Marco Zatterin
Non è una Lehman, ma Svb si poteva salvare. Le banche
italiane sono dunque al sicuro, l’economia europea ha basi solide, e
aiuterebbe che la Bce «ci pensasse due volte» prima di alzare troppo i
tassi. Alla fine, Gian Maria Gros-Pietro teme davvero solo il conflitto
ucraino e il pianeta che si scalda. Tutto il resto, assicura il
presidente di Intesa Sanpaolo, può essere affrontato, soprattutto se
l’Italia sfrutterà come deve un Pnrr che gli pare «un cambiamento
genetico» dell’Ue.
Il credito è nella tempesta. Presidente, davvero non dobbiamo preoccuparci?
«Sono
altre le emergenze di cui preoccuparsi: il cambiamento climatico e la
guerra in Ucraina per dirne solo due. Sono questi i veri problemi e
richiedono in un caso investimenti, nell’altro, politiche attive».
E le banche americane?
«La Svb è un incidente, un caso marginale dovuto a inefficienza della gestione dei rischi e insufficienza della vigilanza».
Come è successo?
«È anzitutto il frutto di una
scelta politica di Donald Trump, quella di innalzare la soglia prevista
per le “not significant banks”, le banche non strettamente sorvegliate.
La Silicon Valley Bank era fra queste. Così si è permessa una serie di
errori gestionali che hanno portato al crac».
Quali?
«Concentrarsi su un unico settore, cioè la
Silicon Valley. Oggi è un comparto in difficoltà, dove i licenziamenti
sono migliaia. Certo l’high-tech ha tuttora un brillante futuro, ma una
banca specializzata su un solo comparto corre grandi rischi. Oltretutto,
per buona parte del 2022 la Svb non aveva nemmeno un responsabile dei
rischi. In sostanza, il primo errore è stata l’assenza della vigilanza».
Gli altri?
«La gestione. Avendo le mani libere,
la banca ha sfruttato i bassi tassi cercando di fare profitti investendo
la raccolta in bond e treasuries a lungo termine. Tutti pensavano che i
tassi così bassi e negativi non sarebbero durati a lungo. Così hanno
raccolto a basso costo e investito nella speranza di un alto ritorno.
Conveniva. E la banca godeva di considerazione».
E poi?
«Alla sua attività concentrata
nell’hi-tech corrispondeva un 94 per cento dei depositi non garantiti.
In America sono tutelati sino a 250 mila contro i 100 mila europei. Svb
aveva un valore medio di deposito pari a 4 milioni di dollari. I
depositanti sapevano di correre dei rischi, essendo a conoscenza della
composizione dell’attivo della banca. Quando la Fed ha alzato i tassi,
si sono resi conto che il valore dei titoli scendeva e che loro depositi
erano a rischio. E così hanno chiesto i soldi indietro. Priva della
liquidità necessaria, la banca ha dovuto vendere i titoli. Ne hanno
piazzati per 20 miliardi, perdendone 1,8. Questo ha causato il default».
Si poteva far qualcosa?
«La Fed ha fatto sapere
che nessuno subirà perdite, impegnandosi a fornire liquidità, prendendo
come collaterale i titoli a valore di libro. Se lo avessero fatto prima,
la Svb non sarebbe fallita».
È una nuova Lehman?
«Assolutamente no. Non è
sistemica. Lehman aveva una ragnatela di crediti e debiti che
coinvolgeva l’America e l’Europa. Allora le banche italiane prestavano
più denaro di quello che raccoglievano. Il margine mancante lo coprivano
sul mercato interbancario americano. Quando questo si è chiuso, dopo il
crac Lehman, le banche italiane rimasero prive di una parte della
provvista, il che ha portato – fra l’altro – alla restrizione del
credito. Svb non ha nessuna possibilità di creare crisi sistemica in Usa
o Europa».
Come valuta la strategia della Bce sui tassi? C’è il rischio di fare troppo?
«Sì,
come c’è stato il rischio di fare troppo tardi. Ci si era illusi che
l’inflazione fosse temporanea. C’è stata una buona reazione da parte
dell’Europa, il tetto ai prezzi dell’energia ha funzionato, il gas è
sotto i 50 euro. Questo è un aspetto che la Bce deve considerare con
attenzione. Deve agire per dissipare le aspettative che favoriscono
l’aumento dei prezzi».
Hanno promesso un aumento. E c’è chi ne chiede altri. Cambieranno idea?
«Non
so. C’è un motivo per non cambiarla: la credibilità che è cruciale per
la Bce. Ricordo che Ignazio Visco ha detto una cosa fondamentale, alla
fine pandemia: l’inflazione era figlia di uno choc di offerta. Questo,
non si cura con la politica monetaria, bensì con investimenti mirati,
frutto dell’impegno di governi e imprese».
E allora?
«Con il Next Generation Eu, l’Europa ha
compiuto un cambiamento genetico, finanziando l’economia con debito
comune, mossa che andava oltre i Trattati originali. Noi di Intesa lo
sosteniamo con tutte le energie. A fronte di un programma europeo di
circa 200 miliardi, abbiamo stanziato 415 miliardi, di cui 270 per le
imprese. Tra il 2021 e 2022 abbiamo erogato già 124 miliardi. Questo è
il ruolo del sistema bancario. È la cinghia di trasmissione tra la forza
del risparmio degli italiani e la crescita dell’economia reale».
Se guidasse la Bce, aumenterebbe i tassi?
«Non sono Lagarde. Non ho gli elementi che lei ha, anche a riguardo degli umori dei componenti del Consiglio».