Archive for Marzo 13th, 2023

Voli di Stato, Tajani e Crosetto al top. E per Nordio tappa fissa a Treviso

lunedì, Marzo 13th, 2023

di Antonio Fraschilla

ROMA – I ministri del governo Meloni sembrano preferire l’aereo di Stato ai voli di linea: non solo per partecipare a incontri all’estero, ma in alcuni casi anche per trasferte in territorio nazionale. I componenti del governo Meloni, con la presidente stessa che nei suoi viaggi si è portata al seguito le delegazioni più corpose e con molti esterni, nei primi tre mesi del loro incarico hanno utilizzato voli di Stato 39 volte: nello stesso iniziale arco di tempo più dei componenti dei governi Draghi, Conte II, Conte I e Renzi. Meno solo dei ministri del governo Gentiloni.

Per fare un raffronto, nei primi tre mesi del governo Draghi i voli di Stato dei ministri sono stati 20, nel governo Conte II 25, nel Conte I 11 e nel governo Renzi 15. Fuori quota solo il governo Gentiloni: nei primi tre mesi i suoi ministri hanno utilizzato 65 volte l’aereo di Stato e spesso anche per tratte nazionali ben coperte da aerei di linea.

Tornando al governo Meloni, la classifica dei ministri che hanno utilizzato di più aerei della flotta statale vede in testa il titolare degli Esteri Antonio Tajani (12 volte), seguito dal collega della Difesa Guido Crosetto (7) e poi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio insieme a quello degli Interni Matteo Piantedosi (5 entrambi). E, ancora, segue il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto (4), quello dello Sviluppo economico Adolfo Urso (3) e poi i ministri Paolo Zangrillo, Matteo Salvini ed Elvira Calderone con un volo a testa da novembre a gennaio scorso.

Non mancano le curiosità. A esempio il ministro Nordio nei suoi voli anche all’estero fa quasi sempre scalo nell’aeroporto della sua città, Treviso. In due occasioni ha utilizzato voli di Stato per tratte interne: il 12 novembre per andare a Palermo alla cerimonia d’intitolazione a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dell’aula bunker dell’Ucciardone e il 15 novembre per andare a Catanzaro (atterrando a Lamezia Terme) per partecipare all’inaugurazione della nuova sede della procura guidata da Nicola Gratteri: nel primo volo atterra a Treviso al ritorno, nel secondo parte invece da Treviso. Dal ministero della Giustizia sottolineano che il ministro ha avuto innalzati tutti i protocolli di sicurezza per la vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito. Anche se non mancano comunque i voli di linea per Lamezia e Palermo. Come anche per Bari: il 4 novembre per la giornata dell’Unità nazionale il ministro della Difesa Crosetto ha utilizzato un volo di Stato per andare nel capoluogo pugliese. Mentre il ministro pugliese Raffaele Fitto il 21 novembre è partito con un volo di Stato da Brindisi per andare a Berlino e incontrare la ministra tedesca per gli Affari europei e il clima Anna Luhrmann. Davvero esigenze di Stato e sicurezza per voli anche interni o per destinazioni di capitali europee come Parigi, Berlino o Bruxelles molto coperte da voli di linea?

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Il nuovo Pd, tra consenso e mandato

lunedì, Marzo 13th, 2023

di Ezio Mauro

È una strana creatura, finalmente uscita dal Novecento e liberata dalle ruggini ideologiche sopravvissute alla lezione del secolo, questo Pd che ieri si è affacciato alla post-modernità nello scenario della ‘Nuvola’, col disegno del tempo sospeso. Presentato come agonizzante dopo la vittoria elettorale della destra estrema guidata da Giorgia Meloni, accompagnato da preci che chiedevano il suo scioglimento per adempiere alla falsa profezia secondo cui l’antitesi destra-sinistra non riusciva più a interpretare le contraddizioni del nuovo mondo, di colpo con la vittoria di Elly Schlein il Pd ha risolto il problema capitale del ‘primum vivere’. Adesso bisogna inventare una filosofia del nostro tempo, in grado di risolvere l’incertezza del Paese e persino di governarla recuperando un rapporto di fiducia nella società, partendo da quel deposito di energia democratica che non si vedeva a occhio nudo e che le primarie hanno svelato.


Come in tutte le fasi di crisi, che radicalizzano i problemi rendendo evidenti le vie di fuga, quanto è accaduto ha una lettura semplice: il sistema politico è talmente stremato che l’ultima speranza viene riposta soltanto nel cambiamento. Persino Giorgia Meloni, ministro di Berlusconi già nel 2008 — quindici anni fa — è stata scambiata per una novità, privilegiando la sua provenienza dall’altromondo piuttosto che il suo curriculum castale di lungo corso. Questo sentimento generale da tempo si è incanalato per gran parte nella palude civica dell’astensione, arrivata ormai a una quota del 40 per cento che contrasta col principio costituzionale del voto come dovere civico verso il Paese: nella convinzione per cui la posta in gioco è così bassa, e le differenze sono così irrilevanti, che non vale la pena alzarsi dal divano per esprimere una preferenza. Ma c’è evidentemente una riserva d’impegno civile, convinta al contrario che il diritto di cittadinanza si esprime proprio nella capacità di distinguere comunque e nel dovere di scegliere in ogni caso, prendendo parte. A sinistra, nonostante le delusioni e le frustrazioni accumulate, questa disponibilità democratica ha continuato a covare sotto la cenere governista, nell’illusione ministeriale che intanto viveva artificialmente e contronatura, separando il voto dall’esercizio del potere. Radicali e spettacolari, concentrate sui leader trasformati in personaggi piuttosto che sulle idee tradotte in programmi, le primarie sono diventate insieme la valvola di sfogo e il mezzo d’espressione di questa energia repubblicana compressa, arrabbiata, delusa ma comunque viva, addirittura irriducibile. Perforando gli incomprensibili rituali di partito e il viluppo di regole trasformate in ossessione procedurale, hanno aperto uno spiraglio di democrazia diretta, senza la ritualità maestosa di un congresso ma con l’irruzione della sovranità di base, quando il potere di scelta si sposta dalla nomenklatura agli elettori. Per un giorno il partito — unico in Italia — si apre, si espone al giudizio, e diventa contendibile. Anzi di più: scalabile. Questa è la vera chiave di interpretazione dell’uso politico delle primarie, perché unisce il testardo senso di appartenenza con il decisivo istinto di sopravvivenza, testimoniando l’urgenza vitale del cambiamento come ultima spiaggia. E dunque premia chi dà l’assalto al quartier generale rispetto a chi amministra lo status quo, con un pregiudizio di massa a favore della scalata, versione riformista, si potrebbe dire, della spallata d’altri tempi.

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La difficile sintesi tra palco e realtà

lunedì, Marzo 13th, 2023

ALESSANDRO DE ANGELIS

La novità è nella struttura stessa del discorso, tutto valoriale ed emotivo, molto “di sinistra”. Che dà l’idea di una certa freschezza rispetto a un partito ossificato negli anni e logorato dal governismo fino a smarrire la propria identità. Il Pd di Elly Schlein è un’altra cosa rispetto all’idea fondatrice: tenere insieme riformismo e radicalità, innovando le culture novecentesche che ne diedero vita. Però l’insediamento dell’outsider non restituisce, almeno per ora, l’idea di una proposta organica perché tutti i titoli elencati, in termini valoriali, non hanno ancora trovato una declinazione, in termini di iniziativa politica.

E già questo è un prezzo pagato alla ricerca di un afflato unitario, figlio del realismo e della consapevolezza di un partito spaccato in due dall’esito congressuale.

C’è, in questo, un elemento di simmetria che accomuna, sia pur nella loro profonda diversità, i destini paralleli delle due donne che hanno sfiorato i rispettivi tetti di cristallo: Meloni e l’anti-Meloni, insediatasi alla segreteria del Pd. Ed è il rapporto tra aspettative suscitate e realtà, nei reciproci contesti. Per l’una, a palazzo Chigi, ha preso forma in oltre cento giorni di retromarce e in un fallimento clamoroso sul dossier dell’immigrazione. Per l’altra, al Nazareno, il rinnovamento antropologicamente incarnato si misura almeno su un paio di terreni che, per ora, rappresentano un’incognita.

Il primo riguarda quale gruppo dirigente Elly Schlein vorrà costruire, ovvero i margini di autonomia che avrà la neo-segretaria nel perseguire l’annunciata “estirpazione” dei capibastone e, con essi, delle logiche correntizie che hanno fagocitato una serie infinita di segretari. Nella sua elezione nei gazebo c’è un’aspettativa rottamatoria. Nei primi atti c’è la preoccupazione di perdere pezzi rispetto agli equilibri interni: non solo l’elezione di Stefano Bonaccini alla carica di presidente, ma anche la rinuncia a indicare all’assemblea capigruppo e segreteria creano un primo iato tra anelito al rinnovamento e negoziato tra le correnti, già particolarmente vivace.

Il secondo è l’Ucraina, cui sono dedicati solo due minuti del discorso, dalle 13,20 alle 13,22, non il centro strutturato della relazione. E se è vero che, pur senza nominare la parola armi, per ora la neo-segretaria non ha messo in discussione il “sostegno” è percepibile una diversa declinazione della postura, di cui è anticipatorio il cambio di linea dell’immigrazione all’insegna dell’ “accogliamoli tutti”, senza proporre un’idea di governo dei flussi. La sua ragione sociale, e un pezzo di chi l’ha sostenuta, chiede un disimpegno a Kiev.

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Assaf Gavron: “La vera Israele è quella in piazza, possiamo ribaltare Netanyahu”

lunedì, Marzo 13th, 2023

Assaf Gavron

Il risultato elettorale dello scorso novembre è stato demoralizzante per gli israeliani liberali, ma non inatteso. Conosciamo la maggioranza con la quale viviamo. Da decenni abbiamo governi di Netanyahu e di altri esponenti di destra. Anche quando Netanhayau nominò alcuni estremisti razzisti a capo di importanti ministeri, noi scettici di sinistra scrollammo apatici le spalle. Pensavamo: hanno vinto, sono al potere, lo eserciteranno, noi grideremo nelle piazze, non cambierà niente. Non ho preso parte alle prime due proteste del sabato sera a gennaio. Sono andato per una ventina di minuti alla terza, quella del 21 gennaio, ho fatto due chiacchiere con un vecchio amico di quando ero sotto le armi e sono tornato a casa poco ispirato. Sempre la solita vecchia storia.

Solo che non è così. Quando il governo si è rifiutato di rallentare la sua frenetica corsa volta ad approvare leggi che, teoricamente, gli concederebbero un potere illimitato, nel giro di poche settimane noi scettici ci siamo interrogati e arrovellati increduli perché le proteste non si sono affievolite, ma hanno acquistato slancio. Le proteste sono ovunque, e sempre più gruppi di persone si sono uniti al coro, il settore hi-tech opera e fa fortuna all’estero; economisti di spicco, che mettono in guardia dicendo che una democrazia debole danneggerà l’economia (lo shekel e il mercato azionario in calo lo stanno già facendo); ex giudici e giudici in carica che esprimono il loro orrore per l’abrogazione della separazione dei poteri; le scuole, che insegnano la democrazia e lasciano che i loro studenti manifestino; e gli ultimi arrivati, le riserve dell’esercito e i piloti dei caccia, che dichiarano che si rifiuteranno di prestare servizio se saranno approvate le leggi antidemocratiche. In tutto il Paese, sempre più persone prendono parte alle proteste del sabato sera, e mandano così un messaggio inequivocabile: noi cittadini abbiamo sempre rispettato la legge e ci siamo attenuti a quello che ci si aspettava da noi, il rispetto delle decisioni del governo, a patto che il governo rispetti i nostri diritti di base. Se invece questo patto sarà violato e si strapperà il contratto che tiene unita la nostra società, non saremo obbligati a rispettarlo.

Stranamente, nella sua frenetica corsa per far approvare queste leggi con arrogante euforia, senza tener conto nemmeno della richiesta avanzata dal presidente di una soluzione, il governo sta facendo una cosa che i liberali non sono riusciti a fare per decenni: unirsi orgogliosamente dietro un’ideologia, la democrazia.

Naturalmente, lo scontro adesso è andato ben oltre la riforma della giustizia. Siamo a un bivio che potrebbe definire la natura stessa di Israele per i prossimi decenni. Una strada conduce a una desolante autocrazia o teocrazia, l’altra mantiene il fragile status di società democratica e liberale del Paese. Entrambe le parti in causa ricorrono a metodi mai usati prima: i primi approvano leggi pericolose, i secondi ricorrono per la prima volta ai loro asset finanziari e alle loro risorse umane.  Il 18 febbraio, quando ho partecipato al settimo sabato sera di protesta, ho avvertito un cambiamento. I partecipanti erano molti (la settimana scorsa hanno raggiunto i 140mila) ma, aspetto assai più importante, è cambiato il clima. Ho percepito fiducia e orgoglio. Ho visto persone determinate a non rinunciare al loro Paese senza combattere. La bandiera bianco-celeste sventolava ovunque. Non sono stati i simboli patriottici a commuovermi, ma il fatto di reclamare la bandiera e il patriottismo, dopo anni in cui sono rimasti di proprietà della destra, è stato un colpo di genio.

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Il naufragio dell’umanità

lunedì, Marzo 13th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Dunque, ci risiamo. Il mare ci sta ancora restituendo i corpi dei bimbi innocenti annegati lungo la spiaggia di Cutro, e già ne ingoia altri poche miglia più in là. Stavolta siamo a 120 chilometri da Bengasi. Stavolta i sommersi sono “solo” 30 e i salvati 17, il barcone si è rovesciato durante un trasbordo improvvisato da un mercantile, la tragedia è avvenuta in “zona Sar” libica. Ma a parte queste differenze, anche questo disastro, come quello di una settimana fa in Calabria, ha la stessa “matrice”: potevamo salvarli, e non l’abbiamo fatto. L’allarme su quel barchino Alarm Phone l’ha lanciato due giorni fa. A raccoglierlo è stato il Centro di coordinamento di Roma. La Guardia Costiera italiana ha allertato quella libica. E fine delle operazioni: tutto si è fermato lì. Nessuno ha più mosso un dito o messo in acqua una motovedetta. Siamo al tragico scarico di responsabilità che abbiamo già visto a Cutro. Salvare esseri umani “non ci compete”. La Guardia Costiera, con puntiglio pilatesco, ci tiene a far sapere che il naufragio è avvenuto “al di fuori dell’area di responsabilità Sar italiana”. I capigruppo di Fratelli d’Italia, con sprezzo del ridicolo, ci tengono a ribadire che questa non è una tragedia, ma “un ricatto” contro il nostro Paese e che “non indietreggeremo mai di fronte alla mafia”. Di fronte a questo ennesimo scempio, il governo ha ancora il coraggio di lamentarsi se i giornali parlano di “stragi di Stato”?

LA STAMPA

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Il fallimento di Silicon Valley Bank spaventa i mercati, le banche partono in rosso

lunedì, Marzo 13th, 2023

MILANO. Occhi puntati questa mattina sull’apertura delle Borse europee dopo il fallimento di Silicon Vally Bank e il timore di un effetto domino su altri istituti Usa. Sulle forti incertezze, le piazze europee hanno aperto in ribasso ma senza grandi scossoni. L’attenzione è adesso spostata sull’apertura di Wall Street nel pomeriggio.

Partenza ancora in ribasso per le borse europee, dopo le perdite della scorsa settimana e con l’ attenzione dei mercati rivolta in particolare sulla riunione della Bce in programma giovedì e sulle tensioni nel sistema finanziario statunitense.

A pochi minuti dall’inizio degli scambi, a Milano il Ftse Mib cede l’1%. Colpito dalle vendite è il comparto bancario dove Bper cede il 3%, Banco Bpm il 2%, Unicredit l’1,8% e Intesa l’1,7%. Tra i tecnologici non fa prezzo Stm, che segna un calo teorico del 2,6%.

Negativi anche l’Ibex 35 di Madrid (-0,9%), il Cac 40 di Parigi (-0,5%), il Ftse 100 di Londra (-0,3%) e il Dax di Francoforte (-0,1%).

Intanto sul Forex il cambio euro/dollaro risale oltre quota 1,07.

Questa notte la Federal Reserve, il Dipartimento al Tesoro e la Federal Deposit Insurance Corporation hanno annunciato che a partire da oggi, tutti clienti di Silicon Valley potranno ritirare i soldi, indipendentemente dall’ammontare. La Federal Reserve mette a disposizione delle banche che dovessero trovarsi in penuria di liquidità, una nuova linea di credito speciale. Interventi sono stati decisi anche per Signature Bank, altra società esposta alle criptovalute che rischiava il crack mentre a First Repubblic Bank è stata messa a disposizione una linea di credito d’emergenza.

Intanto misure di emergenza vengono decisa in gran velocità anche in Europa: il colosso bancario Hsbc, tramite la controllata britannica Hsbc Uk ha annunciato l’acquisto, con effetto immediato, della filiale britannica della banca Usa Silicon Valley Bank, fallita venerdì scorso. L’acquisto avviene al prezzo simbolico di una sterlina. SVB Uk, al 10 marzo aveva impieghi per circa 5,5 miliardi di sterline e depositi per 6,7 miliardi e lo scorso anno ha registrato un utile ante imposte di 88 milioni di sterline.

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Regione Lazio, inizia l’era Rocca: “Ecco la mia giunta del fare”

lunedì, Marzo 13th, 2023

Susanna Novelli

Entusiasmo e soprattutto tanta emozione ieri mattina in via Cristoforo Colombo, dove il neo governatore Francesco Rocca ha presentato la sua squadra di governo. Un po’ come la consegna delle chiavi dell’auto nuova, adesso non resta che mettere in moto e partire. Un viaggio complesso quello che attende la giunta della Regione Lazio, la prima di centrodestra dopo dieci anni di centrosinistra. Cinque donne e cinque uomini, tutti di comprovata esperienza territoriale e internazionale. Rispettate le quote proporzionali al risultato elettorale con sei assessori a Fratelli d’Italia, due alla Lega e due a Forza Italia. Il numero due di Francesco Rocca è Roberta Angelilli di FdI (che ha anche la delega al Commercio e allo Sviluppo economico); sempre per FdI, Giancarlo Righini (Bilancio e Agricoltura), Elena Palazzo (Ambiente, Sport e Turismo), Fabrizio Ghera (Trasporti e Rifiuti), Massimiliano Maselli (Politiche sociali), Manuela Rinaldi (Lavori pubblici e Politiche di ricostruzione); per la Lega, Pasquale Ciacciarelli (Urbanistica e Politiche abitative) e Simona Baldassarre (Cultura e Politiche giovanili e della Famiglia); per FI Giuseppe Schiboni (Lavoro e Scuola, Università, Ricerca e merito) e Luisa Regimenti (Personale, Sicurezza urbana e Rapporti con enti locali). A comunicare nomi e deleghe il presidente Rocca. Solo al tavolo nella Sala Tevere, ricorda che la Sanità la terrà per sé. «È un impegno su cui ho messo la faccia ed è giusto che il presidente si prenda la responsabilità di quest’ambito così delicato, perché c’è da risollevare una sanità mortificata».

Non solo nomi però nella conferenza stampa che di fatto sancisce l’inizio di un percorso che per il centrodestra è decisivo e non solo nel Lazio, dove torna al governo dopo 12 anni ma anche per la “posizione istituzionale” che vede la Regione a metà strada tra il governo di Giorgia Meloni e il Campidoglio di Roberto Gualtieri, quest’ultimo unica roccaforte di potere del centrosinistra. Ecco allora che più delle parole si attendono i fatti. E lo sa bene il neo governatore che traccia il programma dei primi cento giorni. «Sarà una giunta del fare. Bisogna dare risposte concrete. I primi tre obiettivi sono sicuramente la sanità e i pronto soccorso. Poi bisogna dare massima accelerazione alla ricostruzione dei territori terremotati» e «infine le grandi opere e le infrastrutture, per far ripartire la nostra economia». Sull’azione dell’amministrazione rischiano però di pesare una situazione economica della Regione che «non è delle migliori, con una esposizione debitoria che preoccupa», anticipa Rocca, annunciando che è in corso «un’attività ricognitoria che poi verrà raccontata alla stampa e ai cittadini. Ricordo che siamo senza un bilancio. Presenteremo subito in Consiglio regionale un bilancio tecnico per l’avvio delle attività amministrative, per poi procedere a un assestamento tra maggio e giugno». Tra le novità più importanti quella sull’edilizia residenziale pubblica, nodo sociale (ed economico) tra i più delicati. «Sulle case popolari ho intenzione di intervenire, non è pensabile – ha detto Rocca – che i cittadini debbano vivere in quelle condizioni, nel degrado, nell’illegalità. In questi giorni abbiamo già scoperto circa cento persone con più di 100mila euro di reddito che vivono in case popolari. Redditi in chiaro, non in nero, che gli consentono di trovare una casa altrove».

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Destra e istituzioni: parole all’altezza del ruolo

lunedì, Marzo 13th, 2023

di Ernesto Galli della Loggia

Per vincere le elezioni bastano i voti, e per andare al governo basta avere vinto le elezioni. Ma fino a quel momento chi vince le elezioni e va al governo è solo una parte: rappresenta sì una maggioranza ma comunque sempre e solamente una parte del corpo elettorale. Quando arriva al governo, invece, le cose cambiano. A quel punto infatti chi ha vinto le elezioni come parte si trova a rappresentare tutto il Paese. E quindi non solo ha l’obbligo di farsi carico anche di coloro che il giorno delle elezioni hanno votato per i suoi avversari, ma direi qualcosa di più: e cioè deve sentirsi in dovere, in qualche modo, di adottare il linguaggio e la sensibilità e il bon ton socialmente accreditati. È una regola, beninteso, che nessuna legge scritta impone di osservare, ma se non lo si fa capita quello che sta capitando all’attuale governo dal primo giorno in cui si è insediato. E cioè che magari fa pure cose buone, magari rimane pure al di sopra della sufficienza, ma ogni giorno subisce sulla scena pubblico-mediatica del Paese un continuo, estenuante logorio politico che alla lunga minaccia di consumarlo.

Ma non già per effetto di una «difficoltà di comunicazione», come spesso si dice. Quella che viene definita così, mi pare, è il sintomo di qualcosa di più importante. È come se la maggior parte dei politici della destra italiana avessero fin qui vissuto in un altro Paese, un Paese dove non vigevano le convenzioni linguistico-culturali, le regole del galateo istituzionale.

Dove non vigevano neanche le regole della buona creanza discorsiva in uso nell’Italia ufficiale, e quindi i suddetti politici non avessero avuto modo di conoscere nulla di tutto questo. Oppure come se, pur conoscendolo, si facessero un punto d’onore a non tenerne conto. Da qui le frequenti battutacce, un vocabolario spessissimo improprio, la disinvolta noncuranza verso l’etichetta valoriale democratica. Da qui i migranti del ministro degli Interni che da veri incoscienti con i loro viaggi avventurosi «mettono in pericolo la vita dei figli», da qui il sospetto di collusione con la mafia indirizzato sgangheratamente verso i deputati dell’opposizione. Ogni volta dando l’impressione (ciò che poi forse è quasi sempre vero) di non accorgersi neppure del peso delle parole e del modo di dirle, del loro effetto contundente.

Il fatto è, suppongo, che la destra è convinta che si tratti di convenzioni linguistiche e regole di buona creanza «democratica» niente affatto neutre bensì create dalle culture politiche a lei avverse e pertanto a uso e consumo esclusivo della sinistra e, come capita, di quegli «utili idioti» liberali che le tengono bordone. Al cui rispetto essa perciò non si sente per nulla tenuta.

Il che magari in parte sarà anche vero — intendo la presunta origine di sinistra — ma lo diventa poi interamente per una sorta di profezia che si autoavvera. Nel momento infatti in cui la destra non accetta quell’insieme di regole e convenzioni ma lo fa solo la sinistra ecco che allora esse assumono effettivamente un connotato di sinistra. Ma solo per questo, non per altro. In realtà, nel rivolgersi ad una signora di colore evitando di chiamarla King Kong, nell’usare il termine «nero» invece di «negro», nel guardarsi dal definire «ciccione» un tizio sovrappeso, nell’evitare all’indomani di un naufragio di cantare nel mezzo di una festa una canzone che parla di un annegamento, nel cercare in una qualunque discussione di non apparire un attaccabrighe di professione, in tutto questo non c’è nulla in realtà che di per sé possa dirsi «di sinistra». C’è solo un portato dei tempi, un intreccio di motivi storico-culturali, se vogliamo anche un che di conformistico e di politicamente corretto, al quale, è vero, la sinistra è sempre prontissima ad adeguarsi. Che però, nel momento in cui viene adottato in tutto il mondo di cui facciamo parte, da New York ad Atene, diviene un’etichetta espressivo-comportamentale da cui non si può prescindere.

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Strage di migranti, perché Roma è obbligata a intervenire fuori dalla zona che le compete? Il ruolo di Tripoli e Malta

lunedì, Marzo 13th, 2023

di Rinaldo Frignani

La Convenzione di Amburgo obbliga ad agire ogni Stato interessato da una chiamata di soccorso e a coordinare anche unità navali non nazionali che si trovano nell’area. Deve anche occuparsi dello sbarco delle persone salvate  

Strage di migranti, perché Roma è obbligata a intervenire fuori dalla zona che le compete. Il ruolo di Tripoli e Malta

Poteva l’Italia rifiutarsi di coordinare l’intervento per salvare i migranti nella zona di ricerca e soccorso libica? 
No, perché in base alla Convenzione Sar di Amburgo del 1979, entrata poi in vigore nel 1985, le zone di ricerca e soccorso non corrispondono necessariamente alle frontiere marittime esistenti. E anzi, in caso di allarme per persone in pericolo in alto mare, ogni Stato chiamato a intervenire — in questa circostanza Italia, Libia e Malta — è obbligato a farlo anche solo coordinando per primo i soccorsi.

Perché i migranti sopravvissuti sono stati portati nel nostro Paese, anche se su un’unità navale straniera? 
Perché, sempre per la stessa Convenzione, «la parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro». 

È previsto l’utilizzo di mercantili di passaggio nella zona del soccorso?
Sì, secondo le Convenzioni internazionali, compresa la Solas, varata nel 1914 dopo il naufragio del Titanic, «nel caso in cui un’autorità marittima riceva informazioni di un’emergenza in corso in un’area Sar di competenza di un altro Stato, informa immediatamente il Rescue Coordination Center (Rcc) territorialmente competente e estende la notizia dell’emergenza a tutte le unità in transito in quell’area Sar». Previsto anche «l’impiego di unità Sar — viene specificato —, ma anche con unità militari e/o civili, quali ad esempio le unità mercantili presenti in zona, in adempimento agli obblighi giuridici assunti con la ratifica della Convenzione internazionale».

Da quanto esiste una zona Sar libica e quanto è estesa?
Tripoli ha dichiarato una propria zona di ricerca e soccorso all’Organizzazione marittima internazionale di Londra (Imo) il 27 giugno 2018. Ma già l’anno precedente, nonostante la guerra civile in atto, aveva annunciato una propria area di competenza fino a 70 miglia dalla costa, da gestire con unità navali fornite dall’Italia e la collaborazione della Guardia costiera. 

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L’attacco a sorpresa di Schlein contro i «capibastone» del Pd. E sui volti dei vecchi ras cala uno sguardo di cera

lunedì, Marzo 13th, 2023

di Fabrizio Roncone

Schlein attacca i «capicorrente» del Pd durante il suo discorso. E per i nuovi aspiranti al potere adesso la parola magica è «Elly»

L’attacco a sorpresa di Schlein contro i «capibastone» del Pd. E sui volti dei vecchi ras cala uno sguardo di cera

Cacicchi, capibastone, capicorrente, detti anche boss, baroni, padrini, ras.
«Non vogliamo più vederli!» — la giugulare di Elly sotto la camicia bianca e dietro al microfono, un attacco feroce e inatteso ai vertici del partito sferrato dopo nemmeno venti minuti di discorso: con la platea che ondeggia prima incredula e poi di botto eccitata, i delegati che balzano in piedi, le grida di evviva che quasi coprono gli applausi liberatori, sfrenati, donne e uomini che mandano baci alla nuova segretaria del Pd, adesso con un sorriso più che compiaciuto, di sfida (quindi, un mezzo ghigno).
Bolgia.
Prendere appunti.
Osservare bene.
Ne provocano uno (ma con un filo di voce, vigliacchi).
«Ehi, Andrea: Elly stava parlando anche di te».
Andrea Orlando non si volta, finge di non sentire o proprio non sente, lo sguardo fisso sul palco, sulla candidata che lui, dopo un’iniziale incertezza, alle primarie ha pure sponsorizzato con forza.
Orlando, poco fa, è entrato nel gigantesco androne metafisico del centro congressi «La Nuvola», qui all’Eur, come uno dei più potenti sultani del Nazareno: spinto dai fotografi dentro un groviglio di cavi e telecamere e omaggiato dai cronisti, uno camminando all’indietro quasi inciampa, un’altra — sfoderando un sorriso assassino — implora almeno mezza dichiarazione. Per Elly Schlein, arrivata cinque minuti dopo, addirittura meno pathos, meno riverenze: il riflesso condizionato di chi è ormai abituato alle solite gattopardesche dinamiche di un partito che ha già cambiato undici segretari in 15 anni, quasi sempre sperando che poi tutto restasse — appunto — perfettamente uguale.

E invece: ecco l’improvvisa randellata politica di Elly sulla testa dei capi storici. Compresi quelli che si sono schierati al suo fianco. Le agenzie telefonano a Goffredo Bettini. Nicola Zingaretti è seduto in alto, sulla sinistra, vicino alle scalette: una sfinge (e però c’era cascato nel trappolone retorico, quando lei, con preamboli dolciastri, lo aveva persino ringraziato del lavoro svolto da segretario — sì, certo, figurati — e lui l’aveva salutata da lontano). Di pietra, Dario Franceschini; le sue truppe osservano sentendosi ancora forti: capo, quali sono gli ordini? Giuseppe Provenzano, nell’incertezza di essere considerato a sua volta qualcosa di simile a un boss, applaude con entusiasmo.

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