Archive for Marzo 23rd, 2023

Pd in tilt, fumata nera: non c’è accordo sui capigruppo

giovedì, Marzo 23rd, 2023

William Zanellato

Mentre le opposizioni si dividono in Aula votando quattro risoluzioni diverse sulla guerra in Ucraina, il Partito democratico fa i conti con i mal di pancia interni per l’elezione dei capigruppo. La neo segretaria del Pd, Elly Schlein, senza dubbio a proprio agio nelle piazze italiane e nei salotti tv, sembra trovare più di un ostacolo dalle parti del Nazareno. La trattativa interna al Pd sulla scelta delle presidenze dei gruppi di Camera e Senato è ancora in stand by. Oggi arriva l’ennesima fumata nera sui capigruppo: il nodo dovrà essere sciolto nella prossima settimana.

La partita dei capigruppo

La telefonata di domenica scorsa tra i due ex sfidanti, il neo presidente Stefano Bonaccini e la segretaria Elly Schlein, non è servita a chiudere il cerchio delle nomine. La “piccola grande rivoluzione” di Schlein si scontra con la dura realtà: le divergenze all’interno del Nazareno ci sono, condizionano le sorti del partito e influenzano le spartizioni delle poltrone. I nomi in campo, al momento, rimangono gli stessi. Il senatore dem, Francesco Boccia, come capogruppo al Senato e la deputata Chiara Braga alla Camera.

Due schleiniani convinti che, sicuramente, metterebbero in secondo piano la linea riformista del partito invocata da Bonaccini e i suoi. Resterebbero defilate le attuali capigruppo di Camera e Senato, Debora Serracchiani da una parte e Simona Malpezzi dall’altra. Un esponente parlamentare vicino a Bonaccini, raggiunto dall’Agi, descrive così la situazione: “Siamo rimasti all’ipotesi di due capigruppo di maggioranza e su questo non ci siamo. Aspettiamo segnali”. Lo stallo alla messicana all’interno del Nazareno esaspera il nervosismo e allunga i tempi per le nomine.

L’assenza della Schlein

Se da un lato la minoranza del Pd, capitanata da Bonaccini, chiede segnali concreti alla nuova segretaria, dall’altro Schlein scappa e non risponde. Ieri mattina la giovane segretaria non ha partecipato ai lavori dell’Aula di Montecitorio lasciando il Pd “solo” contro le comunicazioni e le relative risoluzioni del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Il programma di Schlein si è spostato a Bruxelles dove ieri ha incontrato gli eurodeputati del Pd.

Una scelta che potrebbe avere un doppio peso politico. Per un verso, i più ottimisti, potrebbero tradurre la decisione della Schlein come una semplice prassi politica, volta a costruire un dialogo con il Pd europeo. Per altro verso, i più maliziosi, potrebbero vederci un modo per allontanarsi dalle difficoltà romane e prendere altro tempo prima di sciogliere il nodo dei capigruppo. Un deputato dem, incalzato dall’Agi, spinge verso la seconda ipotesi: “È passato un mese, ormai, da quando Schlein è stata eletta alle primarie e, da allora, nessun incontro formale con gli eletti è stato convocato”.

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Cosa ha deciso la Fed sui tassi: rialzo di 25 punti, mai così alto dal 2007

giovedì, Marzo 23rd, 2023

La crisi bancaria scatenata dal fallimento della Silicon Valley Bank ha spinto i mercati a ipotizzare che la Federal Reserve avrebbe potuto interrompere il rialzo dei tassi. Non è stato così, perché il già previsto rialzo da 25 punti base è stato confermato, ma lo scossone al sistema bancario statunitense ha quasi messo la corsa dell’inflazione in secondo piano: nel comunicato pubblicato al termine della due giorni della Federal Open Market Committee e nelle prime parole del presidente Jerome Powell in conferenza stampa, entrambi volti ad assicurare che “il sistema bancario statunitense è solido e resiliente”.

Al termine della riunione i Fed Funds passano così alla fascia obiettivo del 4,75%-5%, sui livelli più elevati dal 2007. Nel Summary of Economic Projections, che viene pubblicato anche a giugno, settembre e dicembre, si vede invece il taglio delle previsioni sul Pil statunitense, che dovrebbe crescere dello 0,4% nel 2023, una previsione lievemente ribassata rispetto a quanto la Federal Reserve stimava a dicembre (+0,5%). Nel 2024 la crescita prevista passa dall’1,6% di dicembre all’1,2%. Viene invece ritoccata al rialzo, dal 3,5% al 3,6%, la stima sull’inflazione Pce core per il 2023.

La Fed e i suoi membri ritengono che gli eventi di marzo provocheranno “un inasprimento delle condizioni di credito per le famiglie e le imprese”, con effetti “sull’attività economica, sulle assunzioni e sull’inflazione”. Nel frattempo l’inflazione negli Stati Uniti “rimane elevata”, e la Fed “rimane molto attenta ai rischi” collegati, senza escludere “un ulteriore irrigidimento della politica monetaria al fine di raggiungere un orientamento sufficientemente restrittivo per riportare l’inflazione al 2% nel tempo”.

Sulla crisi bancaria Powell ha detto che “è troppo presto per determinare l’entità” degli effetti degli ultimi eventi e “per dire come dovrebbe reagire la politica monetaria”. Powell ha poi incolpato il management di Svb di aver “fallito gravemente”, sottolineando che ha “esposto la banca a un significativo rischio di liquidità e di tasso d’interesse” e non ha “coperto il rischio”. Ha poi osservato che “è chiaro che dobbiamo rafforzare la supervisione e la regolamentazione” del sistema, assicurando di voler “identificare cosa è andato storto”.

Sul fronte dei tassi Powell ha usato parole che lasciando intendere la possibilità di uno stop ai rialzi: “Non affermiamo più di prevedere che i continui aumenti dei tassi saranno appropriati per contenere l’inflazione”. Rispetto alla riunione di marzo ha raccontato che nei giorni precedenti al meeting i membri della Fomc della Federal Reserve “hanno considerato” la possibilità di una pausa, affermando però che “la decisione che abbiamo preso è stata sostenuta da un consenso molto forte”. “In realtà – ha aggiunto in conferenza stampa – prima dei recenti avvenimenti, eravamo chiaramente sulla buona strada per continuare con i rialzi dei tassi”.

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Gara a intestarsi il salario minimo, dal M5S accusano il Pd: “Ci copiano”

giovedì, Marzo 23rd, 2023

Edoardo Romagnoli

La corsa delle opposizioni a intestarsi il salario minimo legale approda in Commissione Lavoro alla Camera. Partito democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra italiana depositano però cinque testi diversi: tre dei dem, una del Movimento di Conte e una dei Verdi-Sinistra italiana. Diversi, ma non troppo vista la polemica nata sul testo depositato dai dem, a detta del M5S, molto simile al loro. I grillini avevano una proposta presentata al Senato che risale al 2018, poi calendarizzata il 13 ottobre, mentre il Pd l’ha depositata alla Camera il 24 ottobre. Il passaggio incriminato sarebbe sulla definizione di retribuzione minima. In tutti e due i testi viene indicato come debba essere «sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato», come prevede l’art.36 della Costituzione. Nella proposta presentata da Giuseppe Conte il salario minimo legale «non può scendere sotto i 9 euro lordi l’ora». Oltre a una detassazione per gli anni 2023-2025 degli «incrementi retributivi previsti dai contratti collettivi di lavoro». La proposta dell’Alleanza Verdi-Sinistra italiana, composta da 6 articoli, propone un trattamento economico minimo orario che «non può essere in ogni caso inferiore a 10 euro l’ora». Per il Pd invece il salario minimo non può «essere inferiore a 9.50 euro l’ora». Anche qui sono previsti dei benefici economici per i datori di lavoro, ma «limitati» a quelle che «applicano contratti di lavoro che siano stati rinnovati entro dodici mesi dalla scadenza prevista». Altro punto previsto è l’aggiustamento automatico dei salari sulla base della variazione dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato tra i Paesi dell’Unione. In tutte e cinque le proposte si affida alla contrattazione collettiva fatta dalle organizzazioni maggiormente rappresentative il compito di fissare il salario minimo per ogni settore. Una mossa per escludere i «contratti pirata», ossia quei contratti stipulati da organizzazioni sindacali e soprattutto da organizzazioni datoriali di scarsa o nulla rappresentatività.

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Pnrr, ritardo da 26 miliardi

giovedì, Marzo 23rd, 2023

PAOLO BARONI

ROMA. Mentre l’Italia è in attesa dell’esito dell’ultima richiesta di finanziamento, inviata alla Commissione europea il 30 dicembre, insieme alla documentazione che dovrebbe provare il raggiungimento delle 55 scadenze previste per il secondo semestre del 2022 (in ballo c’è una nuova rata da 19 miliardi di euro di fondi), il Pnrr nei primi mesi dell’anno segna un netto rallentamento. E soprattutto non decollano gli investimenti, anzi.

Secondo l’ultima verifica effettuata lo scorso 16 marzo da un soggetto indipendente, la Fondazione Openpolis, specializzata nella raccolta di dati e nell’analisi di fenomeni politici e sociali, delle 12 scadenze previste per il primo trimestre del 2023 solo tre risultano infatti «a buon punto», mentre altre 9 sono definite «in corso» e quindi, specifica l’ultimo report di Openpolis, «sono lontane dall’essere conseguite». A questo si aggiunge che rispetto al secondo semestre 2022 su 55 adempimenti, 12 non risulterebbero conseguiti (uno del terzo trimestre e 11 del quarto) e questo, salvo i chiarimenti che Roma ha fornito a Bruxelles, rende problematico il via libera della Commissione atteso entro la fine di questo mese.

Dal monitoraggio continuo effettuato dalla Fondazione, che col suo lavoro sopperisce alla mancanza di dati e quindi di trasparenza da parte del governo, emerge che mentre le riforme scontano un lieve ritardo rispetto ai programmi (siamo a 66,84% di quanto previsto contro il 74,38% che andrebbe completato a fine mese) sono gli investimenti a segnare il passo: su un totale di 221,5 miliardi messi sul tavolo, a ieri la spesa aveva infatti toccato quota 27,9% del totale contro il 39,5% che andrebbe realizzato entro il 31 marzo, ovvero fra una settimana. In pratica 61,81 miliardi anziché 87,51: all’appello ne mancano dunque ben 25,7.

Stentano gli investimenti in infrastrutture, vanno male i piani per la logistica, le rinnovabili ed il lavoro, e malissimo quelli legati al trasporto pubblico locale e mobilità dolce, scuola e università e inclusione. Bene solo la giustizia.

Secondo Openpolis la «situazione denota grandi difficoltà e scarsa attenzione da parte del governo al rispetto del cronoprogramma. Il governo non ha completato neanche una scadenza. Forse perché in ogni caso il prossimo controllo da parte di Bruxelles sarà a fine giugno, con la chiusura del primo semestre. E questo rende le scadenze dei trimestri intermedi meno impellenti».

Ma se si arriva tardi con gli impegni del primo trimestre, viene segnalato, sarà ancora più difficile poi completare il programma del secondo trimestre che va da aprile a giugno quando ci saranno altre 15 scadenze da raggiungere per poter richiedere una nuova rata di fondi pari a 18,4 miliardi (16 al netto della restituzione di una quota di anticipo).

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Lavoro a 5 euro lordi l’ora: i nuovi contratti ingrossano le fila dell’esercito dei poveri

giovedì, Marzo 23rd, 2023

Claudia Luise

Si può lavorare con un contratto apparentemente in regola ma guadagnare appena 5 euro lordi all’ora? Purtroppo, nella giungla degli accordi che è proliferata negli ultimi anni è una possibilità sempre più diffusa. Una via di mezzo tra il lavoro garantito, tutelato da contratti collettivi nazionali firmati dalle associazioni datoriali e dai sindacati più rappresentativi, e il lavoro nero. Un lavoro grigio, appunto, che guarda al ribasso non solo delle retribuzioni ma anche dei diritti. E che poi contribuisce ad allargare le fila dei working poor, le persone che nonostante abbiano un impiego, restano al di sotto della soglia di povertà per le basse retribuzioni.

Tra i settori più coinvolti, oltre a quello dei multiservizi, ci sono l’agricoltura, i servizi alla persona e il turismo, il commercio. Oltre all’edilizia che ha vissuto un boom per i bonus grandissimo e improvviso, impossibile da gestire dopo oltre un decennio di crisi. Il rovescio della medaglia, quindi, è stata la difficoltà di trovare manodopera e ditte disponibili. «A dicembre 2022 gli operai iscritti alla cassa edile di Torino risultavano 13.493, in crescita del 6,9% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Eppure si stima che a lavorare in questo settore ci sia circa un 30% in più di persone che hanno i contratti più disparati, dai multiservizi ai giardinieri: contratti di comodo, con paghe e contributi molto inferiori», racconta Mario De Lellis, segretario generale torinese della Filca Cisl. Il dumping contrattuale, inoltre, rende il settore più pericoloso per gli infortuni. «Un fenomeno – aggiunge De Lellis – che ha pesanti ripercussioni sulla formazione e sulla sicurezza».

Un altro caso, diverso ma altrettanto indicativo è quello del rinnovo del contratto per servizi di pulizie e servizi integrati avvenuto dopo 8 anni dalla scadenza. In questo caso i sindacati confederali alla fine hanno dovuto accettare l’accordo perché non c’era altra possibilità ma gli aumenti per l’inflazione sono di 80 euro lordi in tre anni e senza arretrati. Per il primo livello, la paga mensile è di 1104 euro mentre per un quadro arriva al massimo a 1822 euro. Praticamente la maggior parte delle persone che lavora nel settore delle pulizie, quasi tutte donne, guadagna meno di 5 euro l’ora. E poi c’è il capitolo Amazon. «Il 28 ci sarà una trattativa nazionale per i contratti Amazon – spiega Gerardo Migliaccio della Uil Trasporti – dovremmo andare a rivedere vari capitoli. E in questo contesto dovremmo affrontare la questione dei lavoratori del servizio Amazon XL, lanciato da poco, che hanno un contratto che non coincide minimamente con le mansioni svolte. Montano elettrodomestici nelle case, anche con la necessità di competenze e con responsabilità, invece non c’è una regolamentazione e hanno retribuzioni inferiori ai colleghi. Viene applicato loro il contratto della logistica».

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La rivalità Usa-Cina allunga la guerra

giovedì, Marzo 23rd, 2023

Lucio Caracciolo

Il rumoroso rientro della Cina sulla scena internazionale, dopo tre tristi anni di letargo da Covid e di arroganti scomuniche inflitte al resto del mondo, potrebbe inavvertitamente prolungare e inasprire il conflitto in Ucraina. L’esibizione di Xi Jinping fra stucchi e ori del Cremlino, in relativa sintonia con Putin, ha infatti due facce fra loro incoerenti. Xi si ostenta onesto sensale nella guerra ucraina sulla base del suo “piano di pace”, apprezzato solo in parte da Putin, che in realtà è il manifesto della geopolitica globale cinese. Manifesto che comunque induce Zelensky a proporre al leader cinese un incontro virtuale, previsto nei prossimi giorni. Allo stesso tempo, Xi stringe il rapporto speciale con la Russia, ridotta a junior partner nel cosiddetto “partenariato strategico globale di coordinamento dei due Paesi per la nuova èra” – leggi: Cina e Russia alla testa del vagheggiato fronte anti-occidentale.

Nasce così una peculiare figura da ombre cinesi, quella del mediatore di parte. Nulla di straordinario nell’arte politica, incurante del principio di non-contraddizione. È però evidente che gli Stati Uniti mai consentiranno alla Cina di intestarsi la pace in Ucraina. Comunicazione subito girata da Biden a Zelensky. La guerra deve finire declassando la Cina, più ancora che la Russia. O non deve finire.

Il presidente ucraino ne ha preso nota, ma non per questo rinuncia a esplorare la pista cinese, considerando anche i notevoli interessi e investimenti sinici nel suo Paese. Certo il “piano di pace” di Xi non è in grado di avviare la sedazione del conflitto che per lui non sarebbe mai dovuto cominciare. Lo stesso vale per gli altri tentativi di stabilire un cessate-il-fuoco, cominciati subito dopo l’invasione russa. Colloqui informali e segreti a medio livello fra russi e ucraini sono finora inutilmente in corso su binari diversi e paralleli, per esempio a Ginevra con la facilitazione svizzera. Anche fra Mosca e Washington i canali restano aperti, non solo per evitare lo scontro militare diretto causa incidente.

In teoria, la tregua potrebbe essere facilitata dalla duplice pressione dell’America sull’Ucraina e della Cina sulla Russia. Gli americani da mesi segnalano non troppo riservatamente a Kiev che prima o poi si dovrà arrivare al congelamento del conflitto in stile coreano: impregiudicati i confini di Stato perché nessuno può cedere qualcosa all’altro, si traccerà una linea divisoria presidiata da contingenti internazionali e garantita dalle maggiori potenze. Tutto ciò dopo un’offensiva ucraina che consentisse di recuperare parte dei territori annessi da Putin, altrimenti Zelensky non potrebbe nemmeno accennare il negoziato. Resta da dimostrare che la Russia sia disposta a questa soluzione. Putin spera di poter spingersi ancora più avanti nella conquista del Donbass e prepara una nuova mobilitazione. Comunque il concetto di vittoria è mobile. Vale per entrambi i contendenti.

Ma la guerra in Ucraina non è questione a sé. È ricompresa al grado strategico nello scontro Stati Uniti-Cina per il primato mondiale. Washington e Pechino differiscono su quasi tutto, non nella consapevolezza della posta in gioco. E nella priorità del teatro indo-pacifico rispetto all’ucraino. Tanto che al Pentagono non vedrebbero poi male l’invio di armi cinesi alla Russia, perché sarebbero sottratte al quadrante di Taiwan e dintorni. Quelle forniture che invece gli americani offrono agli ucraini, a scapito del flusso di armi agli amici e alleati asiatici impegnati nel contenimento delle ambizioni oceaniche di Pechino. Ciò spiega le recenti pressioni dei militari americani sui colleghi di Kiev perché chiudano la partita entro l’estate. La priorità è la Cina, non la Russia.

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Mario Antonietto

giovedì, Marzo 23rd, 2023

Mattia Feltri

Amo alla follia la Francia, ma non riesco a nascondere l’entusiasmo alla vista di Parigi cosparsa di rifiuti. Noi, qui a Roma, ci riusciamo da anni senza nemmeno la scusa dello sciopero degli spazzini (ma intanto, zitto zitto, il nostro sindaco Gualtieri la sta ripulendo mica male e, a proposito di petulante autodiffamazione, per il terzo anno consecutivo La Sapienza è la miglior università al mondo per studi classici: allons romains!).

Ai cari amici francesi, che ricordano di aver tagliato la testa a Luigi XVI, e lo rifaranno con Emmanuel Macron, questo Mario Antonietto sfrontato al punto d’aver varato la riforma che manderà i sudditi in pensione a sessantaquattro anni anziché a sessantadue, vorrei sottolineare che noi, pizza e mandolino, ci andiamo a sessantasette. Voilà. Però qualcosa glielo invidio: proprio Macron. Il quale ha varato la riforma, secondo superpoteri costituzionali, nonostante la maggioranza dei parlamentari fosse contraria e nonostante il popolo con le picche fuori dall’Assemblée.

Noi, fichissimi con la nostra Sapienza e la nostra età pensionabile, vantiamo leader tremolanti davanti ai follower e volatili a seconda della viralità su Facebook, e ogni volta a svolazzare in favore di vento col brandello di Costituzione: la sovranità appartiene al popolo (senza eccetera, però).

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Lavoro sottopagato tra precarietà, orari ridotti e contratti pirata: in povertà quasi 6 milioni di lavoratori

giovedì, Marzo 23rd, 2023

Luca Monticelli, Francesco Moscatelli

Abbiamo imparato il significato di “working poor” vent’anni fa con i film di Ken Loach, venendo a conoscenza di una grande massa di lavoratori che non guadagnano abbastanza da superare la soglia della povertà. Un fenomeno che adesso sembra diventato tipicamente italiano, visto che il nostro è l’unico tra i Paesi Ocse ad aver registrato un valore negativo (-2,9%) nella variazione dei salari medi tra il 1990 ed il 2020. In Francia, solo per fare un esempio, in questi ultimi trent’anni le retribuzioni sono aumentate del 31%.

Secondo uno studio commissionato dal precedente ministro del Lavoro Andrea Orlando ad un gruppo di esperti, un quarto dei lavoratori italiani è a rischio povertà. Se gli occupati in Italia sono oltre 23 milioni, ecco che ci troviamo di fronte a una platea di 5 milioni e ottocentomila persone in grande difficoltà. Precari, immigrati, part time, personale a servizio della gig economy, giovani del Sud e donne: sono loro gli “ultimi” che fanno fatica ad arrivare a fine mese.

L’economista Ocse Andrea Garnero, che ha partecipato allo studio del ministero di via Veneto, spiega: «Il lavoro povero deriva dai bassi salari, ma soprattutto dal fatto che molti dipendenti sono costretti a lavorare meno ore di quante vorrebbero. L’Italia ha il dato più alto dei Paesi Ocse di part time involontario. A questo bisogna aggiungere il precariato».

Un anno fa si cominciò a parlare di salario minimo a 9 euro e 50, tuttavia l’allora governo Draghi non riuscì a mettere in piedi una proposta sostenuta da tutta la maggioranza, e la premier Giorgia Meloni la settimana scorsa è andata al congresso della Cgil per ribadire il suo no al salario minimo.

Collaboratori e Partite Iva
Mezzo milione di lavoratori, soprattutto giovani e donne, non solo fanno fatica a vivere dignitosamente, ma non avranno neanche una pensione sufficiente. L’indagine sui redditi dei parasubordinati, realizzata da Nidil Cgil e Fondazione Giuseppe Di Vittorio, porta alla luce una vera e propria emergenza sociale.

Il reddito medio di 211 mila collaboratori nel 2021 è stato di 8.500 euro lordi, 11 mila per gli uomini e 7 mila per le donne, che costituiscono il 60% del totale. La fascia di età fino a 34 anni rappresenta il 48% e guadagna in media 5.700 euro, mentre gli adulti da 34 a 64 anni sono il 49% e guadagnano 11 mila euro lordi all’anno. I senior, oltre i 65 anni, sono poco più del 2% e hanno un reddito lordo annuo di quasi 15 mila euro.

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I migranti, noi e l’Europa: gli accordi che servono

giovedì, Marzo 23rd, 2023

di Ernesto Galli della Loggia

Per affrontare il problema dell’immigrazione abbiamo bisogno dell’aiuto dell’Unione, ma per ottenerlo occorre un’intesa tra i partiti in nome dell’interesse nazionale

Forse le cose andranno come Angelo Panebianco ha previsto l’altro giorno sul Corriere (21 marzo, «I migranti e l’Europa più unita»), e cioè che sul lungo periodo la popolazione degli Stati nazionali europei è destinata a divenire in misura massiccia multietnica facendo dunque segnare una profonda frattura rispetto al passato. Ma sul lungo periodo. Per il momento siamo chiamati a vedercela con il fenomeno migratorio che conosciamo, anche se di sicuro caratterizzato nell’immediato futuro da un numero assai alto e crescente di migranti (si parla già per quest’anno di una cifra superiore di molto ai centomila). Da anni l’Italia è alle prese con questo problema. Che è sbagliato però definire con il termine «migrazione», come continuiamo a fare. Finora infatti è stato un’altra cosa, anche per la nostra incapacità di dargli una forma diversa. Finora si è trattato di donne, uomini, bambini che sotto i nostri occhi si può dire — con il radar e la radio non possiamo forse quasi vederli? — mettono in gioco la loro vita, in pratica chiedendoci ogni volta di salvarli. Chi paragona tutto ciò ad esempio con le migrazioni dall’Italia verso le Americhe compie solo un esercizio retorico: quei viaggi di oltre un secolo fa, infatti, non consistevano in nulla e per nulla in qualcosa di simile.

Oggi, chi si getta all’avventura cercando di raggiungere l’Italia assomiglia piuttosto a quei poveri diavoli senza una casa o un lavoro che minacciano di buttarsi dall’ultimo piano di un palazzo se non si trova modo di dar loro ciò di cui hanno bisogno. Una forma estrema di richiesta di aiuto, ma è ovvio che in ogni caso il primo dovere è cercare comunque di impedirgli di morire, di salvarli.

Altrove forse non si ragiona così. Ma noi siamo italiani, siamo fatti diversamente e non ci dispiace (almeno alla maggior parte di noi…). Qui da noi, ad esempio, se qualcuno pensasse non dico di prendere di mira con proiettili di gomma gli immigrati in arrivo sulle coste di Lampedusa ma solo di cingere di filo spinato quelle coste, come invece tranquillamente fanno gli spagnoli a Ceuta e Melilla (e senza che a Madrid si riempiano le piazze), o magari di usare verso gli stessi migranti minacce analoghe a quelle usate dal premier inglese, chi solo pensasse qualcosa del genere qui da noi sarebbe giustamente messo al bando dai più.

Perciò, finché non riusciremo a stipulare accordi efficaci con i Paesi di provenienza o di partenza dei migranti verso l’Italia (campa cavallo!), il problema dell’immigrazione per noi non potrà certamente essere un problema di respingimento bensì di accoglienza. E finché non otterremo l’aiuto dell’Europa (altro campa cavallo!) sarà inevitabilmente un problema di accoglienza e di integrazione.

Per la molteplicità degli interventi che richiede si tratta dunque di un problema complessivamente immenso: logistico-organizzativo, culturale e finanziario, di politica interna ed estera. Per la sua portata più che di un problema si tratta di una vera emergenza nazionale. Che è venuta crescendo negli anni fino alla misura attuale senza che però in tutto questo tempo nessuna forza politica, nessuna, sia mai riuscita a proporre una qualunque soluzione adeguata. Senza che nessun esponente di partito — vuoi di destra, di centro o di sinistra — sia mai riuscito neppure a immaginare il complesso di misure — intendo misure concrete, corredate di cifre, di indicazioni verosimili non già di buone intenzioni e basta — capaci di dare una soluzione accettabile alla questione. Anche perché tutti — ripeto: tutti senza distinzione di parte — hanno ogni volta ritenuto più facile e più comodo sfruttare il problema dell’immigrazione, sfruttare il contenuto altamente emotivo che esso ha presso l’opinione pubblica, per cercare di ricavarne un piccolo utile immediato a base di «tu avevi detto…», «tu avevi fatto…» e così via recriminando a vicenda. Diciamo la verità: sulla questione dell’immigrazione il sistema politico italiano e i suoi attori hanno dato finora il peggio di sé, in un clima di generale incapacità/irresponsabilità nel quale ognuno ha puntato ogni giorno a guadagnare qualcosa mentre il Paese nel suo complesso annaspava sempre di più.

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Superbonus, le novità nel decreto: sblocco dei crediti, per le villette c’è la proroga al 30 settembre

giovedì, Marzo 23rd, 2023

di Claudia Voltattorni

L’agevolazione del Superbonus 110% destinata agli interventi edilizi sulle unifamiliari potrebbe slittare a fine settembre. È una delle nuove ipotesi su cui sta lavorando la commissione Finanze della Camera che da mercoledì ha iniziato a votare gli emendamenti al decreto Crediti, il provvedimento approvato lo scorso 16 febbraio dal Consiglio dei ministri che blocca la cessione dei crediti edilizi e lo sconto in fattura.

Il relatore Andrea De Bertoldi (FdI) ha presentato un pacchetto di 8 emendamenti riformulati condivisi con la maggioranza che includono novità come la proroga al 30 novembre per la comunicazione delle cessione dei crediti (con il pagamento di una mora da 250 euro) che rischiavano altrimenti di scadere il prossimo 31 marzo; la compensazione tra debiti per contributi previdenziali o assistenziali e crediti tributari o viceversa; l’allineamento delle detrazioni dei bonus a 10 anni. E la proroga dal 31 marzo al 30 giugno per i lavori «scontati» sulle villette.

Ma questo termine potrebbe slittare ancora al 30 settembre: il ministero dell’Economia sta valutando la proposta del relatore condivisa da tutta la maggioranza e oggi darà il suo parere. L’orientamento è di spostare più avanti la fine dei lavori sulle unifamiliari. Oggi il voto.

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