Archive for Marzo, 2023

Nomine, il primo banco di prova è Mps. Domani nuovo vertice a Palazzo Chigi

lunedì, Marzo 20th, 2023

Ilario Lombardo

ROMA. Si parte con Monte dei Paschi di Siena. Il tavolo informale sulle nomine dovrebbe riunirsi di nuovo domani a Palazzo Chigi. Si ritroveranno il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovambattista Fazzolari, i due vicepremier, Matteo Salvini e Antonio Tajani, e Gianni Letta, braccio destro di Silvio Berlusconi. Giorgia Meloni non ha ancora deciso se parteciperà oppure lascerà fare al fidato Fazzolari. La riunione sul giro di poltrone delle partecipate servirà soprattutto a formalizzare le regole. Cioè le quote che spettano ai tre partiti di maggioranza – quanto andrà a chi – e con quali criteri la politica accoglierà o meno le indicazioni dei cacciatori di teste ingaggiati dal ministero dell’Economia. Anche perché tra fine marzo e gli inizi di aprile bisognerà licenziare la prima tranche di nomi.

Meloni ha fatto due richieste: confermare i manager – se non tutti, quasi – che hanno fatto bene e avere almeno un amministratore delegato donna in una delle grandi aziende di Stato. Difficile che non venga accontentata. E, secondo fonti di governo, tutto lascia pensare che possa essere a Terna. Basta andare per esclusione: sembra ormai certo che l’attuale ad Stefano Donnarumma sarà destinato a Enel, mentre per Leonardo e Poste i candidati su cui i partiti continuano a insistere sono uomini.

Meloni sa che al grande buffet delle nomine la Lega arriva più affamata del solito. E qualcosa, di quanto chiesto, Salvini intende ottenerlo. La Stampa ieri ha raccontato di Rfi, la società del Gruppo Fs che gestisce la rete ferroviaria italiana, e su cui saranno riversati 25 miliardi di euro del Pnrr. Ma il leader della Lega vuole piazzare uomini di fiducia anche fuori dalle aziende di competenza dirette del ministero dei Trasporti. Entro il 26 marzo il Mef dovrà ufficializzare la lista dei candidati per il Cda di Mps. Per l’ad sembra ormai certa una soluzione interna e al Tesoro danno come probabile la riconferma di Luigi Lovaglio, alla guida del Monte dal febbraio 2022.

D’altronde, osservano dal ministero, in tredici mesi è stato in grado di chiudere un aumento di capitale da oltre 2 miliardi e portare più di quattromila dipendenti all’uscita volontaria. Avrebbe dato anche ampie garanzie al centrodestra, di puntare a realizzare l’operazione battezzata da Salvini un anno fa: consolidare Mps come il terzo polo bancario italiano, magari portando l’istituto alla fusione con Bpm o Bper. Quel che è certo è che la Lega non vede l’ora di mettere le mani sulla banca che per decenni è stata il centro di potere locale e nazionale del Pd. Salvini la considera «una svolta epocale», e, per essere sicuro che non rimanga alcuna impronta della sinistra, ha chiesto che a occupare la poltrona di presidente vada Nicola Maione, avvocato, già presidente di Enav, e consigliere di Mps.

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Quella partita doppia tra Schlein e Conte

lunedì, Marzo 20th, 2023

Alessandro De Angelis

Da quando c’è Elly Schlein, Giuseppe Conte appare spiazzato perché dall’essere un problema per gli altri, si è ritrovato a gestire un bel problema in casa. C’è poco da fare: anche il suo eloquio un po’ barocco cozza con la disinvoltura con cui la neo-segretaria del Pd si muove nelle piazze, da quella antifascista di Firenze a quella arcobaleno di Milano. Piazze che hanno rivitalizzato sentimenti già esistenti. Mica è una novità che il Pd canta Bella ciao ed è schierato sui diritti, ma è chiaro che una giovane donna di sinistra-sinistra riesce a incarnare meglio questo sentiment, a parità di linea, rispetto a un democristiano come Enrico Letta. Ancor di più con un governo orgogliosamente polacco in carica. Dettaglio interessante: in entrambe queste occasioni, Elly Schlein non ha avuto neanche bisogno di parlare, lasciando che fosse l’argomento a imporsi, perché per biografia non serviva neppure.

Però il cammino è lungo e, quando c’è bisogno di parole e opere, più complicato. Non è solo questione di “fuori”, dove la neo-leader del Pd sembra essere più a suo agio, e “dentro” il suo partito, dove, dopo una settimana dall’insediamento, non ha ancora nominato capigruppo e gruppi dirigenti (a proposito di “cacicchi”, correnti e del loro potere di condizionamento). Ma è ancora un’incognita la costruzione di un popolo “fuori”, oltre le issues delle élite urbane. E l’avvocato del popolo che in questo derby a sinistra ha incassato un paio di goal (neppure l’immigrazione è il suo forte dai tempi dei decreti sicurezza) si prepara al contropiede sulla guerra (tema assai popolare). Sa bene che per Elly Schlein è complicato dire sì alle armi, e infatti domani in Parlamento la parola resterà innominata nella mozione del Pd, ma è altrettanto complicato dire di no, spostando senza traumi interni la collocazione internazionale del suo partito. E, in ogni caso, questo slittamento di cui si vedono i prodromi ha bisogno di tempo. Il che consentirà ancora al leader M5s di essere l’alfiere, agli occhi di un pezzo di opinione pubblica, di un pacifismo senza se e senza ma. E al Pd di apparire come il partito che quella posizione vorrebbe assumerla ma per ora non può.

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Putin sfida l’Aja nel buio di Mariupol, visita a sorpresa nella città rasa al suolo

lunedì, Marzo 20th, 2023

Anna Zafesova

Guidare nella notte per le strade di Mariupol occupata, entrare nelle case appena ricostruite in mezzo alle macerie, stringere le mani dei suoi abitanti e ascoltarli ringraziarlo per «questo piccolo pezzettino di paradiso»: Vladimir Putin ha reagito all’incriminazione da parte del Tribunale internazionale dell’Aja presentandosi in persona nella città ucraina di cui ha ordinato la conquista e la distruzione. Un’apparizione molto attesa dai sostenitori della guerra, ansiosi di vedere il leader russo sulla linea del fronte al pari del suo avversario Volodymyr Zelensky, per riaffermare quello che la propaganda ripete tutti i giorni e che la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha ripetuto anche ieri essere la condizione irrinunciabile di Mosca per un negoziato: «Il riconoscimento delle nuove realtà territoriali», cioè dell’annessione russa dei territori ucraini. Alla vigilia dell’arrivo a Mosca di Xi Jinping, in una visita che il Cremlino aspetta con ansia, il presidente russo ha deciso così di mandare un segnale: qualunque possa essere il “piano di pace” concordato con Pechino, non ha intenzione di discutere di Donbass e Crimea.

Una visita che però non ha avuto una scenografia solenne, e il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov forse ha ragione a descriverla come «improvvisata». Putin non si è presentato come il padrone delle sue nuove terre: le poche riprese del suo giro per Mariupol trasmesse dalla televisione di Stato russa sono avvenute al buio, a tarda sera o nella notte. Una visita quasi furtiva, forse per motivi di sicurezza, o semplicemente per non mostrare le condizioni reali di una città-martire, rasa al suolo da quasi tre mesi di bombardamenti, dove il 90% degli edifici sono stati distrutti o pesantemente danneggiati. Putin – che il giorno prima era apparso in Crimea, nell’anniversario della sua annessione nel 2014 – si è messo al volante di una Toyota insieme al vicepremier Marat Husnullin, che l’ha portato nel quartiere Nevsky, appena eretto in mezzo alle macerie. Nel buio di un cortile altrimenti deserto il presidente si è imbattuto in un paio di famiglie che gli hanno espresso la loro gratitudine e l’hanno invitato a visitare il loro trilocale, ordinato in una maniera innaturale. Poi, si è fatto spiegare da Husnullin, direttamente in strada, che Mariupol non era stata distrutta dai russi che l’assediavano, ma sarebbe stata devastata dai «nazisti ucraini» che si ritiravano «minando anche le apparecchiature mediche». Infine, il presidente russo ha visitato la nuova sala della filarmonica – quella dove i suoi falchi stavano allestendo la gabbia per il processo ai combattenti del battaglione Azov, che il Cremlino ha invece restituito a Kyiv in cambio dei prigionieri russi – sedendosi con aria annoiata in una poltrona della platea e commentando distrattamente «comodo e bello».

Un’apparizione talmente insolita da aver sollevato qualche dubbio sull’autenticità della scenografia, e aver risvegliato i soliti dubbi sul fatto che Putin fosse stato impersonato da un sosia. Poche ore prima, il presidente era stato in Crimea, in compagnia del suo confessore Tikhon Shevkunov, subito dopo è apparso – di nuovo nella notte, ma già vestito con giacca e cravatta invece del maglione con piumino sfoggiati a Mariupol – a Rostov-sul-Don, in territorio russo, salendo le scale del «centro di comando militare» insieme al capo dello Stato Maggiore Valery Gerasimov. Nella stanza del centro lo aspettava anche l’ex comandante delle truppe in Ucraina Sergey Surovikin, ma è con Gerasimov che (stando a Peskov) Putin si è «appartato a lungo» dopo la riunione, a sottolineare che resta il suo interlocutore principale tra i militari, nonostante i ripetuti attacchi del capo del gruppo Wagner Evgeny Prigozhin.

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Il Leviatano della finanza e le colpe della politica

lunedì, Marzo 20th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Saltano le banche. Un’altra volta, come nel 1929, come nel 2008, come nel 2015. E allora? Che sarà mai? Di che ci meravigliamo? Mi torna in mente il magnifico “Qualcosa sui Lehman” di Stefano Massini, quando il cinico Philip rimbrotta suo cugino Herbert, graffiato per un attimo dalla lama arrugginita del rimorso: «Cos’è il mondo, se non mercato? Gli esseri umani non possono vivere senza denaro… Non esiste un solo aspetto dove non regni il vendere-comprare. Dunque non capisco: cos’è che non ti piace?». E infatti. Cos’è che non ci piace nel gioioso crac della Silicon Valley Bank, tempio votivo della modernità e propaggine finanziaria del meraviglioso mondo delle start up californiane, così meta-versiche, iper-tecnologiche, super-dinamiche?

Cos’è che non ci piace nel gaudioso dissesto del Credit Suisse, carro allegorico del “capitalismo reale” e simbolo schumpeteriano della distruzione creatrice permanente e ricostituente? Una ha polverizzato 42 miliardi di dollari di depositi in un solo giorno, l’altra ha perso il 25% del suo valore in pochi minuti. In due sedute, a distanza di tre giorni tra il primo e il secondo default, le Borse europee hanno visto svanire più di 600 miliardi di capitalizzazione. E allora? Che problema c’è? Nessuno. Così assicurano gli economisti e gli statisti, i padrimaristi e i palastilisti. Non si vedono all’orizzonte né minacce alla stabilità del circuito internazionale né effetti domino da una parte all’altra dell’Atlantico (dati i coefficienti patrimoniali più severi del pianeta imposti alle banche europee). Svb crolla per un deficit di liquidità: cattivo rapporto tra attivi e passivi della banca innescato dall’aumento dei tassi di interessi.  

Eccesso di investimenti pregressi in titoli di lunga durata a rendimenti bassi e fissi, deprezzati in tempi di stretta monetaria, conseguente fuga della clientela verso impieghi più remunerativi, improvviso e irrimediabile svuotamento delle casse. Credit Suisse collassa per un deficit di affidabilità: squassata dal Big Crash del 2007-2008, zavorrata da scandali e conti in rosso, multata per corruzione e tangenti, condannata per riciclaggio, infine mollata dal primo azionista Saudi National Bank che si rifiuta di aumentare la sua partecipazione, accendendo la miccia sui mercati. La vulgata dice che non si tratta di “cigni neri” sistemici ma di “bachi” singoli e scollegati, e che le soluzioni sono già pronte. In America paga lo Stato: come annuncia lo Zio Jo e, nessun risparmiatore subirà perdite e le autorità monetarie interverranno whatever it needs (variante bideniana del whaterver it takes draghiano). In Svizzera paga la Banca centrale, con un prestito emergenziale di 50 miliardi di franchi, con la speranza che basti e con l’auspicio che ora, all’inevitabile spezzatino del gigante malato zurighese, partecipino “gnomi” più seri e più solidi.

Sarebbe magnifico poter credere a questa storiella, assolutoria e rassicurante. Magari il cordone sanitario, stavolta, funzionerà davvero ed eviterà il contagio. Ma la diffidenza psicologica dei cittadini è comprensibile e l’acribia dogmatica dei decisori è discutibile. Troppe incognite, in un mercato globale già terremotato dalla guerra in Ucraina, dalla crisi energetica, dalla spirale inflazione-recessione. Il nuovo virus bancario incuba durante ma in parte anche a causa della stretta monetaria decisa un anno fa da Fed e Bce. Fronte Federal Reserve: tra martedì e mercoledì capiremo se il governatore Powell rivedrà la strategia del rigore, visto l’impatto negativo del rialzo dei tassi sui bilanci delle banche e il calo dell’indice dei prezzi a febbraio. Nel frattempo, come scrive Adam Tooze, proprio Svb ha perso un miliardo di dollari ogni volta che i tassi sono aumentati dello 0,25% (e negli ultimi dodici mesi la Banca centrale Usa li ha portati da 0 al 4,5%). Fronte Banca centrale europea: giovedì scorso la presidente Lagarde ha riconfermato la Linea Maginot, si va avanti con i rialzi previsti, per non far perdere credibilità all’istituzione e non allarmare la business community su possibili fallimenti creditizi nascosti nell’Eurosistema. Ma intanto, come sostengono il governatore di Bankitalia Visco e il presidente dell’Abi Patuelli, il caro-tassi indebolisce la tenuta patrimoniale delle banche perché ne fa lievitare le minusvalenze in portafoglio, e per questo serve “una riflessione ulteriore” prima di stringere ancora i bulloni del credito (visto che in parallelo sono crollati i prezzi del gas e in dodici mesi la Bce ha comunque innalzato il suo tasso di riferimento al 3,5%).

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Bandi e opere, corsa contro il tempo: il Sud frena il Recovery

lunedì, Marzo 20th, 2023

Luca Monticelli

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è ormai una corsa contro il tempo. I ritardi sui bandi e le opere si accumulano soprattutto nel Mezzogiorno e la via d’uscita individuata dal governo resta quella di spostare alcuni progetti sui fondi Coesione, per avere tre anni di tempo in più per spendere le risorse. Ma le regioni del Meridione temono che i loro programmi vengano scippati a vantaggio di quelli nazionali. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca da giorni accusa il ministro Raffaele Fitto di «voler prendere tutti i soldi del Sud e spalmarli sul piano nazionale, con la scusa che noi non riusciamo a spenderli, e pagare così i costi energetici del Nord». Il Mezzogiorno non deve fare i conti solo con la storica incapacità di investire le risorse, ma anche con la carenza di competenze nelle proprie amministrazioni. Secondo uno studio della Svimez, il 62% dei Comuni del Sud ha giudicato complessa la partecipazione ai bandi del Pnrr, e le opere che procedono a rilento sono quelle fino a un milione di euro. Il ragioniere generale dello Stato, Biagio Mazzotta, ha comunicato l’altro giorno che «sono 164 mila i progetti presentati per il Pnrr, di cui 62 mila al Sud, ma solo un terzo ha ricevuto la necessaria validazione».

La gran parte degli interventi che potrebbero essere spostati dal Pnrr ai fondi Coesione e sviluppo riguarda la transizione “green” e digitale, le misure a favore del lavoro dei giovani e delle donne, il sostegno alle aree di Taranto (per l’ex Ilva) e del Sulcis (dove produceva l’Alcoa) e gli interventi di rigenerazione urbana nelle sei città metropolitane del Mezzogiorno: Bari, Palermo, Catania, Messina, Reggio Calabria e Cagliari. Il lavoro che sta portando avanti il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto ha anche un altro elemento su cui punta molto l’esecutivo di Giorgia Meloni: trasferire i progetti dal Pnrr alla Coesione, infatti, potrebbe liberare miliardi nel piano stesso, consentendo così al centrodestra di mettere mano concretamente a un pacchetto di interventi ereditati da Mario Draghi senza aver avuto, fin qui, margini di manovra.

Entri il 31 di questo mese l’Europa si accinge a dire sì alla terza rata del Pnrr da girare all’Italia, dell’importo di 19 miliardi; e la Commissione europea si appresta anche a dare luce verde al piano dell’Italia che ha chiesto di trasferire le opere del Pnrr che non potranno essere completate entro il 2026 – data limite in cui vanno spesi i soldi – sotto l’ombrello della Coesione, le cui risorse possono essere erogate entro il 2029. I fondi della Coesione, infatti, sono quelli del bilancio europeo del 2021-2027, soldi che possono essere spesi fino a due anni dopo la chiusura della programmazione pluriennale economica di Bruxelles. Per giustificare questo allungamento servono però delle «circostanze oggettive» che rendono impossibile la realizzazione dei progetti entro il 2027, come ad esempio la carenza di materie prime.

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Sgarbi alle figlie: «Quelle del 2000 sono tr…», bufera a «Domenica In». Poi si scusa

lunedì, Marzo 20th, 2023

di Renato Franco

Il sottosegretario alla Cultura nel mirino dei social. Poi viene invitato a fare ammenda

 Sgarbi alle figlie: «Quelle del 2000 sono tr...», bufera a «Domenica In». Poi si scusa

Mara Venier lo aveva invitato a Domenica In per celebrare la festa del papà. Anche se Vittorio Sgarbi non è esattamente un modello di riferimento nel campo (lo ha ammesso a più riprese lui stesso davanti alle figlie Evelina e Alba). Ma la scivolata fragorosa in cui è incappato ha fatto impallidire tutto il resto. A un certo punto la conduttrice gli ha chiesto quando fossero nate le figlie, per capire quanto le conoscesse. «Non ho idea delle date, quando è il loro compleanno mi chiamano e mi chiedono il regalo — ha risposto Sgarbi —. Non so quando compiono gli anni. Però fanno ancora in tempo a entrare in convento, piuttosto che trovare quei maschiacci inutili…». Poi il sottosegretario alla Cultura si è rivolto a una di loro: «Tu di che anno sei? 1999, vero?». «No, sono del 2000», ha risposto rassegnata lei. A quel punto la frase che ha acceso fuochi di critiche sui social: «Sei del 2000? Devi stare attenta, allora… C’era una mia assistente che diceva che quelle nate nel 2000 sono tutte tr…».

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Credit Suisse spazza via 16 miliardi di bond dei risparmiatori (ma salvaguarda gli azionisti sauditi e del Qatar)

lunedì, Marzo 20th, 2023

di Federico Fubini

L’immagine che resta del crac di Lehman Brothers sono quei banchieri giù per strada, con i loro cartoni in mano. L’immagine che resterà di questa crisi invece è forse quella di un unico banchiere: Greg Becker, ormai ex amministratore delegato di Silicon Valley Bank, fotografato in short, maglietta e ciabatte infradito alle Hawaii pochi giorni dopo il fallimento della banca che lui doveva dirigere. Lo scoop è del «Daily Mail», subito ripreso dal «New York Post». Naturalmente non c’è niente di illegittimo se Becker, che oggi è disoccupato e alle Hawaii possiede una villa da 3,1 milioni di dollari, decide di rifugiarsi lì per qualche giorno dopo il peggiore dramma della sua vita professionale. Più discutibile è semmai che lui stesso abbia venduto azioni della sua banca per 3,5 milioni di dollari pochi giorni prima di annunciare l’aumento di capitale, per coprire le perdite che avrebbero innescato il crac.
Ma il simbolo dietro l’immagine rimanda, ancora una volta, a una crisi bancaria a due velocità. Ci sono coloro che ne sono in gran parte responsabili, eppure sembrano uscirne sempre ricchi e ben protetti (anche se nel caso di Becker incombe un’inchiesta del Dipartimento di Giustizia americano). Poi ci sono gli altri, quelli esposti alle conseguenze e destinati a pagare il prezzo di errori non loro. È una miscela politicamente esplosiva: in America anche l’ondata di populismo che avrebbe portato Donald Trump alla Casa Bianca parte con i Tea Party, scaturiti dalla crisi bancaria del 2008. Anche stavolta la crisi bancaria si sta già tramutando in un fenomeno a doppia velocità sia in Svizzera, con la svendita di Credit Suisse a Ubs, che negli Stati Uniti. Il cortocircuito in America è in quanto i risparmiatori stanno vedendo in questi giorni: se fallisce una banca come Svb, titani miliardari del venture capital come Marc Andreessen o Peter Thiel hanno i loro depositi da molti milioni garantiti con denaro pubblico fino all’ultimo centesimo; ma se la corsa agli sportelli investe una piccola banca rurale del Midwest, allora un agricoltore locale rischia di vedersi spazzati via tutti i depositi propri e della propria azienda sopra i 250 mila dollari.

Naturalmente esiste una spiegazione logica per questa differenza di trattamento e, nei giorni scorsi, la segretaria al Tesoro Janet Yellen l’ha offerta al Congresso. Nel caso di Svb una decisione delle autorità a Washington ha determinato che tutti i depositanti andavano protetti, anche i miliardari, in nome di una «systemic exception»: non farlo alla Silicon Valley Bank avrebbe avuto conseguenze «sistemiche». Invece migliaia di banche minori, dove si servono clienti minori, non sono «sistemiche» e per loro l’«eccezione» non è prevista. Trump non poteva sognare un’arma più affilata per la sua retorica contro le élite. Il Tesoro, la Federal Reserve e le grandi banche americane hanno lavorato per tutto il weekend per trovare una soluzione per la prossima banca in dissesto, First Republic. Ma il problema è già altrove. L’associazione delle banche «di media grandezza» ha scritto ai regolatori chiedendo che anche i loro depositi siano garantiti per intero con denaro pubblico. Significherebbe assicurare di fatto risparmi liquidi di tutti gli americani, per 19 mila miliardi di dollari. Oggi sembra impossibile, dunque la richiesta cadrà nel vuoto. Ma poiché ormai è pubblica, ci si può solo chiedere come reagiranno da domani decine di migliaia di depositanti nelle banche minori: vorranno portare il loro denaro alle banche «sistemiche», innescando nuove corse agli sportelli e altri dissesti.

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Contratti a termine, dimissioni e voucher: quando la flessibilità diventa una trappola

lunedì, Marzo 20th, 2023

di Milena Gabanelli e Francesco Tortora

Sono almeno 25 anni che l’Italia punta sui contratti di lavoro flessibili. Nel 1997 Tiziano Treu, ministro nel primo governo Prodi, introduce l’omonimo pacchetto che insieme alla successiva legge Biagi (2003) regolamenta i primi «lavori atipici». Da allora diverse riforme tra cui il Jobs Act di Renzi rendono le regole sempre più agili. Adesso tocca al governo Meloni, che oltre a ridisegnare il sistema dei voucher, è pronto a incentivare ulteriormente i contratti a termine. Non c’è dubbio che in un mercato molto variegato i contratti debbano permettere una certa flessibilità, ma di quanto si sta allungando questo elastico?

Il ritorno dei voucher

I voucher sono buoni a ore con cui si paga il lavoro occasionale: il 75% va in tasca al lavoratore, il resto copre contributi e assicurazioni contro gli infortuni). Ideati nel 2003 dalla riforma Biagi (art.70) per pagare i «lavoretti» di solito svolti in nero, come babysitter, colf, insegnanti privati, raccoglitori d’uva, ed utilizzabili dai «soggetti a rischio di esclusione sociale» (disoccupati, casalinghe, studenti, pensionati e disabili). Dal 2008 la possibilità di pagare con i voucher viene estesa ad altre figure professionali e nel 2012 con la riforma Fornero si allarga a tutti i settori produttivi e a ogni tipo di lavoratore. La richiesta di voucher si impenna: se nel 2008 ne sono emessi poco più di mezzo milione, nel 2015 diventano 134 milioni. Si impenna anche l’abuso, soprattutto nell’edilizia, nel turismo e nel commercio: molte imprese coprono qualche ora con i voucher, e il resto pagato in nero. In pratica con questa modalità evitano di assumere lavoratori utilizzati a tempo pieno spacciandoli come occasionali. Le irregolarità assumono dimensioni tali che nel 2017 il governo Gentiloni decide di abolirli e con il successivo decreto n.50 del 2017 fissa limiti stringenti (libretto famiglia e PrestO). La finanziaria 2023 ne allarga invece l’uso alle imprese che hanno fino a 10 dipendenti a tempo indeterminato (escluse quelle agricole ed edilizie). L’importo orario minimo netto è di 9 euro all’ora, quello giornaliero di 36 euro. La somma che ogni azienda può spendere in voucher è di 10 mila euro all’anno, con l’obbligo di comunicare preventivamente all’Inps l’utilizzo di lavoratori occasionali. Il governo Meloni dichiara che l’estensione della misura servirà a ridurre il sommerso, ma la norma, come si è già visto, è facilmente aggirabile e allontana i lavoratori da contratti stabili. Anche perché le sanzioni per chi viola la legge non sono severe: da un minimo di 500 euro ad un massimo di 2.500.

Contratti a termine

In Italia negli ultimi anni il contratto di lavoro più diffuso è stato quello a tempo determinato. Nel 2021 ne sono stati attivati 7,7 milioni (il 69% del totale) che sono diventati 8,5 milioni nel 2022. Nel terzo trimestre dell’anno scorso oltre il 31% dei contratti a termine sottoscritti aveva una durata massima di un mese e il 46,5% non superava i 90 giorni. Il decreto Dignità del 2018 prevede che dopo un anno di contratto a termine scatti l’assunzione, se invece l’imprenditore intende prolungarlo, il tempo massimo concesso è di 12 mesi, ma deve indicare una causale e pagare uno 0,5% di contribuzione in più. Ora la ministra del Lavoro Marina Calderone in una recente audizione al Senato ha sottolineato come «una rigida tipizzazione legale delle causali possa rappresentare un limite per il sistema imprenditoriale e lavorativo del Paese». Tradotto: questi vincoli devono sparire. Eppure siamo uno dei Paesi dell’Eurozona con più contratti a termine (16,4%), e molto sopra la media Ocse (11,8%).

Occupati, precari e part-time indesiderati

A gennaio gli occupati hanno superato i 23,3 milioni mentre i disoccupati sono 2 milioni. Numeri mai raggiunti negli ultimi 15 anni. Tuttavia fra gli occupati, a crescere sono soprattutto i contratti precari che hanno raggiunto quota 3 milioni (erano 2,3 milioni nel 2008). Allo stesso tempo sono diminuite le ore lavorate pro-capite: venti in meno a trimestre rispetto al 2008, che vuol dire in media anche una paga più bassa. Poi ci sono i contratti part-time indesiderati. Sempre nel 2008 coloro che hanno dovuto accettarli pur preferendo un lavoro a tempo pieno erano 1,3 milioni, nel 2022 sono saliti a 2,7 milioni. L’Italia ha il record del part-time involontario nella Ue: circa l’11,3% del totale dei lavoratori vorrebbe lavorare full time, ma deve accontentarsi di mezza giornata. La media Ocse è del 3,4%.

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La sfida della Meloni nella tana della Cgil. Ieri giornata blindata lontana dai riflettori

venerdì, Marzo 17th, 2023

Adalberto Signore

Rimini. Il Palazzo e la piazza. Quella, peraltro, politicamente più ostile. Una dicotomia che in queste ultime 48 ore insegue come un’ombra Giorgia Meloni. E che potrebbe esplodere oggi, quando la premier primo presidente del Consiglio dopo 27 anni sarà ospite del congresso della Cgil a Rimini. La leader di Fratelli d’Italia interverrà davanti ad una platea avversa, che ieri non ha risparmiato fischi pure a Carlo Calenda. E che da giorni s’interroga sull’accoglienza da riservarle. Ancora ieri, Maurizio Landini ha rassicurato Palazzo Chigi sul fatto che qualunque forma di dissenso sarà «civile». E in effetti il problema è più del segretario della Cgil che ha scelto di invitare Meloni che della presidente del Consiglio. Non è un caso, infatti, che da giorni Landini stia facendo moral suasion sui suoi chiedendogli «un comportamento rispettoso di un’ospite e del suo ruolo istituzionale». Così, probabilmente alla fine sarà accantonata l’idea di una contestazione «silenziosa» ma con lancio di peluche, a richiamare quella riservata al governo a Cutro. «Sarà un presidio a sorpresa, un po’ creativo e un po’ pacifico», si limita a dire Eliana Como, delegata Fiom ed espressione della minoranza (a Rimini conta 24 delegati su 986).

Certo, i temi divisivi sono tanti. Forse tutti. A partire dal disegno di legge delega per la riforma del fisco che, con una tempistica davvero curiosa, il Consiglio dei ministri ha approvato proprio ieri, alla vigilia della kermesse riminese. E sul quale c’è la netta contrarietà non solo della Cgil, ma di tutti i sindacati che accusano il governo di non essere stati coinvolti e minacciano di scendere in piazza. Impossibile che non sia un tema di confronto oggi, anche perché ieri Palazzo Chigi ha deciso di non illustrare il provvedimento. Era inizialmente prevista una conferenza stampa, a cui comunque non avrebbe dovuto partecipare Meloni. Anche questa una scelta singolare, perché è davvero inusuale che un premier non sia presente quando c’è da spiegare un provvedimento di una simile portata. Ovviamente, lasciando poi la parola ai ministri competenti (in questo caso l’Economia) per l’illustrazione dei dettagli. Invece alla conferenza stampa avrebbero dovuto esserci solo Giancarlo Giorgetti e il viceministro Maurizio Leo, salvo poi non farne più nulla. Pare a causa di un braccio di ferro in corso sul decreto per il ponte sullo Stretto. Che infatti ieri è stato poi approvato «salvo intese» («il testo sarà disponibile a breve perché sono necessari gli ultimi approfondimenti», spiega una nota del ministero dei Trasporti). Anche se nella Lega c’è chi maligna sul fatto che la premier non volesse lasciare i riflettori a Matteo Salvini, che ovviamente avrebbe partecipato alla conferenza stampa per rivendicare la sua vittoria sul ponte.

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Ucraina e salario minimo, scontro Schlein-Conte per spartirsi i voti della Cgil

venerdì, Marzo 17th, 2023

William Zanellato

Ieri pomeriggio, in un trionfo di rosso tipico del congresso Cgil, si è consumato un dibattito tra tutti i leader della sinistra. Il “coordinamento anti-Papeete”, come ha voluto ribattezzarlo la moderatrice Lucia Annunziata, è pronto a sfidare le “destre estreme” al governo. L’unità d’intenti, sancita a favore di telecamere con la foto ricordo sul palco della Cgil, sembra ancora piuttosto debole. Dietro le quinte le divisioni restano eccome. Il nuovo Pd targato Elly Schlein e il Movimento 5stelle guidato da Giuseppe Conte sono entrambi a caccia dei voti del sindacato. Il terreno di scontro è sempre lo stesso: salario minimo da una parte e guerra in Ucraina dall’altra.

La competizione tra Pd e M5S

Elly Schlein e Giuseppe Conte, i due principali leader dell’opposizione, hanno cominciato a riallacciare i rapporti con Maurizio Landini e il suo sindacato. Prima la passerella antifascista di Firenze, ieri la presenza e il confronto sul palco del congresso Cgil. Un rapporto che denota più una competizione interna alla sinistra che un sincero confronto con la principale sigla sindacale. Il Cln, il comitato di liberazione nazionale anti-Meloni, oltre ad essere surreale, è ancora impossibile da attuare politicamente. Dalle parti delle opposizioni, e ieri lo si è visto chiaramente, sono ancora troppe le divisioni sostanziali. La competizione tra dem e grillini è serrata: in palio ci sono i voti dei tesserati Cgil e dintorni. Cinque milioni e passa di voti che potrebbe spostare gli equilibri a favore di una o dell’altra forza.

Salario minimo e invio delle armi

L’unico a notare e far notare questa finta e ipocrita unità è il leader di Azione, Carlo Calenda: “Io voglio rubare i voti alla destra – esordisce ironicamente l’ex ministro – voi invece ve li rubate tra di voi”. Il commento al veleno del leader terzopolista viene confermato, lontano dalle telecamere, dietro le quinte del palco.

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