralcio ai soccorsi delle autorità italiane. Queste organizzazioni sono un problema nel Mediterraneo? «Le navi delle Ong non possono pensare di operare in totale autonomia, senza coordinarsi con l’autorità nazionale e addirittura intralciando il lavoro delle nostre unità militari che lavorano incessantemente per mettere in salvo le vite di decine di migliaia di migranti. Non entro nel merito della vicenda specifica, ma le navi delle Ong devono rispettare le regole. Quando effettuano un salvataggio, devono portare i naufraghi nel porto indicato come più sicuro, e non restare in mare per trasbordare migranti fino a raggiungere il pieno carico, comportandosi a tutti gli effetti come dei traghetti. È indiscutibile che questo incentivi le organizzazioni di trafficanti a mettere in mare delle imbarcazioni sempre più precarie e inadatte ad affrontare la traversata del Mediterraneo, con grave rischio per la vita delle persone a bordo». C’è un critico eccellente alla normativa approvata dal governo per contrastare gli sbarchi, ed è l’ex sottosegretario, già capo della Polizia, Franco Gabrielli. Dice: «È inutile prendersela con gli scafisti che sono gli “sfigati” della filiera». Come rispondere a questo argomento? «Mi sembra una lettura un po’ superficiale, che mi stupisce, anche considerato il ruolo che Gabrielli ha avuto negli anni passati, in cui non mi pare ci sia stata una azione particolarmente incisiva contro l’immigrazione clandestina. Altro che sfigati. Parliamo di quei criminali che hanno causato la strage di Cutro, dopo avere intascato più di un milione di euro. Parliamo di quei criminali che non esitano a gettare in mare i migranti per salvare se stessi. È ovvio che non pensiamo solo a colpire chi si mette al timone dei barconi, ma stroncare le organizzazioni che gestiscono il traffico di migranti intervenendo, anche con l’attività di intelligence, già nella fase dell’organizzazione dei viaggi nei paesi sub-sahariani. Si parte dallo scafista per arrivare a chi organizza i viaggi».
Nelle società complesse non tutto può essere risolto dalla legge, non se sono in corso cambiamenti epocali
Ci sono dilemmi morali non decidibili. Almeno non con gli strumenti della norma giuridica, dei delitti e delle pene. Per esempio: in molti riteniamo degradante e per certi aspetti perfino coloniale la pratica della maternità surrogata,
quando essa trasforma l’esperienza intima della gestazione in una
prestazione, regolata da un contratto di affitto dell’utero materno; ma
troviamo inaccettabile che i bambini portati in grembo e partoriti in quel modo siano anche minimamente discriminati rispetto agli altri. Eppure è questo che avviene se si riconosce loro il diritto ad avere un solo genitore anziché due.
Oppure ancora: siamo
convinti che lo Stato non debba cedere mai al ricatto della violenza, e
che il regime carcerario del 41 bis abbia le sue giustificazioni, ma
non vogliamo in nessun modo che Alfredo Cospito muoia; vogliamo
anzi che lo Stato, soprattutto oggi che non è più in pericolo di vita
come ai tempi delle Brigate Rosse, faccia di tutto perché resti in vita
il detenuto in sua custodia.
È probabile che la maggioranza degli italiani la pensi pressappoco così. Non è incapacità di decidere, è puro buon senso. Nel
dibattito pubblico ci viene spesso chiesto di schierarci con l’una o
l’altra delle posizioni alternative, di scegliere tra la soluzione A e
la soluzione B. Perché questa è la logica della politica e della
democrazia dell’opinione, organizzata come un derby quotidiano tra
fazioni. Ma noi spesso vorremmo sia A
sia B, vorremmo che il principio del rispetto della legge fosse sempre
reso compatibile con il principio della centralità della persona e della
vita umana. Pensiamo infatti che il primo sia lo strumento e il
secondo il fine. E perciò preferiremmo una soluzione che accresca la
«felicità generale», e dunque anche quella personale di tutti i soggetti
coinvolti; perché «se la felicità di una persona è un bene per quella
persona, la felicità generale è un bene per l’insieme di tutte le
persone».
Questa idea l’ha formulata un filosofo, John Stuart Mill,
considerato il maggiore esponente di una dottrina etica,
l’utilitarismo. È nata in un contesto culturale, il liberalismo inglese,
che fu capace di separare la morale dalla politica. E si trova molto a
suo agio in un ambiente di «common law» come quello anglosassone, dove non comanda il Codice ma il Diritto consuetudinario, la giurisprudenza basata sulle decisioni precedenti. È molto più difficile dunque da applicare a un sistema come quello italiano che invece idolatra la Legge, la Norma, e anzi ne produce in quantità mostruose, non paragonabili a quelle degli altri grandi Paesi civili.
E così eccoci qui, ancora una
volta, a voler decidere con una norma (ovviamente penale) del
comportamento individuale, trascurando la critica del paternalismo etico
che proprio Stuart Mill ci ha consegnato: «Non si può costringere
legittimamente qualcuno a fare o non fare qualcosa spiegandogli che
sarebbe meglio per lui agire in quel certo modo, che agire così
apparirebbe saggio o addirittura giusto agli occhi degli altri. Tutte
queste sono delle buone ragioni per muovergli delle obiezioni, per
invitarlo a discuterne, per persuaderlo oppure per supplicarlo: ma non
per costringerlo o per fargli del male nel caso agisca diversamente».
I dubbi sulla tenuta del sistema bancario. Il sentiero impervio delle
banche centrali, strette tra la lotta all’inflazione, più difficile da
domare di quanto previsto, e l’impatto incerto della stretta monetaria
sull’economia. Che, a sua volta, rende vulnerabile la traiettoria degli utili e la dinamica dei listini azionari.
Sono queste le incognite che oggi alimentano la tentazione di cercare
rifugio nella liquidità: lontano dai mercati — specialmente dalle Borse —
in attesa di una schiarita capace di ripristinare la fiducia degli
investitori. La buona notizia è che oggi, a differenza di pochi mesi fa, la liquidità rende. Non
sul conto corrente, dove il cash, al contrario, subisce in toto la
costante, inesorabile erosione del potere d’acquisto dovuta
all’inflazione, a un passo vicino al 9%, su base annua. Ci sono, però,
tre alternative per chi vuole mettere a frutto la liquidità: conti di
deposito, fondi monetari e titoli di stato a breve termine. Attenzione:
anche qui l’inflazione morde, come del resto fa su tutte le attività
finanziarie, azioni, bond, valute, materie prime. Ma per lo meno, fa un
po’ meno male, grazie a rendimenti molto più competitivi rispetto a
pochi mesi fa, complice l’intervento della Banca centrale europea, che
ha alzato i tassi di riferimento di 3,5 punti percentuali, a partire
dallo scorso luglio.
Il confronto, tra investimento e risparmio
Quali sono i migliori strumenti per remunerare il cash, minimizzando i rischi? L’Economia del Corriere
ha messo a confronto le diverse opzioni, esaminando i migliori fondi
monetari, i conti di deposito che oggi offrono un rendimento più
interessante e una selezione di titoli governativi con scadenze
inferiori ai 18 mesi, adatti a interpretare l’attuale fase di mercato in
chiave difensiva, senza rinunciare a un po’ di rendimento. La
premessa imprescindibile è che si tratta di soluzioni con
caratteristiche diverse, che si prestano quindi anche a usi differenti. I
fondi monetari, per esempio, sono lo strumento adatto agli investitori
che vogliono posizionarsi solo temporaneamente sulla liquidità, in
attesa che le condizioni di mercato rendano più appetibile un ritorno su
classi di attivo più rischiose e potenzialmente redditizie, come le
azioni. È la strada più efficiente, quindi, se si vuole tenere una riserva di liquidità pronta ad essere investita, in tempi rapidi, all’emergere di nuove opportunità.
I conti di deposito
I conti di deposito, invece, sono prodotti di risparmio, più che d’ investimento. I ritorni più interessanti, qui, si hanno sulle giacenze vincolate a 5 anni, con tassi lordi fino al 4,5%.Niente male, verrebbe da dire, se si pensa che il Btp di pari durata oggi rende il 3,4%. Scadenze
così lunghe e la presenza del vincolo — che in alcuni casi può essere
«sciolto», a fronte di una penalizzazione sul piano degli interessi
maturati — rendono però il deposito meno adatto a un parcheggio
«tattico», che faccia da preludio a nuovi investimenti. Non è detto,
poi, che il conto remunerato e il deposito titoli utilizzato per gli
investimenti siano nel la stessa banca, il che aggiungerebbe un
ulteriore passaggio, oltre all’eventuale chiusura del conto deposito,
una volta esaurita la sua funzione. Il problema non sussiste se, invece,
si acquistano direttamente dal proprio deposito titoli singole
emissioni governative a breve scadenza, in vista di un futuro
investimento in azioni o strumenti di risparmio gestito. «In questo
caso, comunque — osserva Rocco Probo, analista dell’ufficio studi di
Consultique — bisogna mettere in conto una possibile oscillazione dei
prezzi, benché modesta, legata alla dinamica dei tassi o all’evoluzione
del rischio Paese».
Il risveglio dei salvadanai vincolati fino a 5 anni
Da qualche mese a questa parte, gli interessi riconosciuti da alcune
banche sulle giacenze del conto deposito sono diventati più attraenti.
«È un mercato in grande fermento», dice Paolo Benazzi, general manager
di Sostariffe.it. Le offerte più interessanti, spesso in promozione per
un periodo predeterminato, provengono da piccole banche emergenti: «sono
soprattutto loro a darsi battaglia su questo fronte, proponendo
condizioni via via più interessanti, a mano a mano che la Bce alza i
tassi», dice Benazzi. In epoca di tensione sul canale bancario, la
domanda è inevitabile: c’è da fidarsi? Vale
la pena ricordare che le somme depositate su conti correnti e di
deposito sono garantite fino a 100mila euro, per istituto di credito e
depositante, dal Fondo interbancario di tutela dei depositi.
Significa che se il conto è cointestato, la garanzia vale doppio. «Sotto
i 100mila, è meno rilevante interrogarsi sulla solidità dell’istituto.
Sopra, però, ha senso esaminare i coefficienti patrimoniali. Noi
monitoriamo anche i livelli aggregati delle sofferenze, i crediti
incagliati e anche la redditività del business: non ha a che vedere con
la solvibilità, ma a lungo andare può dare qualche problema», dice Rocco
Probo, analista di Consultique. La scelta di tenere somme
importanti sul deposito è più frequente di quanto si creda. E in
aumento. «Le simulazioni fatte sui nostri portali suggeriscono che c’è
un elevato numero di persone disposte a vincolare una parte rilevante
dei propri risparmi: il 14% delle ricerche è relativa a importi tra
90mila e 100mila euro. Un terzo si focalizza su scadenze sopra i 36
mesi, fino a 5 anni», dice Benazzi. Gli interessi maturati sul conto
deposito sono tassati al 26%, contro un prelievo del 12,5% su titoli di
Stato e sui fondi monetari che investono nei governativi a breve
termine. In più, bisogna considerare il bollo (0,2% sulle somme
depositate, per le persone fisiche). Tranne nei casi in cui la banca se
ne fa direttamente carico, a titolo promozionale.
Record di arrivi rispetto al 2022: i
migranti sbarcati sono quattro volte quelli dello scorso anno. Il
commissario Ue Gentiloni è a Tunisi. Il presidente annulla il vertice,
poi lo vede
I numeri parlano da soli, li ha dati ieri il Viminale: dal primo gennaio al 27 marzo dell’anno scorso, il 2022, sbarcarono in Italia 6.543 migranti. Ora attenzione: quest’anno, il 2023, ne è sbarcato un numero simile – 6.564 – ma negli ultimi cinque giorni, cioè da giovedì scorso fino a ieri. E se invece andiamo a vedere quanti sono stati gli sbarchi in totale, quest’anno, dal primo gennaio al 27 marzo, ecco che la cifra si fa impressionante: 26.927 migranti. Cioè quasi il quadruplo dell’anno scorso.
«La Calabria e la Sicilia rischiano di essere travolte», lancia l’allarme Roberto Occhiuto, il governatore della Calabria, che negli ultimi quattro giorni ha dovuto registrare ben 1.500 arrivi solo a Roccella Ionica, il porto della Locride diventato il nuovo approdo scelto dai trafficanti libici. «C’è evidentemente un attacco della malavita in corso», commenta il vicepremier Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture e responsabile della Guardia costiera, che due giorni fa ha accusato le navi Ong di intralciare i soccorsi. Le Ong sotto attacco? «È l’Italia sotto attacco, non le Ong», taglia corto il leader della Lega. Dura la segretaria del Pd, Elly Schlein: «Sul tema dei migranti Giorgia Meloni è tornata da Bruxelles con un pugno di mosche». Al vetriolo anche la chiosa di Carlo Calenda, del Terzo polo: «Salvini fa meno danni se si occupa del Ponte sullo Stretto».
Inquietante, però, il quadro fornito dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes): «I trafficanti di esseri umani in Tunisia stanno approfittando della situazione nel Paese e hanno intensificato le loro attività». In effetti decine di barchini salpano ogni giorno da Sfax verso l’Italia, 3 mila arrivi in 24 ore solo tra venerdì e sabato. E tra i migranti in partenza, la Guardia costiera tunisina ha intercettato il 24 marzo un ricercato per terrorismo già condannato a dieci anni. Ieri a Tunisi è arrivato il commissario Ue all’Economia, Paolo Gentiloni, per incontrare Kais Saied. Un incontro complicato: prima annullato bruscamente dal presidente tunisino e poi riprogrammato in extremis grazie al lavoro fitto della nostra diplomazia. La Tunisia chiede al mondo aiuti finanziari contro la grave crisi economica: «Ci sono molti interessi comuni tra Ue e Tunisia, siamo pronti al sostegno ma servono riforme – ha detto al termine Gentiloni -. Di certo, la Tunisia non sarà lasciata sola».
Intervista a Hope Carrasquilla,
licenziata dopo aver mostrato una foto del David di Michelangelo ala
Tallahassee Classical School in Florida: «Le lamentele dei genitori
perché non sono stati avvertiti: ma anche perché insegniamo l’evoluzione
o lo studio del riscaldamento globale»
DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE NEW YORK — Per 27 anni Hope Carrasquilla ha insegnato Storia dell’Arte, da un anno era la preside della Tallahassee Classical School in Florida. È stata costretta dal Consiglio scolastico a dimettersi dopo che l’insegnante d’arte ha mostrato il David di Michelangelo agli studenti di prima media e una dei genitori lo ha ritenuto pornografico.
Il caso ha fatto scalpore, il sindaco di Firenze Dario Nardella vuole invitare e premiare Carrasquilla, e lei dice via zoom che ne sarebbe onorata: sognava di portare gli allievi dell’ultimo anno a Roma e a Firenze.
Licenziata per il David? «Per essere chiari, questa è una delle ragioni presentate da Barney Bishop, il capo del Consiglio scolastico, non l’unica. E i genitori lunedì scorso non capivano la necessità di discutere il mio licenziamento o le mie dimissioni. Per quanto riguarda la lezione in sé, tre genitori avevano espresso preoccupazione quando l’insegnante aveva fatto la sua bellissima presentazione sulla storia del Rinascimento. Una madre pensa che il David sia pornografico. E mi rendo conto che tutti dicano: come è possibile pensarlo… Altri due genitori erano dispiaciuti perché la lettera che avevamo mandato l’anno scorso per notificare che, quando studiamo il Rinascimento ci sono nudi artistici, quest’anno non era stata mandata. Tornata a casa, una studentessa ha detto di essere stata a disagio e la famiglia avrebbe voluto saperlo per essere preparata».
I genitori devono essere informati 72 ore prima di lezioni su temi «controversi»? «Questa è la nuova regola stabilita dopo l’incidente».
Prima, insegnanti e preside ne parlavano in anticipo? «È l’insegnante che manda una lettera di notifica ai genitori. Altre due vengono mandate in quinta elementare, quando in Scienze si studia il ciclo vitale degli animali e la riproduzione umana e quando si legge La vita di Frederick Douglass (ex schiavo e leader abolizionista ndr), un libro intenso per bambini che non sanno cosa succedeva a quell’epoca. Stavolta sono stata coinvolta perché l’insegnante d’arte mi ha chiesto se mandare la lettera, ho detto di sì, l’ho mandato da chi se ne occupa e lì c’è stato l’intoppo, la lettera non è partita».
Questa è una «charter school» (scuola privata sovvenzionata) legata all’Hillsdale College, noto college conservatore. Quindi alcune delle persone che mandano i figli qui vogliono che facciano studi classici ma hanno problemi con l’arte classica? «Non solo l’arte. Si parla di evoluzione… Un altro genitore si lamentava per lo studio del riscaldamento globale… Parlo con loro, spiego che cosa insegniamo… Normalmente tutto si risolve. Quest’anno no. Non era mai successo prima pur con le stesse materie».
Non le era mai successo con il David? «In un’altra scuola, in terza elementare, una madre si era lamentata. Ma non c’è niente di inappropriato. È arte. Guardiamo il David: c’è una vulnerabilità nella sua nudità, nel suo volto adolescente. Studiamo anche La creazione di Adamo. Se lo vesti, racconti la storia in modo inaccurato».
La direttrice della Galleria dell’Accademia a Firenze, Cecilie Hollberg, dice che definire il David «pornografico» significa non capire la Bibbia e la cultura occidentale. C’è una crociata contro il corpo in America? «Mi addolora che succeda in una scuola di studi classici, dove ci prefiggiamo il bene, il vero, il bello, i temi della civiltà occidentale e dell’istruzione umanistica. In America abbiamo una società iper-sessualizzata. Ma gli studenti dovrebbero capire che non c’è niente di sbagliato nel corpo, niente di cui vergognarsi».
L’Europa, dal 2008, si è dotata di diversi strumenti per far
fronte a nuove eventuali crisi finanziare. I principali sono l’Unione
bancaria e il Meccanismo europeo di stabilita (Mes). Ad oggi, però,
nessuno dei due è operativo al cento per cento. E, ciò danneggia, in
particolare, il nostro Paese. Per un motivo molto semplice: l’elevato
debito restringe (e di molto) i margini d’azione nel caso di un
intervento pubblico. Spingere per completare l’Unione bancaria e
ratificare la riforma del Mes dovrebbe, pertanto, essere una priorità
dell’attuale governo. Eppure, l’esecutivo prende tempo. Al Consiglio
europeo della scorsa settimana, Meloni ha spiegato che il Mes è superato
dall’Unione bancaria che sarebbe, a suo avviso, “uno strumento ben più
efficace”. La realtà, tuttavia, è un po’ diversa. I due strumenti non si
sovrappongono. Bensì agiscono congiuntamente in presenza di una crisi
sistemica. Vediamo il perché.
L’Unione bancaria è stata creata nel 2014, subito dopo il salvataggio
della Spagna. Il crollo del settore bancario iberico dimostra
l’inadeguatezza di un sistema basato su diciannove supervisioni
nazionali diverse sia in termini di regole sia in termini di efficacia.
Nello specifico, quello della Banca centrale spagnola è estremamente
debole. Come oramai da prassi, l’Europa compie passi in avanti verso una
maggiore integrazione solo dopo (e non prima, ahinoi) una crisi. E,
così, solo dopo il salvataggio di Madrid, i leader trovano un
compromesso in materia di vigilanza. Viene, così, creata l’Unione
bancaria europea volta a garantire l’affidabilità, la trasparenza e la
sicurezza del settore creditizio. Il nuovo assetto istituzionale è
composto da tre pilastri, che si applicano alle economie della zona euro
(a quelle non appartenenti ma solo su base volontaria). Il primo
pilastro prevede un Meccanismo di vigilanza unico in capo alla Banca
centrale europea (Bce), seppur in stretta cooperazione con quelle
nazionali. Con simile schema, le norme e i conseguenti controlli
periodici diventano uguali per tutti. Ciò consente di evitare che alcuni
istituti possano essere soggetti a regolamentazioni più blande di altri
con il rischio di creare instabilità all’interno dell’Unione monetaria.
Il secondo pilastro è basato su un Meccanismo di risoluzione unico
composto da un Comitato e da un Fondo di risoluzione finanziato dai
contributi erogati dal settore bancario a livello nazionale. In caso di
crisi di una determinata banca, il Comitato decide il tipo di
intervento. Le soluzioni dipendono dalla gravità della situazione. In
alcune circostanze può essere sufficiente trovare nuovo capitale. In
altre è necessario ricorrere al cosiddetto bail-in, ossia a un
salvataggio interno. Si tratta di un cambio radicale rispetto al passato
quando le banche venivano salvate con i soldi dei contribuenti europei
(bail-out). Con la nuova normativa, infatti, le perdite vengono
assorbite in base alla logica della responsabilità: paga di più chi ha
maggiormente contribuito al dissesto. Si comincia con gli azionisti che
hanno scelto i manager incompetenti; poi i creditori subordinati che
hanno comprato prodotti ad alto rischio ma anche ad alto rendimento;
infine, i depositanti sopra centomila euro che hanno commesso l’errore
di scegliere la banca sbagliata. In questo processo, il Fondo di
risoluzione unico entra in gioco solo quando è stato applicato un
bail-in minimo, ossia pari all’otto per cento delle passività totali. In
altre parole, il Fondo può assorbire le perdite al posto dei creditori
solo entro certi limiti. La capacità totale è di circa 55 miliardi di
euro. Il terzo pilastro dell’Unione bancaria prevede la creazione di
un’assicurazione unica per proteggere i depositanti sotto centomila
euro. Ad oggi, essi sono tutelati dai sistemi nazionali che, però,
variano, in termini di entità, da Paese a Paese. L’obiettivo è quello di
disporre di una copertura più solida e più uniforme. Ciò contribuirebbe
ad assicurare parità di condizioni per le banche dell’eurozona. E,
quindi, maggiore stabilità. Nonostante ciò, questo sistema comune di
protezione dei depositi non è ancora stato introdotto.
ROMA. Non è proprio una banca, ma ci si avvicina molto. Sarà
un veicolo finanziario a partecipazione diffusa ad acquistare quei 20
miliardi di euro di bonus edilizi che le imprese non sono riuscite a
cedere alle banche. Questa società darà vita a una piattaforma per
incrociare l’acquisto e la vendita dei crediti fiscali tra imprese e
banche, e vi giocheranno un ruolo anche le partecipate statali. Tra
loro, ad esempio, Enel X, società del gruppo Enel: «Siamo quasi pronti, è
questione di poco e potremo dare un decisivo impulso allo sblocco dei
decreti incagliati», rivela l’amministratore delegato Francesco
Venturini, che così spiega il funzionamento del meccanismo. «Il veicolo
finanziario acquista i crediti, li certifica come certi, liquidi ed
esigibili da un primo cessionario, ed esegue un ponte per cedere
nuovamente tali crediti a terzi secondo il loro calendario di scadenze
fiscali, affinché ne abbiano un vantaggio diretto ed immediato».
Insomma, la moral suasion portata avanti dal governo nei
giorni scorsi per convincere Unicredit, Poste, Banco Bpm, le principali
compagnie assicurative e gli altri istituti ad acquistare i vecchi
crediti del Superbonus ha funzionato. Le banche che hanno capienza
fiscale riprenderanno a comprarli, sperando di poterli convertire in Btp
a 10 anni. Con questo mix di misure, auspica il Mef, si restituisce
liquidità al sistema, le migliaia di ditte in difficoltà dovrebbero
riuscire a evitare il default e nei cantieri si ricomincerà a lavorare.
Salta invece la possibilità di compensare i crediti con gli F24, i
modelli che i clienti delle banche usano per pagare le tasse.
«L’utilizzo degli F24 genererebbe sostanziali e rilevantissimi problemi
di cassa», spiega il sottosegretario al Tesoro Federico Freni.
La commissione Finanze della Camera ha poi approvato l’emendamento
che proroga il Superbonus per le villette fino al 30 settembre 2023. Il
nuovo termine – che prolunga la scadenza del 31 marzo – vale per le
abitazioni unifamiliari che hanno effettuato entro il 30 settembre 2022
almeno il 30% dei lavori per beneficiare del 110%.
PARIGI. La Francia torna in piazza per la decima mobilitazione contro
la riforma delle pensioni, dopo che il governo del presidente, Emmanuel
Macron, l’ha approvata senza il voto dell’Assemblea nazionale. Il Paese
vivrà un’altra giornata di proteste, scioperi, blocchi e disagi.
Accusate di violenza dai manifestanti, le forze dell’ordine si
apprestano ad affrontare «una presenza molto più numerosa di giovani»,
secondo una fonte della polizia che prevede «il doppio o addirittura il
triplo» del loro numero rispetto alle precedenti mobilitazioni. Sorprese
dall’entità dell’ultima mobilitazione – 1,09 milioni di partecipanti
giovedì scorso secondo il governo, più di 3 milioni secondo i sindacati –
le autorità prevedono questa volta un totale di 650.000-900.000
manifestanti, di cui 70.000-100.000 a Parigi. Mobilitati 13.000 tra
poliziotti e gendarmi, di cui 5.500 nella capitale, un «dispositivo di
sicurezza senza precedenti», ha sottolineato in conferenza stampa il
ministro dell’Interno, Ge’rald Darmanin, che ha avvertito della
possibile presenza a Parigi di «più di 1.000 elementi radicali».
Il traffico ferroviario subirà delle limitazioni: saranno attivi TGV su cinque e un TER su due in media secondo il gestore ferroviario Snfc. Difficoltà anche nei trasporti parigini, dove la RATP ha ridotto il traffico sulla maggior parte delle linee metro e RER. Il 15% delle stazioni di servizio ha esaurito almeno un carburante, soprattutto nell’Ovest e nel Sud del Paese, conseguenza della chiusura di cinque delle sette raffinerie francesi.
Quel viaggio a Tunisi di Giorgia Meloni, che a Palazzo Chigi
avevano ipotizzato poco più di tre settimane fa, è stato sospeso. La
macchina organizzativa della presidenza del Consiglio partirà solo
quando ci sarà maggiore chiarezza sulle condizioni di stabilità del
Paese nordafricano. Il governo vuole anche capire cosa faranno gli
americani, se permetteranno all’Italia di portare in dote al presidente
Kais Saied il finanziamento del Fondo monetario internazionale, al
momento congelato. Dalla Farnesina emerge ottimismo, ma la partita resta
complicata. Meloni aveva accennato al viaggio subito dopo il colloquio
con la prima ministra tunisina Najla Bouden Romdhane, in visita a Roma
agli inizi di marzo. La presidente del Consiglio è preoccupata. Gli
aggiornamenti dei servizi segreti e del Ministero degli Esteri sono
allarmanti. Il flusso dei migranti in partenza dalla fascia
sub-sahariana e in transito dalla Tunisia è in aumento e Meloni teme
possa diventare «incontrollabile». Anche per questo motivo, a Bruxelles,
a margine del Consiglio europeo, ha cercato la sponda di Emmanuel
Macron.
I timori di Palazzo Chigi si sono acuiti ieri dallo sviluppo della
visita di Paolo Gentiloni, che inizialmente non è stato ricevuto da
Saied con la scusa che «un presidente non incontra un commissario
europeo». L’incidente diplomatico è stato risolto dopo qualche ora,
Gentiloni ha potuto parlare con il capo di Stato nel pomeriggio, anche
grazie alla mediazione dell’ambasciatore italiano Fabrizio Saggio. La
questione cruciale per la Tunisia, ma anche per l’Italia, resta lo
sblocco dei fondi che il Fondo monetario ha congelato con l’argomento
che, in sostanza, il Paese nordafricano sta diventando un regime che
peraltro non fa le riforme economiche. Ma quei soldi, 1,9 miliardi di
dollari, sono decisivi per tentare di evitare il collasso dello Stato
con evidenti ricadute sulle partenze dei migranti. Gli americani
sembrano irremovibili, ma forse qualcosa si muove. Il governo spera che
la telefonata prevista per oggi del ministro degli Esteri Antonio Tajani
con il segretario di Stato Usa Antony Blinken possa ammorbidire la
posizione di Washington. La proposta italiana, concedere i finanziamenti
a rate condizionandoli all’attuazione delle riforme, inizia a far
breccia.
C’è anche un fronte di politica interna che preoccupa: la Lega torna
alla carica in Parlamento. La conversione del decreto licenziato dal
Consiglio dei ministri a Cutro è l’occasione per il Carroccio di
riproporre, ancora una volta, la stretta sulla protezione speciale. Si
tratta dei permessi di soggiorno per chi, pur non avendo i requisiti
della protezione internazionale, non può tornare nel proprio Paese
d’origine per pericolo di persecuzione e tortura, per la Lega è un
escamotage per una sorta di sanatoria mascherata.
Gianni Minà non c’è più. Una malattia cardiaca l’ha portato
via in poco tempo. «Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato
dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari» si legge sulle
sue pagine social ed è consolante, nella nebbia del dolore, immaginare
un addio così dolce, tra sguardi amorevoli e mani accarezzate. Siamo più
soli noi, senza più una guida preziosa, perché chiunque abbia bazzicato
una redazione, abbia scelto o solo sognato questo mestiere, ha sperato
di seguirne un poco le orme, di trasferire una goccia della sua
sensibilità nelle interviste, di rubare un granello del suo stile, di
strappare e custodire solo qualche pagina di quell’agenda leggendaria
che ispirò una straordinaria gag con Massimo Troisi, suo grande amico.
È impossibile, adesso, frugando tra aneddoti e ricordi, non pensare
alla famosa cena romana in cui riuscì a riunire Gabriel Garcia Marquez,
Sergio Leone, Robert De Niro e Muhammed Ali, in fondo lo spot della sua
grandezza: «Un patrimonio dell’umanità da Checco il Carrettiere»
raccontava, una vita dopo, sorridendo dietro i baffi folti. Facile.
Troppo. Ci sono altre cene che raccontano bene Minà. Ritagliate in fondo
a giornate lunghissime in locali della periferia torinese, a tavola non
vip ma ragazzi intimiditi e orgogliosi, apprendisti in quel Tuttosport
che lui, il Direttore, voleva accanto quando il giornale era chiuso. E
non parlava mai di se stesso, vizio e vezzo di tanti grandi e pure di
chi grande solo si sente, ma della bellezza del mestiere, della fortuna
di raccontare, del privilegio d’essere testimoni nel mondo.
Ascoltava, soprattutto. Confidenze e sogni. Li tirava fuori con
facilità perché riusciva a sconfiggere la soggezione. Lo interrompevano
per discutere di montaggi delicati o fissare appuntamenti importanti, lo
chiamavano personaggi famosi, ma subito tornava a noi allievi, lo
stesso rispetto, la stessa attenzione, lo stesso affetto. Si specchiava,
in fondo, perché di Tuttosport, a 21 anni, anche lui era stato ragazzo
di bottega. Torinese, aveva cominciato in quelle stanze, poi, nel 1960,
era approdato alla Rai occupandosi di Olimpiadi e pian piano l’aveva
scalata, lasciando un segno profondo: conduttore brillante, autore di
reportage passati alla storia, curioso e preparato, capace di spaziare
con immutate competenza e passione dalle cronache di boxe e di calcio ai
grandi racconti dell’America Latina, terre di cui era innamorato. «Ho
avuto la fortuna di lavorare in Rai quando la Rai puntava in alto».
Nel suo Blitz, innovativo programma tv, intervennero Federico Fellini, Sergio Leone, Ali e De Niro, Jane Fonda. Intervistò per sedici ore Fidel Castro, al quale fu legato da uno speciale rapporto, e raccontò Maradona intimo come nessuno, cogliendone fragilità e tenerezze sconosciute al grande pubblico. Anche del Pibe, era amico. E di Troisi.